Quando alcuni anni fa la Bbc fu investita da una serie di scandali che ne minarono l’autorevolezza, il presidente del mitico servizio pubblico di White City, Lord Patten, affermò seccato che tutti quelli che lo criticavano dovevano vedere la tv italiana, o francese o americana. Anzi, aggiunse, a nostro massimo scorno, “se preferite la tv italiana con il bunga bunga e con il primo ministro che decide chi debba guidarla, allora accomodatevi”. Di anni ne sono trascorsi, ma in Italia è ancora il primo ministro a decidere chi debba guidare la Rai. Come ci mostrano gli ultimi eventi, questa volta, il premier ha deciso addirittura lui, trasformando Fuortes in un fantasma, chi collocare a capo dei telegiornali, sentito il parere dei partiti e del duo Funiciello-Garofoli. Dunque, Roma non perdona. Lo sa bene Carlo Verdelli, che proprio con la nuova direttrice del Tg1 si scontrò quando era in Rai. Quest’ultima, per la verità, era stata paracadutata su quella poltrona in virtù di un accordo tra Gianni Letta e la Boschi, esercitandovi un ruolo più da dark lady che di guida, con l’unico risultato di bloccare il tentativo riformatore di Verdelli e Dall’Orto. Oggi sulle nomine Draghi, il Migliore (ma non era Togliatti?), fa molto peggio di Monti e soprattutto di Ciampi, dopo che l’Ad aveva maldestramente aperto le danze con i partiti. Infatti, il professore della Bocconi lasciò fare a Gubitosi, per non dire di Ciampi, che spianò la strada con la sua riforma all’unico periodo di vera autonomia dell’azienda: la cosiddetta Rai dei ‘professori’ (che non fu però esente da errori). C’è da dire che di fronte a quanto si stava prospettando, nessuno ha obiettato. Nemmeno Letta o Conte, il quale adesso, un po’ ingenuamente e dopo essere l’unico rimasto all’asciutto, protesta minacciando di disertare la Rai. Forse sarebbe stato meglio se lo avesse fatto prima invece di annunciare che avrebbe incontrato Fuortes: scelta più che legittima (ci mancherebbe che il leader del partito più forte non possa parlare del futuro della Rai) ma debole e pure inefficace. Ciò detto, se si vuol bene al servizio pubblico, se lo si vuole autorevole, la strada maestra è quella dell’iniziativa politica a tutto campo. Vigorosa. Forte. Il M5S, il Pd e LeU (la destra sul tema è in conflitto d’interessi o distratta) dovrebbero diventare protagonisti di una grande battaglia di liberazione del servizio pubblico. Dovrebbero mettere in cima alla loro agenda e in quella del governo, come finora non hanno fatto, le sorti della Rai, aprire un confronto alto sulla mission aziendale, la sua necessaria autonomia, il pluralismo dell’informazione pubblica e privata. Inutile ripetere che di proposte sul tavolo ce ne sono, che alcune giacciono in Parlamento da anni e che tutte sono sicuramente meglio della riforma di Renzi che, nel 2015, riuscì a fare peggio di Gasparri. Conte e Letta, quindi, al di là delle giuste recriminazioni del primo per essere stato tagliato fuori dalle ultime scelte, dovrebbero trovare il coraggio di alzare insieme la voce, di rifiutarsi di stare al gioco delle prossime nomine, di mobilitare i rispettivi partiti su un tema sul quale da tempo è calato il silenzio. Peggio: da decenni ci si acconcia alle vecchie pratiche, o le si subisce con logica miope sperando prima o poi, magari al prossimo giro, di approfittarne. Il più recente meeting politico sulla tv e sui media risale al febbraio 2011, organizzato dal Pd di Bersani che all’epoca rifiutò di designare i componenti del Cda che gli spettavano, chiamandosi fuori per rimarcare l’urgenza di una legge che delottizzasse la Rai. Fu l’ultimo, e inutile, tentativo di imporre una riforma per un’azienda pubblica che oggi rischia di essere stritolata tra il mercato e la politica. Da allora, parole a parte, c’è stata solo la palude di una colpevole inerzia nella quale pure quelli bravi, quando scelti, hanno finito per annegare.