Il governo è disponibile ad aprire un confronto con i sindacati sulle pensioni con incontri che verranno fissati già da dicembre, ma nella manovra non ci sono le risorse per affrontare una riforma strutturale. Resta l’impegno del premier Draghi con i segretari di Cgil, Cisl e Uil (Landini, Sbarra e Bombardieri) di aprire un tavolo sulla revisione della legge Fornero già nel prossimo Cdm. Durante l’incontro a Palazzo Chigi si è parlato anche di fisco. Il ministro Franco ha illustrato ai sindacati le misure in manovra, come il fondo da 8,8 miliardi per tagliare le tasse.
Maggioranza d’opposizione: oggi evapora sul Green pass
Giorgia Meloni arriva per ultima, trafelata, Enrico Letta si sporge per salutarla. Vicino a lui c’è Giuseppe Conte, e accanto, leggermente distante Matteo Salvini. I tre leader dei partiti principali della maggioranza e quella dell’opposizione, prima dei loro singoli interventi (intervistati dal direttore dell’Ansa, Luigi Contu) salgono insieme sul palco di Confesercenti, che celebra l’assemblea annuale. La foto di gruppo fa un effetto piuttosto straniante. Plasticamente i quattro sembrano se non proprio un’opposizione, un’altra cosa rispetto al premier, Mario Draghi con cui tre di loro stanno al governo. Spicca l’assenza di Italia Viva e di Forza Italia.
Oggi si vota alla Camera la fiducia sul Green pass. Salvini dà libertà di coscienza, mezza Lega dirà di no. Sul Covid la maggioranza si spacca davvero. Nel frattempo però i governatori del nord sono per il lockdown ai non vaccinati, secondo la soluzione austriaca. Tanto per aumentare le divisioni. Sulla stessa posizione anche Matteo Renzi. Mentre Conte invita il governo a non fare ulteriori misure restrittive. Della serie, Draghi comunque non esageri. Intanto, all’ora di pranzo, il leader di Iv fa sapere che il tavolo proposto da Letta per la manovra non dovrà valere pure per il Quirinale. Mentre Salvini lo liquida (“Io vedo tutti, ma noi l’avevamo proposto mesi fa).
Insomma, la maggioranza marcia divisa non solo dal premier, ma pure, come sempre, al suo interno. Anche da Confesercenti qualche critica al governo arriva (sulla riforma degli ammortizzatori sociali, così come sul termine troppo ravvicinato per la proroga delle concessioni balneari). I quattro hanno diverse sfumature di criticità. Ma pure diverse posizioni su come spendere gli 8 miliardi di tesoretto della manovra. “Le priorità per la Lega è il taglio delle tasse partendo dai precari, dalle partite Iva e dagli autonomi, che sono quelli che hanno sofferto di più – anche alzando il tetto della Flat Tax a 100mila euro – e sulle pensioni di invalidità. Fosse per me metterei tutti gli 8 miliardi là”, dice Salvini, che trova sponda nella Meloni. Letta, invece, ritiene che sia necessario “ridurre la tasse sul lavoro per aiutare la domanda interna”.
Sullo sfondo ci sono le manovre per il Colle. La strategia di Renzi è piuttosto chiara: cercare di fare l’ago della bilancia, cannoneggiare ogni accordo che non lo veda centrale. Pure per questo il segretario del Pd sta cercando di tessere una tela per non rimanere schiacciato dalla inaffidabilità del leader di Iv. E quindi, parte dalla Meloni, ma anche dalla Lega. Va detto che la leader di Fratelli d’Italia non si è mai opposta all’ipotesi Draghi al Colle, anche in funzione di elezioni anticipate. E ieri, uscendo, apriva alla possibilità di allargare il tavolo al Colle: “L’obiettivo è avere un presidente della Repubblica che si dia l’obiettivo di far rispettare le regole”. Chiarendo: “Non come qualcuno che vuole un presidente amico, per stare al governo anche se perde le elezioni”. Anche questo un modo di porsi come centrale. Anche se poi il suo partito è minoritario in Parlamento. Ieri, lei e Salvini si sono, intanto, divisi l’applausometro. Per il leader leghista è iniziata l’operazione sganciamento. Come si vedrà anche sulla fiducia in Parlamento sul Green pass oggi. “La Lega vota sì, ma ci sarà anche qualcuno che magari dirà no”, ammette sibillino Salvini sul palco.
Davanti alla proposta di Letta di un vertice di maggioranza sulla manovra fa spallucce. Ieri, Simona Malpezzi, capogruppo del Pd in Senato, non ha trovato neanche la disponibilità dei suoi omologhi a Palazzo Madama a incontrarsi, ma solo la volontà di incontrarsi una volta presentati gli emendamenti. Insomma, la cosa quantomeno procede a rilento. Con buona pace della volontà di Letta di fare il facilitatore. Se il buongiorno si vede dal mattino, ci sono buone probabilità che l’elezione del capo dello Stato si trasformi in uno scontro di strategie confuse. Draghi sta a guardare. La possibilità di lasciare Palazzo Chigi in caso di scontro feroce nell’urna quirinalizia si fa sempre più forte.
