Conte e Letta devono trovare il coraggio di riformare la tv

Quando alcuni anni fa la Bbc fu investita da una serie di scandali che ne minarono l’autorevolezza, il presidente del mitico servizio pubblico di White City, Lord Patten, affermò seccato che tutti quelli che lo criticavano dovevano vedere la tv italiana, o francese o americana. Anzi, aggiunse, a nostro massimo scorno, “se preferite la tv italiana con il bunga bunga e con il primo ministro che decide chi debba guidarla, allora accomodatevi”. Di anni ne sono trascorsi, ma in Italia è ancora il primo ministro a decidere chi debba guidare la Rai. Come ci mostrano gli ultimi eventi, questa volta, il premier ha deciso addirittura lui, trasformando Fuortes in un fantasma, chi collocare a capo dei telegiornali, sentito il parere dei partiti e del duo Funiciello-Garofoli. Dunque, Roma non perdona. Lo sa bene Carlo Verdelli, che proprio con la nuova direttrice del Tg1 si scontrò quando era in Rai. Quest’ultima, per la verità, era stata paracadutata su quella poltrona in virtù di un accordo tra Gianni Letta e la Boschi, esercitandovi un ruolo più da dark lady che di guida, con l’unico risultato di bloccare il tentativo riformatore di Verdelli e Dall’Orto. Oggi sulle nomine Draghi, il Migliore (ma non era Togliatti?), fa molto peggio di Monti e soprattutto di Ciampi, dopo che l’Ad aveva maldestramente aperto le danze con i partiti. Infatti, il professore della Bocconi lasciò fare a Gubitosi, per non dire di Ciampi, che spianò la strada con la sua riforma all’unico periodo di vera autonomia dell’azienda: la cosiddetta Rai dei ‘professori’ (che non fu però esente da errori). C’è da dire che di fronte a quanto si stava prospettando, nessuno ha obiettato. Nemmeno Letta o Conte, il quale adesso, un po’ ingenuamente e dopo essere l’unico rimasto all’asciutto, protesta minacciando di disertare la Rai. Forse sarebbe stato meglio se lo avesse fatto prima invece di annunciare che avrebbe incontrato Fuortes: scelta più che legittima (ci mancherebbe che il leader del partito più forte non possa parlare del futuro della Rai) ma debole e pure inefficace. Ciò detto, se si vuol bene al servizio pubblico, se lo si vuole autorevole, la strada maestra è quella dell’iniziativa politica a tutto campo. Vigorosa. Forte. Il M5S, il Pd e LeU (la destra sul tema è in conflitto d’interessi o distratta) dovrebbero diventare protagonisti di una grande battaglia di liberazione del servizio pubblico. Dovrebbero mettere in cima alla loro agenda e in quella del governo, come finora non hanno fatto, le sorti della Rai, aprire un confronto alto sulla mission aziendale, la sua necessaria autonomia, il pluralismo dell’informazione pubblica e privata. Inutile ripetere che di proposte sul tavolo ce ne sono, che alcune giacciono in Parlamento da anni e che tutte sono sicuramente meglio della riforma di Renzi che, nel 2015, riuscì a fare peggio di Gasparri. Conte e Letta, quindi, al di là delle giuste recriminazioni del primo per essere stato tagliato fuori dalle ultime scelte, dovrebbero trovare il coraggio di alzare insieme la voce, di rifiutarsi di stare al gioco delle prossime nomine, di mobilitare i rispettivi partiti su un tema sul quale da tempo è calato il silenzio. Peggio: da decenni ci si acconcia alle vecchie pratiche, o le si subisce con logica miope sperando prima o poi, magari al prossimo giro, di approfittarne. Il più recente meeting politico sulla tv e sui media risale al febbraio 2011, organizzato dal Pd di Bersani che all’epoca rifiutò di designare i componenti del Cda che gli spettavano, chiamandosi fuori per rimarcare l’urgenza di una legge che delottizzasse la Rai. Fu l’ultimo, e inutile, tentativo di imporre una riforma per un’azienda pubblica che oggi rischia di essere stritolata tra il mercato e la politica. Da allora, parole a parte, c’è stata solo la palude di una colpevole inerzia nella quale pure quelli bravi, quando scelti, hanno finito per annegare.

