“Nuova” Rai: conflitti, poteri e tanti interessi

Nuova (vecchia) Rai fu. Con il via libera del Consiglio di amministrazione, Viale Mazzini ha i suoi nuovi direttori, in un coro di applausi e complimenti rotto soltanto da voci isolate. Come quella del sindacato Usigrai, secondo cui “il valzer di nomine” deciso “fuori dalla Rai” dimostra “la mancanza di un progetto” per l’azienda: “La spartizione di poltrone rende non rinviabile la nostra richiesta di una legge che allontani le sorti del Servizio pubblico da quello dei governi di turno e dei partiti”.

Gli effetti – non certo nuovi o imprevedibili – della lottizzazione non sfuggono neanche ad analisti e a chi in Rai ha lavorato per anni.

Siliato “Vantaggi per il Tg5”

Il paradosso più evidente lo sintetizza Francesco Siliato, docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi al Politecnico di Milano: “Al vertice dei telegiornali hanno confermato chi ha avuto numeri peggiori e mandato via chi ha ottenuto risultati migliori”. Il riferimento è chiaro: da una parte Gennaro Sangiuliano, che resterà al vertice del Tg2 in quota Lega, e dall’altra Giuseppe Carboni, silurato dal Tg1. Nel mezzo, l’eterno Mario Orfeo, passato dal Tg3 alla nuova casella della Direzione Approfondimento.

La considerazione di Siliato è confortata dai numeri elaborati da Studio Frasi, la società specializzata di cui è partner il professore, che ha paragonato i dati Auditel della nuova stagione dei Tg con lo stesso periodo del 2020 (condizionato dalle chiusure causa Covid) e del 2019. Scoprendo risultati interessanti: “Rispetto allo scorso anno, il Tg1 ha perso il 3,94 per cento del suo share – spiega Siliato al Fatto –, ma rispetto al 2019 segna un +8 per cento”. Numeri ben diversi da quelli del Tg2: “Il telegiornale di Sangiuliano ha perso il 21,58 per cento rispetto a dodici mesi fa, l’8,74 se consideriamo il periodo pre-Covid”. I freddi dati dicono allora che la meritocrazia conta poco: “La Rai non funziona come un’azienda normale, in cui si premia chi guadagna e si penalizza chi perde. Qui succede il contrario, segno che il criterio di scelta non è il pubblico, ma l’interesse dei partiti”. Con un corollario evidente a vantaggio di Mediaset, non certo parte disinteressata alla partita delle nomine: “Di fatto si cambia il direttore del telegiornale che dà più fastidio al principale tg della concorrenza, ovvero quello di Canale 5”.

Mineo “C’è rischio censura”

E ancor prima del giudizio sui nomi scelti, c’è un tema di poteri, funzioni e metodo. A parlarne è Corradino Mineo, per decenni volto noto Rai prima dell’addio nel 2013. Il primo problema è proprio il ruolo per cui è stato scelto Orfeo, che coordinerà tutto il “genere” Approfondimento, nella nuova concezione del servizio pubblico per cui ogni settore, indipendentemente dalla rete, sarà diretto da un unica figura. Non si sa con quali risultati: “Come puoi pensare di dirigere contemporaneamente Bruno Vespa, Bianca Berlinguer, Sigfrido Ranucci e tutti i programmi dell’approfondimento? Finisce che o non li segui, e dunque è come se non ci fossi, oppure fai il censore”. Il pericolo, secondo il giornalista, è che si enfatizzi la vocazione “privatistica” della Rai: “L’idea dei generi circolava già quando me ne andai. Il problema è che dietro ai generi ci sono spesso logiche berlusconiane”. In che senso? “Le fiction molte volte mi sembrano dei veicoli di pubblicità delle Regioni. E i talk show ormai sono costruiti trattando con gli agenti dei giornalisti e degli ospiti. La Rai in questo si è modellata su cliché Mediaset”.

Il governo di tutti, poi, complica le cose. Al netto del solito conflitto di interessi legato a Berlusconi, i tecnici a Palazzo Chigi partecipano alla spartizione come un partito privilegiato: “Quelli che prima sapevano di avere la protezione di un partito se ne stavano zitti in attesa. Con i tecnici, si vede gente costretta a esporsi molto di più, a farsi notare dai nuovi arrivati. E il governo, grazie alla riforma di Renzi, ha un potere ancora più decisivo”.

Emiliani “Orfeo epurator”

Il risultato della spartizione è la rabbia del M5S, manifestata da Giuseppe Conte: “Non andremo più nelle reti del servizio pubblico”. Vittorio Emiliani, componente del cda Rai a cavallo tra gli anni 90 e 2000, non biasima l’ex premier: “La reazione di Conte è tardiva e ingenua, ma certamente c’è stata una regia per escludere i 5Stelle dalle nomine”. E non per favorire nomi il cui prestigio supera ogni polemica: “Mi sembra sia stato un compromesso al ribasso, una marmellata pericolosa che ha prodotto scarse competenze. Monica Maggioni è per tutte le stagioni, Orfeo lo associamo ai tanti cacciati durante il suo mandato da dg. Siamo alla distribuzione monarchica di posti di comando”. Emiliani non nega che la lottizzazione esistesse pure nella “sua” Rai, ma ne fa un discorso di valore professionale: “Allora c’erano dei quadri dirigenziali di indubbia competenza, che è l’unico antidoto che la Rai ha rispetto al controllo dei partiti”.