Vade retro trojan: destra, Pd e LeU salvano Ferri (Iv) sul caso Palamara
C’è voluta meno di un’ora alla Giunta delle immunità della Camera per decidere che Cosimo Ferri, potente capo corrente di Magistratura Indipendente e contemporaneamente deputato renziano, andava scudato: il Consiglio superiore della magistratura, che ha aperto un procedimento disciplinare che avrebbe potuto costargli la carriera una volta dismessi i panni di politico, non potrà utilizzare le intercettazioni che lo riguardano e che sono agli atti del Palamaragate. Dopo una lunga istruttoria che dura dal 2 agosto a Montecitorio, alla Camera Ferri è stato salvato da un’ampia maggioranza che va da Forza Italia a Leu passando per Lega, Italia Viva e Pd. “Non ho nulla da aggiungere” è il commento dell’interessato, che spera che l’aula confermi la decisione della Giunta.
Poi Ferri potrà brindare ché nessuno potrà più torcergli un capello: le quattro captazioni effettuate tramite il trojan inoculato nel telefono dell’ex presidente dell’Anm e capo di Unicost, Luca Palamara, sono state ritenute dai suoi colleghi deputati non casuali e dunque inutilizzabili. “Noi del M5S abbiamo votato a favore dell’autorizzazione perché Ferri non è mai entrato nel perimetro dell’indagine che era diretta nei confronti di Palamara”, commenta il pentastellato Eugenio Saitta, che poi sbotta: “Siamo al paradosso: accordiamo la tutela dell’articolo 68 della Costituzione a Ferri che userà lo scudo dell’immunità parlamentare contro il Csm che gli rimprovera le sue condotte gravemente scorrette di magistrato, ancorché fuori ruolo”.
Tutti gli altri invece hanno maturato il convincimento opposto, a partire da Pietro Pittalis di Forza Italia, il relatore della pratica Ferri, che mette le mani avanti: “Ho cercato di non far entrare la politica in questa vicenda, ma solo l’applicazione delle regole scritte e dei principi costituzionali”. Giura di essersi attenuto agli stessi principi anche Federico Conte di LeU. Così come Alfredo Bazoli del Pd: “La nostra è stata una valutazione di ordine tecnico-giuridico. Molti elementi che fanno presumere che gli inquirenti fossero alla ricerca di elementi di indagine nei suoi confronti. Questo ci ha fatto propendere per la decisione di non consentire l’autorizzazione, perché abbiamo ritenuto si tratti di intercettazioni non casuali ma indirette”, dice il deputato dem che ammette come “sicuramente erano non casuali le ultime tre intercettazioni, mentre la prima era più dubbia”. La prima è proprio quella relativa alla cena all’Hotel Champagne, la più importante per il procedimento disciplinare a carico di Ferri. Nel dubbio, la Giunta ha negato l’autorizzazione all’utilizzo di tutte quelle richieste ché, per dirla con Ingrid Bisa della Lega “le captazioni delle conversazioni si pongono in violazione del diritto alla privacy”.
Conte apre a B. sulle riforme Segnale a Letta (e a Draghi)
In quelle righe l’avvocato ha seminato diversi segnali e il primo è per Enrico Letta, che non gli aveva detto nulla della proposta di un tavolo tra i partiti per proteggere la legge di Stabilità. Mossa che ha lasciato freddi tutti i Cinque Stelle, compreso lui, Giuseppe Conte.
Nasce innanzitutto da qui l’apertura a Silvio Berlusconi lanciata ieri in un’intervista a La Stampa dal presidente del M5S, che vorrebbe coinvolgere il capo di Forza Italia e gli altri leader “in un piano di riforme costituzionali”. E lo scopo principale è blindare la legislatura fino alla scadenza naturale del 2023, come vorrebbe Berlusconi e come da alcune settimane si è convinto a predicare Conte. I suoi gruppi parlamentari, già agitatissimi, potrebbero esplodere durante le votazioni per il Colle se fiutassero le elezioni anticipate. E poi, come raccontato dal Fatto, l’ex premier ritiene di aver bisogno di tempo per costruire il suo Movimento, con una vera struttura.
Per questo serve qualcosa che tenga dentro il gioco tutti i partiti e il mastice potrebbero essere le riforme costituzionali. A partire dalla sfiducia costruttiva, che consente di poter sfiduciare un governo solo se, simultaneamente, si concede la fiducia a un altro esecutivo. Un meccanismo – fa capire Conte – che si potrebbe informalmente applicare già tra qualche settimana, se Mario Draghi traslocasse al Quirinale. Tradotto ancora meglio, se Draghi vorrà davvero salire al Colle, per farsi eleggere dovrà prima chiudere un patto politico su un nuovo premier (il nome preferito dei 5Stelle resta quello dell’attuale ministro dell’Economia, Daniele Franco) e un nuovo governo. Perché l’imperativo rimane evitare le urne, e in questo Conte la pensa esattamente come Luigi Di Maio. Come il ministro, l’ex premier preferirebbe un’altra opzione per il Colle, perché l’elezione di Draghi comporterebbe comunque rischi di instabilità, di cui Di Maio parla nei colloqui privati da settimane, ripetendo che “Matteo Salvini cerca il voto anticipato”.
