Mail Box

 

 

Perché l’Innominabile era così certo su Draghi?

Ho una curiosità che mi porto dentro da molto. Nel momento dell’ultima crisi di governo, quando non si sapeva che sbocco avrebbe avuto la stessa, l’Innominabile sembrava certo che sarebbe stato incaricato Draghi come presidente del Consiglio. Secondo voi come faceva ad avere quella certezza, visto che l’incarico era una decisione che spettava al presidente della Repubblica?

Augusto Battisti

 

Caro Augusto, evidentemente qualcuno sui colli più alti non sa tenersi neppure un cecio in bocca.

M. Trav.

 

Con B. presidente scapperò dall’Italia

Prendo spunto dalle parole del dottor Davigo da Floris (che condivido al 100%) sulla non-elezione di un soggetto del quale mi vergogno anche a scrivere il nome. In caso venisse eletto, scapperei subito dall’Italia.

Marino Petruzzellis

 

Il “Fatto” non entra mai nella rassegna di Rainews

Ma è possibile che quando a Rai news24 fanno vedere i titoli dei quotidiani del giorno dopo, quelli del Fatto Quotidiano li fanno vedere una volta su dieci, quando va bene? Capisco che non siete simpatici, ma un minimo di “garanzia” ci dovrebbe essere, o no? Voi non potete fare niente?

Raffaele Fabbrocino

 

Nient’altro che ringraziare la Rai (ma anche Mediaset e Sky) per questo bell’esempio quotidiano di regimetto.

M. Trav.

 

Sono proprio allergico al senatore d’Arabia

Mi duole scrivervi per chiedervi una maggiore sensibilità sulle tasche degli italiani (le mie in particolare) e dei risparmi dei suddetti, già messi a dura prova con la pandemia. In tal senso vi imploro di non provocare più con la sua sola presenza – per giunta esibendo arrogantemente l’indisponente scritta con tanto di urticante logo dietro le sue spalle – l’addetto alla divulgazione delle meraviglie socioculturali del nuovo rinascimento introdotto da Mohammed bin Salman, come è avvenuto a Otto e mezzo qualche sera fa. Già è di norma particolarmente faticoso ascoltare il bipede in questione (ovviamente è solo una mia deduzione empirica che lo sia, avendolo visto anche in piedi, ma non voglio azzardare ipotesi che potrebbero essere smentite in altre sedi) quando bofonchia le sue fantasie, ma se dovessero sciaguratamente e inutilmente ripresentarsi le infauste condizioni sopra descritte, temo non sarei economicamente in grado di riacquistare piatti, bicchieri e televisori che inspiegabilmente terminerebbero la loro integrità materiale.

Gianluca Pinto

 

Caro Pinto, la capisco. Vedrò cosa posso fare.

M. Trav.

 

Le domande alla Boschi dei due premi Pulitzer

Non guardo mai In Onda dopo averne visto le prime puntate l’estate scorsa. Sono prevenuto sui due tizi che conducono la trasmissione e ancor di più quando hanno come ospiti i droidi renziani, pronti a immolarsi per un leader di cartone, che parla l’inglese peggio di come Razzi parla l’italiano. Ma ho voluto fare un’eccezione dopo la trasmissione della Gruber di venerdì scorso in cui lo statista di Rignano sciorinava argomentazioni difensive sulla mail di Rondolino degne del nulla cosmico nel vuoto siderale. Domenica sera ho visto che gli ospiti dei premi Pulitzer De Gregorio e Parenzo erano la Boschi, Galimberti e Carofiglio. Incuriosito, mi sono messo in ascolto. A un certo punto Concita parte con la filippica della macchina del fango e, con la Boschi estasiata da tanta grazia, ricorda i vari episodi della storia più o meno recente, annoverando tra gli esempi, oltre alla Bestia di Salvini e alla struttura Delta di Berlusconi, quella di Mino Pecorelli, cioè di un uomo assassinato nei pressi del suo giornale perché conduceva inchieste scottanti sul rapporto mafia-politica-massoneria di cui Andreotti fu indiscusso protagonista prima della condanna. Il messaggio era chiaro: Andreotti, Berlusconi e indirettamente Renzi erano degli statisti su cui avevano osato scagliarsi i rappresentanti del quarto potere. Allora ho capito che il funerale del giornalismo d’inchiesta lo stavano celebrando lì, in quel momento, in diretta su La7.