Guglielmi “Tg2 di parte”

Di tutt’altra Rai faceva parte pure Angelo Guglielmi, l’uomo che tra il 1987 e il 1994 trasformò Rai Tre in un piccolo gioiello in grado di lanciare decine di volti noti e programmi tutt’ora in onda (da Blob a Chi l’ha visto?). Oggi Guglielmi è perplesso soprattutto dalla conferma di Sangiuliano al Tg2: “Sono rimasto stupito perché credo abbia dato molte prove della sua parzialità in questi anni”. Come Emiliani, Guglielmi parla della lottizzazione come di un fenomeno antico, ma ricorda anche come riuscì a lavorare senza condizionamenti: “L’unico con cui avevo un rapporto era Walter Veltroni, che però aveva capito che avrebbe avuto maggiori vantaggi se io avessi lavorato con piena libertà. Oggi forse i politici non avrebbero la stessa intelligenza”.

Senza pass alla camera: Cunial può, ma solo in tribuna

Aveva promesso battaglia e per ora l’ha spuntata: l’ex 5stelle Sara Cunial potrà entrare alla Camera senza dover esibire il Green pass (ma potrà sedere solo in tribuna) almeno fino a giovedì 25 novembre, quando verrà decisa nel merito la sua richiesta di sospensione della delibera con cui è stato introdotto l’obbligo anche per i deputati. Mercoledì sera le è stato comunicato l’accoglimento in sede cautelare della sua istanza da parte del presidente del Collegio d’appello interno, Andrea Colletti, che l’ha messa così: “Non si può impedire a un parlamentare di rappresentare una parte di elettorato per una motivazione che non ha un carattere chiaramente sanitario, ma che rischia di averne uno più burocratico”. Soddisfatta Cunial, che potrà tornare alla Camera senza “tessere di regime”. Mastica amaro invece il questore forzista Gregorio Fontan: “Si tratta di una decisione inaccettabile ispirata alla peggiore deriva no vax”. Stefano Ceccanti del Pd preferisce l’ironia. “Se l’argomento usato per consentire alla Cunial di entrare senza Green pass è che una parte di elettorato che la pensa come lei debba essere rappresentata, consentiremo anche ai parlamentari sostenitori dei nudisti di entrare nudi?”.

Le Regioni: “Chiudiamo solo per i non vaccinati”

La parola chiave dei presidenti di Regione è “preoccupazione”. Per i contagi e per le chiusure che potrebbero arrivare presto. Tale da chiedere una “riunione urgentissima” al presidente del Consiglio Mario Draghi per approvare nuove restrizioni che riguardino solo i non vaccinati. “Entro 72 ore” è la deadline della Conferenza delle Regioni che si è riunita ieri. Anche perché se è vero che da lunedì nessuna Regione passerà in zona gialla, questo potrebbe avvenire molto presto. E così nel pomeriggio la ministra degli Affari Regionali Mariastella Gelmini, che doveva prendere tempo, comunica ai presidenti di Regione la “disponibilità” del governo a riunirsi a breve. Forse già lunedì. Sarà a quel tavolo che i governatori chiederanno a Draghi e al ministro della Salute Roberto Speranza di agire il prima possibile. Questo è stato deciso nella riunione dei governatori. I più duri sono stati il presidente leghista Massimiliano Fedriga (Friuli-Venezia Giulia) e il suo vice Giovanni Toti (Liguria) che vogliono un modello simile a quello austriaco da applicare al “semaforo”: “Chiediamo che la divisione in zona gialla, arancione o rossa, valga soltanto per i non vaccinati – ha detto Toti – Il 90% degli italiani non può essere tenuto in scacco da un 10% che non comprende l’importanza del vaccino”.

Con i governatori del Nord Fedriga, Toti, Attilio Fontana (Lombardia) ci sono anche quelli di centrosinistra Eugenio Giani (Toscana) e Vincenzo De Luca (Campania), mentre è più morbida la posizione di Luca Zaia (Veneto) e Francesco Acquaroli (Marche) contrari al modello austriaco di un lockdown per i non immunizzati. Al termine della riunione si decide che le richieste da avanzare al governo saranno due: accelerare sulla terza dose e cambiare le norme sul green pass. Come? Modificando il sistema dei colori: non più chiusure per le attività ma per chi può accedervi. Durante la riunione sono stati fatti due esempi che seguono la logica del “doppio binario”: se il Capodanno sarà in zona arancione non si chiudono i ristoranti ma si impedisce ai non immunizzati di partecipare al veglione; lo stesso per le località sciistiche dove solo i vaccinati potranno utilizzare gli impianti di risalita. Il governo al momento aspetta. E le Regioni fanno da sé: da oggi torna l’obbligo di mascherine all’aperto.

Ieri Speranza ha fatto un punto con il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Roberto Garofoli, ma niente è stato deciso. “I dati non giustificano allarmismi” dice una fonte di governo. “Il lockdown per i no vax non è sul tavolo” sostiene Luigi Di Maio. La posizione dei governatori crea un problema interno alla Lega: Salvini è assediato da Fedriga e Zaia che chiedono più restrizioni e dice “no a misure per non vaccinati”. Intanto nel prossimo Cdm sarà esteso l’obbligo della terza dose per i sanitari e ridotta la validità del pass da 12 a 9 mesi.