Detto questo, “Conte non è ostile alla nomina di Draghi” assicurano dai piani alti dal M5S, consapevoli che l’attuale premier potrebbe essere una scelta obbligata. E comunque un minimo di strategia il Movimento la dovrà costruire con Letta, a cui ieri Conte ha fatto notare che “al tavolo per la manovra vanno chiamati anche i capigruppo”. Correzione non così residuale, a una proposta di cui l’avvocato – giurano dal Movimento – non sapeva nulla, e su cui per un paio di giorni è rimasto in silenzio, anche per far capire che avrebbe gradito un cenno preventivo. Così ecco l’apertura a Berlusconi sulle riforme, per rilanciare con una propria carta rispetto a quella del segretario dem. A cui Conte aveva lanciato un altro avviso con le 13 domande a Matteo Renzi, incentrate sul caso Open.
Ideate anche per ribadire al Pd che nel perimetro largo del centrosinistra non ci può essere posto per il fu rottamatore, ieri scatenato a L’aria che tira contro il presidente del M5S (“È un coniglio mannaro, l’uomo più veloce a scappare nella storia”). Renzi vorrebbe un confronto a due in tv, e Conte ha già declinato: “Non partecipo a show”. Piuttosto, l’ex premier cerca di chiudere il cerchio delle nomine per la segreteria. Avrebbe dovuto far votare sul web i 5 vicepresidenti e i coordinatori dei comitati già la settimana scorsa. La votazione è stata spostata a questo fine settimana, mentre tra i coordinatori sono date ormai per certe le nomine di Fabio Massimo Castaldo (Affari europei), Alfonso Bonafede e Chiara Appendino (rispettivamente ai Rapporti territoriali e alla Formazione).
Invece i deputati ieri discutevano fitto alla Camera sul prossimo capogruppo. L’uscente – scade il 12 dicembre – Davide Crippa dovrebbe ricandidarsi e pare destinato a vittoria sicura, nonostante il gelo con Conte, che ieri ha fatto buon viso al gioco del capogruppo (“anche Crippa mi ha dichiarato l’adesione al progetto”). Probabile che a sfidarlo sia Vittoria Baldino, contiana molto considerata dai vertici.
Il Giglio Magico fugge dai pm FI e Renzi: “Decida la Consulta”
Il caso Open potrebbe arrivare alla Corte costituzionale. Lo ha proposto la relatrice della Giunta per le immunità del Senato, Fiammetta Modena, che ieri ha prospettato “l’opportunità che la Giunta proponga all’Assemblea la proposizione nei confronti della competente autorità giudiziaria di un conflitto di attribuzione davanti alla Corte costituzionale”. Ieri infatti la Giunta si è riunita per discutere della lettera inoltrata il 7 ottobre da Renzi alla presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati. In mattinata il leader di Italia Viva all’Aria che tira (La7) ha dichiarato: “Io non chiederò l’immunità, anzi, quando mai arriveremo in aula per votare per l’acquisizione del materiale, io voterò a favore della presa del materiale ma andrò in tutte le sedi a vedere se hanno violato le leggi”. Eppure nella lettera del 7 ottobre ha chiesto alla Casellati “di porre in essere tutte le azioni a tutela dei diritti del parlamentare, come riconosciuti e sanciti dalla Costituzione all’art. 68 e dalla legge di attuazione n. 140/2003”. La Casellati dunque ha deferito la questione alla Giunta, riunitasi ieri sera. La relatrice è l’azzurra Fiammetta Modena – avvocato con posizioni ipergarantiste e sostenitrice dei referendum sulla giustizia di Lega e partito Radicale – che ieri ha presentato la documentazione depositata da Renzi con una cronistoria del caso a partire dalle email e dalle chat depositate dai pm.
Proprio sulla questione delle conversazioni – in base a quanto ricostruito da Renzi nella lettera a Casellati – la Procura di Firenze aveva dichiarato il non luogo a provvedere rispetto all’istanza dei legali del leader Iv che avevano avanzato “formale intimazione al.. dott. Luca Turco di ‘astenersi dallo svolgimento di qualsivoglia attività investigativa preclusa in base all’articolo 68 della Costituzione’”. I pm avevano spiegato come l’utilizzazione dei dati processuali in questione è stata operata non nei confronti di Renzi, ma di un altro indagato che non essendo parlamentare non poteva invocare le garanzie riconosciute agli eletti.