Giovanni Russo

Istat. Il censimento della popolazione è ormai annuale (e più accurato)

 

 

Gentile redazione, ogni dieci anni veniva effettuato il censimento generale della popolazione. Così è avvenuto nel 1951, 1961 e così via fino al 2011. Come mai nel corso dell’anno 2021, che sta concludendo il suo ciclo, non se ne parla? È colpa del Covid?

Claudio Carlisi

 

 

Gentile Carlo, l’emergenza sanitaria non c’entra proprio nulla. Evidentemente le è sfuggito, ma il censimento della popolazione e delle abitazioni effettuato dall’Istat non è più decennale da tre anni. E precisamente da quando, a partire dal 2018, è diventato annuale e coinvolge un campione rappresentativo delle famiglie italiane. La nuova edizione è già in corso. E quest’anno vi partecipano oltre 2,4 milioni di famiglie, in 4.531 Comuni sull’intero territorio nazionale. Non a caso oggi si parla di censimento permanente. Censimento che permette di conoscere le principali caratteristiche strutturali, sociali ed economiche della popolazione e di confrontarle con quelle del passato e degli altri Paesi. Questo a livello nazionale, regionale e locale. L’indagine partita quest’anno si svolge attraverso due diverse rilevazioni campionarie, quella “da Lista” e quella “Areale”. La prima prevede la compilazione autonoma del questionario online sul sito Istat e vi partecipano solo le “famiglie campione” che ricevono una lettera nominativa con le informazioni sul censimento e con le proprie credenziali di accesso. La seconda permette di raccogliere dati e informazioni per calcolare il numero dei residenti in ciascun Comune italiano. Quella Areale termina oggi. Mentre per la rilevazione “da Lista” la scadenza è fissata per il 23 dicembre. L’Istat ha calcolato che, grazie all’integrazione dei dati raccolti attraverso il censimento con quelli provenienti dalle amministrazioni pubbliche, è possibile avere informazioni continue e tempestive, garantendo al contempo un contenimento dei costi e meno disagio per le famiglie coinvolte, che non possono in ogni caso sottrarsi alla rilevazione: è, infatti, un obbligo di legge e la mancata risposta è sanzionata. Se il censimento “da Lista” prevede che sia la famiglia campione a compilare autonomamente il questionario online sul sito dell’istituto, quello Aerale richiede un rilevatore incaricato dal Comune. In questo caso partecipano le famiglie che risiedono nel territorio preso a campione. E tutte vengono avvisate tramite una locandina e una lettera non nominativa.

Natascia Ronchetti

Dave Chappelle, le gag razziste e tutti quelli che ancora lo esaltano

La comunità LGBTQ+ e le associazioni per i diritti civili hanno protestato contro Dave Chappelle a causa delle pericolose gag transfobiche e omofobiche dei suoi show Netflix, fondate su falsità fattuali, stereotipi denigratori e banalizzazioni reazionarie. Il discorso irresponsabile sta facendo proseliti anche da noi, complici le destre che se ne servono per la loro propaganda tossica.