 

Metti tre donne alla Rai e la lottizzi indisturbato

La prima donna direttrice del Tg1: che incontenibile felicità alberga nei nostri cuori! Che il Cielo ci scampi da questa tiritera che andrà avanti per settimane. I nostri lettori l’hanno già capito: stanno coprendo una spudorata lottizzazione della Rai, fatta peraltro da chi ha perso le elezioni e da chi non ne ha mai vista una, con l’Operazione Donna. Naturalmente questo “storytelling” (quanto ci manca!) è un’autosuggestione dei giornali, tutto un onanismo finto-progressista venduto come rivoluzione. Dobbiamo ringraziare il governo dei Migliori (quasi tutti maschi), che graziosamente sta concedendo potere alle donne, finalmente notate e promosse dal talentuoso e privo di difetti talent scout Mario Draghi; è una “rivoluzione culturale”, non una banalissima opera di spostamento e riposizionamento di pedine per volere e secondo gli schemi correntizi di entità superiori.

Era già successo con la nomina di Elisabetta Belloni a capo del Dis (Dipartimento Informazioni per la Sicurezza), a maggio: lì il titolo unico sui giornali era bifronte: “La prima donna capo dei servizi segreti”, succulenta occasione per editoriali sulla meritocrazia messianicamente arrivata, e “Il governo Draghi chiude l’era Vecchione-Conte”, che poi era il vero motivo per cui si esultava. Una doppia conquista verso il progresso e contro il populismo. Oggi, specularmente, non solo abbiamo “Una donna al Tg1” (Corriere), ma, se ci pensate, “Cts, Cdp, Rai, Fs: in meno di un anno Draghi ha archiviato il sistema di potere messo in piedi da Conte durante i suoi due governi” (Repubblica): ah, ecco. Due buoni motivi per darsi alle orge più sfrenate. Dappertutto ci vendono come un upgrade di carriera la nomina di una ex presidente della Rai a direttrice di Tg: “Da inviata a presidente e ora la testata di punta”: “Non più dietro alla scrivania in studio ma come direttrice” (sic, Repubblica). Una cavalcata delle Valchirie, il refolo di un vento nuovo, collettivo, europeo, da girlpower arrembante: “Cosa hanno in comune Monica Maggioni, Simona Sala e Alessandra De Stefano, fresche di designazione al Tg1, Tg3 e Raisport?… Quello che le accomuna maggiormente è la capacità di fare rete” (Corriere). Come se fosse un mistero che nelle aziende pubbliche la parità vale zero quando si perpetrano meccanismi autoritari e si agevola la solita lubrificazione del potere; è un mito consolatorio in un contesto in cui alla lottizzazione di stampo classico si somma la figura di un Capo di governo che a tutto provvede.

Ecco, uno che non sa proprio fare rete è Giuseppe Conte, e naturalmente per il Sistema questo è un difetto. È un piacere, ora, gigioneggiare su un Conte che esprime “ira” per essere stato escluso dai giochi e accusarlo al contempo di voler lottizzare la Rai. A volte la cromatura narrativa con cui ci rifilano rottami vecchi di cinquant’anni come avveniristiche vetture guidate dall’oligarchia draghiana (per giustificare la ri-conquista arbitraria del potere) si stacca, e la verità emerge, loro malgrado. Su Repubblica l’epurazione e la risessualizzazione della Rai suscitano un titolo stupendo: “Dagli 007 alle aziende di Stato crolla la rete dell’ex premier”: Conte è un vile traffichino di poltrone, che briga “per controllare i gangli più strategici del Paese e garantirsi lunga vita (politica) anche fuori dal Palazzo”; Draghi invece è un “pokerista” abile, “colpo sicuro e impazienza zero”, e la sua non è lottizzazione ma una “bonifica”, come quella delle paludi pontine. È come la vede Renzi, quello che aveva una squadra di bastonatori social che si riprometteva accordi col dg della Rai Orfeo, ora giustamente promosso alla direzione dell’Approfondimento (inchieste di Report – comprese quelle su Renzi – speciali, talk show, etc.) perché il renzismo fosse ancora più contundente: i 5Stelle, partito di maggioranza relativa, rimasti a bocca asciutta, vittime dell’abilità predatoria sua e di tutti gli altri, siccome denunciano la spartizione e accusano l’ad Fuortes di aver “esautorato una forza come il M5S”, sono i veri lottizzatori. Del resto, lui Maggioni la conosce bene, per averla nominata nel 2015 presidente della Rai coi voti di Forza Italia, in quanto “professionista della comunicazione”; era solo un caso che lui fosse più presente in quella Rai che Ceausescu sui muri di Bucarest. Quindi, occhio: quando dicono “e ora un presidente della Repubblica donna” non intendono affatto “e ora un presidente della Repubblica donna”: intendono “e ora presidente della Repubblica la Cartabia”, che tanto bene ha fatto con la riforma della Giustizia graditissima ai “garantisti” (quasi tutti indagati e condannati) e definita da magistrati come Gratteri “la peggiore mai vista dall’86”, comprese cioè quelle tentate e fallite da Berlusconi (inventore e maestro del metodo di nominare donne manovrabili per farsi i comodi propri).