E di conversazioni agli atti si è discusso anche ieri in Giunta, in particolare di quella tra Renzi e l’imprenditore Vincenzo Manes (non indagato) del 4 giugno 2018 in cui i due parlavano di un volo che l’ex premier avrebbe dovuto prendere per Washington. Precisando che Renzi “ha assunto lo status di parlamentare il 9 marzo 2018” e poi riferendosi a questa Modena su questa intercettazione ha scritto: “atteso che il sequestro di messaggi Whatsapp mandati dal senatore Renzi quando era in carica (e segnatamente quelli intercorsi con Vincenzo Manes il 3-4 giugno 2018) non è mai stato autorizzato dal Senato, al quale l’autorità giudiziaria avrebbe dovuto rivolgere una richiesta di autorizzazione”. Alcuni senatori in Giunta hanno chiesto di sentire Renzi mercoledì prossimo. Dopodiché si deciderà se condividere l’iniziativa della relatrice. Il voto potrebbe arrivare presto, ma il risultato sembra quasi scontato: oltre a Modena, il centrodestra più Iv in giunta ha la maggioranza dei voti con 12 su 24 escludendo i 2 di FdI che si asterranno. Poi sarà l’aula a decidere.
Intanto Alberto Bianchi, ex presidente della Fondazione Open, ha già chiesto ai magistrati di Firenze di essere sentito. E probabilmente sarà tra i pochi. I 20 giorni dalla chiusura delle indagini (termine fissato per depositare memorie o anche chiedere di essere sentiti) sono di fatto agli sgoccioli e secondo quanto risulta al Fatto, altri coinvolti nell’inchiesta sulla Fondazione Open hanno scelto una strada diversa dal legale fiorentino. Non hanno chiesto di essere sentiti l’ex ministro Luca Lotti e l’imprenditore Marco Carrai. Per quanto riguarda Matteo Renzi, invece, ieri il Corriere della Sera ha scritto che anche l’ex premier “ha deciso di non farsi interrogare dai pm”, circostanza ieri non smentita ufficialmente dal leader di Italia Viva.
Facce da culona
Proseguono le lezioni di giornalismo al Fatto da “colleghi” che non hanno mai visto una notizia vera. Il rag. Cerasa, sul Foglio, ci accusa senza nominarci (tanto nessuno gli domanderà con chi ce l’ha, non avendo lettori) di aver costruito “il principale cluster italiano della macchina del fango”: altro che la Bestiola renzian-rondolina. Non sa, perché ai tempi ciucciava ancora il biberon, che il Foglio nacque nel ’96 coi soldi di B. (pardon, della moglie) e nel ’97 col falso scoop su un’indagine farlocca del Gico contro Di Pietro, imperniata su un’intercettazione manipolata col taglia-e-cuci: quella che faceva dire al banchiere Pacini Battaglia “Io da Mani Pulite sono uscito perché ho pagato” e “Di Pietro e l’avvocato Lucibello mi hanno sbancato”, cioè estorto una tangente (seguiva la frase “Io a Di Pietro i soldi non glieli ho dati”, ma fu sapientemente tagliata). Uno scoop su parole mai dette (il verbo era “sbiancato”) e su un delitto mai avvenuto, infatti l’ex pm fu prosciolto da ogni accusa. Su quella patacca l’allora direttore del Foglio, Giuliano Ferrara, imbastì tutta la sua campagna elettorale di candidato del centrodestra nel Mugello contro Di Pietro (centrosinistra), appellandolo graziosamente “scespiriana baldracca”, “troia dagli occhi ferrigni”, “protettore di biscazzieri”, “megalomane golpista”. Risultato: Di Pietro 68%, Ferrara 16%.
Altre lezioni ci giungono da un noto portatore di chatouche che, sull’autorevole Libero, mi accusa di aver inventato “la fake news propagandistica più falsa e dannosa del Dopoguerra: la famosa intercettazione in cui Berlusconi definiva la Merkel ‘culona inchiavabile’… mai esistita… balla inescusata”. Naturalmente non abbiamo mai pubblicato la suddetta intercettazione, né affermato che esistesse: forse faceva parte di quelle penalmente irrilevanti distrutte dalla Procura di Bari nell’inchiesta Puttanopoli su Tarantini&B., forse era solo una voce di Transatlantico. E come tale la registrò una nostra collaboratrice in un trafiletto di curiosità nell’ottobre 2010. In Parlamento non si parlava d’altro tra i forzisti terrorizzati dall’uscita di qualche conversazione contenente il soprannome che B. aveva affibbiato alla Merkel, convinto com’era che la cancelliera complottasse contro di lui. Infatti la stessa voce fu raccolta da Selvaggia Lucarelli (che ancora non scriveva sul Fatto) nel suo blog. E rimbalzò sui giornali tedeschi, dalla Bild al Die Welt, senza che da B.&C. arrivassero smentite. Un anno più tardi, subito dopo la celebre risata congiunta di Merkel e Sarkòzy, il Caimano perse la maggioranza e si dimise. Poi prese ad accusare apertamente la Merkel di aver ordito un “golpe” contro il suo governo a colpi di spread.