Banalizzazioni reazionarie. I reazionari replicano alle proteste invocando il “politicamente scorretto”, la “libertà di espressione” e la “libertà di satira” come se ci fosse libertà di razzismo (la propaganda tossica di destra contro le minoranze strumentalizza lo spazio del discorso democratico che non è presidiato da leggi ma solo dalla riprovazione sociale del politicamente corretto, che a questo punto non basta più); definiscono “cancel culture”, etichetta denigratoria, le giuste critiche al discorso razzista delle gag transfobiche e omofobiche; accusano i bersagli del razzismo di “offendersi”, come se il problema fosse che l’altro è suscettibile, non che loro sono razzisti (dovrebbero spiegare, invece, perché quelle gag non sono razziste); e si difendono sostenendo che “non è l’uso della parola il problema, ma l’intenzione della parola”, come se esistessero parole neutre, prive di connotazione (la storia di certe parole le ha connotate di significati discriminatori: puoi usarle in modo neutro solo fra amici; se apostrofi chi non conosci con parole discriminatorie, stai facendo il razzista, anche se non ne hai l’intenzione). Se poi la polemica monta, la buttano in caciara invitando a farsi una risata (altra colpevolizzazione del bersaglio razzista, che dovrebbe ridere di essere denigrato). E così esaltano Chappelle, contro la woke culture, Peggy Noonan, già speechwriter di Ronald Reagan, sul Wall Street Journal (on.wsj.com/3ckpsvL); e Andrew Sullivan, celebre giornalista gay cattolico reazionario libertario, sul suo blog The Weekly Dish (bit.ly/3Fpw2xq): “Chi guarda lo show di Chappelle e pensa che sia omofobico o transfobico, o è stupendamente tonto o è un permaloso fanatico. Non è più transfobico di J.K Rowling, cioè per niente.”. Per niente lo dici tu (bit.ly/3mg7D6J). Sullivan è d’accordo con Chappelle e J.K. Rowling, dalla quale riprende l’argomento transfobico: “Una donna trans non può partorire come una donna. Non ovula. La sua vagina, se esiste, è un surrogato ottenuto con una serie di interventi chirurgici. Il sesso è binario con eccezioni che confermano la regola… La Giornata della Mamma sarà la prossima vittima della ghigliottina trans? E la cosa chiave è che niente di tutto questo serve a proteggere le persone trans dalle discriminazioni.” Nooo, certo: fare monologhi che discriminano le persone trans, le protegge dalle discriminazioni. Sullivan scrive: “Ridiamo, soprattutto, dell’assurdità della nostra realtà. E sì, questo è il secondo punto ricordato da Chappelle: c’è qualcosa chiamata realtà. Possiamo negarla o accettarla. Il ruolo chiave della comicità è che ci aiuta ad accettarla.” No, questo è quello che un reazionario vorrebbe che la comicità si limitasse a fare: confermare lo status quo. La società evolve, e con i costumi evolvono le leggi, nonostante i bacchettoni. E come Chappelle si atteggia a vittima della comunità LBGTQ+, anche Sullivan si atteggia a vittima di una fantomatica “élite dei media”, buttandola sulla suscettibilità: “L’elite dei media ritiene che ogni membro della comunità BLT sia così fragile che non sappiamo ridere di noi stessi.” Ma che sappiate ridere di voi stessi non autorizza altri a fare battute razziste. E buttarla sulla “vittima troppo suscettibile” cancella il razzismo del razzista. (17. Continua)

 

Andate a quel Paese Modello Singapore o Austria? No, grazie

Ètutta una questione di modello. C’è quello tedesco – a noi i tedeschi ci mettono sempre un po’ in soggezione – detto anche 2 G (che non c’entra niente con la telefonia mobile) perché prevede la possibilità di accedere ai luoghi pubblici solo per chi è vaccinato (geimpft) o guarito (genesen) dal Covid. E si differenzia dal modello 3 G, il nostro, che include anche i testati (getestet). Tutta questa “foresteria”, come diceva nostra nonna, nel dibattito pubblico fa piuttosto ridere soprattutto se si considera che il Green pass, ci avevano detto, l’abbiamo inventato noi. Però non è il modello tedesco ad andare per la maggiore. I mejo governatori (!) delle nostre Regioni vogliono adottare il modello austriaco, che è sostanzialmente un lockdown per i non vaccinati: da qualche giorno, due milioni di austriaci possono uscire di casa soltanto per comprovate ragioni di lavoro, per andare a fare la spesa o per sgranchirsi le gambe vicino a casa. Il giornalista Michael Ziesmann ha raccontato all’Huffington post che le limitazioni sono molto superiori a quelle annunciate: “Nei supermercati le persone non vaccinate sono autorizzate a comprare solo cibo, non altri beni necessari come vestiti o scarpe, o i regali di Natale. La polizia controlla tutti e se non si collabora mostrando il Green pass gli agenti possono arrestarti”. Il ministro dell’Interno Nehammer, annunciando la quarantena per i non immunizzati, aveva parlato di un impiego “senza precedenti” di agenti: “Potrà succedere in ogni momento. Non importa dove o quando. Ogni cittadino austriaco deve aspettarsi di essere controllato dalla polizia”. Le sanzioni? Fino a 1.400 euro.

