Una coltellata alla gola che non gli ha lasciato scampo. È stato ucciso nella sua casa di Vetralla, in provincia di Viterbo, Mattias un bambino di appena 10 anni. Quando la madre nel primo pomeriggio è rientrata a casa lo ha trovato così, agonizzante. Inutili i soccorsi per il figlio. A sferrargli la coltellata si ipotizza possa essere stato il padre, trovato in un’altra stanza in stato di incoscienza. L’uomo, un 44enne polacco, aveva un divieto di avvicinamento alla famiglia e fino a ieri mattina era ricoverato a Roma per Covid. È stato trasportato all’ospedale di Viterbo e verrà ascoltato non appena possibile. Nelle prossime ore anche la sua posizione sarà valutata. Verranno effettuati anche esami tossicologici per stabilire se abbia assunto qualche sostanza, visto lo stato di confusione e incoscienza nel quale è stato trovato. I carabinieri stanno sentendo testimoni per ricostruire quanto accaduto nell’appartamento della palazzina di due piani a Cura di Vetralla. In particolare, i vicini potrebbero aver sentito qualcosa nel primo pomeriggio.
Nuove nomine, la Rai di Fuortes è (quasi) fatta
Monica Maggioni sempre più verso il Tg1 al posto di Giuseppe Carboni (nonostante le barricate del M5S), che dovrebbe traslocare a Rainews o al Gr. Gennaro Sangiuliano sarebbe confermato al Tg2, mentre al Tg3 approderebbe Simona Sala, lasciando libera la direzione del Gr per Nicola Rao (in quota Fdi) o per lo stesso Carboni. A completare il quadro la conferma di Alessandro Casarin alla Tgr e l’arrivo di Alessandra De Stefano in Raisport. Questo lo schema per le prime direzioni Rai targate Carlo Fuortes. E così dovrebbe essere salvo sorprese delle ultimissime ore. Ieri sera, per esempio, sembra che la partita si sia spostata sulla scrivania del capo di gabinetto di Draghi, Antonio Funiciello. Potrebbe saltare tutto? Questa mattina, però, i curricula dei candidati dovranno essere sulle scrivanie dei consiglieri, in vista del Cda di domani. Per Andrea Vianello e Mario Orfeo si parla di due direzioni di genere: day time e approfondimento news. Sembra esclusa la papessa straniera al Tg1 (Varetto, Pancheri o Galloni).
I conti della Corte in tasca a Enel: “Nel 2020 consulenze raddoppiate, 35 milioni di euro”
È stata una vera cuccagna, per i consulenti, l’infinita contesa di Enel su Open Fiber, la società della banda ultralarga della quale solo ad agosto scorso l’ex monopolista nazionale dell’elettricità ha ceduto il proprio 50% per 2,65 miliardi alla cordata formata tra l’ex socio paritetico Cdp Equity e il fondo australiano Macquarie al 40%. Grazie a quella vertenza, le consulenze assegnate nel 2020 dalla società guidata dall’ad Francesco Starace sono sostanzialmente raddoppiate rispetto al 2019 a 35,41 milioni. Il boom di queste spese è stato dovuto per buona parte per l’incremento dei pareri su “fusioni e acquisizioni” (13,57 milioni rispetto ai 2,36 del 2019) connessi a operazioni straordinarie per circa 11 milioni. Non è d’altronde immaginabile che l’aumento di queste spese sia dovuto solo all’acquisizione realizzata lo scorso anno da parte di Enel X del 100% di CityPoste Payment (CPP), la società fintech italiana specializzata nei servizi di pagamento. Un altro balzo è stato quello delle consulenze “strategiche-organizzative-direzionali” per 16,27 milioni, circa 9 milioni in più rispetto al 2019, dovuto principalmente all’elaborazione della strategia del gruppo fino al 2030, allo sviluppo delle reti e all’esplorazione di opportunità di investimento all’estero. La somma totale non comprende le consulenze affidate da società del gruppo al di fuori dell’Italia e quelle infra-gruppo. I dati emergono dalla relazione sul controllo sulla gestione finanziaria di Enel nel 2020, varata nei giorni scorsi dalla sezione di controllo sugli enti della Corte dei Conti. Nemmeno l’amministratore delegato Starace lo scorso anno ha avuto di che lamentarsi, grazie a compensi totali a vario titolo per 6,86 milioni. Nemmeno gli altri undici dirigenti di Enel con responsabilità strategiche hanno pianto, incassando emolumenti complessivi per altri 13,59 milioni. Nei conti 2020 Enel ha fatto segnare un risultato netto ordinario di 5,2 miliardi, in crescita del 9% sul 2019, e un utile netto di 2,61 (+20,1%). Il dividendo 2020 è stato pari a 0,358 euro per azione, in crescita del 9,1% sul 2019. La redditività è andata soprattutto al Tesoro, primo azionista con il 23,5% (il rimanente flottante è diviso tra investitori istituzionali e 640 mila piccoli azionisti), nonostante ricavi in calo del 19,1% a 64,985 miliardi e un margine operativo lordo a 16,816 miliardi (-5%) per l’impatto della pandemia. Contattato, il gruppo non ha risposto.
