8 ddl per riformare il servizio pubblico. Ma nessuno passerà

È tornato di gran moda, in questi giorni, parlare di riforma della Rai. Le polemiche seguite alle nomine, che hanno infuocato il dibattito politico con l’esclusione dei 5Stelle dalla scelta dei direttori e l’Aventino annunciato da Giuseppe Conte, hanno riportato al centro il tema della riforma della tv pubblica. Lo stesso ex premier ha sottolineato la necessità di una modifica del sistema, annunciando addirittura una raccolta di firme. Mentre il presidente della Camera Roberto Fico anche ieri ha ribadito che “il Parlamento dovrebbe presto rimettere in agenda una riforma della Rai”. Proprio lui, da presidente della Vigilanza, ne aveva presentata una alla Camera nella passata legislatura.

Ma a che punto stanno le cose? Di disegni di legge di riforma della Rai in Parlamento ce ne sono ben otto. E ristagnano da tempo in commissione Lavori pubblici del Senato. Da dove si era deciso di ripartire. L’iniziativa, in questa legislatura, è stata presa ancora dal M5S con Primo Di Nicola che, riprendendo la proposta Fico, l’ha ripresentata a Palazzo Madama. A quel punto, però, e siamo nel luglio 2019, gli altri partiti non erano disposti a ripartire da un unico ddl, per evitare che la riforma potesse nascere “targata”, così si è concordato che ogni forza politica avrebbe presentato una sua idea per poi arrivare a una sintesi. “È una riforma di sistema, quindi occorre una sintesi tra le diverse iniziative in campo. Ora per velocizzare i tempi si può prevedere una corsia preferenziale”, spiega Di Nicola.

Il problema, però, è che, se i ddl di 5Stelle, Pd, LeU e Italia Viva cercano di mettere una distanza tra Rai e politica, le proposte del centrodestra sembrano andare in direzione opposta. L’accordo, dunque, è difficile. L’iter, comunque, riprenderà giovedì prossimo con l’avvio delle audizioni. “Le difficoltà ci sono, perché le proposte perseguono interessi o obbiettivi diversi, ma ci proviamo. I tempi ci sarebbero…”, osserva il presidente della commissione, Mauro Coltorti (M5S).

Ma vediamo qualche dettaglio. La proposta Di Nicola (ex-Fico) mette al centro l’Agcom che sceglie, tramite sorteggio, i 5 membri del Cda (in carica per 5 anni senza possibilità di rinnovo) tra i curriculum divisi per competenze. Sarà poi il Mef a designare un presidente. Il testo prevede anche la soppressione della Vigilanza, con i poteri di controllo affidati all’Agcom e alle commissioni competenti. Al modello BBC si rifà il ddl del Pd a firma Valeria Fedeli, con la Rai gestita da una fondazione che avrà un Cda composto da 10 membri eletti dalla Vigilanza (5), dalla conferenza Stato-Regioni (2), dalla conferenza dei rettori universitari (2) e dai dipendenti Rai (1). La fondazione nomina un Cda che procede alla nomina di Ad e presidente, in carica 3 anni. Anche la proposta di Iv, con Davide Faraone, dà la gestione a una fondazione, con un collegio sindacale a controllare. Sul sistema duale si basa invece il ddl di Loredana De Petris (LeU) che prevede una tv in mano a un consiglio di gestione (presidente, ad e 2 consiglieri) e un consiglio di sorveglianza composto da 15 membri.

E passiamo al centrodestra. La legge del leghista Massimiliano Romeo immagina un Cda a 7 membri come l’attuale ma con ad e presidente scelti dal capo dello Stato, 4 nominati dalla Vigilanza e uno dai dipendenti. Infine ben tre sono proposte forziste. Quella presentata da Alberto Barachini (presidente attuale della Vigilanza) e Anna Maria Bernini (capogruppo al Senato) prevede che anche l’ad debba essere sottoposto al parere vincolante dei due terzi della Vigilanza e un abbassamento dei tetti pubblicitari, che comporterebbe un notevole calo degli spot (favore a Mediaset?) compensato però dall’elargizione dell’intero introito del canone alla Rai. Proposta quasi fotocopia da parte di Massimo Mallegni, mentre Maurizio Gasparri propone una sola novità: scompare la figura dell’Ad e si ritorna al direttore generale.

“Serve un incontro con Draghi. Sulla Rai io e Grillo d’accordo”

Dalla sua elezione a presidente dei 5Stelle sono passati solo tre mesi e qualcosa, ma sembrano parecchi di più. Ricostruire il M5S, tenendolo dentro il governo Draghi, sembra come correre su una salita ripida. Ma Giuseppe Conte prova a guardare più avanti: “È stata una sfida complessa fin dall’inizio, ma è importante vincerla. Non solo nell’interesse del Movimento, ma anche per affermare sempre più forte una spinta propulsiva nel quadro politico, italiano ed europeo, e tenere alta l’asticella del fronte progressista”.

