Approvato in Commissione Giustizia della Camera il testo base che modifica l’ergastolo ostativo, non più assoluto per i detenuti mafiosi e terroristi, ma relativo, dopo le sentenze della Corte costituzionale. La prima, del 2019, che ha già sdoganato i permessi premio, sia pure con dei paletti; la seconda, dell’aprile scorso, che ha dichiarato incostituzionale l’ostativo pure per la libertà condizionata, ma ha dato al Parlamento un anno di tempo per modificare sul punto l’ordinamento penitenziario.
Il testo votato ieri riguarda tutti i benefici ed è a firma del presidente della Commissione, Mario Perantoni, M5S. Frutto di settimane di contrattazioni con tutta la maggioranza, nella sostanza è il testo di Vittorio Ferraresi, esponente dei 5 Stelle, che il mese scorso l’ala centrodestra della maggioranza, renziani compresi, non ha voluto votare anche per non regalare al M5S una vittoria politica. La proposta prevede dei paletti rigidi, ma che, se in fase di emendamenti o in ula fossero allentati, renderebbero ancora più che concreto il rischio che boss stragisti accedano ai benefici. Un rischio del quale, peraltro, non dovremmo parlare se la Consulta non avesse fatto quelle pronunce.
“Questo testo – hanno commentato i componenti M5S in Commissione Giustizia – rappresenta un ulteriore e decisivo passo per scongiurare il rischio, nei prossimi mesi, di veder tornare in libertà boss ancora pericolosi”. Dichiarazione non casuale, perché dalle parti di Forza Italia e Italia Viva c’è aria di emendamenti per allentare le maglie usando il paravento della Costituzione.
Il testo votato ieri da tutti, a eccezione di Fdi, prevede che per accedere alla libertà condizionata l’ergastolano mafioso e non pentito debba aver scontato non 26 anni di carcere ma 30. Per avere ogni beneficio, inoltre, non può semplicemente dissociarsi dalla mafia, ma deve dimostrare che sia estinto il pericolo che riallacci rapporti mafiosi, deve risarcire le parti civili: “I benefici possono essere concessi purché oltre alla regolare condotta carceraria e alla partecipazione al percorso rieducativo” i detenuti “dimostrino l’integrale adempimento delle obbligazioni civili e delle riparazioni pecuniarie derivanti dal reato o l’assoluta impossibilità di tale adempimento nonché a seguito di specifica allegazione da parte del condannato, si accertino congrui e specifici elementi concreti, diversi e ulteriori rispetto alla mera dichiarazione di dissociazione dall’organizzazione criminale di eventuale appartenenza, che consentano di escludere con certezza l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva e con il contesto nel quale il reato è stato commesso, nonché il pericolo di ripristino di tali collegamenti, anche indiretti o tramite terzi, tenuto conto delle circostanze personali e ambientali”. Queste disposizioni valgono anche, in determinate condizioni, per detenuti e internati non ergastolani “ai fini della concessione dei permessi premio”. Il giudice di Sorveglianza quando riceve una istanza deve chiedere il parere, tra gli altri, al pm competente e alla procura nazionale antimafia. Il parere deve pervenire entro 30 giorni, prorogabili altri 30 se il caso è complesso. Scaduti quei termini, anche senza parere dell’accusa, il giudice decide. Se lo fa in contrasto con il pm, deve motivare “gli specifici motivi” per i quali si è discostato. Rispetto al testo Ferraresi, manca la motivazione richiesta all’ergastolano sul perché non abbia collaborato e un tribunale collegiale, a Roma, come unico organo a decidere in merito. Una soluzione, secondo i magistrati antimafia, per evitare un pericoloso isolamento del singolo giudice chiamato a decidere.
Così “Rondo” massacrava Fatto e Saviano
Negli ultimi giorni abbiamo scoperto che Fabrizio Rondolino è stato consigliere per la comunicazione di Matteo Renzi all’insaputa di tutti, compreso se stesso. Così lascia intendere l’ex premier, che assicura di aver trattato le istruzioni per la character assassination contro il Fatto e i 5Stelle come i deliri di un ubriaco sul marciapiede. E così fa pensare pure Rondolino, che minimizza ricordando come “poche settimane dopo quella mail” del 7 gennaio 2017 si fosse “trasferito in campagna”. Peccato che online restino ampie tracce di quel periodo: Rondolino sparì da giornali e tv per un po’, è vero, ma soltanto a giugno, dopo che per cinque mesi aveva messo in pratica in autonomia i consigli inoltrati a Renzi.
Il 13 gennaio 2017, per esempio, Rondolino partecipa a L’aria che tira, su La7. E difende Luca Lotti sul caso Consip (“una turba adolescenziale di Woodcock e Travaglio”) attaccando il nostro Gianni Barbacetto: “Sono tutte inchieste farlocche. Barbacetto e i suoi amici della Casaleggio Associati ogni giorno pubblicano il nome di qualcuno che passa di lì per caso, citato in un verbale sottratto in qualche sottoscala della Procura e lo sputtanano”. Il Fatto diventa “un giornale di diffamatori seriali”, un giornale che “fa senso”.
