Fedez “candidato”. Alla fine è il miglior comunicatore. I media escono a pezzi

Non so se si può trarre una buona storiella o lezioncina su “media e politica” dallo scherzo di Fedez, che molti boccaloni credevano pronto alla carriera politica e invece voleva solo fare il promo del suo disco. Ora se la ride, ed è probabile che conservi ritagli e screenshot a futura memoria del livello raggiunto dal Paese. La storia è nota, lui registra un dominio apposta, fa filtrare qui e là che sarebbe pronto per le elezioni del 2023 (per magia, Fedez sarebbe l’unico sul pianeta a conoscere la data delle elezioni italiane) e molti cominciano ad agitarsi. Chi mettendosi le mani nei capelli col solito “dove siamo finiti” (di solito significa che ci siamo già finiti), chi urlando al neo-neo-neo-populismo, chi facendo i calcoli: per un noto sondaggista ecco già Fedez al dieci per cento che “ruberebbe voti ai 5S”. Intanto si riflette, giustamente, su questi nuovi conflitti di interessi, e su come calcolare il peso politico di milioni di follower. Insomma, un mondo vario, chi ci è cascato con tutte le scarpe e chi ha fatto il sorrisino del dubbio, ma c’è un dato di fatto: una settimana di chiacchiericcio ha dimostrato che non è considerata impossibile una simile opzione (Fedez che sbaraglia tutti alle urne), che è tutto sommato “plausibile”, che l’attuale classe politica è così debole, balorda, impaurita e senza strumenti che sembra temere qualsiasi concorrente. Urca, arriva Fedez! Godzilla! Si candida Amadeus! Sondaggio! La Ferragni avrebbe il 64 per cento in Molise! Un delirio.

Di base, chi sa fare gli scherzi mi sta simpatico, mi viene sempre in mente l’immenso Ugo Tognazzi in prima pagina, catturato come capo delle Brigate Rosse su il Male. In questo caso poi, lo scherzo rivela un po’ lo stato delle cose, ha quindi un valore didattico: attenzione, quelli che stanno decidendo come spendere una valanga di miliardi possono finire ad avere paura di Fedez. Sì, fa abbastanza ridere.

Ma a uscirne malamente è anche il sistema dei media, dopotutto lo scherzo era diretto a loro. Si capisce, naturalmente, che un caporedattore stremato dalle dichiarazioni di due righe, il pastone politico, il feticismo delle cronache parlamentari, abbia bisogno di un po’ di distrazione, ed ecco la simil-notizia di Fedez che registra un sito per le elezioni, è il cielo che la manda. E così parte la giostra, prima la notizia, poi il titolone, poi il commento, poi il ditino alzato. È un attimo che ti scende la catena e ti ritrovi a fare un comizio. E forse è pure peggio, un gioco delle parti che lo stesso Fedez spiega bene: “Nonostante tutti fossero consci che fosse una trollata, per loro era più importante fare finta che fosse vero”.

Il giorno dopo, quando è uscito il vero promo del disco di Fedez e la faccenda è apparsa semplice, tutti se la sono cavata con una fotonotizia, bon, via, alla prossima, che è l’equivalente di andarsene fischiettando.

Alla fine, dopo qualche risata, quel che viene fuori è che il “cantante tatuato”, il “rapper con la terza media”, quello ricco, tutto griffato lui e famiglia, zuccheroso coi figli nelle storie su Instagram, sempre in mezzo a bambini, vestiti, giocattoli, ecco, quello lì che mi guarda da una vetrina di mutande con gli addominali perfetti, capisce di comunicazione più di tanti sedicenti geni messi insieme. Spin doctor, consiglieri, esperti d’immagine, strateghi della narrazione, su, su, fate largo che finalmente, dopo tanta fuffa, arriva uno che ci sa fare. E lo fa citando il caposcuola indiscusso, il padre di tutte le recite: “L’Italia è il Paese che amo…”.

 

Cop26, tocca a tutti noi il (vero) salto di qualità

Valutare l’esito della Cop26 di Glasgow, per chi vi ha partecipato di persona, significa fare i conti con i sensi. La vibrazione di migliaia di gambe che si affrettano tra i padiglioni. L’odore di caffè, moquette e sandwich al formaggio nell’attesa di assistere alle negoziazioni. I toni di un inglese parlato in tutti gli accenti del mondo. Gli occhi sui monitor che comunicano il programma degli eventi di giornata. L’intuito con cui sembra di poter percepire l’umore generale dei negoziatori, sottovalutata ma decisiva “energia rinnovabile” alla base di molte decisioni strategiche.