Lei ha sostenuto che non sapevate della trattativa sulla Rai a Palazzo Chigi, giusto?

Ho detto che siamo stati informati all’ultimo, evidenziando prima di tutto un problema di metodo e poi di merito.

Al Fatto risulta che lei abbia inviato il vicepresidente Mario Turco a trattare. Nel M5S c’è nervosismo al riguardo.

Il senatore Turco non è stato ‘mandato’ da me, è stato chiamato a Palazzo Chigi per essere messo al corrente della lista di nomi già pronta, a poche ore dall’annuncio ufficiale, quando già circolavano le indiscrezioni sui nomi.

Turco ha chiesto correttivi?

Ha solo potuto chiedere il criterio che aveva ispirato queste proposte editoriali. Ma non gli è stata data alcuna spiegazione. Questo è uno dei vulnus di questa storia.

Lei a Piazzapulita ha definito i nuovi direttori “buoni professionisti”. La neo direttrice Monica Maggioni è citata nelle carte dell’inchiesta Open perché si sarebbe proposta al presidente della fondazione, l’avvocato Bianchi, per una guida ad interim in Rai o per un ticket con Paolo Del Brocco. Mentre a guidare gli Approfondimenti andrà Mario Orfeo: quando era direttore del Tg1, il telegiornale era nettamente sbilanciato per il Sì al referendum di Matteo Renzi, stando ai dati Agcom…

Non entro nel merito dei singoli, la cui professionalità è riconosciuta e indiscussa. Né tantomeno sono un investigatore o un giudice che vaglia le carte dell’inchiesta sin qui diffuse. Sono il leader di una forza politica che è stata votata da 11 milioni di elettori, e anche per il rispetto che devo loro ho il diritto di chiedere spiegazioni sui criteri che hanno portato a queste nomine, partite dalla premessa che la politica sarebbe rimasta fuori.

Perché non è rimasta fuori, perché tra poco si vota per il Quirinale?

Lo sta chiedendo alla persona sbagliata. Io rappresento una forza che vuole riformare la Rai per toglierla dal giogo della politica. In Senato c’è un provvedimento a firma M5S che fatica ad andare avanti perché non trova sostegno.

Magari c’entra il fatto che lei e Luigi Di Maio avete portato avanti trattative separate. Lui era favorevole a Maggioni e Sala, pare…

Le indiscrezioni sul conto di Luigi sono inverosimili, altrimenti dovremmo dire che ha danneggiato il Movimento. Non lo prendo nemmeno in considerazione, non ci sarebbe stato motivo per non informarmi. Lui tiene molto all’interesse del M5S.

L’Ad Fuortes e Di Maio si erano visti, è di dominio pubblico.

Sì, e hanno chiarito anche i temi dei colloqui, che non riguardavano le nomine.

È vero che ha chiamato il presidente Mattarella sulla Rai?

Sono all’estero, non ho sentito Mattarella.

Su Repubblica Vincenzo Spadafora l’ha accusata di aver gestito male la partita Rai e critica la scelta di non andare più sui canali pubblici.

La decisione è il frutto di una giornata di confronto con i capigruppo, delegazioni governative, gli eletti in Vigilanza Rai e i vicepresidenti. In piena coerenza con il metodo già adottato da quando mi sono insediato, ho previsto un coinvolgimento ampio e una condivisione unanime di tutti gli organi del M5S.

E con Beppe Grillo, ne ha parlato?

Ci siamo confrontati, sì.

Che ne pensa il Garante?

Potete immaginare la sua sensibilità sul punto, visto che lui sulla comunicazione ha idee molto eterodosse, e aveva invitato i parlamentari a un periodo di astinenza.

Nei 5S pensano che l’ordine verrà presto violato.

Questo è il momento di mettere da parte l’io e le pur legittime sensibilità individuali, e di riconoscersi tutti nel noi, per perseguire assieme il bene del Movimento.

Sempre Spadafora: Conte è debole e teme il dissenso.

Semmai ho un ‘debole’ per l’inclusione e il coinvolgimento. In queste settimane ho incontrato decine di parlamentari che hanno esposto le loro proposte e linee di azione. Aspetto anche i suggerimenti di Vincenzo, li ritengo preziosi per tutti ma preferirei riceverli in un incontro o in una telefonata anziché leggerli sulla rassegna stampa.

Sospetta che le nomine siano servite anche per dividere voi dal Pd?

Non ho elementi per fare questa valutazione, ma non vivo con l’assillo di incollarmi al Pd su qualsiasi vicenda – nonostante condividiamo alcune linee di azione. Il M5S splende di luce propria, ha le spalle larghe, una forte identità, tante battaglie da portare avanti per gli italiani.

Tra lei e Mario Draghi serve un chiarimento politico?

Un incontro per affrontare questo e altri temi dell’agenda politica è senz’altro opportuno.

