Un Sottile odor di Colle: il più Amato per ogni stagione

Ogni stagione della nostra Repubblica cova un uovo speciale che invece della sorpresa contiene Giuliano Amato. Finissimo giurista. Arguto politico. Sapiente economista. Pregevole tennista. Svelto nel dire e nel disdire. Candidato anche stavolta all’ultima poltrona della serie, la più sontuosa, quella del Colle, che insegue da una ventina d’anni per incoronare il suo personale monumento a cavallo che lo innalza, nonostante il suo fisico minuto, al cospetto di tutti i giocatori in campo, e insieme lo imprigiona. Perché essendo troppo di tutto, anche nella “forsennata ambizione”, è finito in stallo tra benemerenze e invidie. Oltre a trascinarsi il peso dei conti in sospeso per i molti tornei giocati dai tempi del Centrosinistra, fino a quelli odierni del banchiere Draghi, passando per il collasso della Prima Repubblica, anno 1992, quando, toccando a lui battere da Palazzo Chigi, svalutò del 20 per cento la lira, ma senza mai pronunciare in pubblico la parola “svalutazione”. E in una notte di luglio prelevò dai conti degli italiani gli spiccioli dello 0,6 per mille, per arginare lo sprofondo del debito pubblico (che anche lui aveva scavato) per poi incolpare del misfatto notturno il suo ministro del Tesoro, Giovanni Goria, che da morto non riuscì mai a smentire.

Lunga storia gli corre tra le dita, visto che Giuliano Amato – detto “Topolino”, detto “Eta Beta”, detto “Dottor Sottile” – nacque nel lontano 1938 a Torino da famiglia piccolo borghese. Respirò nell’Astigiano la guerra da sfollato. Studiò a Lucca. Sì laureò in Giurisprudenza alla Normale di Pisa con master alla Columbia University di New York, sua città prediletta per solide ragioni atlantiche. Sposato, due figli. Fu socialista, corrente di sinistra in gioventù, quella che chiamava l’arrembante Craxi “cravattaro”. Ma poi si convertì socialista di centro tavola, più craxiano del titolare, quando Bettino conquistò il partito, anno 1976, congresso del Midas, e poi l’intera nazione invitata all’allegro banchetto degli anni Ottanta, divorato lasciando ai posteri il conto dell’inflazione a due cifre e il debito a nove. Fu l’intellettuale di riferimento negli anni da bere: “Producevo idee destinate alla testa di un altro”, disse con la solita punta di vanità. E pazienza se “l’altro”, che riempiva furioso i portacenere dell’Hotel Raphael, chiamava Norberto Bobbio “intellettuale dei miei stivali”. Il suo compito era risolvere problemi. Meglio se lungo la linea bianca del campo, ai confini della giurisprudenza, della politica, dell’economia, mischiando virgole e commi.

Il trucco che aiutò le tv di Berlusconi

È roba sua il trucco legislativo adottato dal governo Craxi, anno 1984, che consentirà alle tv di Berlusconi di continuare a trasmettere sul territorio nazionale quando la legge ancora lo vietava. È roba sua la cordata di imprenditori – Berlusconi, Barilla e Ferrero – che ancora Craxi, anno 1985, schiera contro Carlo De Benedetti nella battaglia per annettersi il colosso alimentare Sme, ai tempi delle prime privatizzazioni. È ancora roba sua la svendita dell’Alfa Romeo alla Fiat, anno 1987, facendo deragliare, un minuto prima dell’accordo, l’offerta più vantaggiosa della Ford. Per lui, entomologo dei codici, trovare escamotage legislativi è una pacchia, anzi, letteralmente “quasi da orgasmo”.

Come il peripatetico Lord Byron è stato ovunque. Non per innalzare versi, ma per accomodarsi in poltrona con stipendio, allori e pensioni al seguito: 31 mila euro al mese, si disse con magno scandalo. Lui rettificò assicurando che una quota la devolveva in beneficenza, cosa che per buona educazione non si dovrebbe mai dire, specie quando, nei tuoi giochi legislativi, hai tagliato quelle degli altri. Ha avuto sette cattedre, da Roma a New York, passando per Firenze e Modena. Ha presieduto l’Authority Antitrust, innumerevoli comitati, da quello governativo per la Bioetica a quello per le celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia. Si è seduto in cima all’Enciclopedia Treccani. È stato presidente dell’Università di Pisa e pure dell’Associazione degli ex Allievi dell’Università di Pisa. È stato consulente di Mario Monti in Europa, di Unicredit e di Deutsche Bank. Nonché membro della Corte Costituzionale, da un anno in qualità di vicepresidente. Basta?

L’arte di allontanarsi durante i naufragi

Neanche per sogno. Dal 1983 ha varcato la soglia della Camera e del Senato per cinque legislature. È stato il sottosegretario principe nei due governi Craxi. Poi quattro volte ministro con i governi De Mita, D’Alema e Prodi. Due volte si è messo in proprio, varcando lo studio nobile di Palazzo Chigi. La prima nel 1992 nominato da Oscar Luigi Scalfaronel mese di mezzo tra i due boati, quello di Capaci e di via D’Amelio. Un anno di governo tribolato nel quale trovò il tempo di varare il celebre decreto Conso che depenalizzava il finanziamento illecito ai partiti e che naufragò tra polemiche furenti, mentre lui si dileguava.