‘Ndrangheta, 104 arresti in tutta Italia. Il politico al boss: “Ti farei una statua”
La nuova ’ndrangheta gioca su più tavoli: dalla droga alla finanza. E non dimentica il passato: il controllo del territorio, le minacce, le estorsioni. In Calabria come in Lombardia. Questo il senso dei 104 arresti eseguiti ieri da tre Squadre mobili coordinate dalla Direzione anticrimine (Dac) diretta dal dottor Francesco Messina. Operazione imponente e tre Procure (Reggio Calabria, Firenze, Milano) che riguarda gli interessi della cosca Piromalli-Molè di Gioia Tauro. Ed è proprio al Nord, nella zona di Como, che la figura dell’imprenditore colluso si aggiorna. Si legge, infatti, nelle 1418 pagine di decreto di fermo firmato dalla Dda di Milano come “le imprese mafiose abbiano compenetrato il metodo mafioso con il know how caratterizzante l’imprenditoria lombarda riguardante la costruzione di sistemi fraudolenti tesi a ottimizzare i profitti illeciti attraverso la commissione di plurimi reati di frode fiscale e bancarotta”. L’obiettivo è mettere sotto scacco gli imprenditori con metodi tradizionali per poi renderli organici alla cosca. Come capitato a Cesare Pravisano, ex politico locale, ex bancario, oggi indagato per associazione mafiosa assieme agli emissari della cosca. Sarà lo stesso Pravisano a spiegarlo ai pm: “Mi sono prestato a fare la faccia pulita, intendo dire che mi portavano in giro quando andavano a chiedere soldi perché sapevano che ero una persona affidabile, e in quel periodo lavoravo in banca (…). Io e Carugati (Marino, ex sindaco di un comune della zona non indagato, ndr) eravamo perfetti in quanto avevamo contatti sul territorio ed entrambi avevamo rivestito cariche pubbliche”. Tra le vittime anche i vertici della storica società Spumador costretta a dare alla mafia l’appalto per il trasporto. Affari, dunque. Ma anche politica collusa e compiacente. Intercettato, un ex consigliere comunale si rivolge così al braccio destro del boss, Bartolomeo Iaconis: “Se non ci fossi tu, tutti sarebbero in mezzo a una strada. Io veramente ti farei una statua”.
Ma il core business dei Molé da sempre è la cocaina. Nel marzo 2020, in pieno lockdown, la polizia ne ha trovato mezza tonnellata in una masseria a Gioia Tauro. Quattro mesi prima, altri 430 panetti nel porto Livorno. Sono solo due dei sequestri di droga eseguiti dalla squadra mobile e dallo Sco nell’inchiesta della Dda di Reggio Calabria che nel filone calabrese ha portato all’arresto di 36 indagati. Alcuni di loro, in un’intercettazione, si sono definiti la “Nuova narcos europea”. La realtà è che la cosca Molé di Gioia Tauro, data per spacciata dopo la faida con gli storici alleati Piromalli, esiste ancora. Ed è più feroce di prima e ha il volto di Rocco Molé, 26 anni e già boss di Gioia Tauro. Da minorenne era riuscito ad allontanarsi dalla sua famiglia aderendo al progetto “Liberi di scegliere”, per poi ritornare in Calabria. Dove ha preso il posto del padre, il boss don Mimmo Molé, e soprattutto dello zio, il capobastone Rocco ucciso nel 2008. Il giovane Molé, per i pm, è l’astro nascente della cosca al centro dell’operazione coordinata dal procuratore Giovanni Bombardieri, dall’aggiunto Gaetano Paci e dal pm Paola D’Ambrosio. Dalle estorsioni per prendersi il mercato ittico a Gioia Tauro alla droga. A disposizione anche chimici e palombari. Questi erano “appartenenti alla Marina militare peruviana”, impiegati, “per il recupero in alto mare dei carichi di coca giunti dal Sudamerica”. Le regole le facevano sempre i Molé. Un’intercettazione sintetizza tutto: “Ma lo sai che se eri in Calabria ti si buttava nell’acido?”.
“Mafia al Nord: ad aprirle la strada, gli imprenditori”
La mafia uccide meno e fa più affari. Anche nelle regioni del nord in cui si è ormai saldamente insediata. Lo racconta il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri, con Antonio Nicaso, nel nuovo libro Complici e colpevoli. Come il Nord ha aperto le porte alla ’ndrangheta.
