Ignoranti, benaltristi e X Mas: la carica degli “Sfascistoni”

Sfascistoni è anzitutto “un manuale antifascista”. Una scelta di campo, una rivendicazione dei valori antifascisti su cui si fonda la nostra splendida e ferita Repubblica. Una dichiarazione d’appartenenza e, al tempo stesso, un esercizio della memoria. Anzitutto quella storica, che in Italia – quando va bene – dura come quella dei pesciolini rossi: quelli morti, però. L’idea di Sfascistoni è nata in estate con quei “banditi” di Marco Lillo e Alessandro Zardetto, colonne portanti della Paper First. Avvertivo, e avvertivamo, l’urgenza di una fotografia nitida e impietosa della destra attuale. Non solo Salvini, sempre più politicamente postumo di se stesso, ma anche – soprattutto? – Meloni, Fratelli d’Italia e destra (ancor più) estrema. In tutta onestà non credevamo che questo libro si sarebbe di lì a poco rivelato così dannatamente attuale. L’inchiesta meritoria di Fanpage, che ovviamente nel libro c’è, è arrivata mentre ultimavo Sfascistoni. Come pure l’assalto criminale della Cgil di Roma. Il rischio di un ritorno del fascismo è concreto. Non alludo certo al fascismo con fez e camicia nera, anche se dentro il libro incontrerete non pochi nostalgici che immaginano come aperitivo per gli avversari politici null’altro che olio di ricino on the rocks. Penso a qualcosa di più subdolo: lo sdoganamento della violenza, la sospensione della condanna del fascismo e l’equiparazione acritica tra “destra” e “sinistra”, volta non certo a cercare giustizia storica quanto a elemosinare un’assoluzione posticcia dell’estrema destra. Viviamo nel regno dell’ignoranza e del benaltrismo, come ben sa chi vive (pure troppo come me) anche sui social. Molti parlano di fascismo senza saperne nulla e, se gli ricordi anche solo due o tre porcate commesse dal pelato criminale che scappò con l’amante travestito da tedesco e fingendosi pure ubriaco per fuggire ai partigiani, cominciano a balbettare slogan vuoti tipo: “E allora i comunisti?”. Appunto: ignoranza e benaltrismo. L’asticella della memoria storica si abbassa (ulteriormente!) e con lei quelle della coscienza civile e del livello minimo di indignazione. Tutto ciò che fino a ieri pareva inaccettabile diviene di colpo tollerabile: un saluto romano, un insulto razzista, una rivalutazione postuma di un macellaio della Decima Mas. Sono tempi cupi, e chi dice che “la destra estrema ha solo lo zero virgola tre”, derubricandola con ciò a fenomeno marginale, lo fa ben sapendo che quella percentuale è così bassa perché larga parte dell’elettorato di estrema destra vota Lega e Fratelli d’Italia. Non sto dicendo, né mai dirò, che Salvini e Meloni siano fascisti: non lo sono. Dico e scrivo (anche nel libro) una cosa diversa: che entrambi si guardano bene dal recidere sino in fondo il cordone ombelicale col fascismo, perché l’ambiguità fa loro gioco. E porta loro consenso. Oltretutto, e questo vale soprattutto per la Meloni, se Donna Giorgia si mettesse sul serio (e non ogni tanto o solo quando costretta) ad allontanare tutti i nostalgici del vigliacco pelato, rischierebbe di restare sola o quasi. Non tutti gli elettori di Lega e FdI sono fascisti: proprio no. Ma tutti i fascisti, se votano, scelgono nove volte su dieci Lega o FdI. E questo aspetto, che nel libro credo di documentare sin troppo esplicitamente, qualcosa vorrà pur dire. Sfascistoni è un libro che piacerà ai tanti tra voi che hanno amato Renzusconi, Il cazzaro verde e I cazzari del virus. La componente satirica c’è sempre, perché io so scrivere (se so scrivere) solo così. Detesto annoiare e rubare tempo a me stesso, figuriamoci a voi lettori e spettatori. Al tempo stesso, e la bella copertina di Lorenzo Sansonetti lo mostra con efficacia, Sfascistoni è un libro più arrabbiato degli altri. La dico meglio: Sfascistoni è più incazzato dei suoi predecessori, perché lo sono anch’io. Vi leggo e vi ascolto: siete arrabbiati e impauriti, smarriti e senza punti di riferimento. Vi somiglio anche in questo, come vi somiglia Il Fatto. Sfascistoni è dunque un j’accuse: un gridare “basta” ai troppi figuri equivoci che albergano in queste nuove pagine. Capisco che, come insegnava Gaber, “la politica è schifosa e fa male alla pelle”, ma non c’è bisogno ogni volta di dimostrarlo così bene! Nella parte finale del libro arriva però la metaforica “chiamata alle armi”: un invito a resistere e fare squadra, con tanto di “decalogo per il buon antifascista”. Ed è qui che Sfascistoni diviene pienamente “manuale di resistenza a tutte le destre”. Un libro che vi farà sentire – spero! – un po’ meno soli. Regalatelo a chi la pensa come voi, ma regalate pure una copia a chi vota Salvini e Meloni: magari cambierà idea. Esibitelo sul comodino e sui social, come orgogliosa carta d’identità antifascista. Del resto, come insegnava Sandro Pertini (che non a caso apre il libro): “Il fascismo non è un’opinione. È un crimine”. Guai a dimenticarlo. Buona lettura. E sempre grazie di tutto.