La dimensione umana si mescola a quella scientifica. Ed è giusto, perché alla Cop si parla di esseri umani. Lo si capisce quando i climatologi dell’Ipcc presentano nella sala grande i risultati del loro ultimo Rapporto sullo stato del clima. Grafici e dati letti decine di volte, ma che ascoltati mentre si condivide la sala con i rappresentanti di Paesi dove le persone muoiono, combattono o migrano a causa di quei dati, si rivestono di carne viva.

Ecco la vera natura della Cop: essere un processo di pace. Di quelli veri, che segnano la storia e le vite di milioni di persone – compresa quella di mio figlio appena nato. Un processo multilaterale e unanime, quindi lento: capirsi tra persone, culture e interessi diversi richiede tempo. Un processo la cui portata storica e geopolitica è diventata lampante durante la discussione del “Loss and Damage”, il meccanismo per il risarcimento dei danni climatici già causati nei paesi più vulnerabili da chi ha la maggiore responsabilità storica delle emissioni. Usa e Europa si sono opposti all’istituzione di un vero fondo di risarcimento. Ma l’aver solamente portato l’argomento al tavolo della negoziazione internazionale ha una portata rivoluzionaria, in grado di stravolgere la geopolitica globale dei prossimi decenni più intensamente di quanto non avvenne in seguito alla seconda guerra mondiale.

Uno snodo centrale, quello dei finanziamenti per il clima, che ha segnato nel bene e nel male l’esito di questa Cop26. Una maggiore cooperazione da parte dei paesi sviluppati avrebbe forse evitato il colpo di scena finale, quando l’India ha preteso di attenuare la forza delle raccomandazioni conclusive sull’abbandono del carbone come fonte energetica.

Raccomandazioni che restano di portata storica, perché nessuna delle 25 precedenti conferenze sul clima aveva mai citato esplicitamente le responsabilità dei combustibili fossili nella crisi climatica.

E i risultati concreti? Gli impegni dei Paesi sono stati migliorati, ma non abbastanza per limitare il riscaldamento sotto la soglia di sicurezza dei +1,5 gradi rispetto all’epoca preindustriale. Il processo però è avviato, e ai Paesi è stato chiesto di tornare con impegni aggiornati già l’anno prossimo – anziché tra cinque come previsto. I fondi richiesti dai Paesi in via di sviluppo non sono ancora stati messi a disposizione, ma è stato firmato l’impegno a raddoppiarli. I risarcimenti climatici non sono ancora realtà, ma sarà avviato un dialogo negoziale tra le parti. E il libro delle regole degli accordi di Parigi è stato finalmente completato, seppure con alcuni compromessi al ribasso, come la possibilità per i Paesi di utilizzare a proprio credito progetti ormai conclusi ereditati dal precedente Protocollo di Kyoto. Infine, a sorpresa, sono stati stipulati numerosi accordi multilaterali – per limitare le emissioni di metano, l’uso del carbone, la deforestazione, i finanziamenti all’estrazione di combustibili fossili – a cui anche l’Italia ha partecipato a vario titolo.

Ma non è solo su questo che si gioca il successo della Cop26. Il risultato più eclatante è la portata politica del suo documento finale e il confronto multilaterale che ha portato alla sua stesura. Un processo che non può da solo risolvere la crisi climatica, ma che può segnare un cambiamento graduale e inesorabile nei rapporti tra gli Stati e nella loro consapevolezza di appartenere a una comunità globale.

Risolvere la crisi climatica continuerà a richiedere il nostro contributo attivo di cittadini. Per chiedere a chi ci amministra sempre maggiore ambizione, finché non saremo saldamente sulla traiettoria che conduce all’azzeramento netto delle emissioni al 2050. Per dimostrare nelle nostre vite personali e di comunità che ridurre le emissioni del 45% nei prossimi 10 anni è possibile. E soprattutto per sviluppare a tutti i livelli la consapevolezza di essere connessi alle sorti di tutti gli abitanti del pianeta, senza confini nazionali.

Solo questa consapevolezza potrà far maturare all’umanità e a chi la rappresenta gli strumenti di diritto internazionale e di cooperazione adeguati a generare un’azione sul clima finalmente efficace e che metta al centro le persone. In fondo, è anche una questione di sensi.