I numeri dei contagi però preoccupano. I nuovi casi ieri sono stati 10.638, ritornando ai valori di maggio. Mercoledì erano stati 10.172: il dato di ieri però è a fronte di 625.774 tamponi rispetto ai 537.765 delle ventiquattr’ore precedenti; infatti scende leggermente il tasso di positività che passa all’1,7%, contro l’1,9% registrato ieri. E in Europa la situazione è drammatica con l’ondata che proviene da Est. Repubblica Ceca e Slovacchia vanno verso lockdown per i non vaccinati, l’Austria ha già esteso in due regioni la chiusura generalizzata, mentre in Germania (ieri record di 65 mila casi) primo sì del Bundestag all’obbligo di green pass sui posti di lavoro e sui mezzi di trasporto. Ora la palla passa al Bundesrat.

“La caccia al no vax è utile solo a coprire gli errori fatti ”

“La Gran Bretagna ha il 73% di vaccinati, l’Irlanda l’84% con punte del 93% sopra i 18 anni, ma i contagi esplodono. La battaglia non si deve fare sui non vaccinati. Ci sarà sempre chi non vuole vaccinarsi per ragioni ideologiche o per fobia, non ha senso accanirsi creando una spaccatura del Paese e facendo leggi che intaccano le libertà democratiche. Il 5 o il 10 per cento in più o in meno di vaccinati in questo momento non fa la differenza. Abbiamo 45 milioni di persone vaccinate, potenzialmente disposte a fare la terza dose, su queste dobbiamo fare leva. Questa è la battaglia”, dice Andrea Crisanti, professore di Microbiologia a Padova.

Lei osserva che in Italia è mancato uno studio sulla durata della protezione, ma si dice che misurare gli anticorpi non basta.

Non basta, ma bisognava fare studi prospettici per capire come ci si reinfetta dopo la vaccinazione e quanti anticorpi venivano prodotti.

Altri Paesi li hanno fatti? Forse solo Israele.

Israele sì, ma ha avuto la fortuna di aver usato solo Pfizer. Noi abbiamo fatto una zuppa inglese: Pfizer, Moderna, AstraZeneca, Az più Pfizer, Az più Moderna, Johnson più Pfizer, Johnson più Moderna. E ora non si conosce il livello di protezione della popolazione.

Quelli erano i vaccini.

Questo non impediva di fare gli studi.

La vaccinazione con Pfizer dei bambini dai 5 agli 11 anni è in corso di valutazione all’Ema, alcuni Paesi hanno già detto no.

Sono convinto che non succederà nulla di grave, ma il trial non ha la potenza statistica per ricapitolare possibili effetti collaterali. Hanno vaccinato tremila bambini, se la frequenza delle complicazioni è uno su 10 mila il trial non lo dice. La cosa buona è che Israele ha cominciato e quindi tra poco avranno vaccinato tre-quattrocentomila bambini. Useremo i dati di Israele.

È sempre Israele il vero trial, un favore ai produttori dei vaccini?

No, a priori non si può sapere quanto dura un vaccino. L’errore che hanno fatto nel nostro Paese, pur sapendo da maggio-giugno che in Israele c’erano 10 mila casi al giorno nonostante le due dosi, è continuare a raccontare che eravamo protetti, i migliori del mondo. Dicevano che avremmo raggiunto l’immunità di gregge a settembre. Dov’è? Sono stato il primo a dire che non si sarebbe mai raggiunta.

Dovremo vaccinarsi una volta l’anno o di più?

Non lo sappiamo. Speriamo che la terza dose induca un’immunità più duratura.

Lei ha ricordato che in Gran Bretagna non ci sono restrizioni e l’equilibrio si è raggiunto con 40 mila casi al giorno. Dovremo convivere anche con un minimo di restrizioni?

Sì, altrimenti il virus galoppa. Secondo me qui un equilibrio si può raggiungere attorno ai 20-25 mila casi se si mantengono le mascherine, se si induce la popolazione a fare la terza dose prima possibile, se si mantiene qualche forma di distanziamento. Anche nelle manifestazioni dei no vax. Non ho nessuna simpatia per i no vax, ma non sono la fonte di tutti i mali. Non vorrei che questa caccia alle streghe fosse una foglia di fico per coprire l’errore di non dire subito che sarebbe servita la terza dose.

A noi il Green pass per lavorare non piace. Molti però si sono vaccinati perché c’è il Green pass. Lei lo manterrebbe?

È servito, ma dev’essere allineato alla protezione.

Lo porterebbe da 12 a 9 mesi?

Sì lo farei.

Ridurrebbe la possibilità di accedere al Green pass con i tamponi, per premere su chi non ha fatto neanche una dose?

Per me bisognerebbe passare dai tamponi antigenici a quelli molecolari.

Con il sistema attuale, restrizioni vere, cioè la zona arancione, ci saranno solo con il 20% delle terapie intensive e il 30% dei reparti d’area medica occupati.

Penso che quella soglia sia troppo alta.