Dottor Gratteri, sono solo “infiltrazioni”?
Direi che ormai bisogna parlare di radicamento. Le mafie e, in modo particolare la ’ndrangheta, si sono infiltrate in molte regioni del nord negli anni 50-60 e ’70, trovando terreno molto fertile.
Com’è stato possibile che un’organizzazione criminale con la testa in Calabria sia diventata la mafia più potente nelle regioni ricche del nord?
È possibile, soprattutto se si tiene conto che anche in regioni come Lombardia, Emilia, Liguria, Val d’Aosta, Piemonte, Veneto e Trentino Alto Adige la ’ndrangheta ha trovato imprenditori e politici che hanno agito secondo logiche di convenienza. Come è successo al Sud, le mafie al nord sono state colpevolmente sottovalutate e successivamente legittimate sul piano economico e politico.
Le ’ndrine sono arrivate al Nord per l’effetto, come dice qualcuno, di un “contagio” dall’esterno, causato dalla pratica del soggiorno obbligato dei mafiosi?
Con il prof. Nicaso abbiamo visto che la metafora del contagio non regge proprio. Il soggiorno obbligato non giustifica il radicamento mafioso. A garantirlo sono state le relazioni, i servizi offerti agli imprenditori soprattutto nel settore dell’edilizia.
Quali business, legali e illegali, praticano i gruppi di ’ndrangheta insediati nelle regioni del Nord?
In alcuni casi hanno iniziato a vendere prima eroina e poi cocaina, in altri a garantire manodopera a basso costo e servizi a prezzi stracciati, come il trasporto degli inerti. L’edilizia ha fatto da traino, ma la droga, soprattutto la cocaina, ha garantito gli investimenti successivi, quelli che hanno portato i prestanome delle cosche a conquistare fette di mercato nell’ambito dell’edilizia, dei servizi, della ristorazione e del mercato immobiliare.
Quanto pesano finanziariamente i boss del Nord?
Oggi sono molto potenti. Sono gli unici che hanno grandi liquidità e riescono a rilevare aziende in difficoltà soprattutto a causa dell’emergenza sanitaria ed economica. Gestiscono la loro ricchezza in modo oculato, cercando di evitare il sequestro e la confisca dei beni. Spesso vanno alla ricerca di Paesi meno resilienti nella lotta ai patrimoni mafiosi. In Europa, come ricordiamo nel libro, si riesce a confiscare meno dell’1% dei soldi e dei beni accumulati dai mafiosi.
Che rapporti hanno stretto con i poteri locali, gli imprenditori, i professionisti, i politici?
Se non avessero avuto la capacità di stringere relazioni con sfere della politica, dell’economia e della finanza, le mafie sarebbero rimaste criminalità organizzata, facili da contrastare e da combattere. Al Nord la politica si è dimostrata permeabile in tante occasioni, come dimostrano anche i consigli comunali sciolti per infiltrazioni mafiose.
La politica sta combattendo la mafia?
Sulle ultime riforme della giustizia mi sono più volte espresso. Purtroppo nessuna ha aiutato nella lotta alla mafia. Anzi, in certi casi portano a un aggravio incredibile. Pensi solo alla previsione della cosiddetta udienza filtro per il dibattimento, prevista dalla riforma Cartabia. Ma chi la fa in tribunali con dieci persone? Impossibili, bloccherà tutto con inevitabili conseguenze anche sui processi alla criminalità organizzata. Potrei fare anche molti altri esempi ma è inutile. Sarebbe necessaria una riforma d’insieme che consenta una reale velocizzazione, dalle notizie di reato fino alla Cassazione. Ma non vedo una reale volontà in questa direzione.
A Milano, diventata probabilmente la capitale della ’ndrangheta al Nord, è ora libero il posto di procuratore della Repubblica. Perché lei non ha fatto domanda per continuare a Milano il lavoro che ha iniziato in Calabria?
In questo momento storico ho preferito restare nell’ufficio che dirigo da cinque anni per varie ragioni.
Spera invece di poter diventare procuratore nazionale antimafia?
Certo che lo spero, altrimenti non avrei fatto domanda. Non faccio domande per “sondare” il campo, ma per i posti per i quali sono realmente interessato. Lo dimostra il fatto che non ho fatto domanda alla Procura di Milano.
