È tornato di gran moda, in questi giorni, parlare di riforma della Rai. Le polemiche seguite alle nomine, che hanno infuocato il dibattito politico con l’esclusione dei 5Stelle dalla scelta dei direttori e l’Aventino annunciato da Giuseppe Conte, hanno riportato al centro il tema della riforma della tv pubblica. Lo stesso ex premier ha sottolineato la necessità di una modifica del sistema, annunciando addirittura una raccolta di firme. Mentre il presidente della Camera Roberto Fico anche ieri ha ribadito che “il Parlamento dovrebbe presto rimettere in agenda una riforma della Rai”. Proprio lui, da presidente della Vigilanza, ne aveva presentata una alla Camera nella passata legislatura.
Ma a che punto stanno le cose? Di disegni di legge di riforma della Rai in Parlamento ce ne sono ben otto. E ristagnano da tempo in commissione Lavori pubblici del Senato. Da dove si era deciso di ripartire. L’iniziativa, in questa legislatura, è stata presa ancora dal M5S con Primo Di Nicola che, riprendendo la proposta Fico, l’ha ripresentata a Palazzo Madama. A quel punto, però, e siamo nel luglio 2019, gli altri partiti non erano disposti a ripartire da un unico ddl, per evitare che la riforma potesse nascere “targata”, così si è concordato che ogni forza politica avrebbe presentato una sua idea per poi arrivare a una sintesi. “È una riforma di sistema, quindi occorre una sintesi tra le diverse iniziative in campo. Ora per velocizzare i tempi si può prevedere una corsia preferenziale”, spiega Di Nicola.
Il problema, però, è che, se i ddl di 5Stelle, Pd, LeU e Italia Viva cercano di mettere una distanza tra Rai e politica, le proposte del centrodestra sembrano andare in direzione opposta. L’accordo, dunque, è difficile. L’iter, comunque, riprenderà giovedì prossimo con l’avvio delle audizioni. “Le difficoltà ci sono, perché le proposte perseguono interessi o obbiettivi diversi, ma ci proviamo. I tempi ci sarebbero…”, osserva il presidente della commissione, Mauro Coltorti (M5S).
Ma vediamo qualche dettaglio. La proposta Di Nicola (ex-Fico) mette al centro l’Agcom che sceglie, tramite sorteggio, i 5 membri del Cda (in carica per 5 anni senza possibilità di rinnovo) tra i curriculum divisi per competenze. Sarà poi il Mef a designare un presidente. Il testo prevede anche la soppressione della Vigilanza, con i poteri di controllo affidati all’Agcom e alle commissioni competenti. Al modello BBC si rifà il ddl del Pd a firma Valeria Fedeli, con la Rai gestita da una fondazione che avrà un Cda composto da 10 membri eletti dalla Vigilanza (5), dalla conferenza Stato-Regioni (2), dalla conferenza dei rettori universitari (2) e dai dipendenti Rai (1). La fondazione nomina un Cda che procede alla nomina di Ad e presidente, in carica 3 anni. Anche la proposta di Iv, con Davide Faraone, dà la gestione a una fondazione, con un collegio sindacale a controllare. Sul sistema duale si basa invece il ddl di Loredana De Petris (LeU) che prevede una tv in mano a un consiglio di gestione (presidente, ad e 2 consiglieri) e un consiglio di sorveglianza composto da 15 membri.
E passiamo al centrodestra. La legge del leghista Massimiliano Romeo immagina un Cda a 7 membri come l’attuale ma con ad e presidente scelti dal capo dello Stato, 4 nominati dalla Vigilanza e uno dai dipendenti. Infine ben tre sono proposte forziste. Quella presentata da Alberto Barachini (presidente attuale della Vigilanza) e Anna Maria Bernini (capogruppo al Senato) prevede che anche l’ad debba essere sottoposto al parere vincolante dei due terzi della Vigilanza e un abbassamento dei tetti pubblicitari, che comporterebbe un notevole calo degli spot (favore a Mediaset?) compensato però dall’elargizione dell’intero introito del canone alla Rai. Proposta quasi fotocopia da parte di Massimo Mallegni, mentre Maurizio Gasparri propone una sola novità: scompare la figura dell’Ad e si ritorna al direttore generale.