Sette anni dopo tocca a Ciampi issarlo alla presidenza del Consiglio a riparare i danni di D’Alema che due anni prima aveva sgomberato Prodi per poi bombardare i Balcani e finire bombardato alle Regionali: capolavoro della sinistra fratricida, che da allora si studia nei manuali di masochismo politico.

È sua massima competenza allontanarsi dai naufragi. Quando il suo capo s’eclissa in Tunisia, inseguito dalle guardie, lui continua a fischiettare nei palazzi del potere. E in meno di un anno si butta a sinistra. Craxi iracondo lo chiama “un Giuda che strisciava ai miei piedi”. E schiere di socialisti gli rammentano che se il Capo rubava, “lui quei soldi li spendeva”. Ma lui i perdenti li ignora.

Al contrario tutti i vincenti di potere lo annoverano tra gli amici. A cominciare dai tre presidenti che l’hanno sconfitto, Ciampi, Napolitano, Mattarella. Davanti a Draghi addirittura si genuflette. Ma è capace di farlo anche nei dettagli della vita quotidiana, magari con un banchiere secondario, se serve. Come capitò con Giuseppe Mussari, l’arciduca del Monte dei Paschi di Siena, quando al telefono chiedeva di confermare i 150 mila euro per il Circolo del tennis di Orbetello, dove ancora si allena.

Dicono i suoi antipatizzanti che ha pronta la tela quirinalizia, nonostante i suoi 83 anni. Lui nega, ma nessuno gli crede per colpa della sua “vocazione organica alla bugia”, come Tremonti dixit. Perché anche se fosse vera la sua ultima dichiarazione “stavolta per il Quirinale ci vuole una donna”, gli basterebbe una parrucca e un filo di rossetto per tornare in partita.

“L’Europa si è chiusa nel lager temendo i migranti al confine”

Mi telefona con voce accorata Giuliana Galli, brianzola piena d’energia alla faccia dei suoi 86 anni. Ha negli occhi le famiglie di profughi accampate nel gelo della pianura bielorussa, respinte con gli idranti dai soldati che presidiano la frontiera polacca. Ma è di noi, prima di tutto, che vuole parlare.

“Ti rendi conto che per paura dei migranti ci siamo anche noi rinchiusi in un campo di concentramento? Sono giorni che mi arrovello, dobbiamo trovare il modo di venirne fuori”.

Giuliana è suora da quando di anni ne aveva 23. Tredici li ha passati negli Usa dove si è laureata in Sociologia. Poi a Torino s’è fatta valere come animatrice delle “cottolenghine”, dedicandosi alle persone in stato di abbandono ricoverate nella Piccola casa della Divina Provvidenza che tutti chiamano, per l’appunto, Cottolengo. Non si è tirata indietro quando una fondazione bancaria, la Compagnia di San Paolo, l’ha messa in contatto con la grande finanza per ricavarne opere di bene. Ma poi, con la onlus Mamre, è tornata a occuparsi di salute mentale in contesti multiculturali praticando le cure dell’etnopsichiatria.

“Lo dico con amarezza, a quei bisognosi stiamo dicendo che noi europei non abbiamo niente da offrirgli”.

Come, suor Giuliana… neanche il pane?

Non c’è pane che tenga, senza compassione. D’accordo, ogni tanto riusciamo a spedirgli qualcosa dai nostri armadi ripieni. Un pezzo di pane glielo lanciamo oltre il filo spinato, essendo proibito porgerglielo con la dovuta umanità.

Per questo, da europea, anziché libera ti senti pure tu reclusa come loro?

Siamo diventati il campo di concentramento di quelli che stanno bene. Se abbiamo freddo scaldiamo le case. Se abbiamo fame apriamo il frigorifero. Siamo il recinto dei fortunati. Asserragliati in un’enclave circondata da moltitudini di persone cui nulla è riconosciuto. Ci illudiamo di preservare il nostro benessere affidandoci a governanti che calpestano i diritti umani da loro stessi sottoscritti nella Dichiarazione del 1948.

Gli Stati europei chiedono finanziamenti per erigere muri, ma c’è anche chi si sforza di organizzare i soccorsi.

Lo so bene. Anche noi portiamo viveri lungo la rotta balcanica, quando ci lasciano passare. Portiamo anche le docce perché i profughi sono afflitti dai pidocchi e dalla scabbia. Mi torna in mente Primo Levi: se questo è un uomo. Ma temo che a loro pervenga un solo messaggio: se vi mandiamo questi soccorsi è perché tanto non potrete mai venire qua. E mi assilla un pensiero: quando i loro figli cresceranno e si renderanno conto, siamo sicuri che non si rivolteranno contro la vecchia Europa?