 

Le gag di Dave Chappelle, le proteste verso Netflix e l’ammissione del 2005

La comunità LGBTQ+ e le associazioni per i diritti civili hanno protestato contro Dave Chappelle a causa delle pericolose gag transfobiche e omofobiche contenute nei suoi show Netflix, fondate su falsità fattuali, stereotipi denigratori e banalizzazioni reazionarie. Il discorso irresponsabile sta facendo proseliti anche da noi, complici le destre che se ne servono per la loro propaganda tossica, e purtroppo l’influenza dei media è tale che si può essere razzisti anche in modo involontario, introiettando stereotipi razzisti che i media rendono ambiente, e ripetendoli. Chappelle se ne rende conto, infatti nei suoi monologhi l’excusatio non petita è frequente: “Dico molte cose cattive. Ma ricordatevi: non le dico per essere cattivo. Le dico perché è divertente. Tutto è divertente finché non capita a te.” Questo concetto, che banalizza il problema, fu espresso meglio da Mel Brooks 50 anni fa (“Tragedia è quando mi taglio un dito. Commedia è quando cadi in una fogna a cielo aperto e muori”), con l’enorme differenza che in Brooks la gag è su di lui, non su gruppi di persone, fatte bersaglio per etnia, genere, e orientamento sessuale, come fa Chappelle. I tempi cambiano: oggi, ad esempio, stona l’Hitler gay inventato da Mel Brooks per il film The Producers (1968): dovremmo ridere perché Hitler è gay? All’epoca si rideva anche per quel motivo. Chappelle è come rimasto a 50 anni fa.

Proteste. La novità è che, stavolta, più di mille dipendenti Netflix hanno protestato per i contenuti dello special di Chappelle. Un centinaio di loro hanno attuato un walkout dagli uffici di Los Angeles, cui si sono uniti in modo virtuale molti di quelli che lavorano da casa: invocano contenuti responsabili che abbiano come priorità la sicurezza e la dignità delle comunità marginalizzate e vulnerabili. Non chiedono che Netflix rimuova gli show di Chappelle, ma che vi aggiunga un avviso sui contenuti come quello utilizzato per la serie problematica 13 Reasons Why; e che non trasmetta più contenuti transfobici e hate speech. Molte celebrità, fra cui la co-regista di Matrix Lilly Wachowsky, l’attore Elliot Page e la comica Wanda Sykes hanno espresso la propria solidarietà al walkout. Terra Field, una donna trans che lavora a Netflix, ha dato il via alla protesta twittando: “Promuovere l’ideologia TERF (che è quello che abbiamo fatto dando a Chappelle una piattaforma) danneggia direttamente le persone trans, non è un atto neutrale. Questa non è una discussione con due opinioni possibili. È una discussione fra persone trans che vogliono restare vive, e persone che non vogliono che lo siamo”. E ha ricordato che quest’anno sono già 41 le persone trans e non-binarie uccise negli USA, in maggioranza Black e Brown (bit.ly/3GzI5tI). In passato, Netflix ha rimosso contenuti che avevano suscitato contestazioni: l’anno scorso tolse dalla piattaforma la serie “Little Britain” poiché i suoi sketch perculavano minoranze etniche (addirittura con scenette in blackface), persone disabili e travestiti (Qc # 9). Chi è contrario agli show di Chappelle, giudicandoli transfobici e omofobici, ha tutto il diritto di far sentire la sua voce. È democrazia. Facebook se ne è fregata delle polemiche sul razzismo e sull’hate speech favoriti dal suo algoritmo, finché l’opinione pubblica non ha convinto gli sponsor di Facebook a prendere posizione contro Facebook. Poi si sono mossi anche i Parlamenti.

Epilogo. Nel 2005, Chappelle confessò alla rivista Time che sentire un bianco ridere a un suo sketch sugli stereotipi razziali lo aveva messo a disagio: la sua risata sembrava approvare quegli stereotipi. Forse un giorno capirà anche che quel bianco era lui.