Scagionati 55 anni dopo due uomini incarcerati per l’uccisione di Malcolm X

Due condannati per l’assassinio di Malcolm X nel febbraio del 1965 saranno scagionati dopo 55 anni. La decisione dopo 22 mesi di indagini su chi furono i reali esecutori della morte del leader dei diritti civili. L’assoluzione di Muhammad Aziz e Khalil Islam, membri della Nazione dell’Islam come Malcolm X, è l’ammissione di gravi errori passati.

Assalto a Capitol Hill, 41 mesi di carcere allo “sciamano”

Con il copricapo dalle corna aguzze e a petto nudo Jacob Chansley, noto come “lo sciamano di QAnon” aveva dato l’assalto a Capitol Hill dopo il comizio di Donald Trump che accusava Biden di essere diventato presidente truccando le elezioni. Ieri è arrivata la condanna a 41 mesi di carcere. Tra i volti più noti dell’assalto al Congresso Usa, Jake Chansley, 34 anni, era appunto vestito da sciamano, con una lancia e il volto dipinto con i colori della bandiera degli Usa. Lo “sciamano” era detenuto senza cauzione da gennaio, quando era stato arrestato, e a settembre si era dichiarato colpevole di ostruzione a procedure del Congresso. Ai tre anni e cinque mesi di prigione della condanna verranno sottratti i mesi già trascorsi in detenzione. Subito dopo l’arresto Chansley chiese la grazia a Trump convinto di aver risposto “legalmente” alla sua chiamata.