L’altro modello di cui si è parlato è quello mutuato da Singapore, dove dall’8 dicembre le persone che non sono vaccinate per scelta e si ammalano di Covid dovranno pagarsi le spese mediche. Notare che se l’Austria è uno dei fanalini di coda nella campagna vaccinale in Europa con solo il 65% dei cittadini ad aver ricevuto due dosi, Singapore ha uno dei tassi di vaccinazione più alti al mondo che tocca l’85% della popolazione. Come dicevamo i presidenti delle Regioni governate dal centrodestra, reclamano a gran voce il modello austriaco (per fortuna nei giorni scorsi fonti vicine al governo hanno smentito l’intenzione di andare in una simile direzione). Modello che assomiglia tantissimo a uno Stato di polizia, così come quello di Singapore allo Stato etico, dove chi si “comporta bene” viene assistito e chi si comporta male sono cazzi suoi. L’idea che l’assistenza sanitaria sia legata alla probità dei comportamenti dei singoli è più agghiacciante dell’interdizione ai beni voluttuari nei supermercati. Le ragioni sono lampanti, eppure (ed è questa la circostanza più allarmante) una parte – non minoritaria – dell’opinione pubblica è favorevole a misure sempre più draconiane. Su queste colonne abbiamo cercato di sottrarci, dall’inizio di questo impazzimento, alla logica delle tribù. No-vax contro pro-vax, una nuova forma di guerra civile, in cui non c’è spazio per la discussione. Si va per le vie spicce: o di qua o di là. Ma uno Stato non può agire assecondando l’emotività di un popolo esasperato: le libertà fondamentali – basta vedere l’ultima circolare del Viminale sui cortei dei no-pass – sono state sottoposte al massimo dello stress possibile. Più in là non si può andare. L’abbiamo scritto tante volte: per privare i cittadini dei loro diritti, governo e Parlamento, se credono, devono assumersi la responsabilità politica di rendere obbligatorio il vaccino. Sarebbe un insperato atto di maturità della classe dirigente che in questo momento ha il dovere di dimenticare gli interessi di bottega e promuovere una pacificazione di cui c’è assoluta necessità. Il modello italiano dovrebbe essere disegnato nel solco della solidarietà: le persone che non si sono ancora vaccinate possono essere convinte solo con la ragione.

 

Al Colle deve salire un nuovo “pilota” della democrazia

Su Repubblica del 12 novembre il professor Michele Ainis ha ribadito come l’ambaradan sul Quirinale finisca per snaturare la figura presidenziale delineata nella Costituzione e faccia emergere la desolante propensione di molti italiani per “l’uomo della provvidenza” così concludendo: “Basta con la ricerca del salvatore della Patria. Cerchiamo, piuttosto, un buon patriota”.

Parole condivisibili con qualche distinguo. Con l’accademico si concorda nel negare titolo di una modifica de facto in regime presidenziale all’eventuale arrivo al Colle dell’attuale presidente del Consiglio. Meno convincente è l’affermazione che le disposizioni che regolano le attribuzioni presidenziali, per l’assenza di funzioni d’indirizzo politico, ne strutturino il ruolo in senso strumentale e non direttivo (paragonandolo a un “meccanico”, mentre spetta ad altri l’incarico di “pilota” delle istituzioni). Non si comprenderebbero, a questa stregua, i mesi nei quali la questione è rimasta sul tavolo, opportunamente coperta, ma con effetti non secondari sulla vita politica quali: la formazione del governo Conte bis, il recente rallentamento dell’azione di governo, i giochi squallidi di certi aspiranti, taluni poco nobili condizionamenti, come la mancata convergenza su una nuova legge elettorale. Tutta questa fatica per un “meccanico” delle istituzioni? Certo che no.