Il 1º febbraio Rondolino replica sull’Unità e su Facebook, rilanciando un suo editoriale nel gruppo “Matteo Renzi presidente”: “Per il nostro giustiziere di bronzo (Travaglio, ndr) i giudici sono eroi soltanto quando inquisiscono i suoi avversari politici. Se invece qualcuno s’azzarda a dar fastidio alla Casaleggio Associati, mette in dubbio la sacra ho-ne-stà dei grillini, la musica cambia bruscamente”. Il 10 febbraio pubblica il celebre titolo di Libero “Patata bollente”, riferito a Virginia Raggi. Con questo commento: “Dov’è lo scandalo? Chi la fa l’aspetti”. Il 22 febbraio, ancora su l’Unità e sui social, Rondolino continua: “Senza notizie vere, al Fatto resta solo la maleducazione di Marco e Daniela (Ranieri, ndr). Quelli del Fatto hanno bisogno di affetto”.
Il 2 marzo aderisce alla campagna #IoStoconTiziano, dove “Tiziano” è il padre di Matteo Renzi. E pochi giorni più tardi, ospite a La Gabbia, Rondolino inveisce contro Marco Lillo: “La Casaleggio Associati, il Fatto e La7 conducono una campagna quotidiana contro lo Stato di diritto. Rappresentano un sistema di potere che sputtana chiunque non sia d’accordo con loro”. E poi l’allusione personale: “Quando intercetteranno i telefoni di Lillo e Travaglio ne sentiremo di ogni”. Lo stesso trattamento Rondolino lo riserva a Roberto Saviano, sulla lista dei “cattivi” perché osa criticare Maria Elena Boschi. Su l’Unità Rondolino lo paragona a “un mafiosetto di quartiere” senza neanche indignare più di tanto Repubblica – su cui Saviano scrive in quel periodo –, che, a differenza del Fatto, impiega due giorni prima di difendere il suo editorialista.
Ma nella strategia di Rondolino c’è anche l’offensiva anti-M5S: “Bella la vita dei grillini! Al popolo Di Maio dice di prendere soltanto 2.500 euro al mese, ma a gennaio ne ha intascati 11.672. Netti”. Ad aprile l’Unità scopre “le simpatie camorriste per Di Maio” anche se, ahinoi, su questo cala “il silenzio del Fatto”. Poi, ospite a Tagadà, Rondolino lancia la nefasta previsione: “I 5Stelle sono bravi al computer, ma poi nel mondo reale non è che se ne vedano tanti”. Un anno dopo trionferanno alle elezioni.
L’assist di Meloni sul Colle Molla B. e tifa Supermario
“Giorgia” arriva in ritardo, trafelata, come al solito. Letta junior, invece, entra con qualche minuto di anticipo al Tempio di Adriano, in piazza di Pietra, si intrattiene con gli ospiti di uno dei salotti mediatici più “in” della politica italiana, la presentazione del libro di Bruno Vespa Perché Mussolini rovinò l’Italia è il titolo. Sottotitolo, tra parentesi: E come Draghi la sta risanando. “Dopo 23 anni di carriera politica sono stato ammesso a presentare il mitico libro di Vespa. Evidentemente ero un peone, una seconda fila, oggi entro nella serie A”, esordisce. In effetti, con l’occasione si è rimesso un vestito grigio, mentre in genere in questi mesi ha scelto un abbigliamento molto più casual. Non potrebbero essere più diversi la leader di Fratelli d’Italia e il segretario del Pd. Eppure, qualche convergenza ce l’hanno. O quanto meno la devono trovare. L’attenzione si accende quando Meloni butta lì una frase, che ha l’aria di essere casuale ma è esplosiva: “Il centrodestra ha le carte in regole per dire la sua. Ciò non vuol dire eleggere un Presidente amico mio, ma un amico della Costituzione. Sono legata a Berlusconi, ma la sua elezione non è facilissima con questi numeri”.
Poi ha risposto per primo all’appello di Letta per trattare. Un gesto che io ho interpretato come un passo indietro”. Traduzione: la corsa del Caimano al Colle è finita e l’ha fermata la leader di Fratelli d’Italia. Che punta con questa mossa a mettersi alla testa del centrodestra, a marcare la sua centralità. Questo passo indietro di Berlusconi lo vede solo lei. Nel senso che in Forza Italia chi ha lavorato alla sua candidatura – per convinzione, o comunque per gettarla nel mucchio come atto di disturbo – continua a lavorarci. L’uscita di Meloni è “incomprensibile” dicono dai vertici di Forza Italia. Il partito si affrettano a sottolineare fonti azzurre, si è detto “disponibile” a discutere con tutti i leader della maggioranza che sostiene il governo “solo” della legge di Bilancio. Se è per la Lega la strategia sul Colle con Meloni non l’ha concordata. Nell’altro campo, la posizione della leader di Fdi è un’occasione. “Il presidente della Repubblica sempre, ma in questo caso e in questa situazione storica ancora di più con la pandemia e il Pnrr, deve essere eletto con la più larga convergenza possibile” senza andare a un’elezione “voto su voto”, chiarisce Letta. E si lascia sfuggire una sorta di lapsus. Il governo può andare avanti, con la maggioranza attuale e un altro premier, se Draghi fosse eletto presidente della Repubblica? “Ne parleremo quando si porrà il problema”, risponde. Dice solo “quando”, non “se”. E se Meloni ha sempre detto che Draghi al Quirinale era un’opzione, soprattutto per andare al voto, il centrosinistra un candidato non ce l’ha. E Letta ha bisogno della sponda di tutti per marginalizzare Matteo Renzi nella battaglia quirinalizia.