Il M5S chiede con forza un suo relatore alla manovra in Senato al posto di Vasco Errani (Leu), e per il dem Luigi Zanda questo è un problema: “In una coalizione si sta per collaborare altrimenti si va alle urne”. Avete tentazioni di voto anticipato?

L’ho chiarito più volte e lo ribadisco: il Movimento non ha nessuna tentazione di andare al voto anticipato ma di contribuire a mettere in sicurezza il Paese e ad attuare il Pnrr. Abbiamo lavorato tanto per questo obiettivi e non li lasceremo a mezza strada.

Lei ha auspicato un tavolo sulle riforme costituzionali, ma i tempi non sembrano esserci. Tanto più che Enrico Letta ha ribadito di preferite una legge elettorale maggioritaria, mentre voi ne vorreste una proporzionale.

I margini sono molto stretti, ma dobbiamo provarci. Ancor più dopo la pandemia che ancora stiamo affrontando, non potremo permetterci governi instabili e crisi al buio; e quel confronto servirà a valutare se c’è sufficiente condivisione per una svolta del sistema elettorale in senso proporzionale, ma con un adeguato sbarramento.

Quando verrà votata la segreteria del M5S?

La prossima settimana.

Il Paese di Sottosopra

Nel Paese di Sottosopra, una ministra vota alla Camera contro il suo governo con due partiti della maggioranza, che va in minoranza; ma il premier, anziché salire al Quirinale, fischietta. Nel Paese di Sottosopra tutti applaudirono Renzi quando fece fuori tutti i partiti dalla Rai tranne il suo; oggi, per coerenza, applaudono Draghi perché fa fuori un solo partito, quello che ha vinto le elezioni, per spartirsi la Rai con tutti gli altri, quelli che le hanno perse; e la colpa è del leader dell’unico escluso. Nel Paese di Sottosopra, le Regioni sabotano i centri pubblici per l’impiego che dovevano attivare con 1 miliardo dello Stato; il governo, anziché obbligarle a farlo o riprendersi il miliardo, licenzia i navigator dopo averli formati e s’affida alle agenzie di Confindustria; Chiara Saraceno, consulente del governo, dice che “la stretta del governo sul Reddito non si basa su dati, ma su una narrazione fantasiosa e ideologica sui beneficiari nullafacenti”.

Nel Paese di Sottosopra il governo annuncia per mesi che cercherà “casa per casa” i 3,5 milioni di over 50 non vaccinati (che rischiano più dal Covid che dal vaccino); poi, siccome non riesce a convincerne uno, prova a farlo imponendo il Green Pass per lavorare; ma i non vaccinati, non essendo obbligati dal governo, non si vaccinano e si fanno i tamponi; allora il governo, per fare numero, minaccia di vaccinare i bambini (che rischiano più dal vaccino che dal Covid). Nel Paese di Sottosopra, quando il governo impone il Green Pass per lavorare, le imprese fanno notare che perderanno manodopera con gravi danni all’economia; allora il governo non fa i controlli (mille multe in due mesi), così i No Pass continuano a lavorare senza neppure il fastidio del tampone; ma tutti restano convinti che lavori solo chi ha il Green Pass e l’Italia sia un modello per il mondo intero (che però si guarda bene dall’imitarla). Nel Paese di Sottosopra, deve avere il Green pass chi lavora da solo in un ufficio di 100 mq o a distanze siderali dai colleghi, o viaggia su un vagone Frecciarossa o Italo semivuoto (sennò l’intero convoglio viene fermato in aperta campagna); invece non deve averlo chi si ammucchia nei carnai di bus, metro e treni per pendolari e studenti; e a scuola il metro di distanza è obbligatorio “ove possibile”. Nel Paese di Sottosopra, alcuni spostati che si fanno chiamare “governatori” o “ministri” chiedono il “lockdown per i non vaccinati” (ideona già fallita in Austria), come se questi fossero fosforescenti, distinguibili a occhio nudo dalle decine di milioni di vaccinati, ergo facili da scovare e rinchiudere ai domiciliari. Nel Paese di Sottosopra, questa allegra brigata di buontemponi viene chiamata “Governo dei Migliori”.

In tutta Europa il mercato dell’auto scopre il rosso da record

Quello appena passato è stato il peggior ottobre di sempre per le vendite di auto in Europa. Il crollo di oltre il 30% delle immatricolazioni nell’Ue (che diventa di oltre il 34% considerando i Paesi Efta e la Gran Bretagna) non ha infatti eguali nella storia da quando vengono registrati i dati sulle vendite, come ha spiegato l’associazione continentale dei produttori (ACEA). E, soprattutto, è il quarto mese consecutivo che l’emorragia commerciale va avanti.

A mancare all’appello sono stati ancora una volta i mercati che fanno da traino all’economia continentale su quattro ruote: oltre al noto -35,7% dell’Italia, c’è il -34,9% della Germania, il -30,7% della Francia e il -20,5% della Spagna. Le uniche piazze in attivo sono state quelle, poco significative nel computo totale, di Irlanda, Islanda e Norvegia.