E i suoi giornali, parlando con cognizione di causa e sapendo di fargli cosa gradita, iniziarono a chiamare la cancelliera con quel leggiadro vezzeggiativo. Libero: “Angela è davvero una culona. Il primo a dirlo fu Kohl” (27.11.2011). Giornale: “La caduta di Berlusconi: è stata la culona” (31.12.’11). E così via, persino sugli eventi sportivi. Tipo quando la Nazionale azzurra eliminò la Germania agli Europei del 2012: “Ciao ciao culona” (Giornale, 29.6.’12). “Vaffanmerkel”, “Due calci nel culone” (Libero, 29.6.’12). Quando Angela rivelò il suo passato di ragazza squatter, Libero la fulminò: “Balla paraculona della Merkel: ‘Da ragazza occupavo le case’” (4.9.’13). Quando si schiantò sulle nevi dell’Engadina, Libero sparò: “Il lato B più potente d’Europa si frattura sulle piste di fondo” (7.1.’14). E quando perse 10 chili di peso, Libero si congratulò: “Merkel a dieta: anche lei si vede culona” (7.5.’14). E ancora quattro anni dopo, quando il ministro Horst Seehofer la contestò sulla politica migratoria, Libero titolò: “Chi è il Salvini tedesco, che manda la Germania a culona all’aria” (3.7.’18).
Il soprannome made in Arcore era ormai un fatto notorio a livello mondiale. Finché il 20 maggio 2014, intervistando l’ex Cavaliere per la Bbc, il giornalista Jeremy Paxman osò dove i colleghi italiani mai avevano osato: “Scusi, è vero che ha definito Angela Merkel ‘culona inchiavabile’?”. L’interrogativo sortì sul gentiluomo brianzolo lo stesso effetto del gas paralizzante: una lunga, interminabile paresi, tipo fermo-immagine (il tempo per l’interprete di riaversi dallo choc e trovare le parole per tradurre un’espressione non proprio tipica del linguaggio diplomatico), seguita da un moto ondulatorio e sussultorio della mano destra che invitava l’intervistatore di passare alla domanda successiva. Anche lì nessuna smentita. Anzi, un anno dopo arrivò la conferma: ad Alan Friedman, che lo intervistava per l’agiografia My Way, B. rivendicò la paternità della geniale definizione e raccontò che l’ex cancelliere Gerhard Schröder se n’era complimentato con lui: “Hai fatto benissimo: è totalmente vero!”. Ma, nella fretta, si scordò di avvertire il mèchato.
Ps. A proposito di bufalari. Ieri l’Innominabile, dopo aver condannato ai playoff la Nazionale di calcio con il beneaugurante “Forza Italia!” di venerdì, ha sostenuto che B. “iniziò a recuperare” dopo la famosa ospitata da Santoro con spolverata di sedia il 14 gennaio 2013: “Travaglio fu il principale sponsor della ripresa di Berlusconi che arrivò a tanto così dal vincere le elezioni”. Per la cronaca, alle elezioni del 2013, B. perse 6,5 milioni e mezzo di voti e 178 seggi. E senza nemmeno gli auguri di bin Rignan.
Adele, ritorno mondiale tra appuntamenti saltati, il dolore per il padre e la solita grande musica
È il blockbuster predetto per natale, l’album con l’aspettativa più alta nelle vendite fisiche e di passaggi in streaming. 30 di Adele uscirà il 19 e dovrebbe riuscire nell’impresa di sorpassare Coldplay, Ed Sheeran e perfino Voyage degli Abba che ha appena stabilito un record senza precedenti. Ma la cantante inglese, oltre a possedere un timbro e un’estensione di voce pari a Mina, ha anche un’indole punk che pochi conoscono. Infatti, incurante di aver raccolto una manciata di giornalisti in ogni paese per un ascolto blindato dell’album, ha deciso last minute di presentare quattro nuovi brani da Oprah in Tv il 14 e di farsi intervistare dall’edizione americana di Rolling Stone mandando in cortocircuito tutte le pianificazioni di promozione. Con la stessa attitudine ha riempito i suoi canali social di interventi non proprio diplomatici a discapito della propria immagine patinata nelle foto ufficiali. Ma sui quattro brani presentati può andare a testa alta: il livello della produzione di I Drink Wine, Hold on, Love Is A Game e del singolo Easy On Me è di un livello tecnico eccellente. Adele si è circondata di quanto di meglio esiste nel panorama pop, con l’ausilio di Greg Kurstin, Inflo, Max Martin e altri musicisti e produttori di rango. Le tracce spaziano dalle ballate classiche piano e voce a brani più ritmati con un potente beat rubato alla nuova generazione di hip hop sino al gospel e al soul “rubato” dalla Motown. Presentando i nuovi brani da Oprah Winfrey la cantante ha raccontato della sua vita privata. Dal padre alcolizzato ha sviluppato il senso dell’abbandono ma dopo anni di silenzi si sono ritrovati e, per la prima volta, suo padre ha voluto ascoltare le canzoni: Adele gli ha rivelato di non poter lasciarsi andare in una relazione finché non avesse risolto questo conflitto. Alla sua morte, nel maggio scorso, si erano definitivamente pacificati. Il secondo grande trauma è stato il suo divorzio e il conseguente senso di colpa per il figlio di nove anni. Ha parlato del disorientamento causato da una relazione che non ha funzionato ma ha anche elogiato l’ex marito per averla salvata durante l’esplosione del successo attraverso il suo carattere stabile e ha ammesso di amarlo ancora ma in un modo diverso. Infine, in seguito ad attacchi di ansia ha deciso di dedicarsi all’attività fisica arrivando a perdere quarantacinque chili. Il successo della sua musica? Con disarmante sincerità ha risposto che resta un mistero anche per lei.