Perquisita la stanza segreta alla moglie del super-boss
Una piccola camera murata nella stanza da letto della casa palermitana di Rosalia Galdi, moglie del boss stragista Giuseppe Graviano. Un luogo finora tenuto segreto e di cui gli agenti della Dia si sono accorti durante la perquisizione del 27 ottobre scorso. Ieri, i pm di Firenze, Luca Tescaroli e Luca Turco, hanno inviato di nuovo la Dia a Palermo per cercare “documenti e flussi comunicativi anche conservati nei supporti informatici”. Presto i pm risentiranno su questo sgabuzzino misterioso il boss Giuseppe Graviano, condannato per le stragi del 1992 e 1993 e per altri fatti, e la moglie Rosalia, non indagata. Il boss è detenuto dal 1994. Le perquisizioni di fine ottobre sono state disposte nei confronti della moglie e di altri familiari, tutti terzi non indagati, nell’ambito dell’indagine su Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi relativa al loro ruolo presunto come mandanti esterni delle stragi del 1993 a Milano e Firenze e degli attentati del 1993-94 a Roma.
I magistrati ora vogliono capire chi abbia avuto accesso al “nascondiglio” di casa Graviano e soprattutto cosa lì sia stato conservato negli anni. L’indagine fiorentina ha subito un’accelerazione dopo le dichiarazioni rese ai pm da Giuseppe Graviano, il quale ha fornito dettagli sui luoghi dei suoi asseriti incontri con Berlusconi a Milano e sui termini del presunto accordo finanziario tra i palermitani, incluso suo nonno materno Filippo Quartararo, e Berlusconi. Circostanza che i legali del leader di Forza Italia hanno più volte nettamente smentito. Intanto i pm stanno cercando di verificare le parole di Graviano per capire se dica la verità o no.
La procura cerca “documenti utili alle indagini da parte di soggetti a lui vicini al fine di verificare la sussistenza dei rapporti finanziari dallo stesso indicati che costituirebbero antefatto rispetto alla strategia che ha portato all’esecuzione delle stragi del biennio 1993-1994”. Il 27 ottobre, dunque, gli agenti hanno bussato anche alla porta di Rosalia Galdi (terza non indagata) e lì hanno scoperto che qualcosa, nella reale conformazione della casa non tornava: non era inerente alla planimetria. È scritto nel verbale del 27 ottobre: “Dalla planimetria catastale dell’immobile (…) si riscontrava la presenza di un vano posto adiacente alla camera da letto matrimoniale non riscontrato ictus oculi durante le operazioni di perquisizione”. Spostando l’armadio della camera, così gli agenti hanno trovato un “accesso murato”, mentre le telecamere “Sercicam” hanno rivelato la presenza di un locale “privo di finestre, (…) completamente vuoto, di circa 2 mq regolarmente pavimentato e imbiancato”. Per i pm quel vano costituisce – è scritto nel decreto di perquisizione di ieri – “verosimilmente un nascondiglio”. E aggiungono: “Occorre appurare se, successivamente alla perquisizione, lo stato dei luoghi sia stato alterato e se il muro sia stato abbattuto. In caso contrario si procederà all’abbattimento del muro, verificando se sotto il pavimento o sopra il soffitto o nelle pareti vi siano incavi con conservazione di quanto oggetto dell’originaria perquisizione…”. L’ispezione e la perquisizione di ieri in casa della Galdi sono finalizzate dunque a “verificare se sia stato mutato lo stato dei luoghi, onde individuare le tracce e altri effetti materiali del reato, e al rinvenimento dei documenti e dei relativi flussi comunicativi anche conservati nei supporti informatici”. I pm hanno chiesto anche di sequestrare l’email della Galdi e di acquisire “eventuali contratti di compravendita, donazione, di locazione” di “tale immobile”.
“Incontro Graviano-B.”: i pm a caccia della casa
Una casa di Milano 3 è la nuova frontiera delle indagini sui presunti rapporti tra Silvio Berlusconi e il boss Giuseppe Graviano. Nelle scorse settimane gli investigatori della Dia di Firenze hanno fatto un giro con grande circospezione nella città satellite costruita nel comune di Basiglio, alle porte di Milano, dal gruppo Berlusconi negli anni ottanta.
Lo scopo era verificare il racconto di Graviano sul luogo dove si sarebbe tenuto l’ultimo dei suoi tre presunti incontri con Berlusconi.
Il boss di Brancaccio, 58 anni, è recluso dal 27 gennaio 1994 nel rigido regime di isolamento dell’articolo 41 bis, arrestato e condannato con il fratello Filippo per le stragi del 1992 e del 1993. Non è un collaboratore di giustizia ma un irriducibile. Le sue rivelazioni non sono riscontate e sono da prendere con le molle. Per lui chi accusa gli ex compagni di ‘Cosa Nostra’, resta un infame.
Però Graviano parla di Berlusconi, dei suoi presunti incontri e dell’appartamento di Milano 3. Secondo lui nei primi anni novanta era nella disponibilità del cugino Salvatore Graviano, morto di tumore nel 2002. L’appartamento di Milano 3 era comodo per non registrarsi in hotel e sarebbe stato usato anche da Giuseppe Graviano per gli incontri milanesi.