Il calo è da attribuire al rialzo dell’inflazione e a quello della tassazione in alcuni Paesi, ma soprattutto alla scarsa fiducia dei consumatori, confusi e timorosi riguardo al futuro. Con l’aggravante di una quarta ondata di Covid-19 alle porte ma già realtà ad esempio in Germania, ovvero il cuore pulsante dell’industria automotive europea. Nonché della carenza di semi conduttori che sta affliggendo la produzione di vetture nuove, per le quali i tempi di consegna stanno lievitando sempre più: una situazione che andrà avanti per larga parte del nuovo anno. Se a questo si aggiunge che nel nostro Paese al momento c’è una totale assenza di un Piano di sostegno per l’auto e la transizione energetica, le prospettive sono tutt’altro che rosee.

A giugno il MIMO riaccende la kermesse

La seconda edizione del Milano Monza Motor Show, ovvero di quella che sta diventando la più importante kermesse motoristica nazionale, si svolgerà dal 16 al 19 giugno.

Il format rimane più o meno lo stesso dell’anno scorso: i modelli, le novità e le rarità automobilistiche saranno esposti su diverse pedane per le vie del centro di Milano. Allo stesso modo, la parte più dinamica dell’evento si svolgerà all’interno dell’Autodromo di Monza.

Qui, il pubblico di appassionati potrà assistere alle prove in pista delle supersportive.

Non solo auto inedite e supercar, tuttavia. Un occhio di riguardo è riservato anche a vetture elettrificate e motociclette: nel complesso è prevista la partecipazione di oltre 50 costruttori.

“Il pubblico che parteciperà alla 2° edizione di MIMO Milano Monza Motor Show, oltre a incontrare le novità esposte nel centro di Milano e nei box all’Autodromo di Monza, avrà la possibilità di provare e acquistare i modelli elettrici e ibridi.

Sabato 18 e domenica 19 giugno si potrà, inoltre, entrare gratuitamente in Autodromo e ammirare le sfilate di supercar in calendario, oltre agli equipaggi della 1000 Miglia.

MIMO 2022 vuole essere una manifestazione di qualità popolare e anche la scelta di spostarci nella settimana successiva alla chiusura delle scuole vuole essere un’occasione perché sia volano per il commercio e il turismo attraverso un coinvolgimento di giovani e famiglie”, ha dichiarato il presidente del MIMO Andrea Levy, nel corso della presentazione avvenuta in settimana presso l’auditorium HQ Pirelli.

Come detto, la manifestazione prenderà il via il 16 giugno alle 19 in piazza Duomo con la “Premiere Parade”, una sfilata su tappeto rosso delle anteprime a due e quattro ruote.

La città di Monza invece, sarà la protagonista nei giorni di sabato 18 e domenica 19 giugno. Nei box all’interno dell’Autodromo Nazionale, verranno esibiti diversi veicoli da corsa.

L’organizzazione sostiene che prenderanno parte alla manifestazione oltre 2000 vetture tra supercar, hypercar e auto classiche.

Olio da cucina usato e microalghe: il green non è solo elettrico

Esistono alternative ecologiche all’auto elettrica tout court? Pare di sì. Ecco perché Mazda, Subaru, Toyota, Kawasaki e Yamaha, hanno unito le forze per sviluppare combustibili alternativi per motori endotermici. La finalità è di raggiungere la neutralità carbonica, attraverso più alternative propulsive, incluso l’ibrido, il plug-in e il (tanto vituperato) diesel. Quest’ultimo diventa rinnovabile e “bio”, realizzato con materie prime sostenibili – come i grassi delle microalghe e l’olio da cucina usato – e può essere utilizzato come alternativa al gasolio da fonti fossili. Peraltro Mazda è membro del progetto “Your Green Fuel”, un’iniziativa in corso a Hiroshima (Giappone) per divulgare e diffondere l’uso dei biocarburanti di nuova generazione, condotta congiuntamente dall’Hiroshima Council for Automotive Industry-Academia-Government Collaboration (Hirojiren) and Euglena Co., Ltd.

La marca nipponica ha pure partecipato alla gara della serie Super Taikyu Race sul Circuito di Okayama il 13 e 14 novembre, con una vettura dotata di un propulsore diesel convenzionale, alimentato con carburante a base 100% biologica. Lo scorso fine settimana, il quintetto industriale ha anche annunciato di voler espandere il novero dei possibili carburanti associabili ai motori bielle e pistoni – da testare nella serie Super Taikyu Race –, a cominciare dall’idrogeno, usato al posto della benzina. Una soluzione già testata su una Corolla da competizione.