 

Chappelle e la libertà di espressione, come se ci fosse libertà di razzismo

La comunità LGBTQ+ e le associazioni per i diritti civili hanno protestato contro Dave Chappelle a causa delle gag transfobiche e omofobiche contenute nei suoi show Netflix, fondate su falsità fattuali, stereotipi denigratori e banalizzazioni reazionarie. In nome di una malintesa “libertà di espressione”, il discorso irresponsabile sta facendo proseliti anche da noi, complici le destre che se ne servono per la loro propaganda tossica.

Falsità fattuali. Chappelle fa la vittima (“Sapete chi mi odia di più? La comunità transgender”), ma se fai battute razziste non puoi stupirti se il bersaglio non ci sta. Dopo aver insinuato che le utenti trans di Twitter hanno spinto al suicidio una sua amica trans, la comica Daphne Dorman, che lo aveva difeso, Chappelle ricorda una sua affermazione:“Con le gag sulle trans, Dave, tu normalizzi le trans”. Non è così, come dimostrano le proteste LGBTQ+; e il fatto che lo pensasse una donna trans non significa che quel sillogismo sia corretto. Il sillogismo corretto è questo: se fai il razzista sdogani i razzisti, cioè normalizzi che ci siano vittime del razzismo. Chappelle farebbe meglio a chiedersi perché il suo linguaggio è quello delle persone transfobiche e omofobiche. Samantha Allen (The Daily Beast): “Rido alle battute sulle persone trans di comici come Jimmy Kimmel, Michelle Wolf e il comico trans Ian Harvie. Trovano umorismo nella nostra esperienza senza implicare che siamo disgustose, subumane o indegne di amore. E sarebbe difficile trovare un gruppo di persone trans che non faccia qualche grossolana battuta anatomica ogni tanto, nella sicurezza della reciproca compagnia. Ma quello non è il tipo di battute che fa Chappelle.”

Banalizzazioni reazionarie. Negli Usa, chi è consapevole dei dispositivi sociali che creano e promuovono disuguaglianze è detto “woke”. I reazionari Usa, ovviamente, non perdono occasione per scagliarsi contro la “woke culture” invocando la libertà di espressione, come se ci fosse libertà di razzismo e di hate speech; e ne fanno un fascio con la “cancel culture”, perché parlare di “cancel culture” confonde l’uditorio mischiando le cose sbagliate (l’ostracismo contro chi è accusato senza prove, come Woody Allen; la richiesta di rimuovere dalle biblioteche libri del passato i cui contenuti razzisti oggi non sono accettabili; e il bullismo web contro chi, semplicemente, non la pensa come te) con quelle sacrosante (la denuncia e il boicottaggio del razzismo, dei razzisti e dell’hate speech; e la richiesta di rimuovere dai luoghi pubblici statue di personaggi storici o di scultori dal passato razzista, per metterle in un museo che le contestualizzi): mettendo le cose sbagliate sotto le etichette-ombrello “woke” e “cancel”, i reazionari puntano a rimuovere dal discorso pubblico quelle sacrosante, come la critica al razzismo e alle disuguaglianze, che guarda caso sono frutto delle politiche reazionarie. Anche il comico Ricky Gervais fa confusione: “Puoi essere il comico più woke e più politicamente corretto, ma non sai come sarà fra 10 anni. Puoi essere cancellato per cose che hai detto 10 anni fa.” Quindi se non condivido il razzismo devo stare zitto perché fra 10 anni la società potrebbe essere razzista? Ma oggi non sto zitto proprio perché non voglio che fra 10 anni la società diventi razzista. I reazionari che si lamentano di come la “cancel culture” tappi loro la bocca, ha osservato il comico Jon Stewart, in realtà non stanno zitti un momento (sostenuti fra l’altro da colossi mediatici come il Wall Street Journal, FoxNews e Netflix; e ospitati pure dal New York Times, e in Italia da Repubblica); e lesti hanno strumentalizzato lo show di Chappelle per portare avanti la propria agenda reazionaria. (16. Continua)

 

La pandemia distinguerà i “garantiti” dai no-vax

Sarebbe cosa buona e giusta “una settimana senza no-vax in video” (Aldo Grasso), ma molto dipende dai casting e cioè da quanti picchiatelli, casi umani, furbacchioni sulla pelle del prossimo le produzioni decidono di convocare in base allo share che la compagnia di giro può assicurare. Ultimamente i numeri da circo degli ex portuali, negazionisti a prescindere (e Covid incorporato) funzionano meno, mentre l’agitatore esagitato (“basta dittatura”) tende a creare assuefazione e cambio di rete. Senza contare che la convergenza tra neofascisti e sovversivi no-pass (con annesse minacce ai Migliori di Mario Draghi) inducono alla prudenza i vertici delle emittenti, pubbliche e private, che non rischiano certo la poltrona per qualche stralunato ospite che si cura con il vermifugo equino.