(18. Fine)

 

Le promesse di fedeltà al testimone di nozze

Nel profluvio di commenti sulle nomine di Viale Mazzini (tutti contro i 5 Stelle che si lamentano di essere stati esclusi dalla spartizione, nessuno contro la spartizione stessa) ce n’è uno che vive di luce propria. Lo firma, su Twitter, il giornalista di Repubblica, Stefano Cappellini: “La lottizzazione è uno scandalo, vergogna, noi la combattiamo! Ora però dateci la nostra parte di bottino e nessuno si farà male”, dice sfottendo il risentimento grillino. È lo stesso Cappellini che quando si è sposato (con una giornalista Rai) ha avuto come testimone di nozze nientemeno che Mario Orfeo, fresco di promozione alla direzione degli approfondimenti giornalistici del servizio pubblico (incluso il programma di lady Cappellini). Come prima promessa di fedeltà, non male. Però, ammettiamolo, si può fare di più.

Assegno unico a 7 mln di famiglie, ma ora il 18% rischia di prendere meno

Ogni famiglia dovrà fare bene i suoi calcoli, ma è certo che con il nuovo assegno unico, che entra in vigore da marzo 2021, si amplia sì la platea di chi avrà un sostegno economico da parte dello Stato (7 milioni di nuclei), ma c’è il rischio che la misura, che manda in soffitta tutti i vecchi aiuti (assegni, detrazioni e bonus), farà prendere meno soldi a svariati genitori. E per evitarlo è stato previsto un meccanismo di perequazione per le famiglie con meno di 25 mila euro di reddito che, tuttavia, non è stato ancora illustrato. Questo il nuovo assegno unico universale a cui ieri il Consiglio dei ministri ha dato il via libera, in attesa che le commissioni parlamentari diano il loro parere, senza quindi superare il limite che già lo scorso maggio aveva fatto rinviare la misura di otto mesi alla ministra della Famiglia Elena Bonetti per manifesta incapacità.

Come funziona. Lo Stato sosterrà tutte le famiglie con figli, dagli incapienti ai benestanti. L’assegno unico, erogato dall’Inps sul conto corrente, interesserà sia dipendenti che autonomi e accompagnerà i figli dal settimo mese di gravidanza fino a 21 anni, a patto che studino, facciano tirocini con redditi minimi o il servizio civile universale. L’assegno mensile arriverà fino a 175 euro, che scendono a 85 per i figli dai 18 fino 21 anni, ma le famiglie numerose avranno una maggiorazione di 85 euro a partire dal terzo figlio e 100 euro in più con quattro o più minori. L’importo pieno andrà a chi ha un Isee fino a 15 mila euro; oltre questo limite l’assegno calerà progressivamente fino a fermarsi a 50 euro (25 euro per i maggiorenni) per chi ha l’Isee oltre 40 mila. Insomma, come ha spiegato la ministra Bonetti, “per assurdo, l’assegno potrebbe arrivare anche per i figli di Fedez”. Previste maggiorazioni per i disabili. Il sostegno va anche gli immigrati che risiedono in Italia da almeno due anni.

La domanda. L’istanza si presenta dal 1º gennaio 2022, per un periodo che andrà da marzo a febbraio dell’anno successivo. Sono esentati dalla domanda i percettori del Reddito di cittadinanza.

La platea. Non è ancora chiaro a quanto ammonta il numero delle famiglie che ci rimetteranno. “Nel decreto non c’è la certezza che nessuno e per nessun motivo abbia un assegno minore rispetto a quanto fino a oggi percepito”, spiega il segretario confederale della Uil, Domenico Proietti. Anche il segretario della Cisl, Luigi Sbarra, si dice “preoccupato”: “Secondo le nostre simulazioni, il 18% di famiglie risulterebbero penalizzato, molti tra i lavoratori dipendenti anche a basso reddito”. Per la ministra Bonetti, invece, “circa la metà della platea potrà prendere la cifra massima”.