Piñera in sella, ma con i giorni contati

L’opposizione cilena non è riuscita a far approvare l’acusación constitucional, ovvero l’impeachment nei confronti del presidente della Repubblica, Sebastián Piñera, uno degli uomini più ricchi e controversi del Paese il cui successore verrà deciso nelle elezioni di domenica. Le consultazioni presidenziali così a ridosso hanno probabilmente indotto la maggior parte dei senatori a evitare lo scenario di una rimozione dall’incarico del presidente conservatore. Prima del voto contrario del Senato, la mozione era passata di misura alla Camera la settimana scorsa. Non ci si aspettava un voto pro-rimozione dato che l’opposizione, costituita dal blocco di sinistra, non ha la maggioranza. Il mandato di Piñera, autore della violenta repressione di due anni fa contro i manifestanti che protestavano per l’aumento dei prezzi dei beni primari e trasporti pubblici, resterà quindi presidente fino a conclusione del mandato l’11 marzo del 2022. La sinistra parlamentare aveva presentato la richiesta di mandarlo a casa a metà ottobre, a seguito di alcune rivelazioni contenute nell’inchiesta nota come Pandora Papers, relative a irregolarità nella vendita di una società mineraria che apparteneva alla famiglia di Piñera. Grazie alla propria posizione, il presidente sarebbe riuscito a far alzare il prezzo della società mineraria, intestata al figlio, “fino a 150 milioni di dollari”. Intanto i sondaggi vedono crescere i consensi per il candidato dell’estrema destra, José Antonio Kast. Come reazione alla perdita di consensi per il portabandiera del partito al governo, Sebastián Sichel, anch’egli candidato, i conservatori cileni hanno lanciato un blitz mediatico per promuovere Kast, un reazionario dello stampo di Donald Trump e Jair Bolsonaro. Kast è un veterano della politica e sebbene in precedenza si fosse candidato con il partito dell’Unione Democratica Indipendente – fondato dall’ideologo di Augusto Pinochet, Jaime Guzmán – si era presentato come indipendente alle elezioni del 2017. Da allora ha tentato di reinventarsi con un nuovo partito, ma la sua politica rimane la stessa: una difesa incondizionata di quello che in Cile è noto come lo “Stato sussidiario”, un modello ereditato da Pinochet in cui il governo può fornire solo servizi non disponibili nel settore privato e una retorica populista usata per alimentare l’indignazione per la nazione che cade nelle mani di “criminali e immigrati”. Secondo i sondaggi, Kast è ormai testa a testa con Gabriel Boric del partito Apruebo Dignidad, lo sfidante di centrosinistra che è stato il grande favorito fino a poche settimane fa quando nuove tensioni sociali, come le proteste dei mapuche in Araucania, l’emergenza migranti nel nord e la recrudescenza della pandemia hanno fatto abbassare le sue quotazioni.

Parlamentari-lobbisti: BoJo sceglie l’ambiguità

Boris Johnson traballa? Di certo trema sotto la valanga scatenata da un caso di malcostume targato Tory, l’ennesimo. Seguito da un grave errore politico dei vertici del partito e da due settimane di fuoco incrociato di opposizione, opinione pubblica e testate mainstream. Antefatto: due settimane fa esplode la notizia che il deputato conservatore Owen Paterson si è fatto pagare da due società private, Randox e Lynn’s Country Food, per fare pressioni a loro favore in Parlamento. Una forma di lobbismo vietata dal codice parlamentare, che consente ai deputati di svolgere secondi lavori purché non in conflitto di interessi con l’attività parlamentare. Quando il comitato di vigilanza della House of Commons lo scopre ne decide la sospensione per 30 giorni. Alti esponenti del partito, fra cui il potente capogruppo Mark Spencer e Jakob Rees Mogg, si mobilitano per difenderlo a mezzo stampa e per impedire che il Parlamento approvi la sanzione: ottengono il sostegno anche di un Boris Johnson forse distratto dal G20 di Roma e dall’inizio della Cop26 a Glasgow. Vanno oltre: propongono una riforma radicale del Comitato di Vigilanza, che finirebbe con l’avere una presidenza Tory e non vigilare più su nulla. Contano sulla robusta maggioranza conservatrice.