Tira invece il negoziante da centro storico, un tempo sbrigativamente assimilato alla categoria degli evasori fiscali, ma oggi elevato a emblema dell’Italia che lavora e che produce, colpita al cuore negli incassi natalizi dai cortei casinisti. Comunque, tutte chiacchiere abbastanza inutili: il treno della vaccinazione non lo ferma più nessuno e dove vai se il Green pass non ce l’hai? Certo, ci sono ancora sei o sette milioni di non vaccinati e i numeri dei contagi salgono, come sempre con l’autunno-inverno. Certo, per stare tutti un po’ più sicuri ci vorrà la terza dose, ma anche una quarta e una quinta e chissà quante altre ancora considerando che, dicono gli esperti, il morbo sta per entrare nella fase endemica e ci accompagnerà a lungo, come già avviene con l’influenza di stagione, ma in forme più gravi. Dunque, come già avviene per i blocchi sociali, anche la pandemia distinguerà tra garantiti e non garantiti. I primi, abbastanza protetti, in caso di contagio avranno buone probabilità di farcela e senza complicazioni. I secondi saranno sempre più esposti al rischio di finire in terapia intensiva per non parlare del resto. Purtroppo, a differenza di chi non ha un lavoro, se la saranno cercata. Con il fattivo contributo dei “no-vax con il … degli altri” (Grasso).

Quando Matteo era il coniglio e scappava dalle folle

Il M5S guidato da Conte rivolge a Renzi 13 domande sui soldi alla fondazione Open e sulla macchinetta del fango della comunicazione renziana, e Renzi risponde sfidando Conte a un duello Tv (qualcuno deve avergli detto che ultimamente in Tv va fortissimo, che straccia gli avversari con argomenti solidi e oratoria ciceroniana, e lui deve averci creduto) per chiedergli conto del Venezuela (Conte ha ricevuto bonifici dal Venezuela sul suo c/c personale? È indagato per finanziamento illecito? Sponsorizza dittature per soldi? Chissà). Poche ore dopo, fremendo di passare l’avversario a fil di spada, siccome Conte non gli ha ancora risposto va a L’aria che tira e gli dà del “coniglio”, accusandolo di scappare per paura di lui e della sua contromossa micidiale.

Breve inciso: sul tema “Renzi coniglio” esiste una bibliografia sterminata, venne coniato anche un hashtag, #renziscappa, per rendere conto delle sue fughe, non dai politici con l’1%, ma da turbe di gente infuriata che lo contestava dovunque andasse, costringendolo a dileguarsi dalle uscite sul retro con la scorta; dovette cancellare dal web le tappe del tour in treno (affittò un treno vero per risollevarsi dopo il referendum perso, come si sa inutilmente) perché la gente lo aspettava nelle stazioni al grido di “buffone!”, bloccando la viabilità sui binari.

Altri tempi; oggi Renzi si sente addosso il fervore di un Lermontov. Infatti, mentre accusa Conte di codardia perché non espone il petto al suo fiacco piombo, briga per l’immunità senatoriale e rifiuta di farsi interrogare dai pm di Firenze, insieme ai suoi coindagati nell’inchiesta per finanziamento illecito alla fondazione Open. (Antica regola di cavalleria: non si accettano duelli lanciati da soggetti manifestatamente allo stremo).

2020, dimezzate diagnosi Hiv: “È un effetto della pandemia”

Sono in calo in Italia i casi di Hiv. Nel 2020, sono state segnalate 1.303 nuove diagnosi di infezione, un numero ancora più ridotto rispetto a quello già in progressiva diminuzione osservato negli ultimi dieci anni. A dirlo sono i dati pubblicati dall’Iss pubblicati sul sito. “Rispetto al 2019 – commenta Barbara Suligoi – il numero di nuove diagnosi Hiv del 2020 è quasi dimezzato, molto probabilmente per la pandemia e le restrizioni di aggregazione”. L’incidenza in Italia è stata inferiore a quella media nell’Ue (2,2 vs. 3,3 nuovi casi per 100.000 residenti).