La Costituzione conferisce al presidente della Repubblica uno spettro di poteri di poco inferiore a quello che lo Statuto albertino riservava al Re. È vero: dal 1948 il Senato non è più di nomina regia e il potere di revoca dei ministri non è più prerogativa del capo dello Stato perché, diversamente dal Re, non gli appartiene il potere esecutivo; per il resto, è agevole riscontrare una sostanziale continuità tra le norme dello Statuto e quelle della Costituzione repubblicana. Nel semipresidenzialismo la direzione politica assume carattere prevalente; nella Repubblica parlamentare il dosaggio di poteri a disposizione del presidente, anche se meno diretti, può risultare comunque efficace. Questo dipende anche dalla capacità degli interlocutori di fare tesoro delle indicazioni del capo dello Stato. Per non parlare della scelta dei ministri, nella quale il ruolo presidenziale è assai rilevante con esiti talora infelici.

Il compito principale del presidente della Repubblica, tuttavia, è di sintesi e superamento delle singole competenze. Quale rappresentante dell’unità nazionale, cioè del popolo nel quale risiede la sovranità, egli è, prima di tutto, il custode della Costituzione. Intrinsecamente connessa alla Carta è la nozione di democrazia: per questo è specifica funzione del suo ufficio operare a presidio della stessa. La democrazia è doverosa metodica d’inclusione negli spazi di libertà politica riconosciuti all’individuo che si autodetermina partecipando alla creazione dell’ordine sociale. Dalla funzione derivano per il capo dello Stato sia poteri tipici quali l’esercizio di un controllo inderogabile sull’esecutivo nonché la potestà di rinvio di una legge alle camere, sia profili non tipizzabili quali percorsi, parole, incontri per incitare la comunità nazionale a coltivare i giusti valori, credere nelle istituzioni, difendere la democrazia e, a volte, suonare campanelli d’allarme. Nel Ramo d’oro di J. G. Frazer si narra del bosco di Nemi sacro a Diana dove vi era un albero di cui era proibito spezzare i rami. La difesa del luogo era affidata a un Re-sacerdote. La difesa della Costituzione è un po’ come quella del bosco sacro. Il riferimento finisce qui perché il Re-sacerdote è destinato a essere ucciso dal successore. Meglio riprendere, modificandolo, il paragone di Ainis: il capo dello Stato svolge compiti non di “meccanico”, bensì di “istruttore di volo” dei piloti che si susseguono nella guida politica delle istituzioni.

 

Il rebus del Quirinale e i transfughi di Renzi

È politicamente legittimo che una pattuglia di 43 transfughi parlamentari, vale a dire 26 deputati e 17 senatori voltagabbana, possa risultare decisiva nell’elezione del presidente della Repubblica? E quale che sia il loro partito d’origine, di centrodestra o di centrosinistra, è concepibile che votino per un candidato al Quirinale dello schieramento opposto? Può il trasformismo parlamentare alterare fino a questo punto la scelta di un capo dello Stato che resta in carica sette anni, massimo rappresentante dell’unità nazionale, garante della Costituzione, presidente del Consiglio superiore della magistratura e del Consiglio supremo di difesa?

Dovrebbero bastare già questi interrogativi, da soli, a mettere d’accordo gli altri gruppi parlamentari per impedire un tale strappo e indurli a eleggere un presidente della Repubblica che sia riconosciuto, apprezzato e gradito da una larga maggioranza del Paese. E magari una donna, come auspichiamo già da tempo su questo giornale. Non un capo dello Stato “minoritario”, dimezzato, ipotecato dalla partitocrazia. Ma piuttosto un presidente di tutti gli italiani, deciso da un arco politico il più ampio possibile, piuttosto che da un manipolo di trasformisti che hanno cambiato casacca nel corso della legislatura, disposti a spendere con la mano destra i voti raccolti con la mano sinistra o viceversa.

La prospettiva, purtroppo, è molto più concreta di quanto appaia. È quello che potrebbe accadere fra due mesi, all’inizio di febbraio, se la pattuglia parlamentare di Italia Viva decidesse di votare compatta un candidato del centrodestra. A meno di un auspicabile soprassalto di autonomia e dignità, dal quarto scrutinio in poi gli ex Pd agli ordini di Matteo Renzi hanno sulla carta la forza sufficiente per risultare decisivi nell’elezione di un Berlusconi, di una Casellati o di un Pera, tanto per fare qualche nome esemplificativo.