Gli esperti di geopolitica descrivono i migranti come “arma ibrida”, nuova minaccia di guerra ai nostri confini.

Abbiamo perso il senso delle proporzioni. Mandiamo decine di migliaia di soldati a difenderci da un numero trascurabile di famiglie disperate e disarmate. Parlano di guerra? In un certo senso hanno ragione. Torna a prevalere la mentalità dei tempi in cui i giovani venivano costretti a farsi la guerra contro la loro volontà. È il mistero del male che assoggetta le coscienze, la stupidità dell’Europa dei fili spinati. Allora lascia che ti faccia io una domanda: ti viene in mente qualcuno che possa aiutarci a risvegliare la pietas, mettere insieme la gente che si ribella all’indifferenza?

Perdonami, ma se neanche il papa riesce a farsi dare retta dai cattolici europei…

Non sbagli. Se penso a quanto aiuto hanno ricevuto i polacchi dal resto d’Europa e dal Vaticano in particolare… Adesso invocano addirittura l’intervento della Nato, come se ci trovassimo di fronte a un’invasione militare! Il perché, non riesco a spiegarmelo. Del resto gli italiani si comportano allo stesso modo con chi cerca di fuggire dalla Libia. La verità è che chi muove gli eserciti, in qualche modo finirà per usarli. Sono strateghi del nulla.

Oggi ce la prendiamo con Lukashenko, ma altri dittatori li paghiamo purché sbarrino il cammino ai migranti.

Ho sentito dire che a volte quei dittatori ci servono. È stato Machiavelli a spiegare che quando c’è il caos si deve far ricorso alla mano ferma del despota. Ma il despota si affeziona al suo ruolo. E la globalizzazione, se non sarà umana, porterà all’esplosione della terra.

Hai qualche idea sul da farsi?

Siamo in tanti a non voler stare rinchiusi in questo campo di concentramento europeo. Mamre, insieme ad altre associazioni, promuove dal 14 al 22 dicembre “Il cammino della speranza”, da Trieste a Oulx in Val di Susa. Ci siamo ispirati al titolo di un film di Pietro Germi del 1950 sul viaggio di un gruppo di minatori siciliani verso il Nord. Degli atleti, a piedi o in bicicletta, percorreranno i 700 chilometri dei sentieri su cui oggi passano tanti migranti. Ma tocca a tutti noi muoverci, giovani e vecchi. Facciamo sentire le nostre voci, uniamo le forze, dal basso.

Crisi dei rifugiati: Varsavia spara lacrimogeni, Minsk apre un centro

Alla frontieratra i due Stati ex sovietici, ieri gli agenti polacchi hanno sparato lacrimogeni e usato idranti contro i migranti “che hanno lanciato sassi e tentato di distruggere la barriera per entrare nel Paese”, ha riferito il ministero della Difesa polacco. Per Mosca il gesto è “inaccettabile”. Sul lato diplomatico, colloquio tra la cancelliera Merkel e il presidente Lukashenko che, in seguito alla telefonata con la leader tedesca, ha dichiarato che accoglierà tutti i migranti in un rifugio al valico di frontiera di Bruzgi “fino a quando la questione non sarà risolta”. Dei 6,4 miliardi del bilancio Ue per la gestione delle frontiere esterne, a Varsavia andranno 114,5 milioni, ma “non devono essere usati per costruire i muri”, ha riferito la Commissione Ue. La Polonia ha annunciato che ne costruirà uno a dicembre.

Gheddafi e Haftar, la strana coppia

Dopo il figlio cadetto di Gheddafi, Saif al-Islam, è la volta dell’ex generale Khalifa Haftar che lo scorso settembre ha riposto temporaneamente la mimetica proprio per potersi candidare alle elezioni presidenziali fissate, in teoria, per il 24 dicembre. Nella lista dei candidati più controversi spiccano il delfino del dittatore ucciso che all’inizio della rivoluzione, dieci anni fa, rimase al fianco del padre diventandone il portavoce, e l’uomo forte della Cirenaica. Il 77enne Haftar, da tempo malato, causò la seconda guerra civile nel 2014 e due anni fa con le proprie milizie e l’aiuto dei mercenari russi della società Wagner vicina al Cremlino, assediò Tripoli per un anno. Si tratta di due candidati ricercati dalla Corte dell’Aja per crimini di guerra e contro l’umanità. Per questo e non solo, il procuratore militare Gharouda ha chiesto all’Alta commissione per le elezioni nazionali di bloccare le loro registrazioni elettorali fino a quando i due non saranno interrogati. Gharouda ha sottolineato che se non accadrà, la commissione avrà la responsabilità di aver violato la disposizione della Procura militare. I magistrati hanno nelle proprie mani un fascicolo sull’uccisione di civili a Esbaya, a sud di Tripoli, da parte di mercenari del gruppo Wagner, assieme a quelli sull’uccisione di 26 cadetti del collegio militare di Tripoli, sul bombardamento di un centro di detenzione per immigrati e sulle fosse comuni di Tahrouna. Si profila pertanto l’ennesimo scontro tra istituzioni, perché l’Alta commissione elettorale sostiene che Gheddafi ha presentato tutti i documenti necessari. Intanto Haftar ha iniziato la campagna elettorale dichiarando che si candida “per guidare il popolo in una fase decisiva e non per cercare il potere”. Anche il Consiglio degli anziani di Misurata, la città che fu decisiva per sconfiggere Gheddafi, ha respinto lo svolgimento delle Presidenziali “senza consenso su base costituzionale e le candidature dei criminali e di coloro che hanno usato la forza contro i libici durante la rivoluzione di febbraio del 2011”. L’accusa principale è contro “la Camera dei Rappresentanti (Parlamento) responsabile del crollo del processo in quanto consente ai criminali di candidarsi dopo aver manipolato le condizioni per la candidatura. Anche l’Alta Commissione elettorale nazionale è responsabile per aver ignorato l’illegalità delle leggi elettorali emanate dal presidente Saleh e che consentono ai criminali di essere candidati alle prossime elezioni” sottolineano da Misurata. Viene anche denunciato il Consiglio superiore della magistratura reo di aver concesso l’immunità ai criminali contro i ricorsi. Aqilah Saleh non solo non è pentito, ma sarebbe intenzionato a presentare la propria candidatura entro i prossimi due giorni.