E se il tavolo da lui proposto sulla manovra fallisce definitivamente, Meloni si sfila dal gruppo sovranista proposto da Marine Le Pen. E sceglie di non partecipare al vertice di Varsavia in programma il 3 e 4 dicembre, promosso dal polacco Kaczynski, dove saranno non solo Salvini, ma pure Orban e la Le Pen.
Letta e Meloni convergono pure sulla legge elettorale. Il primo ammette che “è difficile che questo Parlamento riesca a fare qualcosa”, anche se “la legge attuale non mi piace: penso alle liste bloccate e i parlamentari ormai staccati dal territori”. La seconda coglie la palla al balzo: “Se non ci sta il Pd, il proporzionale non si fa”. Quindi rilancia il presidenzialismo e una Assemblea costituente da eleggere insieme alle prossime camere. La proposta di Conte, tanto per stare alla scomposizione e alla ricomposizione del quadro politico.
Sul Covid, le posizioni divergono. Mentre Meloni va all’attacco della strategia del governo, tutta centrata sui vaccini, Letta si attesta sul rigore più rigorista possibile. Ma realtà è una cosa, i giochi politici sono al centro dei pensieri. I due si rivedranno a breve. Alla presentazione di un altro libro. C’è una tela da tessere.
Oltre 10 mila casi. Il certificato verde durerà solo 9 mesi
L’aumento della curva epidemica continua, non è al momento drammatica ma la soglia psicologica dei 10 mila contagi giornalieri è stata (ri)superata: 10.172 nuove diagnosi Covid-19 nelle ultime 24 ore. Non accadeva dall’8 maggio scorso, quando la curva era in discesa, le dosi di vaccino somministrate erano appena 23 milioni (contro le 92 di oggi) ma gli ingressi in terapia intensiva erano oltre tre volte superiori (110 contro 32), così come i decessi (224 contro 72). C’erano più di duemila persone nelle terapie intensive (abbiamo 10 mila posti in tutto e neppure coperti in termini di anestesisti e infermieri specializzati) e oltre 12 mila negli altri reparti, sia pure in calo; ieri, rispettivamente, 486 e 4.068, ma in aumento.
Numeri da non sottovalutare, insomma, ma che per il momento sono assai migliori di quanto accade in gran parte dell’Europa, specie dove fa più freddo e la copertura vaccinale è minore. In Germania ieri si è registrato un nuovo record di contagi (52.826) e di morti (294): “La situazione pandemica in Germania è drammatica – ha dichiarato la cancelliera uscente Angela Merkel – e il numero di morti è spaventoso”. Parole inequivocabili cui si aggiungono quelle dell’associazione federale tedesca degli anestesisti: “Il sistema sanitario tedesco – scrivono i medici al ministero della Sanità federale e ai ministeri dei Laender – si sta avviando verso una catastrofe”. E il loro, come sappiamo, è molto più solido del nostro.
È stato un mercoledì nero in gran parte dell’Est, dove molti Paesi – tutti, come la Germania, accomunati da una percentuale di popolazione vaccinata più o meno bassa, ma comunque inferiore a quella di Paesi come Spagna, Italia – hanno macinato record negativi: Austria (14.416 nuovi casi in un giorno, il governo sembrerebbe orientato a introdurre un lockdown generale di due settimane), Repubblica Ceca (22.479 contagi, da lunedì i non vaccinati non potranno entrare nei locali), Russia (36.626 casi e 1.247 morti), Ungheria (10.265 casi) e Lettonia (79 vittime). E anche la Francia (20.294 casi) fa un balzo indietro di tre mesi.
Si nota invece un’inversione di tendenza in Gran Bretagna, dove la campagna della terza dose è in fase avanzata: 38.263 casi nelle ultime 24 ore (un mese fa erano circa 50 mila), ma ancora 201 morti.
L’Italia, insomma, è di fatto circondata e tra Palazzo Chigi e il ministero della Salute ci si trova nell’ingrata situazione di dover (ri)studiare strumenti per contrastare la nuova ondata in corso.