I numeri. Negli scorsi giorni ad aver fatto un po’ di calcoli è stata la Uila-Uil, che ha avvertito del rischio che alcune famiglie dal prossimo anno potrebbero ritrovarsi con meno soldi: “Siamo di fronte a una riforma profondamente divisiva che toglie ai lavoratori con redditi e Isee più bassi a favore di quelli più alti del lavoro autonomo e delle partite Iva”, spiega il segretario generale, Stefano Mantegazza. In soldoni, secondo le simulazioni del sindacato, una famiglia composta da due genitori e due figli minorenni con monoreddito di 15 mila euro, patrimonio mobiliare di 3 mila e prima casa (50 mila euro), per un valore Isee di 4.878 euro, se con l’attuale sistema degli assegni per il nucleo familiare e le detrazioni figli prende 469 euro, da marzo con l’introduzione dell’assegno unico percepirà 350 euro. Mentre per una famiglia con reddito di 50 mila euro (entrambi i genitori lavorano), a parità del valore del patrimonio mobiliare e della prima casa, ma con Isee pari a 17.669, l’assegno unico arriverà a 383 euro contro gli attuali 262 dell’assegno per il nucleo familiare. “Insomma, la famiglia più bisognosa rischia di prendere 119 euro in meno, mentre quella più possidente 121 euro in più”, spiega Mantegazza.

I fondi a disposizione. Ci saranno circa 15 miliardi nel 2022 che saliranno progressivamente fino a 19,5 miliardi a decorrere dal 2029.

“Scaricati e sbeffeggiati”. La protesta dei navigator

“Non siamo qui solo per la proroga dei nostri contratti, ma anche per mostrare che non è vero quanto detto su di noi in questi due anni, cioè che non abbiamo fatto niente”. Quella andata in scena ieri sotto il ministero del Lavoro è stata una sorta di giornata dell’orgoglio navigator: partiti da tutta Italia, gli operatori dell’Anpal Servizi che assistono i centri per l’impiego regionali sul Reddito di cittadinanza, hanno protestato contro la scelta del governo Draghi di mandarli a casa tra un mese: i loro co.co.co. scadranno il 31 dicembre e non saranno rinnovati. La legge di Bilancio – in ossequio alle pressanti richieste della Confindustria – ha scelto di puntare da ora in poi sulle agenzie private, che otterranno il 20% dell’incentivo all’assunzione per ogni beneficiario ricollocato. Ai navigator, che inizialmente erano stati boicottati soprattutto dalla Campania, sarà dato il benservito. Nidil Cgil, Felsa Cisl e UilTemp – chiedono un nuovo prolungamento, anche perché il potenziamento dei centri per l’impiego prosegue a rilento.

“Io opero in un piccolo centro nella Provincia di Bari, un contesto agricolo – spiega uno dei presenti al sit-in – Ho seguito circa 900 persone e sono riuscito a proporre circa 250 opportunità di lavoro. Tra le persone che abbiamo in carico c’è chi non ha mai lavorato e mai studiato”. Ancora più difficile è il rapporto con le imprese: “Ne ho contattate 210 – racconta un altro navigator pugliese – la maggior parte ha detto di non essere interessata a fare assunzioni. Soprattutto durante la pandemia, molti ci dicevano che non sapevano neanche se avrebbero riaperto la mattina dopo. Un’imprenditrice con la produzione ferma da tempo ci ha risposto piangendo, perché quando ha sentito squillare il telefono ha pensato che fosse in arrivo un nuovo ordinativo”. Guai a proporre di prendere uno che riceve il Rdc: “C’è uno stigma sociale, una sfiducia nei confronti del percettore perché considerato uno che non ha voglia di lavorare; ma non è così, ci sono tantissimi che non desiderano altro”. I sindacati sono stati ricevuti al ministero, che però non ha assunto alcun impegno né sulla proroga né sulla possibilità di riconoscere punti ai navigator nei concorsi per i centri per l’impiego regionali. Di fatto il governo affida l’incrocio tra domanda e offerta alle agenzie che – benché salvifiche nella narrazione confindustriale – negli ultimi dieci anni – come certificato dall’istituto di ricerca Inapp – hanno fatto poco meglio dei Centri per l’impiego, mediando il 6,9% dei rapporti attivati contro il 4,5% degli uffici pubblici.

La Lega segnala Lilli Gruber per le frasi su Giordano

Il partito guidato da Matteo Salvini farà una segnalazione all’Ordine dei giornalisti per le parole usate da Lilli Gruber nei confronti di Mario Giordano. L’obiettivo della Lega è quello di far valutare la sussistenza o meno della violazione del codice professionale. Qualche giorno fa, durante un evento pubblico che la vedeva fra i protagonisti, la giornalista ha detto che per lei Giordano “non è un collega”, rispondendo a una domanda proveniente dalla platea. Poco prima, per far intendere chi fosse il giornalista a cui si riferiva, Gruber ha imitato la voce di Giordano.