Berrettini è troppo fragile. Ma il futuro parla italiano
Non poteva esserci esordio più doloroso per il tennis italiano alle Atp Finals di Torino. Sotto di un set con Zverev, Berrettini ha avvertito una fitta di dolore agli addominali e ha alzato bandiera bianca, uscendo tra le lacrime. Forse l’infortunio è meno serio del previsto, ma è questo il vero problema di un tennista meraviglioso e di un gran bravo ragazzo: non (tanto) il rovescio, quanto un fisico massiccio che ciclicamente cede. L’infortunio è simile a quello di gennaio a Melbourne, e nel corso della stagione Matteo si è fermato altre volte: è questo il suo tallone d’Achille. Ciò nonostante Berrettini è sesto nel ranking e a Wimbledon è stato inferiore solo a Djokovic (che lo ha battuto pure al Roland Garros e Us Open). L’infortunio di Berrettini, a prescindere dal prosieguo delle Atp Finals, è una doccia fredda anche per la Coppa Davis (o quel che ne resta) di fine stagione. Sinner, che a soli 20 anni è già nono al mondo, è pronto a subentrare a Berrettini a Torino per poi sobbarcarsi il ruolo di leader in Davis: così facendo potrebbe farsi perdonare il rifiuto di andare alle Olimpiadi, scelta logica in ottica di crescita agonistica (il tennis non ha mai avuto come obiettivo primario i Giochi) ma comunque sgradevole e mal comunicata. Sinner resta a oggi il più futuribile tra i campioni italiani e non solo italiani. Non è da escludere che uno dei “super classici” del futuro sarà il match tra Sinner e Alcaraz, fresco di dominio alle Next Gen Atp Finals proprio come aveva fatto Jannik due anni fa. Alcaraz ha 18 anni e vale già i primi 15 al mondo: vincerà tantissimo e sarà nemesi dell’altoatesino. Il tennis italiano può poi contare su Sonego (27), gli ultimi fuochi di Fognini (37) e un Musetti (57) bellissimo e con tutta una carriera davanti, ma che deve crescere in agonismo e cattiveria. Oltre a encomiabili professionisti (Mager, Travaglia, Cecchinato, Seppi, Caruso) e un bel doppista (Bolelli), crescono altre belle promesse come Nardi. Un’abbondanza inaudita. A Torino stanno sfilando i primi otto del mondo. Djokovic rimane il più forte, ma la mattanza subita a New York da Medvedev gli è costata l’ultima chance di Grande Slam e dice che tutto (con tre o quattro anni di ritardo) sta per cambiare. Nadal e Federer torneranno, ma il tempo passa anche per loro. Medvedev, sorta di maniscalco nevrastenico tanto sgraziato e “antipatico” quanto dirompente e per contrasto quasi adorabile, può vincere tanto. Zverev, uno dei tennisti più brutti di sempre, è pronto per uno Slam. Tsitsipas è tanto bello quanto talora freddino. Rublev è un po’ inferiore ai primi quattro, come pure Hurcacz e Ruud. Dal 2022 gli Slam saranno più aperti: ci divertiremo.
Caro Andy, la smetta di far casino. “Basta party nella Factory”
CARO MR. WARHOL, siamo stati avvisati che ha tenuto delle feste nello spazio al quarto piano da lei occupato. Sappiamo che in genere sono grandi celebrazioni e che si svolgono dopo il consueto orario di ufficio. Abbiamo notato che i suoi ospiti hanno lasciato avanzi e rifiuti nelle aree comuni, che lei non si è mai occupato di pulire. Inoltre crediamo che una congrega di persone così numerosa come quella da lei riunita possa essere contraria a varie leggi e regole governative in vigore, e che possa anche essere un grave problema per le norme dei vigili del fuoco. Il suo contratto di affitto, ovviamente, non permette un simile utilizzo e occupazione, e la invitiamo pertanto a non tenere più feste simili in questo palazzo. Distinti saluti,
Elk Reality, Inc. –
Alfred R. Goldstein, Presidente, 15 novembre 1965
Cara presidentessa Burden, le scrivo oggi in quanto ex residente nel Bowery e strenuo sostenitore della tutela della sua storia, carattere e integrità. Essendo cresciuto in Elizabeth Street, il quartiere e gli abitanti del Bowery sono stati ovvi catalizzatori nel trasformarmi in un narratore. Sia in Mean Streets che in Gangs of New York è evidente l’influenza del Bowery per la crudezza, le ambientazioni, l’atmosfera vivida.