Subaru e Toyota, invece, sperimenteranno in gara le BRZ e GR86 alimentate da benzina sintetica prodotta a partire da biomasse. “Toyota crede che le scoperte tecnologiche, come l’uso dell’idrogeno, possano dare ai motori a combustione interna una nuova prospettiva di vita”, si legge in una nota ufficiale. Tanti i partner coinvolti: la città di Fukuoka, ad esempio, ha fornito idrogeno derivato dal biogas prodotto dal trattamento delle acque reflue, da affiancare alle forniture della Obayashi Corporation (idrogeno da energia geotermica) e della città di Namie (idrogeno da energia solare). Un comunicato stampa congiunto spiega che “promuovendo un’ulteriore collaborazione nella produzione, trasporto e utilizzo di carburanti in combinazione con propulsori a combustione interna, le cinque società mirano a fornire ai clienti una scelta più ampia per raggiungere la neutralità carbonica, proteggendo al tempo stesso posti di lavoro e mezzi di sussistenza”. Tutto ciò senza tralasciare le automobili a batteria, come Subaru Solterra e Toyota bZ4X, in arrivo nel 2022. Insomma, un approccio multi-tecnologico che potrebbe spiazzare i competitor occidentali che hanno puntato tutto sulle elettriche.

“È stata la mano di Diego”. Puzone: calcio, droga e alcol

Pietro Puzone arrivò, giovanissimo, dal “Congo” e divenne il fratello “scugnizzo” di Diego Armando Maradona nel Napoli del primo scudetto. “Ho avuto la fortuna di incontrare il più grande giocatore di tutti i tempi. Diventammo amici, intimi amici, a unirci erano le nostre origini”.

Povertà. Diego dalla bidonville di Villa Fiorito, il barrio argentino dove era nato. Pietro dal “Congo”, appunto. Come viene appellato ad Acerra il Rione Gescal, perché lontano dal centro e perché lì dal terremoto del 1980 vive “gente mischiata”. Solita periferia dall’edilizia sovietica, dove impera e prospera la “gente di strada”, cioè la camorra. Acerra è il paese di Pulcinella, a nord di Napoli. Puzone debuttò in Serie A nel 1982, a diciannove anni. Una sostituzione. Entrò in Napoli-Cesena. “Perdevamo due a zero. Porca puttana che bel debutto mi fa fare questo, pensai”. “Questo” era Rino Marchesi, all’epoca trainer degli azzurri. “Facemmo due a due e il tre a due me lo mangiai io”. Quel Napoli-Cesena fu consegnato alla storia da una scena capolavoro di Scusate il ritardo, in cui Massimo Troisi (Vincenzo) è a letto con Giuliana De Sio (Anna). I due hanno appena fatto l’amore, Anna parla del loro rapporto di coppia e Vincenzo accende la radio per la partita e scopre che il Napoli perde due a zero in casa.

Maradona, poi. Diego atterrò a Napoli osannato come il messia della pelota. Era il luglio del 1984. Pietro c’era. Tornato dopo due esperienze nelle serie minori, Cavese e Akragas. “La mia testa toglila di mezzo, ma dal collo ai piedi io ero il secondo Maradona a Napoli”. Ala destra. Un talento scintillante. “Potevo fare molto di più”. Puzone non giocò mai nel campionato del primo scudetto, quello del 1986-1987. Epperò era l’ombra di Diego. Inseparabili. “Diego doveva andare a Roma per una visita medica. Andammo al Gilda, il locale dei vip, e prendemmo un privé. Fu la prima volta che tirai cocaina. Rientrammo il giorno dopo in albergo”. Un’altra notte, invece, “Diego bevve 40 succhi di frutta e 40 Cointreau”. Saltò l’allenamento della mattina per “indigestione gastrica”. Fu così che Ottavio Bianchi, il solitario bergamasco che allenava quel Napoli, chiamò Puzone e gli chiese di aiutarlo con Maradona, per frenare le notti del messia affamato di vita. Pietro rispose: “Maradona non lo ferma neanche Reagan”.

Pietro Puzone ha raccontato la sua parabola a Lorenzo Giroffi in Senza Diego, doc intenso e drammatico di cinquanta minuti. Fino all’estate del 2020, Puzone era un clochard, su una panchina di Acerra. Tavernello dalle sei di mattina. E tanto crack, da 15 euro alla bottiglietta, da consumarci l’intero reddito di cittadinanza. “La solitudine è la morte totale, sono tanti i motivi per cui ho bevuto questo vino di merda. Mia figlia il giorno del matrimonio è andata all’altare con lo zio, non la vedo da 18 anni”. Nelle sue scorribande di strada, Diego soleva dire, arrivato in un posto: “Mi manda Puzone”. Pietro: un fratello carcerato e un cognato capoclan di Raffaele Cutolo. “Maradona è uno scugnizzo come me”. Al Rione Gescal, il “Congo”, dicono di loro due: “Hanno la stessa testa, vengono dagli stessi rioni malfamati, sono compari, la droga l’hanno conosciuta assieme”. Nel 1989 Maradona voleva andare via, a Marsiglia. Ferlaino glielo promise in caso di vittoria della Coppa Uefa. E così “Peppe Misso (famoso boss della camorra, ndr) mise una bomba sotto la casa di Ferlaino”. Diego non fu più venduto. Rimase a Napoli.