Lega (con la ministra Stefani) e Iv votano contro il loro governo

“Facciamo questo stronzo al Quirinale e poi andiamo a votare”. La senatrice dem non si spinge a dire quale, perché tanto “non ce n’è uno che non sia tale”. Epperò, il suo pensiero è chiaro. E tutto sommato descrive abbastanza bene il clima che si respira in Senato. Il governo è appena andato sotto su due emendamenti al decreto legge Capienze, sui quali aveva espresso parere negativo: uno che prevede la capienza massima sui bus turistici presentato da FI e Lega (uno analogo del Pd è stato ritirato all’ultimo momento), l’altro di Italia Viva relativo ai limiti di età del personale impiegato per l’emergenza. Anzi, sarebbe il caso di dire che il governo ha votato contro se stesso. L’emendamento di Iv lo votano Matteo Salvini, ma soprattutto Erika Stefani, ministra per la disabilità leghista. La Stefani addirittura risulta in missione perché era in Consiglio dei ministri. Ma invece, si muove per andare a votare contro il proprio governo. Che non si sia trattato solo di un incidente o di segnali avvelenati, si vede dal merito dei provvedimenti. Quello sui bus interessava a leghisti e forzisti, quello sull’età dei dirigenti a Italia Viva: uno scambio di voti tra Carroccio e renziani.

Sull’emendamento sui trasporti, in Commissione mercoledì sera il governo si era rimesso all’Aula. Poi ha dato parere negativo. Con la Lega e Fdi vota pure mezzo gruppo di Italia Viva e mezza FI. Poi, è la volta di un emendamento presentato da Cucca (Iv) per innalzare a 68 anni l’età dei dirigenti di Asl a disposizione e quindi potenzialmente “arruolabili” a causa dell’emergenza sanitaria. In Commissione Affari costituzionali, la modifica aveva avuto un parere contrario, ma non motivato, del ministero della Pubblica amministrazione. La mancata motivazione pesa. A favore votano non solo FdI e Lega, ma di nuovo mezza Iv e mezza Forza Italia. E poi tre del gruppo Autonomie (tra cui la capogruppo Julia Unterberger) e nove del Misto.

“Mi era stato detto che ci sarebbe stato parere favorevole. Ma non mi stupisce che poi, considerando la molteplicità dei ministeri coinvolti, il parere sia cambiato”, spiega Cucca. E ancora: “Con l’approvazione non cambia assolutamente niente. Non c’è alcuna proroga per nessuno, dura sino a quando c’è l’emergenza”. Simona Malpezzi, capogruppo Pd, esce dall’Aula a chiedere se la Lega e Iv appoggino anche la maggioranza. Sull’emendamento Cucca si nota anche il voto favorevole del sottosegretario alla Salute, Perpaolo Sileri (M5S), che ci mette tutta la giornata a dire che si è trattato di un errore. Anche il Pd Antonio Misiani dice sì, ma subito fa sapere che è stata “una distrazione”.

I toni si alzano. “Mi sembra evidente che Renzi voglia provocare la seconda crisi di governo dell’anno”, accusa il ministro Stefano Patuanelli (M5S). “Ormai Italia Viva è uscita dal campo riformista per entrare in quello del centrodestra”. Gli risponde in serata Maria Elena Boschi che parla di “episodi singoli”. Gli attenzionati numero uno sono i senatori di Iv, ma la dinamica appare ben più ampia. Con Renzi che fa l’ariete di sfondamento, un’atmosfera di sfilacciamento generale, divergenze vere sul merito e i segnali incrociati mandati come “prove tecniche di avvicinamento al voto del presidente della Repubblica” (cit. Gaetano Quagliariello). Mercoledì sera, nel voto finale sul decreto Green pass, metà gruppo leghista non si presenta dopo che Salvini aveva lasciato libertà di coscienza. E votano contro Borghi e De Martini.

Nel frattempo, va avanti, parallela, la vicenda del relatore della manovra. Pd e Leu sono per indicare Vasco Errani. “Il problema – dice un senatore dem – è che la Castelloni è appena arrivata (la neo capogruppo M5S) e vuol far vedere che conta. Ma gli accordi sono altri”.

E aleggia pure la tensione sulla Rai. Il muro contro muro tra Giuseppe Conte e Palazzo Chigi getta più di un’incognita sul comportamento futuro del principale gruppo di maggioranza. Negli angoli di Palazzo Madama, poi, il Colle è un’ossessione. “Sì, dovremmo portare una donna. Sì, dobbiamo capire se abbiamo i voti”. Conversazioni che risuonano.

Il mondo è fuori

L’altroieri, mentre Conte denunciava la spartizione della Rai fra i perditori delle elezioni che per coerenza ha escluso i vincitori, lo stato maggiore pentastellato alle sue spalle esibiva una rassegna di facce da funerale, tipo quando ti muore il gatto. Le prefiche grilline dovrebbero vedersi la commedia A che servono questi quattrini di Eduardo De Filippo: “A un contadino cinese fuggì il cavallo. E tutti vennero a fargli le condoglianze. ‘E chi vi dice che sia una disgrazia?’, rispose il contadino. Infatti il cavallo tornò con altri sette. Tutti tornarono per congratularsi. ‘E chi vi dice che sia una fortuna?’, rispose il contadino. Infatti, cavalcando uno dei sette cavalli, il figlio cadde e si ruppe una gamba. Tutti tornarono a fare le condoglianze al contadino, che rispose: ‘E chi vi dice che sia una disgrazia?’. Infatti scoppiò la guerra e il figlio, grazie alla gamba rotta, fu riformato”. Ecco: chi l’ha detto che essere sbattuti fuori dalla Rai sia una disgrazia e non, invece, un’insperata fortuna?