Multinazionali e ricconi eludono 426 mld l’anno

L’elusione e l’evasione fiscale globale, realizzata dalle multinazionali e dai contribuenti più ricchi, sono responsabili della perdita di 426 miliardi di euro di tasse l’anno a livello globale. Una somma che, ad esempio, sarebbe sufficiente per vaccinare contro il Covid almeno tre volte l’intera popolazione mondiale. Lo rivela l’edizione 2021 di State of Tax Justice, il rapporto annuale sul sistema fiscale internazionale realizzato da Tax Justice Network (Tjn), una Ong che si batte per l’equità fiscale. Dallo studio emerge che l’Ocse, l’organizzazione che di fatto detta le regole fiscali globali, è responsabile della maggior parte della perdita globale di gettito che colpisce i Paesi a basso reddito.

L’analisi di Tjn, presentata insieme a Global Alliance for Tax Justice e alla federazione sindacale globale Public Services International, sottolinea che dei 426 miliardi di tasse perse a livello mondiale 275 vengono persi per l’elusione delle multinazionali e 151 a causa dell’evasione offshore dei ricchi. Il buco di 426 miliardi consiste solo di perdite fiscali dirette, desunte dall’analisi dei bilanci delle multinazionali e dai dati bancari raccolti dai governi. Mancano, dunque, le perdite indirette, scatenate dalla concorrenza al ribasso tra gli Stati sulle aliquote fiscali: il Fondo monetario internazionale stima che siano almeno tre volte maggiori di quelle dirette, pari dunque a 825 miliardi l’anno.

I membri dell’Ocse, sostiene lo studio, facilitano di fatto la sottrazione di 275 miliardi l’anno all’erario globale da parte di multinazionali e individui più ricchi. Nonostante gli impegni dell’Ocse sulla riduzione dell’elusione fiscale globale, Tjn sostiene che i Paesi ricchi che fanno parte dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico sono responsabili di facilitare il 78% delle perdite di gettito globale annuo. Al primo posto tra i “pirati fiscali”, secondo Tjn, c’è il Regno Unito, responsabile di oltre un terzo (39%) della perdita fiscale mondiale. Insieme a Olanda, Lussemburgo e Svizzera Londra incamera il 55% dell’elusione globale. Nonostante l’enorme danno ad altri Paesi, nessuno Stato membro dell’Ocse appare però nella lista nera dei paradisi fiscali della Ue. Anche l’Italia esce male dal rapporto. Roma perde ogni anno 5,7 miliardi a favore dei paradisi fiscali, dei quali 1,8 per l’elusione delle multinazionali e 3,5 per l’evasione dei privati, pari a oltre 94 euro per abitante. Ma l’Italia sottrae però anche 3,3 miliardi di imponibile ad altri Paesi, lo 0,77% del totale mondiale: una somma sufficiente per vaccinare contro il Covid 216,7 milioni di persone.

Tax Justice Network raccomanda l’introduzione di imposte su utili e patrimoni e torna a chiedere che sia l’Onu e non l’Ocse a occuparsi di tassazione globale. Il suo rapporto arriva proprio mentre il gigante del petrolio anglo-olandese Shell trasloca per motivi fiscali dai Paesi Bassi al Regno Unito, nonostante il disperato tentativo del governo dell’Aja di trattenerla in extremis.

Fonti del governo olandese hanno dichiarato al Financial Times che il premier ad interim Mark Rutte sta cercando di trovare una maggioranza parlamentare dell’ultimo minuto per eliminare la ritenuta alla fonte del 15% sui dividendi che avrebbe causato la mossa di Shell. Londra è un’eccezione tra i Paesi europei perché non ha alcuna ritenuta alla fonte sugli utili. Già nel 2017 il governo olandese aveva promesso di eliminarla per rendere il Paese più “attraente” per le multinazionali, ma la proposta, che sarebbe costata ai Paesi Bassi un calo di gettito da 1,9 miliardi l’anno, saltò per l’opposizione di Verdi e sinistra.