È possibile che il Friuli-Venezia Giulia e la provincia autonoma di Bolzano passino a breve in zona gialla, il che però non cambierebbe granché. Sul tavolo del governo ci sono ipotesi di modifica del Green pass: ridurne la durata da 12 a 9 mesi per accelerare la prenotazione e l’inoculazione delle terze dosi, al momento previste per la popolazione over 60 ma dal 1° dicembre per tutti gli over 40; ridurre la possibilità di ottenere il lasciapassare con il tampone, eliminando gli antigenici rapidi o riducendo da 72 a 48 ore la durata del certificato breve dei non vaccinati, o al limite consentire alcune attività come lo sci, difficilmente i ristoranti, ai soli immunizzati. Operazioni non certo semplici, specie per un esecutivo che ha esagerato molto nel proclamare l’efficacia assoluta dei pur indispensabili vaccini.
La decisione non è stata presa, il governo potrebbe discuterne oggi in un Consiglio dei ministri convocato sull’assegno unico che però potrebbe iniziare a sciogliere uno dei nodi in chiave Covid, quello dell’estensione alla terza dose dell’obbligo vaccinale vigente per il personale sanitario e quello delle Rsa. Un testo scritto a quanto pare non c’è ancora, sarà anche necessario fissare una data oltre la quale i lavoratori in questione rischieranno la sospensione, ma bisognerà anche coordinarla con la durata del Green pass. Sembra scontata la proroga dello stato d’emergenza, in scadenza a fine anno.
Orgia di decreti e fiducie: il bicameralismo è morto
Dice un vecchio adagio da Transatlantico che niente è più segreto di quel si pubblica negli atti parlamentari. Ad esempio l’11 novembre il Comitato per la legislazione della Camera ha pubblicato questo: “Abbiano cura il Legislatore e il Governo di avviare una riflessione al fine di evitare in futuro la concentrazione dell’esame dei ddl di conversione dei decreti-legge nel primo ramo di esame, nell’ottica di garantire il rispetto di un ragionevole equilibrio nelle procedure parlamentari”.
L’invito a evitare, anche in previsione dell’attuazione del Pnrr, “eccessive compressioni dei tempi di esame dei provvedimenti” in Parlamento è stato reiterato giusto ieri in un ordine del giorno presentato da deputati di quasi tutti i gruppi: il governo, sapendo quanto valgono gli odg, ha dato “parere favorevole”, cioè ha accettato l’invito, previo inserimento nel testo dell’espressione “compatibilmente con lo stato di emergenza in corso”. Il fatto che la discussione si svolgesse a margine del decreto Green pass, approvato con doppia fiducia (l’ultima ieri), lascia intendere come andrà a finire.
La faccenda, peraltro, non è così secondaria come potrebbe sembrare e realizza – “de facto” direbbe il ministro Giorgetti – lo spostamento quasi definitivo del potere legislativo dalle Camere al governo: un viaggio iniziato molti anni fa che pare accelerato col governo Draghi, esecutivo “tecnico”, emergenziale e praticamente senza opposizione. Bastano i numeri a capirci. Nel corso della legislatura i quattro governi che l’hanno attraversata (Gentiloni, Conte-1, Conte-2, Draghi) hanno emanato a oggi 120 decreti legge: questo esecutivo, in carica per nove dei 44 mesi di vita del nuovo Parlamento, ne ha prodotti 35 in tutto (l’ultimo giovedì scorso), circa il 30% del totale o, se preferite, 4 al mese.
Perché si lamentano il Comitato per la legislazione e i gruppi parlamentari? Facile. La decretazione d’urgenza già di suo comprime i tempi (il testo va approvato entro 60 giorni), le abitudini del governo ancora di più. Aggiornando a ieri sera i dati del Comitato, i decreti convertiti in questa legislatura sono stati 83, oltre la metà con almeno un voto di fiducia: se ci limitiamo all’era Draghi, abbiamo 23 decreti convertiti, 13 dei quali con almeno una fiducia (un altro sarà approvato oggi, altri quattro sono all’esame delle Camere, un sesto è in arrivo e gli altri sono stati lasciati decadere).
E i tempi di approvazione? Una presa in giro. Degli 83 decreti convertiti dal marzo del 2018 solo quattro (4!) sono stati modificati in seconda lettura e nessuno quest’anno: legifera – e di fretta, in 30 giorni di media – solo il ramo del Parlamento in cui il decreto giunge prima, l’altro si limita ad approvarlo come gli arriva (in 9 giorni di media), in una sorta di monocameralismo alternato e casuale. “Non capisco perché il Parlamento tolleri questo abuso del parlamentarismo” e “si limiti a ratificare” decisioni altrui, si preparava alla pugna – e in ottima compagnia accademica e politica – il professor Cassese a gennaio. Ora avranno tutti altro da fare.
Salvini si nasconde dietro Draghi contro le sue Regioni e i No-Pass
Il paradosso è che adesso Matteo Salvini ha bisogno di Mario Draghi. E lo usa per fare da scudo ai governatori leghisti del Nord che oggi, in Conferenza delle Regioni, chiederanno al governo un provvedimento molto duro: che il sistema dei “colori” (le fasce gialle, arancioni e rosse) valga solo per i non vaccinati perché, come dice il leghista Massimiliano Fedriga, “eventuali chiusure non devono essere pagate da chi è vaccinato”. La ministra degli Affari Regionali, Mariastella Gelmini, li ascolterà e prenderà tempo perché, al momento, da Palazzo Chigi frenano.