Le intenzioni di Draghi le conosciamo: dare a Conte e a 11 milioni di elettori l’ennesimo schiaffo, che il premier può permettersi grazie al filo diretto con i governisti a oltranza Grillo e Di Maio. Un’operazione di regime, che taglia fuori da tg e gr il partito di maggioranza relativa dopo aver escluso dal Cda l’unico partito di opposizione (FdI). Ma è tutto nella logica della vecchia politica, di cui Draghi – a dispetto della sua finta estraneità al Palazzo – è maestro da quando portava i calzoni alla zuava: chi è fuori dalla Rai muore. Era così quando il servizio pubblico era servizio ed era pubblico. Oggi è una via di mezzo fra un postribolo, un ospizio, un manicomio e una barzelletta: più ne stai lontano, più vinci. Non a caso uno dei pochi programmi d’informazione rimasti credibili, Report, i politici deve inseguirli per inchiodarli alle loro responsabilità. La Lega delle origini (quella vera di Bossi) e il M5S sfondarono anche perché avevano tutta la Rai contro. Oggi le ospitate a Saxa Rubra servono alle salme tipo bin Rignan ad allontanare un altro po’ le esequie, non a chi vuole e può vincere fra la gente normale. Che ormai si ritrova in luoghi meno malfamati: i social e le piazze. Nei loro primi 9 anni i 5Stelle hanno imparato a fare opposizione: riprendano a farla, diano battaglia per il loro ddl di riforma (giacente da tre anni per mancanza di alleati), facciano le pulci a chi gestisce i soldi del canone, chiedano le carte degli appalti esterni, denuncino sprechi e marchette. E muovano il culo per tornare in piazza. Lì giocano in casa, anche grazie a un leader che, unico insieme alla Meloni, quando esce di casa viene ascoltato e applaudito (mentre quell’altro, se mette il naso fuori, lo menano). E chi vi dice che sia una disgrazia?

“La mia vita? Bella e operaia simile a ‘Ovosodo’ di Virzì”

Erio, uno bravo come lei, dove era fino a tre mesi fa?

Avevo realizzato qualcosa nel circuito indipendente, ma ero in fase di stasi, quasi in fondo a un percorso.

Viveva di musica?

Solo negli ultimi anni come insegnante di canto; in realtà finite le superiori sono entrato in una catena di montaggio.

Di cosa?

Serrature di automobili; (sorride) provengo da una famiglia con sei fratelli, sapevo già che non avrei proseguito gli studi; all’epoca non avevo neanche un computer, eravamo un nucleo ridotto all’osso in quanto a beni e proprietà.

Quindi…

Ho iniziato a lavorare per comperarmi le prime cosine e aiutare in casa.

Dopo la catena?

Call center, poi barista e lavapiatti a Londra. E infine commesso.

(Erio è una delle sorprese o “la” sorpresa di X-Factor 15: ai provini, dopo le prime due note, anche senza il volume del televisore bastava guardare l’espressione stupita o estasiata dei quattro giudici per capire che qualcosa era successo. Lui è etereo, con voce femminile e una delicatezza che non si traduce con fragilità).

La sua famiglia.

Mio padre da buon livornese lavorava al porto, mentre mamma era casalinga: siamo veramente iper proletari.

La sua indole artistica è stata incentivata?

Sì, però torno al punto di prima: il messaggio implicito dentro casa era “a un certo punto tocca a voi”; ma non siamo una famiglia speciale, in una certa Livorno, quella proletaria, era un concetto comune e forse persiste ancora oggi.

Sembra Ovosodo di Virzì.

Esatto; (pausa) può sembrare strano, ma per me va rivalutata un’idea: non c’è nulla di male se non si diventa ricchi e famosi.

Perché può sembrare strano?

Per il contesto dove mi trovo ora, eppure uno non deve perdere di vista una certezza: la maggior parte di noi, tra poche settimane, tornerà nel grembo delle proprie esistenze.

Quando ha capito la sua indole artistica?

In casa l’arte è sempre stata il passatempo di tutti: mio padre suonava, mamma disegnava; uno può tranquillamente essere uno scaricatore di porto e coltivare dentro di sé certe passioni; (pausa) questa mia vena l’ho nascosta a lungo.

Come mai?

Cantare mi imbarazzava e tuttora ho la sensazione di camminare su una fune: puoi sempre sbagliare.

“Quando canto mi sento donna”, ha spiegato.

La mia voce è quasi totalmente femminea, poi recentemente ho fatto una visita foniatrica che ha confermato una conformazione congenita con in più delle cicatrici in gola che emettono questo tono stridulo.

“Sono arrivato adesso perché prima non ero pronto” sempre parole sue.

È qualcosa che ho capito a posteriori: non riuscivo a immaginarmi nel programma, non immaginavo che un personaggio come me potesse venir rappresentato in maniera fedele. E invece sono stati rispettosi.

Da ragazzo è stato preso in giro?

Un po’, ma brevemente: ho la lingua lunga, reagisco e di solito zittisco. Non mi faccio mancare di rispetto, anzi, qualche volta dovrei imparare a tacere.

Schiaffoni?

Ci ho provato ma picchio come uno si aspetterebbe da me (e mima il gesto delle braccia spezzate); le prese in giro sono state proprio poche, nonostante il mio essere effeminato e il ruolo da secchione.

Con quanto si è diplomato?

100 all’Artistico. Mi hanno anche chiamato a Roma per una medaglia assegnata dal capo dello Stato, ma non l’ho mai ritirata: all’epoca ero anarchico e non me ne fregava nulla. Dei soldi sarebbero stati più utili.

Avrebbe voluto continuare con l’università?