In una prospettiva del genere, verosimilmente il primo effetto sarebbe quello di indurre alle dimissioni Mario Draghi, insediato alla guida del governo in forza di una maggioranza extra-large. Sarebbe lui stesso, con ogni probabilità, a non sentirsi più garantito da una contrapposizione parlamentare che indebolirebbe il suo governo e ne comprometterebbe ulteriormente la legittimazione. C’è quasi da sospettare, anzi, che possa essere proprio questo l’obiettivo immediato di Matteo Renzi, il “serial killer dei premier”: eliminare la terza vittima, dopo Enrico Letta e Giuseppe Conte. E lucrare una rendita di posizione a supporto del centrodestra, in vista delle prossime elezioni politiche. Manca solo che dica al presidente del Consiglio in carica “Mario, stai sereno”.

I malumori emersi negli ultimi giorni fra i transfughi renziani, dopo lo scandalo della “Fondazione Open” beneficiaria di donazioni private provenienti anche da uno Stato straniero, accendono una spia d’allarme per l’ex rottamatore. Chi tradisce una volta, si sa, è incline a tradire di nuovo. E piuttosto che correre il rischio di provocare le dimissioni di Draghi e innescare il ricorso a elezioni anticipate, nel segreto dell’urna quirinalizia i voltagabbana potrebbero ribellarsi alle consegne del capo. Anche perché, prima o poi, dovranno rimettersi al giudizio dei propri elettori, davanti ai quali si sono presentati quattro anni fa sotto le insegne del Partito democratico.

Se è vero che alla vigilia della prossima Leopolda una decina di transfughi sarebbero pronti a uscire, l’ex segretario del Pd ed ex premier rischia di scendere sotto la soglia di sopravvivenza. Per uno specialista delle scissioni, tanto vale saltare il fosso e unificare ufficialmente Forza Italia Viva. Ma a quel punto Renzi dovrà buttare giù l’ultima maschera.

 

Gaia tortora, frullati open bar

“Spira un vento garantista?”, chiedeva ieri già gongolante il Giornale. “Sì, qualcosa è cambiato” risponde per le rime Gaia Tortora, figlia celebre e vicedirettore del Tg di La7. Il riferimento è ovviamente alle cronache pubblicate dal Fatto sull’inchiesta Open-Renzi. “Trovo, tanto per essere chiari, che ci sia un problema di opportunità sul fatto che lui vada, da senatore, a fare le conferenze in Arabia Saudita, ma possiamo parlarne. Non trovo che sia utile pubblicare l’estratto conto o quello che era”. Ecco, “quello che era” non era l’estratto conto. “Secondo me, far sapere che Renzi ha ricevuto soldi dall’Arabia Saudita non aggiunge e non toglie. Questo – lo ripeto – lo sappiamo: ha fatto delle conferenze. È ovvio che sia stato pagato: non è quello il tema”. Quindi il tema “non è” un parlamentare pagato da un governo estero – cosa “non nota”, dunque una notizia – ma il fatto che un giornale se ne occupi. Sostanzialmente nel silenzio generale. Evidentemente bene così, “sì, qualcosa è cambiato. In specie rispetto agli anni scorsi quando, per via di una certa parte politica, il dibattito era esasperato” e tutto è “finito nel frullatore”. Meglio non esasperare, tenere la polvere sotto il tappeto. Fino alla prossima conferenza, che male farà…

Leggi speciali dalla destra ex “no mask”

Colpisce il brusco cambio di stagione della destra di governo, in squadra con sindaci e governatori, che ha come nuovo emblema una frase da scolpire sulle mascherine azzurre: “Ora leggi speciali come ai tempi delle Br”. È stato Roberto Dipiazza, sindaco forzista di Trieste a equiparare no-vax e no-pass ai terroristi, mentre il monarca veneto Luca Zaia sulla questione ha messo un sigillo definitivo: “Grave manifestare senza mascherina, essere negazionisti è un gioco pericoloso”. Come lui la pensano i presidenti di Regione del Carroccio che premono su Palazzo Chigi affinché si applichi il lockdown soltanto a chi rifiuta la fiala. Una sorta di apartheid probabilmente anticostituzionale, ma cosa importa? Infatti, salgono gli applausi dalla stampa al seguito, con Libero che esalta “Salvini che vota sì al Green pass”, e con il Giornale che sventola la bandiera dei pro vax da combattimento contro il nemico assoluto: “Grazie ai no-vax torna la mascherina. Alla faccia della libertà”. E sotto, di rinforzo: “I veri numeri: il siero ha evitato 12mila morti”.