Il boss ne ha parlato prima in cella nel 2016-2017, in modo criptico, con il compagno di detenzione Umberto Adinolfi mentre le videocamere nascoste dei pm di Palermo lo registravano. Poi il 7 febbraio 2020 più chiaramente in aula al processo Ndrangheta Stragista. Quando era arrivato all’appartamento di Milano 3, quel giorno Graviano chiese al procuratore di Reggio Calabria Giuseppe Lombardo se fosse interessato ai dettagli. Non essendo oggetto del processo (che riguardava gli attentati contro i Carabinieri nel dicembre 1993-gennaio 1994) Lombardo ha declinato l’invito.
I pm di Firenze Luca Tescaroli e Luca Turco invece, avendo in piedi un’indagine nei confronti di Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri sul loro presunto ruolo di ‘mandanti esterni’ nelle stragi del 1993 a Milano e Firenze e negli attentati del 93-94 a Roma, sono andati a vedere ‘le carte’ del boss. L’ipotesi di accusa contro i due fondatori di Forza Italia è ovviamente tutta da riscontrare. Già più volte nei decenni passati è stata archiviata su richiesta degli stessi pm fiorentini che l’avevano aperta. Magari anche stavolta finirà così ma i pm pensano che non si possa lasciar nulla di intentato per verificare affermazioni così delicate, anche a discarico degli indagati illustri.
A sorpresa davanti alle domande dei pm e della Dia il boss è stato insolitamente loquace, anche su Milano 3.
Le indicazioni di Graviano sui punti di orientamento (un ponticello di quelli che servono ai pedoni per non incrociare le auto a Milano 3 e la caserma dei Carabinieri nelle vicinanze) hanno guidato la ricerca della Dia verso uno stabile e un appartamento in particolare. I ricordi del boss e le risultanze dell’indagine sul campo per alcuni aspetti presentano coincidenze. L’appartamento ‘sospettato’ oggi appartiene a un terzo ma effettivamente nel periodo del presunto incontro (dicembre 1993) era ancora nella disponibilità del gruppo Berlusconi. Ovviamente il fatto che Graviano abbia fornito indicazioni precise su un appartamento di Milano 3 può provare che per qualche ragione conoscesse il luogo ma non prova affatto che lui abbia avuto quell’appartamento grazie al gruppo Berlusconi. Né prova che il presunto incontro del dicembre 1993 sia accaduto. Ci sono migliaia di persone che vivono a Milano 3, o conoscono un appartamento, ma non hanno mai visto Berlusconi.
Certo Graviano ha una sorta di fissazione per quell’appartamento di Milano 3.
Nell’aprile 2016 in cella Graviano diceva al compagno di reclusione Umberto Adinolfi che bisognava trovare un modo per avvicinare Berlusconi e recapitargli un messaggio in modo che si desse una smossa. In quel contesto raccontava che al tempo in cui era stato arrestato nel gennaio 1994 lui aveva un appartamento proprio a Milano 3 e che lui aveva disperatamente cercato, dopo l’arresto, di ritrovarne le chiavi. Perché? La logica sembrava essere quella di un ricatto. In stretto dialetto siciliano, secondo la trascrizione del colloquio fatta dalla Dia, Graviano diceva ad Adinolfi: “Mi interessano le chiavi. Quando mi hanno arrestato a Milano io avevo qui a Milano 3 un (…) che era di lui”. Nel marzo 2017 tornava sull’argomento e diceva “ho bisogno di qualcuno che mi va a pigliare quel mazzo di chiavi” perché sono “chiavi che aprono porte, che tu puoi mettere”.
Quando fu chiamato a deporre al processo Trattativa di Palermo nell’ottobre del 2017 per spiegare quelle parole Graviano (come già nel dicembre 2009 al processo Dell’Utri) però si avvalse della facoltà di non rispondere.
Le dichiarazioni del boss sono soppesate attentamente dagli investigatori. Anche perché Graviano talvolta dice cose che non tornano. Per esempio il veglione del Capodanno del 1989-90 – secondo un’informativa dei Carabinieri del 1995 – il boss sarebbe stato con la moglie (registrata con il suo nome in albergo insieme a un tale che si era registrato con i documenti falsi allora usati dal boss) a Terrasini, alla Città del Mare. Invece Graviano al processo nel 2020 dice che era a Milano, all’hotel Quark. Inoltre il boss non fa mistero della ragione che lo spinge a parlare: ritiene Berlusconi un traditore ingrato che non ha rispettato i patti. Il rancore e la rivendicazione delle promesse tradite spingono il boss a descrivere a modo suo presunti rapporti antichi tra il nonno materno e l’imprenditore brianzolo Berlusconi nei ruggenti primi anni settanta.