Microchip, la Ue ora apre agli aiuti di Stato per evitare di finire surclassata da Usa e Cina

Nello scontro tra Usa e Cina sul fronte dei semiconduttori, asset strategici dell’economia digitale e sempre più collo di bottiglia della ripresa industriale, l’Europa apre agli aiuti di Stato. Lo ha deciso ieri la Commissione Ue, vista la “dipendenza dall’offerta di un numero limitato di imprese in un contesto geopolitico difficile”. Bruxelles potrà prevedere “l’approvazione di sussidi per colmare potenziali carenze di finanziamento” e “continuerà a sostenere gli sforzi degli Stati” per elaborare “importanti progetti paneuropei” per la creazione di campioni Ue nelle aree prioritarie, identificate appunto in microelettronica, idrogeno, cloud, salute. Posizione sostenuta dall’Italia: già il 20 ottobre, Mario Draghi al Senato aveva spiegato che Roma vuole l’autonomia tecnologica europea nel settore, ma che per raggiungerla serve il sostegno pubblico. D’altronde la progettazione di un nuovo chip può costare fino a 1 miliardo e un impianto di produzione all’avanguardia fino a 20. Il comparto è ad alta intensità di ricerca, che assorbe fino a un terzo dei ricavi, e fortemente sovvenzionato: per raggiungere il 70% di autonomia nella produzione di chip entro il 2025 la Cina ha investito 150 miliardi di dollari in 10 anni, la Corea del Sud ne spenderà 17 entro il 2029 e gli Usa hanno un piano da 25 miliardi in 5 anni. Ma dal 1990 la quota di mercato mondiale dell’industria europea dei chip è variata tra l’8 e il 13%: la Ue dipende dagli Usa per la progettazione e dall’Asia per la produzione.

La Ue vuole raddoppiare la sua quota di mercato globale al 20%, ma sino a oggi l’obiettivo pareva molto ambizioso visti i divari di investimento e la mancanza di aiuti pubblici. Il mercato è dominato da pochi produttori: i chip per pc o server usano processori Intel (82% del mercato globale) o Amd (18%), quelli per smartphone o tablet i prodotti di Arm Holdings (Regno Unito) della giapponese SoftBank che potrebbe presto venderla a Nvidia (Usa). Il Vecchio continente ha campioni nazionali nel design (Imec in Belgio), macchinari per la produzione (Asml, Regno Unito) e produttori (Infineon in Germania e la italo-francese StMicroelectronics), ma è in ritardo e non produce componenti inferiori a 22 nanometri (nm). Nel 2020 solo due aziende, Samsung (Corea) e Tsmc (Taiwan) che nei prossimi tre anni investirà 100 miliardi di dollari, hanno prodotto i nuovi chip a 5 nm. Ecco perché la direttiva Ue sul settore annunciata, dovrà definire meglio gli obiettivi strategici.

Taxi fermi in tutta Italia il 24 novembre

Tutte le siglesindacali dei tassisti hanno indetto uno sciopero generale fissato per mercoledì 24 novembre, dalle 8 fino alle 22. Il motivo dello sciopero è dovuto al Ddl concorrenza, che secondo i tassisti andrà a deregolamentare ulteriormente il settore a favore delle multinazionali. Riccardo Cacchione, coordinatore nazionale Usb taxi, ha definito la legge “devastante per tassisti e utenti perché interviene in alcuni passaggi che anche l’Europa aveva escluso riguardo alle liberalizzazioni”. Per Alessandro Genovese, responsabile dell’Ugl taxi, “il governo doveva emanare i decreti attuativi che avrebbero definito regole certe per il nostro settore, ma la risposta è stata l’inserimento inopportuno di taxi e Ncc nel Ddl”.

I rider vincono contro Uber: “Vanno assunti”

I ciclofattorini di Uber Eats hanno diritto al riconoscimento del rapporto di lavoro subordinato: è il senso di una sentenza con cui il tribunale del lavoro di Torino ieri ha condannato una società collegata, Uber Italy, al termine di una causa promossa da 10 Rider. Ai ricorrenti, l’azienda delle consegne a domicilio dovrà corrispondere la retribuzione per l’attività svolta oltre alle relative indennità. Sulla vicenda è in corso a Milano un procedimento penale per caporalato. Nelle loro varie iniziative giudiziarie, i ricorrenti (spesso stranieri reclutati per lo più nei centri di accoglienza) hanno affermato che erano pagati tre euro a consegna, soggetti a ritmi di lavoro “massacranti”, multati senza vere giustificazioni.