“Non è un tema all’ordine del giorno” dice una fonte di governo facendo sapere che i dati dei contagi saranno valutati attentamente ma che nessuna decisione su possibili nuove restrizioni sarà presa prima di dicembre. Una posizione sposata in pieno da Salvini che non era stato informato dai suoi governatori della proposta simile a quella del lockdown per i non immunizzati sul modello austriaco. E così il leader della Lega dice “no” a nuove chiusure, “no” al “terrorismo” e soprattutto martedì sera ha fatto trapelare di “condividere la linea del governo” di non procedere a nuove chiusure perché “i dati dell’Austria sono lontani”. Una sconfessione totale nei confronti dei suoi governatori: “La loro è stata una fuga in avanti – ha detto irritato il leader della Lega ai fedelissimi – devono parlarne con me prima di prendere qualsiasi iniziativa”.
E allora Salvini ha bisogno di mostrarsi “draghiano”, almeno sulla lotta alla pandemia. E la prima prova era il voto di ieri alla Camera sul decreto Green pass per i lavoratori. Un passaggio delicato perché, dopo i 29 assenti in Senato, il gruppo parlamentare leghista è spaccato in due. E quindi il segretario martedì aveva dato “libertà di coscienza” ai suoi deputati: “Sì alla fiducia, chi è contrario non vota” aveva detto. Ma poi ieri mattina ha precisato al capogruppo alla Camera Riccardo Molinari che la dissidenza andava limitata al massimo sulla fiducia al governo per poi lasciare libertà nel voto finale. E così è stato: solo in 23 non hanno votato la fiducia (uno su cinque, tra cui Claudio Durigon e il vicesegretario Lorenzo Fontana) mentre nel voto finale, in tarda serata, il gruppo si è spaccato e le assenze sono state molte di più. Claudio Borghi, molto vicino a Salvini e pasdaran anti pass, ha addirittura votato no al provvedimento.
Di fronte alle contraddizioni che agitano la pancia leghista, spiccano i governatori. Il fronte è il solito. In prima linea ci sono Fedriga (Friuli-Venezia Giulia), Attilio Fontana (Lombardia) mentre Luca Zaia è più scettico sul modello austriaco (il lockdown tout court per i non vaccinati) ma condivide l’idea che le restrizioni debbano valere solo per i non immunizzati. A questi si aggiungono i Presidenti di centrodestra Giovanni Toti, Alberto Cirio e quelli di centrosinistra, Eugenio Giani e Vincenzo De Luca (“le chiusure solo per i no vax sarebbero il minimo, per loro ci rimane solo il napalm o il lanciafiamme”).
Ma i più in vista sono ovviamente i leghisti. Che intendono aprire un nuovo fronte interno al partito. Dopo la ribellione di inizio settembre e una pace sancita nell’ultimo consiglio federale, ora si avvicina l’assemblea programmatica dell’11 e 12 dicembre in cui Salvini farà partire la resa dei conti tra chi sta con lui e chi “rema contro”. E ci si arriverà con un clima interno che non sarà dei migliori. La risalita dei contagi farà aumentare sempre di più la spaccatura tra la pancia leghista anti pass e i governatori del Nord che ogni giorno sono alle prese con cittadini e imprenditori che chiedono, come priorità, di non “richiudere” sotto Natale. Questo dirà oggi Fedriga nella conferenza delle Regioni e lo farà portando proprio l’esempio del suo Friuli che rischia di essere la prima Regione d’Italia a tornare in zona gialla. Ieri Fedriga è stato attaccato da Borghi che lo ha definito, ironicamente, “geniale” e “fantastico”. Anche sullo Stato d’emergenza, a dicembre, Salvini andrà in rotta di collisione con i suoi presidenti: lui non vuole sentirne parlare, loro non possono farne a meno. Il congresso di dicembre sarà anche su questi temi.
Manca solo Rondolino
Peggio della lottizzazione Rai c’è solo la sua versione ipocrita: l’occupazione di regime spacciata per meritocrazia. Era accaduto con Monti e l’Innominabile, ora si replica con Draghi&Draghetti. Il governo dei migliori, tramite l’ad-dg-tanguero Carlo Fuortes, caccia il direttore del tg migliore, Giuseppe Carboni del Tg1 (più 2% di share), reo di essere stato nominato dal M5S, pur non essendo un grillino. Al suo posto riciccia l’ex presidente della Rai monocolore renziana, Monica Maggioni, fedelissima di Gentiloni sponsorizzata dal generone draghiano dei Garofoli&Funiciello. Alla punizione del campione d’ascolti seguono, per coerenza, le promozioni o i salvataggi dei soliti sugheri multiuso. Moiro Orfeo, dopo aver guidato Rai, Tg1, Tg2 e Tg3 in quota un po’ a tutti, dirigerà addirittura l’Approfondimento (da Report a Vespa, da Berlinguer ad Annunziata). Simona Sala, draghiana con ascendente Pd e una spruzzata di Di Maio (così almeno crede lui), passa al Tg3, rimpiazzata al Gr dal pd Vianello; il leghista-meloniano Sangiuliano, che almeno qualche libro l’ha letto e scritto, resta al Tg2; il leghista Casarin rimane alle Tgr; il FdI Petrecca va a Rainews col nuovo portale d’informazione (quello che doveva dirigere la Gabanelli prima che Orfeo la conciasse per le feste). Si sperava che lo scandalo Open inducesse Fuortes o chi per lui a risparmiarci almeno i dirigenti più citati nelle carte, dalla Maggioni (vedi pag. 4) a Orfeo, quello dell’“accordo” col portavoce renziano Agnoletti. Infatti: entrambi promossi.