Ma sbagliano i conti, perché il comportamento di Peterson indigna anche molti compagni di partito, soprattutto quelli entrati da poco in Parlamento ed eletti nelle ex roccaforti laburiste. Il Labour ci va a nozze: dichiara che boicotterà un Comitato fantoccio, e la reazione parlamentare costringe i vertici a una imbarazzante ritirata e Paterson alle dimissioni. Questo scandalo fa più presa dei mille precedenti, ed è da 17 giorni che il governo è sotto pressione pubblica accusato di malcostume, o più direttamente, di corruzione. Perché lo scandalo si allarga a tutti i deputati che fanno un secondo lavoro, oltre a quello da 82mila sterline più spese del parlamentare. Sono circa 200, con introiti, dichiarati, dalle 50 sterline al milione: 30 i ‘consulenti politici’. Avere un secondo impiego non è illegittimo, purché non ci sia conflitto di interessi, come nel caso di Peterson. O di Geoffrey Cox, l’ex avvocato generale dello Stato che l’anno scorso ha guadagnato circa 700 mila sterline in consulenze legali. Ieri il punto di rottura: il Labour ha presentato una mozione di riforma del codice di condotta parlamentare: deputati banditi dal prestare consulenze politiche. Il leader Starmer vorrebbe spingersi oltre e impedire ai colleghi di svolgere, durante l’impegno parlamentare, qualsiasi impiego che non sia di servizio pubblico. Esentati quindi medici e paramedici, militari e poliziotti, ma non gli avvocati come lui stesso o Cox: una posizione che trova grande consenso pubblico. Vista la malaparata, Johnson, ammettendo di aver sbagliato tutto nel caso Peterson, ha messo il cappello sulla proposta laburista con un emendamento che consente l’attività extra parlamentare, purché non in conflitto di interessi, entro ‘limiti ragionevoli’ e senza fissare una data per l’approvazione definitiva del testo. Formula ambigua che cerca di tenere insieme un partito che gli sta esplodendo in mano: da una parte i conservatori sinceramente scandalizzati o danneggiati dall’immoralità di certi scandali; dall’altra quelli che ai doppi incarichi non intendono rinunciare. L’emendamento del Labour è stato bocciato, quello del governo approvato. BoJo ha impedito la rivolta dei suoi, ma ha perso la faccia. Già durante il question time ieri i banchi conservatori erano semivuoti. Il premier si dovuto confrontare con i suoi parlamentari: secondo alcuni sarebbe apparso “debole, la sua autorità evaporata”. E il consenso per il partito di governo è in picchiata anche nel Paese, con l’ultimo sondaggio YouGov, l’11 novembre, che dava Tories e Labour entrambi al 35%. I conservatori dominavano dal gennaio scorso.

Due “spie” per caso fanno litigare. Erdogan con lo Stato ebraico

Erano una coppia di anonimi quarantenni, Natalie Oknin, 44 anni, e il marito Mordi. Fino a qualche giorno fa. Poi sono stati arrestati a Istanbul. Sembrava che entro poche ore sarebbero stati rispediti in Israele dalla Turchia senza tanti complimenti e che la storia della foto scattata al palazzo di Erdogan sarebbe finita nel nulla. In un’esperienza poco simpatica o poco più. Per la coppia, entrambi autisti di autobus, quella avrebbe dovuto essere una romantica vacanza in uno dei Paesi più amati dagli israeliani. Martedì la gita durante la quale avrebbero festeggiato il compleanno di Natalie, è diventata un incubo: sono stati arrestati per un selfie da loro scattato in cui si vede chiaramente nello sfondo il palazzo di Erdogan. Ora si trovano in due prigioni diverse, “quella di Natalie un po’ migliore di quella di Mordi”, ha dichiarato il loro avvocato che è arrivato ad Ankara per poterli rappresentare e visitarli in prigione. Natalie ha chiesto dei figli e di portarle un libro in ebraico.

Diverse le versioni sul loro arresto: per i turchi sarebbero stati denunciati da un dipendente del ristorante all’interno della torre radiotelevisiva di Istanbul da cui avevano scattato la foto; secondo i media israeliani sarebbero stati fermati mentre scattavano le foto navigando in un traghetto sul Bosforo. I due sono stati accusati di “spionaggio politico e militare” e sono in attesa di processo in un tribunale di Istanbul. Insomma, per Ankara sarebbero delle spie del Mossad. Circa un mese prima, il 7 ottobre scorso, dopo quasi un anno di indagini e pedinamenti il servizio d’intelligence turco Mit aveva fatto arrestare 15 cittadini con l’accusa di spionaggio a favore dei servizi israeliani del Mossad. In un’intervista al quotidiano turco Sabah, noto come vicino al presidente Erdogan, una delle presunte spie aveva dichiarato che era stato contattato e pagato per fornire informazioni sugli studenti palestinesi nelle università turche. E l’arresto degli Oknin?