Giuseppe Graviano il 7 febbraio del 2020 davanti alla Corte di Assise di Reggio Calabria ha raccontato di avere incontrato Berlusconi tre volte. La prima volta nei primi anni ottanta, poco dopo la morte del padre Michele, ucciso nel gennaio 1982 dai boss rivali dei corleonesi di Riina. A detta di Graviano, il nonno lo avrebbe invitato a togliere il lutto per andare con lui e il cugino Salvatore a quel primo incontro con Berlusconi. La location? Secondo Graviano sarebbe stato proprio l’hotel Quark che si trova nella periferia sud di Milano a una decina di chilometri da Milano 3. “Perché io dico hotel Quark? Io ho trascorso la notte del Capodanno 89-90 all’hotel Quark (circostanza non riscontrata, Ndr) e sono stato io a dire a Giuseppe D’Agostino di andare all’hotel Quark quando poi sono stato arrestato”. Il boss è stato poi arrestato nel ristorante ‘Gigi il cacciatore’ in via Procaccini a Milano la sera del 27 gennaio 1994 mentre cenava insieme alle mogli con il fratello Filippo e Giuseppe D’Agostino, un favoreggiatore che aveva ospitato Graviano a Palermo e che era salito a Milano per poter seguire il figlio calciatore, già provinato dal Milan nel 1992 e allora segnalato da Marcello Dell’Utri su richiesta di un amico palermitano, Carmelo Barone.
Dopo l’arresto Giuseppe D’Agostino raccontò che Graviano gli aveva dato appuntamento la mattina del 27 gennaio 1994 all’hotel Quark e poi lo aveva portato a pranzo al mitico ristorante da Giannino di Milano. Poi sarebbero dovuti andare tutti la sera dopo a vedere ‘Aggiungi un posto a tavola’ di Johnny Dorelli al Teatro Manzoni ma furono arrestati a cena. Nelle vecchie informative, ai tempi dell’arresto, la Dia annotava una coincidenza relativa al gestore del ristorante Giannino nel 1994, che non ha nulla a che vedere con chi gestisce oggi i ristoranti milanesi che portano quel nome. “Il locale, denominato “Giannino” è ubicato – scriveva la Dia – in questa via Amatore Sciesa 8 , esso è condotto da M.A., (…) altresì responsabile del ristorante ubicato all’interno del Quark Hotel di Milano”. Anche l’Hotel Quark attuale non ha nulla a che vedere con quello del 1994.
Le verifiche sugli incontri presunti di Graviano con Berlusconi insomma sono in corso ma i riscontri allo stato non ci sono. Silvio Berlusconi smentisce qualsiasi conoscenza o rapporto con Graviano. I suoi legali, in testa l’onorevole Niccolò Ghedini, più volte hanno affermato la non credibilità delle ricostruzioni di Graviano. Anche i giudici che hanno condannato definitivamente Marcello Dell’Utri per concorso esterno in associazione hanno ritenuto che i rapporti Graviano-Berlusconi non siano provati e hanno assolto anche per questo Marcello Dell’Utri per i fatti dopo il 1992. Anche la Corte d’Assise di Reggio Calabria, davanti alla quale Giuseppe Graviano ha raccontato i suoi presunti trascorsi milanesi con Silvio Berlusconi, ha chiaramente scritto che le affermazioni di Graviano non sono riscontrate.
Il lungo disastro di Carrefour: via in 769
Era nell’aria da tempo e ora la ristrutturazione è arrivata. Pesante. Carrefour, la multinazionale francese della grande distribuzione, ha dato avvio in Italia alla procedura dei licenziamenti collettivi, nell’ambito del Piano aziendale 2022: riguarderà 769 esuberi e la dismissione di 106 negozi e supermercati del gruppo in Italia. Per Carrefour la procedura di crisi è dovuta “alla grave situazione economico-gestionale”. L’azienda ha però assicurato che gli esodi saranno incentivati e volontari. I lavoratori considerati in eccesso sono 769 distribuiti in nove Regioni. Sono 261 gli esuberi in 27 Ipermercati, 313 in 67 market, 168 in 10 cash&carry e 168 posti di lavoro presso le sedi amministrative di Milano, Nichelino, Roma, Airola, Grugliasco, Napoli, Rivalta e Moncalieri. Nel Piano prospettato dalla direzione aziendale vi è anche la dismissione di 106 negozi della rete vendita diretta, di cui 82 Express e 24 Market, con il trasferimento a terzi imprenditori della rete in franchising. I sindacati riferiscono che il piano viene spiegato con “l’individuarsi della grave situazione economico gestionale. Il complessivo calo del fatturato e dei clienti da un lato, e l’incidenza del costo del lavoro dall’altro, hanno determinato una situazione di grave squilibrio che ormai non è più sostenibile e costringe la società ad un intervento strutturale volto a riequilibrare il rapporto tra personale e fatturato”.