Ci ho pensato, però è il mio percorso, va bene, e avevo bisogno di capire da subito come era il mondo della musica; (sorride) ai ragazzi che sono qui a X-Factor raccomando sempre di studiare altrimenti “finite a fare i lavoracci”.

Tra dieci anni dove sarà Erio?

Sarebbe bello vivere in una campagna sperduta, magari in compagnia, magari in mezzo agli animali che pascolano.

Non sul palco?

Sì, ma i concerti saranno una frazione minima della vita, un picco di emozioni: l’esistenza deve restare altro; (silenzio) vorrei essere più ricordato come una persona gentile che come un gran cantante.

Chi è lei?

Uno come tutti gli altri.

21-22 settembre 1979, quando al Madison di New York il Boss prese lo scettro del rock

Scese in campo alla vigilia dei trent’anni. La complessità del mondo esigeva nuove consapevolezze, e Bruce decise di accettarle. Il 28 marzo di quel 1979, in Pennsylvania, si era verificato il più grave disastro nucleare della storia americana: da un reattore era fuoriuscito materiale radioattivo, con conseguenze funeste. Ben prima di Chernobyl, era l’Occidente a fare i conti con l’inaffidabilità dell’atomo. L’establishment liberal Usa mobilitò i notabili dello spettacolo per un movimento protoambientalista, un’onda green che si generò tra la West Coast e Manhattan. Gli attivisti Vip, tra i quali Jackson Browne, James Taylor e Graham Nash, organizzarono cinque benefit al Madison. Pur di essere certi del sold-out, convocarono Springsteen per un doppio slot, il 21 e 22 settembre. Il 23 il Nostro avrebbe festeggiato il compleanno cruciale in cui simbolicamente ripieghi l’ala della giovinezza e ti chiedi cosa vuoi fare nella vita. Ok, lui lo sapeva già. Il rock lo aveva folgorato da bambino, quando aveva visto Elvis in tv: Bruce non sarebbe diventato avvocato, come sperava papà. E il tour del ‘78 aveva confermato la sua potenza di fuoco con la E Street Band. La scintilla per l’impegno scaturì proprio con quegli show, oggi diventati un film e un album live, The Legendary 1979 No Nukes Concerts: solo pochi estratti, finora, erano stati inseriti nel triplo LP collettivo dell’epoca. A rilavorare sul materiale è stato il fedele produttore Thom Zimny, che ha restaurato quel poderoso sound e le immagini, girate prevalentemente da sotto palco, in modo “sporco”, con l’obiettivo costretto a inseguire il protagonista in tutte le sue mattane. Springsteen non si lancia in sermoni, qui, ma spalleggiato dai suoi (in primis il compianto gigante del sax Clarence Clemons) officia un vertiginoso rituale r’n’r in cui, dai capolavori autografi (su tutti, una struggente Thunder Road) fino ai torrenziali omaggi nei bis ai padri fondatori Little Richard, Gary US Bonds, Mitch Ryder o Buddy Holly, si autoconsacra come portatore della fiaccola. Per dargli man forte, sul classico degli Zodiacs Stay, spuntano Browne, Tom Petty e Rosemary Butler. Ma il climax è la premiere dal vivo di The River, la ballata che darà il titolo al doppio Lp su cui Springsteen stava lavorando. È il racconto di una disillusione matrimoniale: quella di sua sorella Virginia, sposatasi giovanissima. Ginny quella sera era in platea, e ci restò secca ascoltando la propria vita trasfigurata in modo tanto sublime da quello scavezzacollo del fratello. Che il giorno dopo avrebbe spento le candeline e sarebbe cresciuto un po’, ma senza arrendersi mai.

Cento e più sbronze d’autore

In letteratura, la sobrietà è sospetta: le più raffinate penne della storia sono spesso “alla vodka”, tra scrittori diversamente sbronzi, alcolisti cronici e autrici alticce. “Prima tu prendi un drink, poi il drink ne prende un altro e infine il drink prende te”: Francis Scott Fitzgerald ha più di un problema con l’etanolo, ma almeno è onesto. Ama sorseggiare gin tutto il giorno, mentre la moglie Zelda si fa di Vodka Lemon. E per riprendersi dai postumi della sbornia, lui si trinca tre whisky forti; lei si fa una nuotata. E ricomincia con la Vodka Lemon.

La coppia è una dei sei – e più – personaggi in cerca di alcol della inebriante antologia Bere come un vero scrittore: cento ricette per ricreare i drink che hanno ispirato i giganti della letteratura, in libreria da oggi con il Saggiatore. Poeti e romanzieri amano soprattutto i beveroni dai nomi bizzarri: il Manhattan, che invero è nato a San Francisco; il Gin Twist; lo Sherry Cobbler; il While Rome Burns; l’Hot Toddy, ma alla francese, come chiede Gustave Flaubert; il Cocktail di Tarzan e il Cock-Tail al whisky di Mark Twain, il primo a bere drink “così come li conosciamo oggi”. Se ne prepara tre al giorno, anche – dice lui – per dare vigore alla vita amorosa: uno prima di colazione, uno prima di cena e uno prima di coricarsi.

William Shakespeare va pazzo per il Metheglin, una specie di vino di miele fermentato e invecchiato per anni, a cui attribuisce proprietà medicamentose. Anche il suo collega William Butler Yeats dedica in versi una Canzone al vino: “Sollevo il bicchiere alle labbra,/ ti guardo e sospiro”. Gli autori di prosa sono più prosaici e banali: Irish coffee pesante per James Joyce e un Gimlet a Philip Marlowe e al suo creatore Raymond Chandler, in barba al Vesper Martini dei rivali James Bond e Ian Fleming. Sul classico si buttano poi J. D. Salinger (Scotch e Soda), Jack Kerouac (Margarita) ed Elizabeth Bishop (Caipirinha).