La gara al ribasso fiscale tra Stati vale anche quando, come in questo caso, di fatto i contendenti sono entrambi paradisi fiscali. A nulla pare dunque essere servito l’accordo siglato venerdì 8 ottobre in sede Ocse, con grandi fanfare, sull’imposta minima globale del 15% per i redditi delle multinazionali.

Esecuzioni, sequestri, espropri: ma i militari ora fanno meno paura

Case e proprietà degli oppositori confiscate, parenti arrestati e tenuti in ostaggio, villaggi bombardati, 220mila profughi interni, sempre più alla fame: la repressione della Giunta militare di Myanmar contro la resistenza civile e quella armata sta subendo in questi giorni, in queste ore, un’accelerazione, se possibile, ancora più violenta e pericolosa. Mentre la deposta leader di fatto del Paese Aung San Suu Kyi rimane agli arresti e sotto processo, i generali hanno ordinato alla Polizia e ai pochi funzionari locali fedeli ai golpisti di colpire duramente le famiglie degli esponenti del governo di unità nazionale (Nug) e del Crph, il Parlamento in esilio. Nel mirino, soprattutto i dirigenti della Lega Nazionale per la Democrazia (Nld), disciolto partito di maggioranza, e le migliaia di cittadini, soprattutto giovani, che si sono uniti alla guerriglia delle Forze di Difesa Popolari (Pdf).

Una rappresaglia spietata e illegale, mirata a fiaccare lo spirito dei combattenti e della popolazione che, in grande maggioranza, vuole il ritorno alla democrazia e sembra determinata – dopo dieci lunghi mesi di regime militare – a pagare qualsiasi prezzo pur di liberarsi della Giunta. Secondo una pluralità di fonti della variegata Resistenza birmana, e testimonianze verbali e fotografiche raccolte dai media sociali locali, nelle ultime settimane almeno cento tra appartamenti, case ed edifici di proprietà di dissidenti, ex parlamentari e organizzazioni accusate di sostenere l’opposizione, sono stati sgomberati e messi sotto sequestro dai golpisti. In molti casi, militari, poliziotti e collaborazionisti civili hanno razziato mobili, televisori e soldi trovati negli immobili e rubato o dato alle fiamme le automobili private dei resistenti, mentre genitori o fratelli dei ricercati vengono portati via e imprigionati senza mandato, per forzare la resa dei loro congiunti, bollati dai golpisti come “terroristi”. La tattica dei generali birmani non è nuova ma viene praticata ora ufficialmente e su una scala mai vista in precedenza, un segnale della apparente disperazione dei militari, che si sentono accerchiati non più solo sul piano internazionale – con poche, vistose, eccezioni – ma anche nelle loro stesse caserme. Dal settembre scorso, quando il Nug chiamò la popolazione a dare il via a una “insurrezione nazionale”, la guerra tra militari e civili è diventata aperta e senza quartiere. Testimoni credibili riferiscono di centinaia di soldati uccisi in imboscate delle Pdf e di un numero crescente di diserzioni nelle file di polizia ed esercito. I media della resistenza birmana, monitorati nel Sud-est asiatico, riportano quotidianamente fotografie di cadaveri in uniforme, armamenti conquistati dalla guerriglia, e video di sparatorie contro posti di polizia e esecuzioni in pieno giorno di collaborazionisti del regime.

Attacchi armati contro i soldati vengono registrati in decine di località di provincia e nelle regioni storicamente controllate dalle milizie etniche, ma si segnalano anche nelle grandi città, nelle strade di Yangon, il cuore commerciale del Paese, e perfino nella super controllata Capitale amministrativa Naypyidaw, roccaforte dei militari. Negli ultimi giorni, gli scontri sono ripresi anche nello Stato del Rakhine, in cui nel 2017 i militari scatenarono la pulizia etnica contro la minoranza musulmana Rohingya, e dove – dai giorni del golpe – era in vigore una fragile tregua tra l’esercito e gli indipendentisti buddisti dell’Arakan Army. Mentre il Paese sta implodendo, sul piano diplomatico la Giunta non riesce a sfondare il muro dell’isolamento politico e del mancato riconoscimento internazionale. Una settimana fa, il capo del Comitato delle Nazioni Unite che investiga sulle violazioni dei diritti umani a Myanmar (Imm), Nicholas Koumjian, ha definito “crimini contro l’umanità” le azioni dei militari, sulla base di oltre 200 mila denunce e un milione e mezzo di elementi di prova raccolti, mentre il Consiglio di Sicurezza dell’Onu non ha accettato la richiesta del regime di Naypyidaw di sostituire l’ambasciatore del precedente governo civile, Kyaw Moe Htun, con un rappresentante della Giunta. Il Paese è isolato perfino nel Sud-est asiatico, dove non abbondano i regimi pienamente democratici e c’è una lunga tradizione di non-interferenza negli affari politici dei vicini. Per la prima volta nella storia, l’Esercito birmano ha subito l’umiliazione dell’esclusione – nell’ottobre scorso – del suo leader, il generale Min Aung Hlaing, dal 39º summit dell’Asean, la debole e irresoluta associazione di dieci Paesi della Regione, di solito sempre accomodante verso i militari di Myanmar. Nonostante la sua impopolarità in patria, la Giunta continua comunque a ricevere il supporto della Russia di Putin e di altri regimi autoritari – che le forniscono armi – ma soprattutto della Cina, da sempre partner economico fondamentale, vicino ingombrante e potenza politica egemone a Myanmar. Nelle ultime settimane, però, Pechino sembra sempre più irritata e preoccupata dell’incapacità dei militari di mettere fine, in modo rapido e definitivo, alla rivolta che si è ora pericolosamente avvicinata alla frontiera con la Cina, minacciando di bloccare i traffici legali e illegali tra i due Paesi – con cui i militari birmani si autofinanziano – e soprattutto gli investimenti cinesi nella tratta birmana della Belt and Road Initiative (Bri), la strategica linea di espansione commerciale e politica verso occidente. Il moltiplicarsi degli attacchi della resistenza contro obiettivi economici legati alla Cina è un tentativo di forzare la mano a Pechino perché abbandoni il sostegno incondizionato alla Giunta e si attivi per riportare al potere un governo civile.