“La Fisascat Cisl – ha spiegato ieri il segretario generale aggiunto Vincenzo Dell’Orefice – ritiene non percorribile la strada di un confronto finalizzato unicamente a consentire licenziamenti e cessioni di negozi a terzi”. Il sindacalista sollecita Carrefour Italia a “integrare il proprio piano d’azione con delle parti relative alla prospettiva futura della rete a gestione diretta in Italia”. A cominciare da “un dettagliato piano di investimenti sulla rete commerciale fisica, che presenta, in moltissimi casi, difetti strutturali che finiscono per allontanare la clientela dal marchio”. Fin qui la cronaca che è una cronaca (amara) più che annunciata. Da quando è sbarcato in Italia, il gruppo Carrefour ha avuto vita difficile. Così come vita dura ha avuto anche l’altro gruppo francese Auchan che è naufragato, finito per essere assorbito in parte da Conad e in parte suddiviso tra altri operatori. Negli ultimi sei anni Carrefour Italia non ha mai chiuso un bilancio in utile, solo negli ultimi due ha subito perdite per quasi 400 milioni di euro, altrettanti dal 2015 al 2019, e ha dovuto svalutare pesantemente le attività dell’ex Gs e non è mai riuscita a trovare un posizionamento adeguato tra l’Esselunga, che domina sul mercato di alta fascia, e le Gdo low cost come Lidl ed Eurospin che corrono spedite.
L’Italia, che porta vendite per 4,6 miliardi, è il mercato in Europa che nel 2020 ha perso più fatturato (-7,6%). Le chiusure di supermercati e store sono la via scelta dal Ceo dal gruppo francese per ritrovare, dopo anni, la strada della redditività. Di certo però non è il costo del lavoro sul fatturato, come dice l’azienda, a gravare sulle perdite, dato che strutturalmente nella grande distribuzione pesa per molto meno rispetto alla generalità dei costi. In Carrefour Italia mediamente il costo del lavoro pesa per il 14/15% dell’intero fatturato. Non è certo con gli oltre 700 esuberi che Carrefour potrà chiudere la stagione delle perdite.
Contratti, precari e fondi: i sindacati contro Bianchi
La corsa al rialzo dei sindacati sta nel gioco delle parti. Se però le sigle della scuola proclamano lo stato di agitazione contro l’attuale ministro dell’Istruzione, Patrizio Bianchi, attenzione e menzione devono essere massime e tempestive, trattandosi di effimere rarità. Finita la fase del bofonchiamento, pare sia iniziata quella della voce altina. Quattro sigle – Flc Cgil, Uil Scuola, Snals-Confsal e Gilda Unams – hanno proclamato lo stato di agitazione con una nota che, si legge, “interrompe le relazioni sindacali con il ministero dell’Istruzione e apre la strada a forme ampie di mobilitazione”. Ieri all’incontro sulla mobilità era presente solo la Cisl e quello previsto oggi pare vada “aggiornato in un nuovo confronto di natura formale che includa i temi della protesta in atto”. Lo sciopero, assicurano comunque i segretari generali, è “uno strumento e non un obiettivo” perché “non c’è alcuna intenzione di accentuare le spaccature presenti nel Paese, né di minare la necessaria coesione sociale”. Ma i dossier aperti sono molti e Bianchi a settembre e ottobre è già risultato ultimo nel raggiungimento degli obiettivi del governo. Eccone alcuni.
Il contratto. Il rinnovo del contratto dei docenti è un nodo cruciale. Scaduto quello 2016-2018 e mai firmato quello successivo, ora il governo punta a un rinnovo con un aumento intorno ai 100 euro lordi mensili. Cifra considerate “assolutamente insufficiente” con “vincoli inaccettabili che ostacolerebbero qualunque conclusione positiva del negoziato contrattuale”.
Il controllo. Nel disegno di legge di Bilancio viene infatti sì previsto un fondo di 30 milioni l’anno per gli aumenti salariali, ma legato a una non meglio specificata misurazione della “dedizione all’insegnamento” dei docenti e il loro impegno a “promuovere la comunità scolastica” nonché l’attenzione ad aggiornarsi professionalmente. Parallelamente è stata annunciata la volontà di potenziare il sistema nazionale di valutazione.
Il personale Covid. Anche se il ministro Bianchi ha rinnovato fino a giugno il personale docente aggiuntivo Covid, è rimasto indietro il personale tecnico-amministrativo (Ata). Le scuole, come raccontato anche da molti presidi, sono già in affanno e potrebbe andar peggio. Basti pensare che i protocolli Covid prevedono il ricorso a più accessi (oltre che a un maggior numero di pratiche) e che ogni accesso deve essere vigilato dal personale. Chi lo farà dopo il 31 dicembre?