Nei media israeliani, assolutamente convinti che i due non abbiano la stoffa delle spie, si tende a credere che i due siano parte di un gioco molto più grande di loro. E per dimostrare chi sono gli sfortunati Mordi e Natalie, sono apparse le foto scattate mesi fa e stampate sul retro e il lato degli autobus Egged per una pubblicità della ditta. Sono belli. Sorridenti. “Sarebbe un insulto al Mossad, se fossero veramente delle spie” dice un amico. “Sono persone semplici – dicono i parenti in Israele, la figlia, uno zio – le persone più normali del mondo. Il famoso selfie lo hanno spedito ad amici e parenti, lo hanno pubblicato su Facebook, non è certo un comportamento da spia. E al ristorante non compare nessun divieto di scattare fotografie”.

Dietro l’episodio e dietro gli sguardi sorridenti e ignari del malaugurato selfie si nascondono i difficili rapporti tra Turchia e Israele, deteriorati dal 2010 quando una nave turca, la Mavi Marmara, fu obiettivo di un blitz avvenuto a circa 75 miglia dalle coste israeliane, mentre l’imbarcazione cercava di violare il blocco a Gaza. Nell’attacco morirono dieci tra i partecipanti alla protesta. L’ambasciatore israeliano venne convocato dal ministro degli Esteri turco per denunciare un attacco “inaccettabile”, dalle “conseguenze irreparabili” e per annunciargli una “perentoria reazione”. Il governo di Ankara ruppe le relazioni con Israele e richiamò in patria il suo ambasciatore, mentre Israele accusava le ong a bordo della Marmara, di aver avuto “altri fini”, diversi da quelli umanitari. Ci furono in seguito lunghe trattative tra i due Paesi che culminarono nel 2016, con la riconciliazione. Israele pagò 20 milioni di dollari alle famiglie dei dieci attivisti turchi morti nel raid. In cambio, Netanyahu chiese che la Turchia lasciasse cadere tutte le accuse sollevate in sede giudiziaria, nazionale e internazionale, contro i membri del commando e le autorità militari israeliane. Ma la riconciliazione non durò a lungo. È il 2018 quando il presidente Trump decide di riconoscere Gerusalemme come Capitale di Israele, ed Erdogan, auto elettosi a paladino dei palestinesi, rompe di nuovo le relazioni. E siamo arrivati a oggi. Ora del destino della sfortunata coppia se ne sta occupando dietro le quinte anche il presidente Itzhak Herzog, A luglio, dopo la sua elezione a presidente, Erdogan fu tra i primi capi di Stato a chiamarlo, in una conversazione che si disse fosse durata oltre 40 minuti e considerata un buon passo di distensione. Anche il premier Bennett e il ministro degli Esteri Lapid, hanno affermato per l’ennesima volta che la coppia non ha nulla a che fare con lo spionaggio e nessuna connessione con i servizi israeliani. Insomma, anche ai piani alti stanno lavorando per il loro rilascio. Nel frattempo in Israele continua ad apparire, tutti i giorni, a tutte le ore, uno spot televisivo della Turkish Airlines e del ministero del Turismo turco, con gite meravigliose sul Bolforo e sontuose montagne di Lokum e Baklava. Ti viene voglia di partire. Ma forse adesso è meglio lasciar perdere.