Nel 1985, El Pibe de Oro giocò persino una partita memorabile nello stadio comunale di Acerra. Beneficenza. Trenta milioni di lire d’incasso per un bimbo da operare in Svizzera. “Dovevo andare a Roma, alla Lazio, ma Maradona non volle, aveva trovato un fratello”. A casa Puzone, Diego andò pure a mangiare pasta e fagioli insieme con Heather Parisi. “Maradona è stato bello e caro, ma mi ha rovinato la vita. Maradona è Maradona, io sono Puzone, non sono lui che è in grado di coprire tutti gli sbagli che ha fatto”. Pietro ha rischiato di morire due volte. L’ultima un anno fa. In clinica, a letto, gli chiedono: “Qual è il tuo primo ricordo?”. “Maradona”. “Abbiamo fatto delle cazzate insieme”.

Oggi Pietro Puzone è di nuovo in piedi. “Pulito”. “Io ho giocato in Serie A e stavo morendo per queste cazzate”. Nel “Congo” è rimasto comunque un idolo. Una leggenda. Per i ragazzini che giocano a pallone è uno che ce l’ha fatta, “uno che è arrivato nel Napoli”.

Pietro è risorto mentre Maradona si preparava a morire, al piano terra di una villetta anonima di Tigre, una pizza come ultima cena, il 25 novembre dell’anno scorso. Nello splendore degli anni Ottanta, uno era la luce, Diego, l’altro l’ombra, Pietro. Trent’anni e passa dopo i ruoli si sono come rovesciati, nella vita. “La mia sfortuna era che avevo il soldo addosso”. La sua carriera di calciatore finì presto, a 27 anni. Pietro che dal collo ai piedi era come Maradona. E coi piedi, entrambi, hanno preso la vita a calci. Come fosse un pallone.

#Violination e il bullismo senza confini su Twitter

È difficile scriverlo cercando di rimanere seri, ma da due giorni Twitter è impazzito per un giovane e ignoto giornalista romano di nome Marco Violi. L’hashtag #VioliNation è diventato una tendenza non solo italiana ma mondiale, mentre sullo spazio Twitter dedicato al tema (una specie di canale vocale simile a ClubHouse), migliaia di utenti si sono riuniti ad ascoltare le “canzoni” di Violi raccolte e pubblicate da un account anonimo (nickname @moussolinho). Pezzi assurdi e oggettivamente comici; audio di Whatsapp, frammenti di YouTube, motivetti inascoltabili e scurrili, cover di canzoni di successo come Freestyler di Bomfunk Mc’s, Jeeg Robot d’acciaio o Can’t take my eyes off you riscritte e riadattate come improbabili cori da stadio per la Roma o come invettive nei confronti di altri giornalisti sportivi romanisti.

I numeri sono impressionanti: nella stanza della #VioliNation per due sere consecutive (martedì e mercoledì) si sono riunite fino a 5mila persone, mentre l’hashtag è stato scritto più di 30mila volte da utenti letteralmente di ogni angolo del mondo (anche Stati Uniti, Africa, Asia). Il fenomeno ha incuriosito e fatto partecipare influencer come Fedez e Andrea Delogu, sportivi di fama mondiale come l’ex tennista Sara Errani e l’ex calciatore del Manchester United Louis Saha, brand internazionali come Socios e BeIN Sports, giornalisti di ogni parte del globo, persino l’account Twitter della Treccani e quello della Serie A.

Come è potuto accadere? Le logiche della viralità stavolta sono imperscrutabili. Ma dietro la patina di leggerezza, c’è un aspetto inquietante: #Violination è uno dei più comici e assurdi fenomeni social degli ultimi anni, ma allo stesso tempo una gigantesca operazione di cyberbullismo, all’insaputa della quasi totalità dei partecipanti.

Proviamo a spiegarlo facendo un passo indietro. Marco Violi è tra le centinaia di giornalisti che quotidianamente si occupano di calcio e della Roma. Gestisce un sito abbastanza anonimo – romagiallorossa.it – e diversi canali social scarsamente frequentati (fino all’altroieri). Violi si è ritagliato, non si sa quanto volontariamente, l’immagine di personaggio folle e irascibile. Il matto del quartiere digitale. Trasmette i suoi video dalla stanzetta di casa, si esercita in telecronache ai confini della realtà, scrive e riscrive motivetti inascoltabili, sgrammaticati, in certi casi dai versi offensivi e omofobi.