La prego di fare in modo che il Bowery sia preservato e resti integro così che la sua storia possa continuare a influenzare e ispirare gli artisti che verranno. Grattacieli e condomini creano solo altro caos, altro scompiglio e in definitiva sacrificano il Bowery al conformismo. Per oltre 150 anni il Bowery è stato un mondo a sé. Con i propri abitanti, la propria lingua, il proprio teatro – di fatto, con il proprio genere di commedie e varietà –, è diventato sinonimo di altri quartieri famosi che hanno contribuito a creare quello che conosciamo come il folklore di New York: il Greenwich Village, Harlem, Broadway eccetera.
Spero che, come me e gli altri miei sostenitori, vorrà appoggiare l’East Bowery Preservation Plan. E poiché sono sicuro che prova nostalgia per la sua città natale, spero che capisca la mia insistenza affinché il Bowery possa restare ricco di storia, arte e particolarità. Cordialmente,
Martin Scorsese,
13 marzo 2013
In un articolo intitolato “Chi parla per i dannati?”, comparso parecchi mesi fa sul Post, Peter J. McElroy riporta che New York è uno dei pochi Stati che non offre una speranza di qualsivoglia genere agli “ergastolani” detenuti nelle sue prigioni. In altre parole, una volta che un uomo viene condannato al carcere a vita nello Stato di New York, non vi è alcuna possibilità che dopo 20 o 30 anni egli giunga al cospetto di una Commissione per ottenere la libertà vigilata.
L’autore dell’articolo lasciava chiaramente intendere che la mancanza di questa possibilità è una disposizione crudele, se non barbara, e io mi trovo senz’altro d’accordo con lui, come molte altre persone, immagino. Venivano poi citate le parole di un cappellano della prigione dello Stato di New York: “Il giorno delle visite è il più orribile di tutti per un ergastolano. La loro esistenza è di fatto dimenticata”. Il che risulta fin troppo credibile ahimè. Possiamo sempre dire, ovviamente, che l’ergastolano è causa del suo male. Come pure, con un pizzico di moralismo in meno, che giustizia è stata fatta e questo è quanto. Giustizia però è una di quelle parole che, quando va bene, ci induce a guardare altrove o alzare il bavero del cappotto, ma giustizia-senza-pietà è di certo una combinazione di parole fra le più tetre e gelide che si possano concepire. Se la legge non prevede pietà per l’ergastolano dello Stato di New York, correggiamo almeno questa legge di modo che, quando un uomo viene condannato al carcere a vita, i veri termini della sentenza vengano espressi per esteso, affinché il mondo senta. Che so, qualcosa di questo tenore: “Verrai rinchiuso in un penitenziario dello Stato di New York per il resto della tua vita terrena. Se, però, dopo 20 o 30 anni dovessi non soltanto pentirti sinceramente ma mostrare anche, secondo la disinteressata opinione dello Stato di New York, un’indole migliorata in misura significativa – tanto da essere paragonabile per qualità e spessore alla media dei liberi cittadini di New York – ti verrà allora concesso di arrugginirti fino alla morte, con lentezza, benevolenza, sagacia nonché a spese dei contribuenti, in una cella pulita, ariosa e superiore sotto ogni aspetto a quanto offriva il Sedicesimo secolo”.
La questione deve diventare però materia di azione, non di ironia. La si può dunque portare all’attenzione del Governatore? È possibile avvicinare il Governatore? Come lo si può rintracciare? Di certo non può non interessarlo il fatto che gli ergastolani dello Stato di New York sono tra gli uomini più obliati e abbandonati della terra.
J.D. Salinger al “New York Post”, dicembre 1959
La Nato è morta, diamo l’atomica a Berlino
A settembre nell’ambito di una consultazione Ue la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha sottolineato la necessità di costituire un esercito europeo. La questione era nell’aria già da tempo, tanto che ne aveva parlato persino il pavido Angelo Panebianco, che nei decenni scorsi ogni volta che si avanzava l’ipotesi di un “esercito europeo” dava in scalmane e faceva il ponte isterico.
In ottobre Mario Draghi era venuto in supporto a Von der Leyen dichiarando: “La Nato è meno interessata che in passato all’Europa e ha spostato altrove la sua attenzione”. La questione va posta in modo diametralmente opposto: siamo noi europei che non dovremmo avere più alcun interesse a restare nella Nato.