Colpo al clan Fasciani. Confiscati 12 milioni

Duro colpoal clan Fasciani di Ostia. La Guardia di Finanza di Roma ha confiscato loro in via definitiva un patrimonio del valore di oltre 12 milioni di euro tra cui società commerciali, appartamenti e locali. Si tratta di un patrimonio considerato riconducibile a esponenti di spicco del clan. Nel provvedimento rientrano 7 società e una ditta individuale che operavano principalmente a Ostia nella gestione di forni, bar, ristoranti e stabilimenti balneari, 12 immobili, tra appartamenti e locali commerciali a Ostia e a Capistrello (in Abruzzo) e un terreno. “Un trionfo dello Stato sulla criminalità”, l’ha definito Gianpiero Cioffredi, presidente dell’Osservatorio per la Sicurezza e la Legalità della Regione Lazio.

Concorsopoli Pd Lazio. Finanza apre indagine

La Guardia di Finanza indaga sulle possibili irregolarità nel concorso per le nuove assunzioni della Asl Roma 4. Le Fiamme gialle hanno acquisito i documenti il 12 novembre scorso. La procedura era stata sospesa prima delle prove orali dalla Regione Lazio sull’onda dell’inchiesta del Fatto relativa alla cosiddetta “Concorsopoli” di Allumiere. Il Tar nei giorni scorsi l’ha di fatto riattivata. Il sindacato Fials aveva fatto presente come fra i candidati vi fossero numerosi esponenti e militanti del Pd, oltre a loro parenti, fra cui proprio il vicesindaco di Allumiere. L’accesso della Gdf è avvenuto su richiesta della Procura di Civitavecchia.

Perugia, archiviato il Gip di Roma Sturzo

Finiscecon un’archiviazione l’inchiesta che a Perugia vedeva indagato Gaspare Sturzo. Gip del caso Consip, Sturzo aveva rigettato la richiesta di archiviazione avanzata dai pm di Roma disponendo nuove indagini tra gli altri per Tiziano Renzi e l’iscrizione nel registro degli indagati di Denis Verdini, ed era stato tirato in ballo proprio dall’ex senatore in un interrogatorio dell’ottobre 2020. Verdini fece riferimento alle elezioni siciliane del 2012 e a presunte interlocuzioni che ci sarebbero state nella possibile individuazione di un candidato unitario, tra i quali sarebbe stato vagliato anche il nome di Sturzo, su cui Verdini avrebbe detto no. I pm avevano chiesto l’archiviazione non ritenendo sussistente l’ipotesi dell’abuso d’ufficio.

“Parnasi pagò Eyu per darli al Pd? Ha capito male”

“Parnasi dice che ha dato soldi a Eyu per finanziare il Pd? Forse ha equivocato”. Francesco Bonifazi, ex tesoriere del Pd, è stato interrogato (su sua richiesta) in uno dei filoni dell’inchiesta sullo stadio dell’As Roma durante l’udienza preliminare in corso a Roma. L’attuale senatore di Italia Viva è indagato per finanziamento illecito insieme all’immobiliarista romano Luca Parnasi. La Immobiliare Pentapigna srl di Parnasi ha pagato nel 2018 la Fondazione Eyu con due bonifici da 100mila e 50mila euro per lo studio dal titolo “Case: il rapporto degli italiani con il concetto di proprietà”. Per i pm quei soldi servivano a finanziare il Pd. Bonifazi, rispondendo alle domande del gup Annalisa Marzano e della pm Giulia Guccione, ha ripercorso i due incontri con Parnasi. Il primo, a cena, il 18 gennaio 2018. “Voleva sostenere il Pd – ha detto – con 250 mila euro. Io gli dissi che vi è un limite di legge, una soglia di 100 mila euro. Rappresentai l’esistenza di una fondazione con una formula di stile, gli dissi che era un soggetto giuridico privato e, specificai, del tutto autonomo del Pd, che portava avanti attività culturali. Perché quello studio? Non è che la fondazione vende magliette”. L’argomento, per Bonifazi, “ha occupato pochi minuti durante la cena”, quanto è bastato per convincere Parnasi: il 15 febbraio, in un secondo “veloce” incontro al Nazareno “mi disse: ci ho riflettuto, finanzio la Fondazione”. Ma “forse aveva equivocato”.