Energia green?. “Usiamo il nucleare francese”. “Sarebbe stupido buttarla”

 

Europa e Italia ecologiche? Certo, però consumiamo l’energia elettrica francese prodotta col nucleare e l’acciaio cino/indiano prodotto col carbone, dopo aver chiuso tutte le nostre acciaierie. Tralasciamo la vergogna di accettare prodotti a basso costo, causa sfruttamento del lavoro altri.

Maurizio Mariotti

Gentile Mariotti, nel mondo globalizzato nessun paese è un’isola, tutti scambiamo materie prime, energia, cibo, rifiuti ed emissioni di gas serra. Quello che conta è il bilancio mondiale, ovvero circa 50 miliardi di tonnellate di CO2 equivalente scaricata ogni anno in atmosfera oppure 8 milioni di tonnellate di plastica negli oceani. Atmosfera e mari non hanno confini! Poi è vero che qualcuno fa greenwashing, dandosi etichette di sostenibilità che non merita, ma per la fisica è un dettaglio trascurabile. Veniamo però ai temi che solleva: la frazione di energia elettrica francese di fonte nucleare che l’Italia importa è veramente irrisoria, meno del 5 per cento annuo. E la compriamo tra l’altro facendo un favore all’ambiente visto che si tratta in genere di produzione a basso costo disponibile in orari nei quali i francesi non la usano, come di notte, utilizzata per pompaggi di acqua negli invasi di montagna e successivo riutilizzo in ore con maggior richiesta. Come dire che tanto il nucleare in Francia c’è, e pur con i suoi innegabili danni ambientali, l’energia che produce sarebbe stupido buttarla via e quindi tanto vale utilizzarla quando è in esubero. Intanto sviluppiamo le rinnovabili. Acciaierie: in Italia non le abbiamo chiuse proprio tutte e comunque se l’Europa introdurrà i dazi sulle emissioni prodotte altrove costringerà i Paesi basati sul carbone a ricorrere a tecnologie più sostenibili. Sull’accettare prodotti a basso costo, basati su sfruttamento di persone e ambiente in altri Paesi, ognuno di noi s’interroghi quando va al supermercato: se costa troppo poco, c’è in genere il trucco: hai inquinato e sfruttato persone altrove. Ovviamente qui servirebbe una maggior trasparenza in etichetta sulla provenienza e le modalità produttive degli oggetti che acquistiamo. Ma molti se ne infischierebbero comunque, guardando solo al portafoglio. La sostenibilità ambientale è un tema complesso e pieno di interconnessioni, occorrono molte informazioni per giudicare ciò che è verde e ciò che non lo è, ma la possibilità di non sprecare è solo nelle nostre mani.

Luca Mercalli

MailBox

 

Indovina chi: Mr. Bean o il senatore di Rignano?

L’altra sera ho visto in tv Otto e mezzo, c’era fra gli ospiti un tipo buffo, che faceva le faccette, strabuzzava gli occhi, rideva a più non posso, interrompeva tutti, insomma, un vero comico. Siamo sicuri che fosse il senatore Renzi e non Mr. Bean?

Giancarlo Valentini

Caro Giancarlo, non confondiamo: il grande Rowan Atkinson fa ridere, non pena.

M. Trav.

 

Dopo “Otto e mezzo” ho deciso di abbonarmi

Non sempre sono d’accordo con Travaglio, ma dopo aver seguito Otto e mezzo della Gruber l’altra sera con Lei, Giannini e Renzi, voglio informarla che ho deciso di sottoscrivere l’abbonamento al Fatto Quotidiano.