Centri per l’impiego fermi, ma male pure le osannate interinali

I Centri per l’impiego creano solo il 4,5% dei posti di lavoro, ma non fanno molto meglio le agenzie private, pur indicate dalla Confindustria come la soluzione al problema: negli ultimi 10 anni le società interinali hanno mediato il 6,9% dei rapporti attivati. Insomma, se si vuole trovare un’occupazione in Italia, è meglio fare amicizia e avere tanti zii e cugini: resta la via più efficace per riuscirci, tant’è che è stata sperimentata con successo da oltre un terzo degli occupati. Lo conferma un report dell’Inapp, l’istituto di analisi delle politiche pubbliche: il metodo più diffuso è sfruttare il passaparola nel giro di conoscenze. Tra il 2012 e il 2021, il 25,2% ha trovato lavoro tramite conoscenze; un altro 10,2% grazie alla rete di contatti nell’ambiente professionale; il 35,4% è arrivato all’assunzione con i canali informali; un 10% ha vinto un concorso pubblico, poi briciole spartite tra università, tirocini e società di consulenza. Come ha spiegato il presidente Inapp Sebastiano Fadda, “ciò dimostra una debolezza strutturale della capacità di intermediazione dei canali formali”. Un problema che nel dibattito nazionale ha fatto irruzione solo negli ultimi due anni, utile ai detrattori del Reddito di cittadinanza per attaccare l’operato dei 2.800 navigator. In realtà è una questione datata. La percentuale dei contratti transitati dai centri per l’impiego è ferma al 4,5 nel periodo 1967-2011. E le agenzie private, nate negli Anni 90, hanno una performance di poco migliore. L’Istat ha fornito dati simili per il 2020: i centri per l’impiego hanno mediato per l’1,4%, le agenzie il 5%.

Bisogna però ricordare almeno tre fattori. In molte occasioni le agenzie collaborano con le Regioni – quindi con il pubblico – proprio per sopperire al definanziamento dei centri per l’impiego (per esempio su Garanzia Giovani). Le interinali, inoltre, hanno lo strumento della somministrazione, la fornitura diretta di manodopera alle imprese, e questo rende tracciabili le assunzioni; i centri per l’impiego, invece, accompagnano gli utenti fino al colloquio, ma poi le aziende non sono obbligate a comunicare l’eventuale assunzione. Poi, nel tempo le agenzie si sono specializzate sui profili più qualificati, mentre i centri pubblici assistono persone poco occupabili. Nell’ultima manovra ha vinto la narrazione contro i centri per l’impiego: si destina il 20% degli incentivi alle assunzioni alle agenzie private che accompagneranno al lavoro i beneficiari del Reddito di cittadinanza. Nello stesso tempo, viene confermato – per il 31 dicembre – l’addio ai 2.500 navigator rimasti, divenuti per molto il capro espiatorio dei problemi sulle politiche attive del lavoro. A tal proposito, oggi manifesteranno sotto il ministero del Lavoro per chiedere una nuova proroga. L’ultimo aggiornamento dice che le Regioni hanno fatto entrare solo 1.330 operatori nei centri per l’impiego rispetto agli 11.600 previsti nel 2019 contestualmente all’approvazione del Reddito di cittadinanza. Malgrado questa lentezza nella tabella di marcia – alcune Regioni sono ancora a zero – i centri dovranno fare a meno anche dell’aiuto dei navigator a partire dal primo gennaio. Proprio ora che – accettando la narrazione cara ai critici del Reddito – molte aziende cercano personale e non lo trovano. Nessun problema, dirà Confindustria: ci penseranno le agenzie private.

Il lavoro riparte col part-time. Per le donne solo contrattini

Oltre che molto precaria, quella che sta vivendo il nostro Paese può essere pure definita una ripresa “a tempo parziale”. Perché più di un terzo dei nuovi contratti di lavoro firmati tra gennaio e giugno del 2021 è formato da part-time. Impressionante poi il dato sulle donne: per loro i contrattini da poche ore settimanali raggiungono quasi la metà del totale. Insomma, più che un “miracolo economico”, come qualcuno ama definirlo, in Italia sembra in corso un banale “ritorno alla normalità”, ma quella normalità fatta di lavoretti e occupazione con bassi stipendi. Caratteristiche che interessano soprattutto la componente femminile e ora rischiano pure di raggiungere vette ancora più alte di quelle viste prima del Covid, anche perché spesso incentivate dallo stesso Stato attraverso fondi pubblici.