Manca qualcuno nella grande abbuffata? Ma sì, solo il partito di maggioranza relativa: il M5S, tagliato fuori alla vigilia delle Presidenziali e delle Politiche. Tutti scrivevano che Conte aveva piazzato i suoi parlando con Fuortes al compleanno di Bettini: infatti il M5S non tocca palla, come già nel governo Draghi, nato apposta per sterminarlo, anche se Di Maio e altri draghetti Grisù seguitano ad aiutare gli sterminatori. Conte, oltreché dalla sua correttezza che lo rende inabile a certi giochetti, è stato indebolito dalle contromanovre di Di Maio, che ha avallato le nomine antigrilline, mentre le destre difendevano i loro avamposti. Il risultato è la totale estinzione del punto di vista 5Stelle (come l’impronta ambientalista del Tg1) e la ricomparsa dei revenant renziani e gentiloniani in salsa draghista. Una restaurazione asimmetrica, una lottizzazione inversamente proporzionale ai consensi: vedi il peso spropositato di Zerovirgola e di Er Moviola che, l’ultima volta che si candidò a qualcosa, alle primarie Pd del 2013 per il sindaco Roma, arrivò terzo su tre. Ora infatti punta dritto al Quirinale, con una bella Rai vista Colle. Spiace solo per Rondolino: una nomina la meritava anche lui, ad honorem.
Indie Jungle, la musica dal vivo ora trova un nuovo palco (in tv)
Passata la buriana, lentamente riprendono vita i luoghi di aggregazione sociale e culturale, cinema, teatri, palazzetti e auditorium, nonostante qualcuno, anche importante, come la Flog di Firenze – “la casa dei concerti indipendenti, il luogo dove ogni fiorentino che suona uno strumento si è esibito almeno una volta nella vita” – probabilmente non riaprirà mai più. Un pezzo di storia della città, che ha rappresentato un presidio sociale e culturale dall’importanza anche simbolica, che rischia di scomparire per sempre.
Nel periodo segnato dal distanziamento sociale, soprattutto per sopperire a certe mancanze, hanno preso piede oltre ai concerti in Rete a pagamento, anche nuovi (ma non inediti) format musicali tv: tra questi c’è Indie Jungle, programma di approfondimento musicale, scritto da Max De Carolis e Fabio Luzietti, e prodotto da Erma Pictures, che andrà in onda dal 20 novembre ogni sabato alle 20:15 su Sky Arte e disponibile on demand e in streaming gratuito. Il programma propone undici puntate monografiche per altrettanti concerti. Certo, la tivù ha forme e canoni di comunicazione differenti rispetto al palco, viene meno la spontaneità, ma in tempi di Covid-19 il piccolo schermo si è rivelato prezioso. E così, dopo il successo della prima stagione, che ha visto protagonisti alcuni tra i nomi più rappresentativi della scena indipendente contemporanea, anche quest’anno esponenti indie di spicco si racconteranno attraverso speciali interviste e si esibiranno in esclusive live session. Indie Jungle, infatti, è pensato per dare spazio e visibilità a nomi del panorama musicale italiano, focalizzando l’attenzione sull’esibizione dal vivo e sul racconto delle storie che si celano dietro la creazione artistica. A inaugurare la nuova serie saranno i Ministri, protagonisti della prima puntata che andrà in onda sabato 20 novembre. Proprio al gruppo milanese è stato assegnato il compito di aprire questa edizione in cui si avvicenderanno i vari Motta, Joan Thiele, Fast Animals and Slow Kids, Myss Keta, Francesco Bianconi, Melancholia, Tutti Fenomeni, Naip, Vasco Brondi, Margherita Vicario. Visto però il successo internazionale dei Måneskin, che hanno fatto la classica gavetta delle band e che al Mei di Faenza nel 2016 andarono addirittura accompagnati dai genitori, viene da chiedersi se parlare ancora oggi di “indie” abbia un senso. Considerando che l’antagonismo tra il mondo indipendente e quello delle major, che è esistito per un lungo periodo, almeno fino agli anni Dieci dei Duemila, va sempre più scemando e basta assistere a una delle ultime edizioni del Festival di Sanremo – indipendentemente dagli ultimi vincitori – per rendersene conto.