Alessandro Sciolla

Grazie, caro Alessandro, benvenuto in famiglia. Abbiamo bisogno di amici critici.

M. Trav.

 

I rischi della demolizione del senatore d’Arabia

Sono ancora un vostro lettore e sarei felice di esserlo ancora per tanti anni, ma purtroppo la battaglia contro Renzi sta diventando noiosa e non vorrei che così facendo si ottenga l’effetto contrario: da carnefice a vittima, ritrovando un sacco di voti insperati. Una cosa però l’ha fatta bene: Draghi, e speriamo che riesca a portare l’Italia fuori dalle sabbie mobili. Tutto il resto è aria fritta degna di giornali di gossip.

Antonio Palone

Gentile Palone, quindi secondo lei Draghi l’ha portato Renzi? E chi è, Amazon? E un giornale dovrebbe rinunciare alle notizie su Renzi per non fargli un favore? E allora, secondo lei, perché i giornali renziani (praticamente tutti) non danno quelle notizie: per fargli un dispetto? E perché denuncia noi che le diamo?

M. Trav.

 

Argomentazioni elusive nei confronti dei no-vax

Avete criticato la Lega e Fratelli d’Italia, perché non prendono le distanze dal fascismo in maniera chiara, ma rispondono con un argomentazioni elusive, nicchiano, lisciano il pelo ecc. Sinceramente mi sembra lo stesso comportamento del Fatto nei riguardi dei no-vax e dei no-pass.

Raffaele Aiello

Caro Raffaele, vedo che ti sei distratto. Io sono vaccinato e pro vax e convintamente contrario al Green pass per lavorare: quindi sono fascista? E chi l’ha deciso: tu?

M. Trav.

 

Una vecchia filastrocca per i vertici della Lega

Alterando scherzosamente una vecchia filastrocca, ecco quel che esce:

Salvini e Giorgetti

stanno sui tetti

vola Salvini

vola Giorgetti

non tornare Salvini

non tornare Giorgetti

Roberto Calò

 

La “solidarietà” come vera cura al Covid-19

Ho appena finto di leggere l’articolo della dott.ssa Gismondo sulla confusione che regna presso i vari Cts europei. Si tratta della solita storia se è nata prima la gallina o l’uovo: occorre fare la terza dose a chi ne ha già ricevute due o è meglio vaccinare chi non ha mai eseguito alcuna vaccinazione? Se la smettessimo di cercare il profitto a tutti costi, soprattutto di fronte a una pandemia che rischia di fare danni incalcolabili alla umanità intera, avremmo già trovato la soluzione. Io credo che le aziende farmaceutiche che detengono il monopolio sui vaccini dovrebbero concedere o vendere l’autorizzazione a produrlo in modo che ogni nazione si faccia la sua “fabbrica” di vaccini. Vorrei lanciare una nuova cura nella lotta contro il Covid, è la parola “solidarietà”. Senza questa non se ne esce.

Paolo

 

Il perché delle continue beatificazioni di Draghi

Ho approfondito un pochino il discorso Inpgi 1 e Inpgi 2 e comprendo perché i giornaloni e i loro trombettieri tifino tanto per Draghi, è evidente: rinunciare a prebende e vitalizi è dura. Ormai siamo davanti a un Ancien regime che vuole appropriarsi di tutti i cornetti. Basti pensare ai plurisuperpensionati alla Amato, che rimane pure presidente della Treccani, una enciclopedia che non legge più nessuno.

Maurizio Dickmann

Amore e cinema fanno “effetto notte”

Ci sono film che invecchiano, come tutti noi, e film che con il tempo diventano più giovani, a riprova che il cinema traffica con la magia. È il caso di Effetto notte, anno 1973, tornato nelle sale superstiti in versione restaurata e sottotitolata. Questo capolavoro in cui François Truffaut interpreta se stesso mentre è impegnato a girare il cupo melodramma Vi presento Pamela tra mille difficoltà e imprevisti, è un film che i cinefili superstiti dovrebbero vedere, o rivedere. I più giovani, in particolare, per almeno tre motivi. Prima di tutto, perché è il racconto di qualcosa che non esiste più: il cinema girato con la pellicola ottica, l’incredibile materialità di quel cinema fatto di enormi macchine da presa, schiere di attrezzisti, carrelli, gru, binari, rotaie, riflettori, spot, gelatine, lampade rosse a incandescenza per creare in pieno giorno l’effetto notte. Cose scomparse, semplificate, standardizzate con l’avvento del digitale. Oggi il mondo è fatto al computer, e anche la vita è sulla buona strada.

Secondo motivo, è il tema di fondo di tutto Truffaut, l’amore. Gli amori dei personaggi di Vi presento Pamela, e insieme gli amori degli attori chiamati a interpretare quei personaggi durante la lavorazione del film; man mano che questi amori si intrecciano, si aggrovigliano e si confondono tra loro, capiamo che l’amore è proprio questo: confusione, caos, impossibilità di distinguere tra menzogne romantiche e verità romanzesche. Il terzo motivo è la sintesi degli altri due. In ultima analisi, Effetto notte è un film sull’amore per il cinema, che nella visione di Truffaut è l’apice del caos vitale, ma anche il suo riscatto: “I film sono più armoniosi della vita, non ci sono intoppi, rallentamenti. I film vanno avanti come treni nella notte”. Vedere e rivedere Effetto notte significa imparare ad amare il cinema, scoprire dove ci porterà quando entriamo in una sala buia, e saliamo su un treno che corre nella notte.