Il dato è contenuto nell’ultimo policy brief diffuso dall’Inapp, l’istituto di ricerca che si occupa di analizzare l’impatto sul mercato del lavoro delle riforme sociali. Nei primi sei mesi di quest’anno, sono stati attivati 3.322.634 rapporti di lavoro. Qui già emerge la prima differenza di genere: 2.006.617 riguardano gli uomini, solo 1.316.017 le donne. Ma la frattura si mostra con ancora maggiore chiarezza se si scende nel particolare. Oltre un milione e 187 mila – il 35,7% di questi contratti – sono part-time. Nel caso degli uomini, il tempo ridotto incide per il 26,6%, mentre per le donne la percentuale schizza al 49,6%. Il più delle volte si tratta di tempo parziale involontario, cioè non richiesto dalla lavoratrice ma imposto dal datore di lavoro. Una condizione che spesso si associa al precariato in senso stesso: per il 42% delle donne assunte, il contratto firmato è part-time e anche a tempo determinato. Stipendio basso e con data di scadenza, insomma. Tra le “fortunate” che hanno siglato un contratto a tempo indeterminato, solo il 45,5% lo ha fatto per un lavoro full time. “La ripresa dell’occupazione in Italia rischia di non essere strutturale perché sta puntando troppo sulla riduzione dei costi tramite la riduzione delle ore lavorate”, sostiene il presidente Inapp Sebastiano Fadda, che ha anche paventato il rischio di assistere a un aumento del lavoro povero.

Il proliferare del part-time è un fenomeno cominciato già con la ripresina seguita alla recessione iniziata nel 2008. Nel 2017, infatti, il numero di occupati in Italia è tornato per la prima volta ai livelli precedenti alla crisi, risultato salutato con grande entusiasmo dal governo Gentiloni e attribuito da Matteo Renzi al Jobs Act. Se andiamo però a contare le ore effettivamente lavorate, queste sono ancora di circa due miliardi inferiori a quelle del 2008. Quindi è vero che i posti di lavoro sono tornati gli stessi, ma si produce (e si guadagna) di meno. La crescita di nuovi occupati si è verificata soprattutto nei servizi, i quali – a differenza dell’industria – hanno tassi di part-time superiori, specialmente nel settore del commercio, degli alberghi e della ristorazione. Tra il 2015 e il 2018, infatti, malgrado la salita dell’occupazione, c’è stato un contestuale aumento anche della povertà assoluta.

Tornando al 2021, dice l’Inapp, “nell’agricoltura, commercio, attività immobiliari, professionali, artistiche e amministrazione pubblica istruzione, sanità e assistenza, i contratti part-time costituiscono la forma di lavoro prevalente per le donne, superando l’incidenza del 50% sul totale”.

Questa crescita sembra destinata ad avanzare. Anche perché anche i contratti a tempo parziale danno diritto a sgravi fiscali in favore delle imprese che assumono. I rapporti di lavoro nati con incentivi nel 2021 sono poco più di 780 mila; di questi, quasi 334 mila prevedono l’orario ridotto. E come al solito la divisione è iniqua a svantaggio delle donne, che hanno part-time per il 60% delle assunzioni con bonus, contro il 32,5% degli uomini. Secondo il presidente Fadda, bisogna ragionare su un ruolo migliorativo e selettivo del sistema degli incentivi. Un indicazione che non sembra essere colta dalla legge di Bilancio così come approvata dal Consiglio dei ministri, la quale – al contrario – introduce bonus per le imprese che assumeranno a tempo parziale i beneficiari del Reddito di cittadinanza.