Da qualche anno è protagonista di zuffe e minacce virtuali con altri giornalisti sportivi romani e utenti di Twitter che scrivono della Roma. Ci fa o ci è? Non è tanto chiaro; un po’ ci gioca, ma per lo più pare soffrirne. È una persona in cerca di attenzione, non c’è dubbio, ma sembra soprattutto bisognosa di aiuto. Sul suo sito Roma Giallorossa ha scritto in più occasioni di aver tentato il suicidio. Si tratta, con ogni probabilità, di esagerazioni e millanterie (negli stessi giorni infatti ha continuato a portare avanti le sue invettive social, minacciando querele e denunce verso gli utenti che lo prendevano in giro). Ma sono la testimonianza di una personalità fragile e probabilmente disturbata.

Prima la presa per i fondelli di Violi era un gioco della piccola bolla del cosiddetto “Roma Twitter”, ora è un fenomeno social su scala nazionale. Come se il compagno di classe problematico, che veniva preso in giro dagli altri studenti, da un giorno all’altro venisse esposto al resto del mondo, messo alla berlina da decine di migliaia di persone insieme, personaggi famosi compresi. Condividere e far conoscere a un pubblico sproporzionato le gesta di Violi non è stata una sua scelta, ma di uno dei suoi “persecutori” (l’account anonimo @moussolinho, che nel frattempo è stato disattivato). Che effetto può avere l’attenzione clamorosa ed estemporanea che gli è stata dedicata in questi giorni? Le luci puntate in faccia, i suoi audio assurdi – alcuni anche privati – condivisi e rilanciati da migliaia e migliaia di persone. Che ridono di lui, non con lui.

A giudicare dalla prima reazione, Violi non pare entusiasta dell’attenzione: “Intellettuali, giornalisti, attori e attrici, cantanti, tenniste che ascoltano uno spazio su Twitter di un utente chiamato Moussolinho. Poi in Rai e nei loro sproloqui al Concertone del Primo maggio si indignano sul fascismo”, ha scritto su Twitter. Più tardi sul suo canale YouTube si è lanciato in un’immaginifica teoria del complotto, secondo la quale sarebbe vittima di un’operazione orchestrata da personaggi legati alla vecchia proprietà della Roma (quella dell’americano James Pallotta), che lui aveva criticato nei suoi spazi giornalistici.

Nel frattempo #VioliNation continua a macinare reazioni, da 48 ore è un argomento di dibattito che tiene banco su siti, social e ora anche testate tradizionali. Chissà se Fedez e gli altri “vip” incuriositi da questo fenomeno virale – e sicuramente ignari della storia personale che c’è dietro – si fermeranno a riflettere qualche minuto in più. E se vorranno impiegare un po’ del loro tempo e del loro seguito per ragionare sulle dinamiche irrazionali, talvolta violente, che si nascondono dietro un cancelletto.

Contro di me in tv, la preside mi disse: “Sa, sono del Pd…”

“La scuola insegna” è il libro (Baldini + Castoldi) della ex ministra dell’Istruzione, Lucia Azzolina, con la prefazione della senatrice a vita Liliana Segre. “Una sorta di autobiografia personale e politica – scrive Segre – La storia di una giovane donna che prima in Parlamento e poi come ministro dell’Istruzione, peraltro in uno degli anni più drammatici della nostra storia recente (l’emergenza da Covid-19, ndr

), si è trovata a fare quasi un corso accelerato di vita politica, con le sue responsabilità, difficoltà, spesso asprezze”. Ne pubblichiamo un estratto dal capitolo “Per un pugno di voti”.

La riapertura delle scuole coincide con le elezioni amministrative 2020. Il 14 settembre la maggior parte degli istituti scolastici del Paese riapre le porte agli studenti. Per la prima volta dal lockdown di primavera, dopo l’assaggio degli esami di Stato a giugno. Appena una settimana dopo però si vota in Italia per eleggere i sindaci di una ventina di città, alcuni capoluoghi, e i presidenti di ben sette regioni. Un Paese maturo, in una fase politica matura, saprebbe tenere i due piani distinti. Da noi accade il contrario.

La scuola – confusa e impaurita per questa inedita e imprevedibile fase della sua storia – chiede collaborazione. Gli studenti, i docenti, le famiglie chiedono collaborazione. Non sono interessati a parteggiare, a sfidarsi, a tifare. Vogliono certezze e fiducia. Dovrebbe essere una missione per tutta la comunità nazionale. Invece no. La campagna elettorale, che inizia d’estate e che porta mezzo Paese al voto, mette proprio la scuola in cima all’elenco dei pretesti polemici. Chissenefrega se chi oggi attacca è parente politico di chi ha violentato la scuola anni fa con tagli brutali. La ministra è un bersaglio perfetto. Donna, 5 Stelle, con l’accento siciliano, il rossetto rosso, giovane e gradevole dice qualcuno. Eh sì, in questo paese a 38 anni si è ancora giovani. La politica è abituata a ben altre età. Immancabili sono le sparate di Matteo Salvini e della sua macchina da propaganda. È il 14 luglio quando dice “Basta con il distanziamento a scuola, l’emergenza è finita!” . Poi fa peggio e, nel contestare mascherine e misure di sicurezza in aula, arriva a dire che “Azzolina vuole trasformare le scuole in lager”. È un’immagine devastante e totalmente irresponsabile. La pazienza ha un limite, anche la mia prima o poi si esaurisce. Lo invito a un dibattito televisivo sulla scuola. Non verrà mai, mi dico, perché di scuola non capisce un’acca. Scapperà dal confronto ma almeno forse si limiterà un po’ nelle stupidaggini. Alla fine, come previsto, non accetta l’invito. “Vado in televisione con la Azzolina solo se ci sono anche genitori, studenti, insegnanti, sindacati”. Che buffo, sembra il bulletto che ha bisogno degli amici per sentirsi forte.