William Seabrook, dopo l’esperienza in manicomio, crea l’Asylum cocktail, mentre Edgar Allan Poe predilige gli intrugli proteici all’uovo (Eggnog), Gertrude Stein si butta sulle vitamine (Macedonia allo champagne) e Somerset Maugham ama gli aromi e sorseggia Zubrówka, una vodka polacca con erba di bisonte. Tra i bevitori più celebri ci sono Ernest Hemingway – “Il Mojito alla Bodeguita e il Daiquiri doppio al Floridita”, all’Avana – e Charles Bukowski, che va di bourbon e birra. Tra i drink, il più gettonato è il Death in the Afternoon (morte nel pomeriggio, ndr), a base di assenzio e champagne. Il momento giusto per degustarlo è “l’ora verde”, intorno a las cinco de la tarde, minutaggio malinconico per eccellenza. “Che differenza c’è tra un bicchiere di assenzio e un tramonto?”, si chiede retoricamente Oscar Wilde, e non è l’unico a smaniare per la “fata verde”, alias assenzio: suoi devoti sono pure Alfred Jarry, Charles Baudelaire, che l’accompagna a laudano e oppio, e Arthur Rimbaud, che intanto ci fuma sopra l’hashish.

Molti artisti si servono di sostanze stupefacenti diluite in fondo al bicchiere: Dante Gabriel Rossetti si fa di cloralio e whisky, nel libro riproposto in versione light e legale con un estratto di cannabis non psicoattivo. Lo Stinger, a base di brandy e menta, è per Evelyn Waugh, che lo allunga col bromuro; nell’Horse’s Neck, Noël Coward mischia ginger e tre aspirine; Jacqueline Susann prende due bambole rosse (psicofarmaci) e un sorso di scotch; il “drinkettino” di Tennessee Williams prevede brandy e barbiturici; Hunter S. Thompson beve di tutto, tra una sniffata di cocaina e l’altra.

Le donne non si negano nulla: un Negus per Jane Austen; un Punch al latte per Virginia Woolf; almeno tre Vodka Martini per Sylvia Plath e Anne Sexton; vodka e whisky con succo all’albicocca per Simone de Beauvoir; champagne e Guinness per Donna Tartt; Gin Tonic per J. K. Rowling; un Whisky Sour per Dorothy Parker, “ma non più di due. Tre e sono sotto il tavolo. Quattro e sono sotto il padrone di casa”.

Sorvolando sui pochi astemi e/o bevitori morigerati – Percy Bysshe Shelley, George Orwell, Flannery O’Connor, Agatha Christie –, il ricettario si chiude con l’infallibile rimedio di Samuel Taylor Coleridge per riprendersi dalla sbronza: sei uova fritte e un bicchiere di laudano. Ci vuole fegato per diventare scrittori. E rimanerci, e rimanere in vita.

Leggi razziali. Questo è Stato

Si avverte, qua e là, un antisemitismo serpeggiante, che nasce dai nuovi rigurgiti del fascismo, di cui l’oltraggio abbietto a Liliana Segre è l’ultima manifestazione. Sarà bene, pertanto, ricordare ai distratti e agli ignoranti la tragedia delle leggi razziali di Mussolini, che restano la pagina più vergognosa della nostra storia.

Il più malvagio, infame, inconcepibile cambiamento di idee del Duce, causa di una tragedia collettiva che coinvolse migliaia di innocenti cittadini italiani con le loro famiglie, fu quello riguardante gli ebrei, cioè la “razza ebraica”, come i fascisti definivano dispregiativamente coloro che professavano la religione di Abramo e Mosè. Il cambiamento avvenne dal 1932 al 1938, e diede il via, con le leggi razziali, alle discriminazioni e alle persecuzioni contro i pericolosi “diversi” costretti a emigrare o a essere relegati nei ghetti.

 

Emil Ludwig: Colloqui con Mussolini marzo-aprile 1932

Mussolini: “Naturalmente non esiste più una razza pura, nemmeno quella ebrea… Razza: questo è un sentimento, non una realtà: il 95% è sentimento. Non crederò mai che si possa provare biologicamente che una razza sia più o meno pura… Una cosa simile da noi non succederà mai. L’orgoglio nazionale non ha affatto bisogno dei deliri di razza… L’antisemitismo non esiste in Italia. Gli ebrei si sono sempre comportati bene e, come soldati, si sono battuti coraggiosamente. Occupano posti eminenti nelle università, nell’esercito, nelle banche. Numerosi sono i generali: comandante della Sardegna è il generale Modena, un altro generale è a capo dell’Artiglieria… Lei mi chiede come si spiega l’antisemitismo in Germania. Sempre, quando per i tedeschi va male, devono esserne colpevoli. Ora, per loro, va particolarmente male”.