Jolly, supervaccino contro le varianti

Vorrei comunicare solo buone notizie e cerco di farlo, con vero piacere, appena a disposizione. Oggi è la terapia di cui abbiamo bisogno. Precedenza a una, dai risvolti davvero rivoluzionari, che ci arriva dal mondo scientifico. I ricercatori giapponesi stanno mettendo a punto una sorta di super-vaccino in grado di fronteggiare diversi tipi di Coronavirus, offrendo quindi una protezione ad ampio spettro e limitando i rischi di una pandemia dovuta a questa vasta famiglia di virus. Dovrebbe funzionare almeno per quelli più noti e dannosi per l’uomo. Come viene riportato da Cronache di Scienza, sono state effettuate le prime prove sui topi con ottimi risultati, producendo una buona quantità di anticorpi neutralizzanti (quelli che bloccano il virus nelle prime fasi di infezione) anche nei confronti di SarSCoV2, agente etiologico di Covid-19. Lo studio è stato pubblicato a ottobre sul Journal Experimental Medicine. La comunità scientifica pone molte speranze su Jolly, cosi è stato chiamato questo nuovo vaccino, perché è ormai condivisa l’idea che le prossime pandemie non si faranno aspettare molto e i Coronavirus sono i sorvegliati speciali. È però necessario non distrarre l’attenzione anche da altri pericoli potenziali, soprattutto zoonosi (infezioni che ci arrivano dal mondo animale), per i quali, al momento, non abbiamo disponibilità di vaccini. L’infezione da virus Nipah, dei pipistrelli asiatici, è una delle prime 10 malattie prioritarie dell’Organizzazione mondiale della sanità. I cammelli, da cui dipendono milioni di persone in Africa e Medio Oriente per latte e carne, diffondono il Mers, Coronavirus ben più letale del Covid-19. I maiali in Europa, che diedero origine all’epidemia di H1N1 del 2009, potrebbero di nuovo diffondere tale infezione, per via degli allevamenti diventati troppo affollati. E ogni anno le malattie trasmesse dalle zanzare uccidono quasi 1 milione di persone e ne infettano circa 700 milioni, quasi una persona su 10 nel mondo.

Monti contro Draghi o la disfida dei Mario

Come forse è evidente, qui si coltiva una certa passionaccia per l’inane compito assuntosi dall’ex premier Monti – per compagna solo la forza della sua penna – nel rivendicare a sé il ruolo di vero SuperMario a fronte dell’attuale, abusivo, vale a dire il Draghi un tempo affamatore di popoli, quello italiano in primis (“chiese il Fiscal compact”), e oggi keynesiano ancorché del “debito buono”. Lasciato solo dalla corte che ne osannava le gesta a Palazzo Chigi – lodandone il loden, la sobrietà, la competenza… – pensavamo che Monti avesse esaurito il suo sottovalutato estro polemico col selvaggio attacco estivo al suo nemico nel decennale della famigerata letterina della Bce. A risvegliare lo spirto guerrier di cui già il Foscolo, ci ha pensato l’allegra uscita del collega d’accademia e di CorSera Francesco Giavazzi, oggi consulente del finto SuperMario: dopo averci ammannito per decenni prediche sui vizi dello Stato clientelare e la benedetta austerità (espansiva), in un incontro pubblico venerdì ha buttato lì che “il debito è un concetto del secolo scorso”. Il buon Monti non ci ha visto più: “In questi mesi si è avuta l’impressione che il governo abbia teso a diluire e ritardare gli aspetti più incisivi delle riforme”, ma questo “ si può capire in un ‘governo balneare’, non in un governo Draghi”, ha scritto al Corriere domenica. Quanto al debito, “credo che il termine ‘debito buono’ vada impiegato con estrema parsimonia”, se non si vuole “assecondare, in un popolo che spesso vede solo i benefici del debito e non i suoi costi, una pericolosa disinvoltura”. La furia non vinta lo ha spinto di nuovo (ieri) a vergare una lunga lettera alla Stampa per dire che lui, a differenza di Draghi, incontrava i leader dei partiti perché doveva salvare il Paese facendo scelte difficili, mica distribuire soldi come fa l’usurpatore: “Allora si trattava di prendere, non di dare”. Ora, non che ci interessi prendere parte a una sfida tutta interna al campo della reazione, però spiace vedere un uomo che, avendo goduto di parecchio servo encomio, oggi soffre il codardo oltraggio dell’irrilevanza. “L’autorità dimentica un re morente”, ha scritto Alfred Tennyson. È successo a molti Mario, il penultimo si consoli pensando che toccherà anche a questo.