George Byron si “nasconde” in camera di Anita Garibaldi
Il ritratto dell’uomo con una tuba in testa, di profilo, è sul muro sovrastante la copia del letto in cui, la sera del 4 agosto 1849, morì Anita Garibaldi, l’amata compagna dell’Eroe dei Due Mondi. Quel volto tracciato con il carboncino, lì al primo piano della Fattoria Guiccioli, a Mandriole di Ravenna, antico possedimento benedettino, non rappresenta uno dei compagni, in quella tragica sera di agosto, di Garibaldi e di Anita. Secondo l’architetto Paolo Bolzani, autore del restauro della casa colonica-museo, da tempo di proprietà della Federazione delle Cooperative di Ravenna, potrebbe essere un autoritratto del grande poeta George Byron (1788-1824), che visse a Ravenna, tra il giugno del 1819 e il 1821, la sua storia d’amore con Teresa Gamba Guiccioli.
La seducente Teresa era la moglie dell’anziano conte ravennate Alessandro Guiccioli, che durante l’epoca napoleonica aveva acquistato diverse tenute nella zona, tra cui quella di Mandriole, in prossimità dell’antica Strada Romea. Teresa e Byron, che si erano conosciuti a Venezia, erano soliti trascorrere parte delle loro giornate romagnole nelle pinete e nelle campagne del Ravennate. Ovvero tra “quegli arbori di ombrose chiome, e in fra quella sollitudine ampia e taciturna, e udendo lo stormir delle fronde e il mormorio del non lontano mare”, come scrisse l’accademico Gasparo Martinetti Cardoni, nel 1879, in Ravenna antica, celebrando il Byron ravennate, amante di Teresa e poeta, ma pure cospiratore carbonaro. Con ogni probabilità, i due, Byron e la Guiccioli, si recarono più volte alla fattoria dove, nell’estate del 1849, sarebbe morta Anita Garibaldi, stremata dalla fatica e dalle febbri.
Il poeta, del resto, amava disegnare. Nello splendido Il manoscritto di Missolungi, autobiografia inventata (ma non troppo) di Byron, Frederic Prokosch immagina che Byron racconti che “nella Casa della rose, Teresa si addormentò. Presi la matita e incominciai a schizzare il suo ritratto”. Il disegno di Mandriole potrebbe essere nato in un momento d’ozio campestre.
La suggestiva supposizione di un autoritratto di Byron è emersa in questi giorni a Comacchio, ai margini del bel convegno “Anita Garibaldi nel Parco del Delta del Po al tempo del Risorgimento”, promosso dall’Ente di gestione per i Parchi e la Biodiversità Delta del Po per il bicentenario della nascita della moglie di Garibaldi. Una delle poche iniziative degne di nota, questa di Comacchio, organizzate in Italia per rammentare Anita.
“Quel disegno, assieme ad altri”, ci spiega l’architetto Bolzani, uno dei relatori al convegno di Comacchio, “lo abbiamo portato alla luce durante i restauri della Fattoria Guiccioli. Non sono ovviamente sicuro al cento per cento che sia Byron. E qualcuno ritiene che potrebbe raffigurare Ignazio Guiccioli, nato del primo matrimonio del conte Alessandro, e che fu ministro delle Finanze della Repubblica Romana del 1849”.
Proprio da Roma, dopo l’annientamento della Repubblica, fuggirono Garibaldi e Anita, arrivando poi alla Fattoria Guiccioli. “Penso, tuttavia”, dice Bolzani, “che la figura elegante, con quella tuba, e qualcosa nelle fattezze del viso, possano rendere assai verosimile la congettura su Byron. Senza dimenticare il rapporto stretto che Byron ebbe con i Guiccioli e con le loro abitazioni e proprietà di campagna”. Come non sembra un caso, bensì destino, il fatto che il letterato e patriota, morto per la libertà della Grecia, abbia lasciato un segno nel luogo in cui sarebbe spirata Anita Garibaldi, combattente della libertà.
“Da Faber ai Genesis: canto io”
Un nuovo disco di cover, Discover, che spazia da Fabrizio De André a Morricone (e Roger Waters), da Fabio Concato ai Coldplay, dai Genesis a Michael Stipe. Zucchero torna in pista, e come sempre chiacchierare equivale a svelare una meravigliosa miniera di aneddoti.
È vero che sei partito da una lista di 500 brani?
Dentro c’erano tutte le canzoni che amo, dalla gavetta nelle balere dei Settanta a oggi. È il primo disco in cui suono la batteria. La pandemia ha inciso molto: è un disco senza canzoni allegre. Scegliere le cover italiane è stata la parte più difficile. Volevo fare Guccini, De Gregori. Avevo quasi pronta anche Le cose che pensano di Battisti. Poi ho optato per Fiore di maggio di Concato: una poesia.
E Bocelli?
A fine ’94 venne da me e mi fece ascoltare Con te partirò. Doveva andare a Sanremo, ma non era convinto. Gli dissi che era una canzone molto forte. Fino alle 5 di mattina cercai di convincerlo, ma niente. Anche alla prima serata di Sanremo andò svogliato. Lo chiamai alle 2 di notte e gli dissi: “Guarda, se devi cantarla così puoi anche tornare a casa”. Molti anni dopo ho immaginato di cantarla, meno pomposa e più mia.