Se non conoscessimo le capriole di certa politica ci sarebbe da trasecolare: stiamo parlando di quello schieramento che ai tempi del governo Conte invocava la rivolta di piazza contro rimedi banali, come distanziamenti e uso della mascherina (sentimmo con le nostre orecchie dire da un salviniano doc che “per molto meno i nostri nonni avevano preso il fucile per fare la Resistenza”). Sono gli stessi che con l’avvento di Mario Draghi hanno iniziato una veloce retromarcia, fino a chiedere le “leggi speciali” per picchiatelli e caporioni che con le loro marce turbano sabati e acquisti prenatalizi. Oltre al fatto che non c’è più Conte da bastonare, la destra diventata ultrasanitaria si spiega con la levata di scudi pro vax di Confindustria, Confcommercio e delle altre categorie produttive collaterali a Lega e Forza Italia. E pesa molto il 75% degli italiani che è salito sul treno dei vaccini, mentre chi non vuole immunizzarsi di voti ne porta pochini (vedi il tracollo sovranista alle ultime Amministrative). Non si sbilancia, invece, il partito di Giorgia Meloni, però molto più prudente da quando i contagi hanno ripreso a salire in tutta Europa. Sarà interessante vedere come la destra televisiva dei Porro, Giordano, Del Debbio, Maglie interpreterà questo vaccini avanti marsch

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I sindacati disertano l’incontro con Bianchi

Nessun disgelo tra i sindacati della scuola e il ministero dell’Istruzione: dopo la proclamazione dello stato di agitazione annunciato martedì, la conferma dell’interruzione dei rapporti è arrivata ieri con la conferma che oggi all’incontro convocato al ministro Bianchi sulla legge di Bilancio, slittato di un giorno, ci sarà praticamente solo la Cisl: “Ci aspettavamo una diversa sede di confronto – dichiarano i segretari di FLC CGIL, Uil Scuola Rua, Snals Confsal e Gilda Unams – magari dopo una valutazione politica che coinvolgesse l’intero Governo p dando possibili risposte alle problematiche che abbiamo sollevato”. Ma evidentemente non è arrivato.

Fuortes agli ordini di Chigi Conte: “Non andiamo più”

La partita della Rai è stata decisa dove da qualche mese si decide tutto, ma proprio tutto: dentro Palazzo Chigi. Questa volta, dal capo di gabinetto di Mario Draghi, Antonio Funiciello. Hanno accelerato sulle nomine, perché le votazioni per il Quirinale sono a un passo. E il conto finale racconta che Lega e Fratelli d’Italia sorridono largo e il Pd può essere più che lieto, mentre il M5S, il partito che ha di gran lunga più parlamentari, è stato spazzato via: senza più Giuseppe Carboni al Tg1, senza nulla. Così ieri, dopo ore di riunione da consiglio di guerra con ministri, capigruppo e vicepresidenti – ma senza Luigi Di Maio, ufficialmente impegnato tra Strasburgo e la Farnesina – Giuseppe Conte in Senato ha lanciato l’Aventino: “Siamo alla degenerazione del sistema e per questo il M5S non farà più sentire la sua voce sui canali del servizio pubblico”.