Arrivano bordate contro di me e contro il Governo anche da parte della seconda carica dello Stato. La presidente del Senato, Casellati. D’estate si trasforma in picconatrice. “Sulla scuola si sta perdendo tempo” dice in un’intervista mentre, presumibilmente, lei il tempo lo sta recuperando andando in vacanza in Sardegna con uno dei 125 voli di Stato utilizzati (125 lei, appena 3 Roberto Fico. Solo per farsi un’idea). Ma l’apoteosi dell’assurdo la raggiunge quando dichiara che “Sono state riaperte tutte le attività produttive, le spiagge, i teatri e i musei. Soltanto per le scuole c’è caos”. Ora, paragonare l’organizzazione di una scuola a quella di uno stabilimento balneare è avventuroso, ma soprattutto: con quale faccia tosta! La riapertura un po’ leggera di molte attività è stata causa di una ripartenza della curva dei contagi. Quanto ai teatri, credo non ci sia attività culturale che abbia sofferto così tanto in Italia durante la pandemia. Ma Casellati spesso può dare l’impressione di rincorrere una visibilità personale che poco si addice alla seconda carica dello Stato. Altrimenti non si spiega il pressing con cui il suo staff ha chiesto con una certa, diciamo, insistenza, un posto in prima fila all’inaugurazione dell’anno scolastico a Vo’ Euganeo. Un appuntamento a cui partecipano da sempre solo il presidente della Repubblica e il ministro dell’Istruzione. Ma in quell’occasione la manifestazione era nel suo Veneto e lei voleva in tutti i modi esserci. Al tiro al piccione vogliono partecipare tutti. Il segretario del Partito democratico, Zingaretti, non perde occasione per chiedermi di spostare i seggi elettorali fuori da scuola. Giusto, giustissimo. Non è normale che i ragazzi perdano due giorni di lezione, dopo averne già persi troppi durante il lockdown. Peccato, però, che siano i sindaci a doversene occupare. Loro hanno la responsabilità e il potere di trovare sedi alternative. Chissà a quanti sindaci del suo partito avrebbe potuto rivolgere l’appello! Invece ha pensato, lui e tanti altri esponenti del Pd, di attribuirmi anche questa responsabilità. Nel 2021 la Azzolina non è più ministro ma ci sono nuove elezioni amministrative. I seggi sono ancora nelle scuole? Sì. Qualcuno ne parla? No, fatta eccezione per i presidenti del M5S delle commissioni Cultura e Affari costituzionali della Camera.

L’ultima storia che voglio raccontare mi ha fatto davvero tanto male, ho pensato a lungo all’opportunità di scriverla o meno. Siamo a fine luglio, i cantieri nelle scuole sono aperti. Il lavoro da fare è tanto, ma c’è ancora tempo. Una dirigente scolastica viene intervistata in una trasmissione televisiva: sull’orlo del pianto dice che “Non ha gli spazi per il distanziamento”, che “Non sa come fare per riaprire”, perché “Il ministero non le dà una mano”. Qualche giorno dopo, un sabato mattina, decido di chiamarla. “Buongiorno, sono la ministra Azzolina, mi dica come possiamo aiutarla”. “No, ministra, non si preoccupi, sa io sono del Pd”. Silenzio. Non riesco a capire. “Voglio sapere come posso aiutare la sua scuola” le ripeto. Risposta: “Ma guardi, appena arrivano i banchi singoli sono a posto, non ho problemi col distanziamento in classe”. Inizio a capire: “In televisione ha detto che non sa come fare, che si annuncia un disastro”. E lei: “Ministra non se la prenda, le ho spiegato, sono del Pd”. Non ci posso credere. Non ci voglio credere. Ma in realtà ci credo, proprio perché queste cose ormai ho imparato a conoscerle e fanno davvero male se sei abituata a lavorare in buona fede e con onestà intellettuale.

Il domestico del ministro della Difesa Gantz accusato di spiare per l’Iran

Omri Goren, 37 anni, che per 2 anni è stato il domestico del ministro della Difesa israeliano Benny Gantz, è stato incriminato dal tribunale di Lod per aver offerto – secondo l’atto di accusa – di inoltrare informazioni riservate a un gruppo di hacker probabilmente legato all’Iran. L’uomo avrebbe ripreso diverse immagini nell’ufficio personale di Gantz.