 

Mussolini: Discorso di Trieste del 18 settembre 1938

“Nei riguardi della politica interna, il problema di scottante attualità è quello razziale che è in relazione con la conquista dell’Impero, poiché la storia ci insegna che gli imperi si conquistano con le armi ma si tengono con il prestigio, per cui occorre una chiara, severa coscienza razziale, che stabilisca non soltanto delle differenze ma delle superiorità nettissime. Il problema ebraico è dunque un aspetto di questo fenomeno. La nostra posizione è stata determinata da questa incontestabilità dei fatti. L’ebraismo mondiale è stato, durante sedici anni, malgrado la nostra politica, un nemico irreconciliabile del Fascismo… gli ebrei di cittadinanza italiana, i quali abbiano indiscutibilmente meriti militari e civili nei confronti dell’Italia e del Regime, troveranno comprensione e giustizia (?!). In quanto agli altri, seguirà una politica di separazione per la quale il mondo dovrà forse stupirsi più della nostra generosità (!?) che del nostro rigore”.

Circa le motivazioni della svolta antisemita di Mussolini “essa era la più evidente espressione della passiva imitazione della Germania nazista che il regime perseguiva ormai in parecchi campi” (Giampiero Carocci). “In seguito Mussolini tentò di discolparsi accusando i tedeschi di avere esercitato pressioni su di lui per spingerlo ad adottare una politica razziale. Ma si trattava di un’affermazione difficile da corroborare con qualsiasi elemento di prova. La verità è piuttosto che si trattò di una spontanea decisione di mostrare in tal modo la sua solidarietà con il nazismo” (Denis Mack Smith).

 

Le leggi razziali

Negli anni Trenta gli ebrei italiani, molti dei quali avevano combattuto valorosamente nella Grande guerra sull’Isonzo e sul Carso, erano circa 45.000, i cui nuclei più consistenti si trovavano a Roma (11.000 persone), Milano, Trieste, Torino. Contro queste comunità, incondizionatamente obbedienti alle leggi e al governo, perfettamente integrate nelle strutture sociali, economiche e culturali del Paese, si abbatté la furia del fascismo antisemita sull’onda delle leggi razziali volute da Mussolini e avallate colpevolmente dal re Vittorio Emanuele III nonostante esse costituissero un’aperta violazione dello Statuto Albertino che all’art. 24 assicurava l’uguaglianza di tutti i cittadini dinanzi alla legge. “L’annuncio di Mussolini a Trieste non coglieva di sorpresa gli ebrei che avevano visto scatenarsi la tempesta già da alcune settimane e che erano bombardati da almeno un anno da una crescente propaganda antisemita. Poco prima era apparso il Manifesto della razza firmato da un gruppo di scienziati e ispirato direttamente da Mussolini in cui si teorizzava, con non poca confusione, l’appartenenza degli italiani a una pura razza italiana cui gli ebrei non appartenevano” (Anna Foa). Il Manifesto della razza era stato pubblicato il 5 agosto 1938 sul giornale La Difesa della Razza di Telesio Interlandi, noto per le sue posizioni estremiste nell’ambito della dottrina e della prassi del fascismo, nonché acceso antisemita, sempre vicino a Mussolini di cui spesso era l’ispiratore. Il documento, firmato da un gruppo di oscuri scienziati e intellettuali, poneva in 10 punti il fondamento scientifico-ideologico del “razzismo italiano”, esaltava la razza italica di origine ariana e dai tratti europei, rimasta incontaminata per almeno un millennio, e auspicava urgenti misure contro gli ebrei, dichiarati biologicamente non appartenenti alla razza italiana. Nel silenzio degli altri scienziati italiani non compromessi con il fascismo presero il via le leggi razziali in base alla “Dichiarazione sulla razza” approvata dal Gran Consiglio del fascismo nelle sedute del 6-7 ottobre 1938 che fondava le motivazioni della lotta antisemita sull’accusa all’ebraismo mondiale di essere l’animatore dell’antifascismo in Italia e in Europa. I principali atti normativi di discriminazione furono i seguenti: R.d.l. 7 settembre 1938 n. 138 sulla espulsione degli ebrei stranieri; R.d.l. 5 settembre 1938 n. 1390 recante “Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista” che escludeva gli ebrei dall’insegnamento e dall’iscrizione nelle scuole di ogni ordine e grado, comprese le università. R.d.l. 23 settembre 1938 n. 1630 sulla istituzione di scuole elementari per fanciulli di razza ebraica; R.d.l. 17 novembre 1938 n. 1728 recante “Provvedimenti per la difesa della razza italiana”. Seguivano il divieto del matrimonio con persona di altra razza; l’esclusione dal servizio militare in pace e in guerra; l’esclusione dalla proprietà o dalla direzione di aziende di interesse nazionale e di aziende con cento o più dipendenti, dalla proprietà di terreni con un estimo superiore a lire 5.000 e di fabbricati urbani con un imponibile superiore a lire 20.000; il divieto di assumere in qualità di domestici cittadini italiani di razza ariana; l’esclusione dal lavoro presso tutte le Amministrazioni pubbliche, le banche e le imprese di assicurazione. Altre norme imposero agli ebrei il divieto di svolgere l’attività di notaio, di giornalista nonché qualsiasi altra professione intellettuale.

Da ricordare, infine, che alcuni eminenti scienziati ebrei, tra cui Emilio Segrè, Bruno Pontecorvo, Franco Modigliani emigrarono negli Stati Uniti e in Gran Bretagna. Lasciarono l’Italia anche il premio Nobel Enrico Fermi, la cui moglie era ebrea, e Margherita Sarfatti, l’ex amante del Duce. Quelli rimasti in Italia come Leone Ginzburg, Tullio Ascarelli, Rodolfo Mondolfo e Gino Luzzatto dovettero abbandonare le loro prestigiose cattedre.