Niente più 5Stelle in Rai, giura l’ex premier, che se la prende innanzitutto con l’ad Carlo Fuortes, che “non libera la Rai dalla politica, ma esautora il Movimento”. Ma il dito che indica Fuortes in realtà punta chi lo ha nominato, Draghi. “Ci chiediamo che ruolo ha giocato il governo” scandisce Conte. Dal M5S dicono che ieri si sia lamentato direttamente anche con il presidente del Consiglio. Riaffiora la distanza tra i due, a poche settimane dalle votazioni per il Quirinale dove Draghi resta il favorito. Quelle urne che hanno inciso, moltissimo, sulle nomine. Costruite direttamente dentro Chigi – mai visto prima – e con l’Ad commissariato ad aspettare i nomi come la lista della spesa. Secondo fonti di peso, non riuscendo a trovare la quadra, lunedì l’Ad aveva gettato la spugna. E a quel punto la palla è passata al governo. Più precisamente a Funiciello, capo di gabinetto di Draghi e prima di Paolo Gentiloni. In ottimi rapporti con Matteo Renzi, per il quale nel 2016 aveva guidato i comitati per il sì al referendum. Ed è stato proprio Funiciello a gestire il risiko, partendo da un punto fermo, quello di Monica Maggioni alla direzione del Tg1, centro di gravità attorno a cui girava tutto il resto. Con l’importante sponda del sottosegretario alla Presidenza, Roberto Garofoli. Nel suo ufficio martedì si è susseguita una lunga fila di esponenti politici. E anche Giorgia Meloni, che con Draghi aveva sollevato la necessità di nuovi equilibri, dopo l’esclusione di Fratelli d’Italia dal Cda di Viale Mazzini, era stata dirottata sul capo di gabinetto.

Maggioni doveva essere e Maggioni è stata, anche se l’accordo tra i partiti è complessivo e tocca anche le vicedirezioni del Tg1, dove è in arrivo – appunto – il meloniano Nicola Rao. La trattativa sul resto è andata avanti fino a notte inoltrata e ieri mattina la lista ancora non c’era. I nomi sono arrivati solo alle 11:26, per finire poi nei curricula da inviare ai consiglieri Rai. “Dall’Opera di Roma al Fantasma dell’Opera”, sussurra qualcuno in Viale Mazzini, per evidenziare come Fuortes non abbia toccato palla. Ma a colpire è la vittoria del centrodestra, con la Lega che conferma Gennaro Sangiuliano al Tg2 e Alessandro Casarin alla Tgr, mentre Meloni ottiene la direzione di Rainews con Paolo Petrecca e altre postazioni. Un partito d’opposizione ha avuto moltissimo, un unicum per la storia della Rai. A completare il quadro, Sala al Tg3 e Mario Orfeo agli approfondimenti (nomina presa malissimo dal M5S), Alessandra Di Stefano a Raisport e Andrea Vianello alla radio. Niente per Carboni, che col suo Tg1 nel 2021 ha una media del 23,7% di share alle 13:30 e del 24,4% alle 20. Numeri ottimi. Mentre resta al suo posto il direttore in calo di ascolti, Sangiuliano, con la media del 7% alle 20:30 e del 13,6% alle 13.

Oggi il voto in Cda, dove il no arriverà solo da Alessandro Di Maio, mentre Riccardo Laganà potrebbe astenersi. Schegge da quel tavolo dove – dicono anche vari 5Stelle – Di Maio ha saputo giocare: tanto che l’approdo della Maggioni al Tg1 sarebbe frutto anche delle sue interlocuzioni. Tradotto meglio, il ministro e Conte hanno lavorato al dossier Rai come due rette parallele, che non si sono mai incontrate. Perché l’avvocato puntava a tenere al Tg1 Carboni. E non ha mai consultato Di Maio.

“L’unico legittimato a trattare era Conte, se qualcuno l’ha fatto al suo posto ha danneggiato tutte le parti in causa”, sibilano dai piani alti. Ergo, sono ancora storie tese tra il ministro e l’ex premier, che non considera di area Sala, veterana che pure ha ottimi rapporti con i grillini. Voleva altro, l’ex premier, e alla fine ha deciso per lo strappo.

“Dobbiamo essere pronti ad adottare ogni iniziativa, dalla raccolta di firma a consultazioni online”, ha arringato ieri sera i suoi. E già si parla di rapporti “da rivedere” con gli altri partiti di maggioranza. “Ma Conte riuscirà a far rispettare l’ordine di non andare in Rai?”, si chiedono in tanti. Il timore di ribellioni è alto nel M5S. Mentre il senatore Alberto Airola ha presentato al Movimento le dimissioni dalla Vigilanza Rai: respinte, dalla capogruppo Castellone.