Ci sono canzoni che non si possono rifare?
Se rifai alcuni brani ti fai male. Imagine su tutte. Oppure A whiter shade of pale: l’hanno già fatta in tanti. La suono dal vivo, ma su disco no.
Hai mai pensato di reinterpretare Graziani e Battiato?
Agnese dolce Agnese e Lugano addio stavo per farle. Battiato, no. Sono sempre stato un suo fan, La voce del padrone l’ho consumato, ma cosa avrei potuto aggiungere? È come per Comfortably Numb: cosa posso dare di più a brani così?
Però hai suonato i Genesis.
Ho appena fatto tutto il Peloponneso in macchina e me li sono riascoltati tutti. Come cazzo suonavano! Phil Collins l’ho conosciuto quando debuttai come supporter di Clapton alla Royal Albert Hall di Londra. Veniva tutte le sere come ospite di Eric. È una persona molto divertente.
Come hai convinto Michael Stipe a darti il suo brano?
Durante il lockdown, su YouTube, ho visto Stipe con l’organino in un video fatto col telefonino: mi si è aperto il cielo. Lo avevo incontrato a una festa degli U2 a Milano. L’ho chiamato, gli ho chiesto se potevo fare il testo in italiano e lui ha detto sì. Le cose più belle mi capitano sempre quando sono psicologicamente sotto terra. Ho suonato quel brano a Venezia, in una Piazza San Marco deserta. Stipe ha visto il video e mi ha dedicato un post molto affettuoso. Ero proprio a terra in quel periodo, e quella magia mi ha salvato.
E De André?
Dori Ghezzi sostiene che Ho visto Nina volare sia nelle mie corde. Per questo disco le ho chiesto se mi dava un pezzetto della canzone originale. Ogni volta che la ascolto non vedo l’ora di sentire la voce di Fabrizio, e quando arriva è come se mi arrivasse una folata di vento alla schiena, che mi fa andare in ottava a mio modo. Ho visto Fabrizio solo una volta. Mi fece ridere con alcune battute. Avrei voluto conoscere il suo cervello e passarci del tempo: mi sarei arricchito.
Nel disco omaggi Morricone.
Era molto carino con me, ma anche molto severo. Aveva scritto un brano per Oro incenso e birra, Libera l’amore. David Sancious non riusciva a comprendere la sua parte. Eravamo a Memphis e insisteva perché chiamassi Morricone. Telefono al Maestro e con timore gli dico: “Scusa Ennio, ma c’è il pianista che non capisce bene cosa deve fare”. E lui, glaciale: “Digli di studiare di più”. E mi ha attaccato in faccia.
Con Sting, ogni anno, vi sfidate su chi faccia il miglior vino.
Vince sempre lui, ma gioca sporco: la sua zona è più vocata, spende un sacco di soldi e si è affidato a un super enologo, Cotarella. Nella mia Lunigiana faccio vini più semplici, li preferisco ai vinoni. E sull’aceto balsamico tradizionale stravinco io.
A maggio suonerai a Berlino con Clapton.
Spero che Eric si ravveda sui vaccini. Ogni tanto subisce i retaggi degli effetti di tutto l’alcol e le droghe che si è preso. Di colpo diventa cupo e si chiude. Poi improvvisamente si riprende ed è un gentleman delizioso. Ora è in fase di grande negatività, anche nei confronti di se stesso.
L’hai sentito l’ultimo disco di Vasco?
Per ora solo il singolo. Una ballata tradizionale alla Vasco, mi è piaciuta più di alcuni singoli degli album precedenti. Vasco ormai va avanti di rendita. In Italia ha un seguito incredibile.
Perché sei uno dei pochi ad avere seguito all’estero?
Perché ho sempre avuto voglia di andare fuori. Magari in Italia fai gli stadi, hai tutto, sei la star e poi ti ritrovi a Zurigo e se va bene fai 500 persone con tre luci e un impiantino. Molti ci rimangono male. Per me è una sfida in più. Io poi attingo dalla tradizione melodica italiana, ma mi ispiro pure alle radici afroamericane. E tutto questo al pubblico straniero arriva.
Il ritorno del fascismo è un’esagerazione?
Non lo è. Avverto un clima pesante. E mi rattrista che, anche al governo, della cultura popolare non freghi un cazzo a nessuno. Teatri, cinema, concerti: niente. Vedo un’Italia dark. C’è una nebulosa su tutto e politicamente non riesco più a credere a nessuno. Penso a Draghi: all’inizio ho pensato che fosse una buona mossa, ora sono meno convinto perché mi sembra che faccia tutto lui. Oppure il ddl Zan: siamo tornati al Medioevo. Ai miei tempi c’erano David Bowie, Freddie Mercury, Elton John: a nessuno fregava nulla se erano omosessuali o no. Ora è il contrario.