Già a metà degli anni Ottanta francesi e tedeschi avevano cercato di costituire un esercito comune che avrebbe poi dovuto essere allargato a tutti gli altri Paesi europei. Gli americani si opposero: “Che vi serve? A difendervi ci pensa la Nato”. L’obiezione era allora comprensibile perché in presenza dell’Urss la Nato, vale a dire gli americani, perché la Nato è stata sempre un’organizzazione totalmente in mano agli Stati Uniti, anche se per pudore o piuttosto per mascherare la realtà vi si nomina a Presidente un danese, o come oggi, un norvegese. La Nato era la sola ad avere il deterrente necessario, alias l’Atomica, per scoraggiare l’‘orso russo’ dal tentare avventure militari in Europa Ovest. In realtà anche questa ipotesi era inverosimile e pretestuosa perché già nella Conferenza di Yalta del 1945 Roosevelt e Stalin, all’insaputa ovviamente dei propri cittadini i quali, come sempre, sono dei sudditi, avevano deciso quali erano le zone d’influenza. È questo, fra gli altri, uno dei motivi per cui il Partito comunista non avrebbe potuto andare al potere in Italia anche se avesse avuto la legittimazione delle elezioni cosicché il segretario del Pci, Enrico Berlinguer, fu costretto, per non lasciare immobilizzata una forza consistente che era molto più larga di quella elettorale dato che dopo il Sessantotto tutta l’intellighenzia italiana si era spostata a sinistra, ad affermare che: “Si è spenta la funzione propulsiva della Rivoluzione d’Ottobre”.
Ma dopo il collasso dell’Urss nel 1989 la Nato non aveva più alcun ragion d’essere per noi europei. Continuava ad averne invece per gli Stati Uniti perché la Nato è stata uno dei principali strumenti, se non addirittura il principale, con cui gli americani hanno tenuto in stato di minorità l’Europa, in senso militare, politico, economico, culturale.
È quindi dal 1989, cioè trent’anni fa, che gli europei avrebbero dovuto porsi il problema di sganciarsi da una Organizzazione da cui non traevano più alcun vantaggio, ma solo rischi e danni. Fra i leader politici europei solo Angela Merkel lo aveva capito quando qualche anno fa dichiarò: “I tempi in cui potevamo contare pienamente su altri sono in una certa misura finiti. Noi europei dobbiamo veramente prendere il nostro destino nelle nostre mani” (Monaco, maggio 2017). E infatti la Germania si è tenuta fuori dalle disastrose guerre alla Serbia, all’Iraq e alla Libia, tutte targate Nato, cioè a stelle e strisce, anche se in quella alla Libia c’è il forte zampino dei francesi e, in secondo piano, degli italiani (Berlusconi premier) i quali sono riusciti nell’impresa di mettere in subordine i loro interessi economici alla inossidabile sudditanza agli americani. E se la Germania è stata anch’essa in Afghanistan è solo perché quella guerra, a differenza di Serbia, Iraq e Libia, aveva, almeno all’inizio, la copertura dell’Onu e quindi una legittimazione internazionale. Tutte queste guerre sono venute in culo all’Europa. La guerra all’Iraq ha partorito l’Isis la cui furia si è abbattuta inizialmente su Francia, Germania, Spagna, Belgio e che ora si è espansa in tutto il globo tranne che in America, troppo lontana e troppo poliziesca per essere raggiunta. La guerra alla Libia ha accresciuto le migrazioni bibliche che si abbattono soprattutto sulle coste italiane.
Sulla creazione di un autonomo esercito europeo tutti i leader del vecchio continente, anche quelli favorevoli, Mario Draghi in testa, si sono affrettati a dichiarare che “è complementare alla Nato, ma non la sostituisce”. E invece quello che si dovrebbe fare, come prima mossa, per sottrarsi all’eterna sudditanza americana, è proprio denunciare il Patto Atlantico e uscirne. “Pacta sunt servanda” dice il diritto internazionale, ma aggiunge: “Rebus sic stantibus”. E poiché dal 1989 a oggi le cose sono cambiate, e di molto, il Patto potrebbe essere legittimamente stracciato.
La seconda mossa è togliere alla Germania democratica l’anacronistico divieto di possedere l’Atomica. Non è possibile che quest’arma, che è un deterrente indispensabile, la posseggano, oltre Russia, Stati Uniti, Gran Bretagna, Cina, India anche il Pakistan, il Sudafrica, Israele, la Corea del Nord e non il più importante Paese europeo. “Vasto programma” avrebbe detto De Gaulle. Vero, ma la cosa è tanto più imprescindibile ora che la Gran Bretagna, potenza atomica, ha lasciato l’Europa e, per legittime ragioni storiche, i suoi interessi sono legati strettissimamente a quelli Usa. L’Atomica ce l’ha la Francia, ma dei francesi sul piano militare c’è da fidarsi pochissimo, sarebbero capaci di buttarsela sui piedi.
Gli americani sono anche dei competitors sul piano economico, sleali e pericolosi. Tutte le grandi crisi finanziarie da quella del ’29 alla Lehman Brothers del 2008 nascono negli Usa, per poi abbattersi principalmente sull’Europa. È l’allegra finanza americana che immette nel sistema trilioni di dollari che non rappresentano nulla se non un enorme debito contratto verso il futuro (e poi hanno anche l’impudenza di piangere lacrime di coccodrillo su “i nostri giovani, i nostri figli, i nostri nipoti, i nostri pronipoti”) creando una gigantesca bolla inflazionistica che prima o poi si abbatte non solo su chi l’ha creata ma su chi ha la sfortuna, o la dabbenaggine, di avervi rapporti. E per questo Merkel ha voluto per l’Europa una politica di austerità. Ma l’austerità diventa inutile se dall’altra parte c’è qualcuno che bara.