Classi pollaio. È stato annunciato che si sarebbe ridotto il numero di alunni per classe, ma solo negli istituti con spazi già predisposti e senza considerare organico aggiuntivo. Di fatto si traduce in una semplice riallocazione di personale sul territorio che sarà semplicemente tolto da una parte per essere mandato da un’altra.
Il patto tradito. Firmato e sbandierato il patto per la scuola di maggio, ora i sindacati battono cassa per i famosi precari con almeno tre anni di insegnamento. Chiedono un tavolo e di rendere disponibile, “in via strutturale e permanente” il sistema delle abilitazioni “ai fini della stabilizzazione del precariato in favore dei precari con almeno 3 anni di servizio e dei docenti già di ruolo”. Insieme, ovviamente, al blocco quinquennale della mobilità. Eppure nel Pnrr ci sono già molte concessioni in proposito, dal nuovo percorso abilitante al blocco triennale. Evidentemente non è bastato.
La carta docente. Fermato (per ora) in corner il tentativo di eliminare definitivamente il bonus di 500 euro per gli insegnanti, ora si chiede la sua espansione anche al personale precario e agli Ata.
Una cosa buona (e una no). Per fortuna viene prorogata la norma sul dimensionamento scolastico che assegna un Dsga alle scuole che abbiano almeno 500 alunni (e non più 600). Peccato che parallelamente abbia fatto molto discutere un’osservazione contenuta nella relazione illustrativa della manovra che sostiene che spesso i dirigenti scolastici non ricevano “un idoneo supporto, sul piano giuridico, da parte dell’apparato amministrativo posto alle sue dipendenze” e che “il supporto fornito dal personale di segreteria risulta spesso non adeguato”. Sono pochi e, pare, poco formati. Anche su questo bisognerà trovare una quadra.
Taranto, Melucci fatto fuori come Marino: i consiglieri “amici” lo sfiduciano dal notaio
Taranto come Roma. Rinaldo Melucci sfiduciato come Ignazio Marino. È caduta ieri l’amministrazione comunale della città dell’ex Ilva dopo le dimissioni presentate contemporaneamente davanti a un notaio da 17 consiglieri comunali. Allo zoccolo duro dell’opposizione, contraria a Melucci fin dalla sua elezione nel 2017, si è aggiunto un nucleo di consiglieri che fino a pochi giorni fa sosteneva la maggioranza di centrosinistra a trazione Pd. Tra questi Massimiliano Stellato, che è anche consigliere regionale e siede tra gli scranni di Bari a sostegno del governatore Michele Emiliano che aveva pubblicamente espresso il sostegno alla ricandidatura di Melucci: Taranto, infatti, sarebbe tornata al voto nella prossima primavera.
“Le dimissioni – ha commentato Melucci – sono un atto ostile prima di tutto nei confronti della città e delle sue istituzioni democraticamente elette. Taranto non meritava un costoso commissariamento, neppure nei pochi mesi che ci separano dal voto, la politica non può essere così lontana dai bisogni e dalla volontà dei cittadini. Queste persone – ha aggiunto l’ex sindaco – semplicemente non condividono il metodo trasparente e orientato ai bisogni della comunità che abbiamo introdotto, evidentemente non condividono nemmeno il nostro approccio nei confronti di chi avvelena questo territorio”. Le dimissioni, infatti, sono apparse a molti una scelta discutibile in vista delle prossime scadenze. A partire da quelle ambientali: a breve Acciaierie d’Italia che gestisce l’ex Ilva, dovrebbe presentare il nuovo piano industriale, ma i tarantini saranno rappresentati da un commissario che il prefetto Demetrio Martino nominerà a breve. Proprio contro i veleni dell’ex Ilva, Melucci aveva vinto un’importante battaglia dinanzi al Tar, che aveva disposto lo spegnimento degli impianti inquinanti dell’area a caldo. Una decisione poi neutralizzata dal Consiglio di Stato.
“Sono vicino al sindaco Melucci e a tutta la cittadinanza per avere dovuto subire questa amarezza. Ma la lotta dei tarantini deve continuare”, ha commentato Emiliano che insieme al segretario regionale dem, Marco Lacarra, e all’intero partito ha fatto quadrato intorno all’ex sindaco. “Sfiduciato il sindaco di Taranto, dopo anni di pessima amministrazione – ha gioito invece Matteo Salvini –. Per il centrodestra è una grande occasione per offrire una seria proposta di buongoverno, allargata a chiunque voglia mettersi al servizio della città”.