Mancini e gli Azzurri: non eravamo mostri, non siamo brocchi

Prendete lo sbarco sulla luna di Wembley e rovesciatelo. Avrete lo zero di Belfast e dintorni. La Nazionale campione d’Europa esclusa dai Mondiali “diretti” e costretta agli spareggi di marzo. Belfast, oh maledetta: nel 1958, ci cacciò dall’epifania svedese di Pelé. Gridammo allo scandalo; fucilammo gli oriundi, troppi. Lunedì, l’Irlanda del Nord ci ha buttato giù dal pero. C’eravamo tanto amati, per quattro mesi e forse più. Poi più. Succede spesso, da noi. Si sale e si scende dal carro con lucida perfidia, un po’ traditi e un po’ traditori per non dare nell’occhio.

Delle sette partite disputate dopo l’11 luglio, ne abbiamo vinte 2, pareggiate 4 e persa 1: con la Spagna, in Nations League (terzi alla meta). In campo va la rosa, non il giardiniere. Mai dimenticarlo. Fra giugno e luglio si veniva dalla pandemia, era un altro mondo, un altro contesto. Roberto Mancini ci portò oltre i recinti del nostro valore netto, che – in assoluto – rimane la media tra l’impresa e la resa. Per alcuni pulpiti, il Ct non avrebbe intercettato il calo post-Europeo. Se è per questo, manco l’edicola. Siamo sempre lì: se Jorginho, pallone d’oro a loggioni unificati, cicca due rigori contro la Svizzera, l’avversario più “importante”, per usare un banalissimo aggettivo che ha fatto carriera, cosa volete che c’entri il tecnico?

Mi scriveva un lettore, rivisitando l’allunaggio estivo: “Ciuffo di Arnautovic (con riferimento al gol annullato per centimetri, in Italia-Austria 2-1); in pratica, Belgio senza Eden Hazard e De Bruyne, con Lukaku ‘parato’ sulla linea da Spinazzola; semifinale e finale rimediate dal dischetto. Se provavi a dirlo, ti bruciavano vivo”. Non ha tutti i torti. D’improvviso, si parla degli assenti: Leonardo Spinazzola, la fionda di sinistra; Marco Verratti, ora che il centrocampo brancola nel buio; persino Giorgio Chiellini, il vampiro che si avventò sulla giugulare di Bukayo Saka e, immortalato dai sadici ridenti, diventò un’icona. Bei tempi.

Serve un centravanti di peso: si sapeva. Se gioca Ciro Immobile, speri in Andrea Belotti; se tocca al Gallo, invochi Gianluca Scamacca. La fiducia nel tridente leggero (Domenico Berardi, Lorenzo Insigne, Federico Chiesa) non ha pagato. E se fossimo partiti con un “nove” di ruolo? Dalla Under 21 preme Lorenzo Lucca, un traliccio di due metri che sgomita a Pisa, in Serie B. Nella speranza che, un giorno, si possa leggere “Lucca Toni” tutto d’un fiato (e tutto d’un gol).

Non eravamo mostri, non siamo brocchi. Stiamo come d’autunno sugli alberi le foglie. Ai playoff di primavera saremo teste di serie. Sorteggio, il 26 novembre; formula da roulette russa, dentro o fuori: se superi la prima, vai avanti; se passi la seconda, voli in Qatar. Altrimenti, a casa. Le ombre di Cristiano Ronaldo e Zlatan Ibrahimovic ronzano, minacciose, attorno al nostro brusco risveglio. Fu proprio la Svezia, nel novembre del 2017, a segare la carriera di Gian Piero Ventura. Con la differenza che, nel girone, ci era capitata la Spagna, non la Svizzera. Calcio, mistero senza fine buffo: Ventura trascurò Insigne che da parte sua, dopo aver firmato il gol più bello dell’Europeo, ha “mollato” anche Mancini. Aveva il dieci, Insigne: il più impegnativo dei numeri. Un messaggio, una missione. A 30 anni, bisogna evadere dal cappio della posizione fissa. E attenti al contratto da rinnovare, con il Napoli, lui che ne è il capitano: legna che brucia.

Può essere, tornando al Mancio, che il destino lo aspettasse al varco, geloso degli aiutini pregressi. Patti chiari, però: i penalty sbagliati non sono colpi bassi, sono errori. Inoltre, gli esami di riparazione si incroceranno con la volata scudetto e gli ingorghi delle Coppe europee. Fratelli d’Italia contro fratelli serpenti: Claudio Lotito ha già messo le mani avanti: “Immobile si è infortunato in azzurro”. Tiè. Ci divertiremo. Almeno al bar.