Liverpool, il kamikaze ha un nome: pista islamica

Emad al Swealmeen: è il nome dell’attentatore – secondo la polizia – che si è fatto esplodere nei pressi del Women Hospital di Liverpool due giorni fa, mentre la Gran Bretagna celebrava la Remembrance Sunday, “la domenica della memoria”. Quattro persone sono state arrestate: tutti hanno meno di 30 anni e per gli investigatori avrebbero aiutato il 32enne a compiere l’attacco con una bomba rudimentale che trasportava a bordo di un taxi. L’ipotesi che prende piede è che l’attentato abbia una matrice islamica. La polizia britannica ha compiuto raid e perquisizioni in tutta la città, concentrandosi in particolare nel quartiere di Kensington. Torna “grave” l’allerta terrorismo nel Regno Unito, ha annunciato ieri la ministra dell’Interno, Priti Patal: la polizia teme che altri attacchi simili potrebbero ripetersi. L’ultimo eroe dei tabloid inglesi è l’autista che guidava il taxi: è riuscito a fermare l’attentatore che ha perso la vita durante l’attacco. “Le nostre indagini indicano che l’ordigno esplosivo improvvisato sia stato assemblato dal passeggero del taxi”: così ha detto in conferenza stampa Russ Jackson, capo della sezione regionale del dipartimento antiterrorismo, e non ha escluso che l’obiettivo potessero essere i reduci che nella vicina cattedrale anglicana stavano commemorando i caduti.

Sulla vicenda le autorità britanniche continuano a mantenere riserbo. La stessa dinamica dell’attentato non è stata ancora del tutto chiarita. “Resteremo vigili, ma non ci faremo intimidire dai terroristi” ha detto il premier Boris Johnson. È passato esattamente solo un mese dall’assassinio del deputato conservatore David Amess, che ha perso la vita in una chiesa metodista mentre incontrava gli elettori. In quel caso l’assassino era un cittadino britannico di origini somale.

Bannon, l’arresto-show: “Opponetevi al regime”

“Combatteremo sempre il regime di Joe Biden”: Steve Bannon, guru-stratega della campagna 2016 di Donald Trump e suo ex consigliere alla Casa Bianca, arringa le telecamere, prima di consegnarsi – come da copione – all’Fbi e di comparire in tribunale. Venerdì, l’aspirante federatore delle destre sovraniste e populiste di mezzo mondo, Italia compresa, era stato incriminato per oltraggio al Congresso: si rifiuta di collaborare con la commissione d’inchiesta della Camera sull’assalto al Campidoglio del 6 gennaio, quando migliaia di facinorosi, aizzati da Trump, cercarono d’impedire al Congresso di ratificare i risultati elettorali, con la vittoria di Biden e la sconfitta di di The Donald. La scenetta dell’arresto – Bannon è stato poi rilasciato in libertà vigilata – è stata recitata a uso e consumo di canali e social della destra ultra conservatrice che hanno rilanciato il messaggio bellicoso, pronunciato con lo sguardo puntato dritto verso i telespettatori: “Voglio che voi, ragazzi, restiate concentrati sul messaggio… questo è tutto rumore”. Due i capi di imputazione a carico di Bannon, per non avere testimoniato davanti alla commissione e per non avere consegnato i documenti richiestigli, adducendo a pretesto che Trump ha a sua volta invocato il privilegio esecutivo sugli atti della sua presidenza. L’incriminazione dell’ex guru era stata pronunciata da un grand jury federale. Bannon, tornato a essere vicino a Trump, dopo un periodo di freddo fra i due, è già a giudizio per una storia di appropriazione indebita di fondi raccolti con una colletta pubblica per costruire il muro al confine con il Messico: se condannato, rischia fino a due anni di carcere e una multa da 1.000 dollari.

Anche in Italia l’ex guru e consigliere ha avuto qualche guaio: a marzo, il Consiglio di Stato decise che un’associazione sovranista a lui collegata, lo Dignitatis Humanae Institute, doveva lasciare la Certosa di Trisulti, uno storico complesso religioso-monumentale nella diocesi di Anagni-Alatri, in provincia di Frosinone. In contatto con Bannon, l’inglese Benjamin Harnwell voleva aprirci una scuola per il sovranismo europeo. Le vicissitudini giudiziarie del giornalista comunicatore tengono sul chi vive pure Mark Meadows, l’ex capo dello staff della Casa Bianca, chiamato a deporre di fronte alla commissione d’inchiesta del 6 gennaio. Meadows ha già fatto sapere che non intende assoggettarsi all’ingiunzione, almeno fino a che non saranno chiari i termini d’applicazione del privilegio esecutivo rivendicato da Trump. Altri sei consiglieri e collaboratori del magnate ex presidente sono stati convocati a deporre: fra loro l’accademico John Eastman, autore di una strategia legale per tenere Biden fuori dalla Casa Bianca; Bernard Kerik, un ex poliziotto di New York, che indagò su presunte frodi in Stati chiave, senza mai trovarne le prove; l’ex consigliere Stephen Miller; e l’ex portavoce Kayleigh McEnany. Invece, Trump s’è appena visto riconoscere da un giudice federale il diritto di non consegnare documenti sollecitatigli dalla Commissione d’inchiesta della Camera. Il contenzioso legale, che finirà, probabilmente, alla Corte Suprema è solo una delle grane del magnate che deve rispondere a New York di malversazioni della sua holding, la Trump Organization; ed è inoltre sotto indagine per pratiche fiscali ‘border line’; e potrebbe infine finire a giudizio in Georgia dove cercò di alterare i risultati elettorali. Nei bracci di ferro con la giustizia, Trump alterna sconfitte e vittorie, magari comprate. Così un’ex concorrente dello show Apprentice, Summer Zervos, ha rinunciato alla causa per diffamazione intentata all’ex presidente, che l’avrebbe aggredita sessualmente: fra le parti, c’è stata un’intesa, senza la quale il magnate doveva presentarsi a deporre in tribunale il 23 dicembre, sotto Natale. E un giudice di New York ha accolto la mozione dei legali di Trump per archiviare l’azione del suo ex avvocato Michael Cohen contro la Trump Organization. L’incriminazione di Bannon può costituire una grana pure per il presidente Biden: l’azione avviata dal Dipartimento di Giustizia rischia di spaccare ulteriormente un’opinione pubblica già polarizzata, rilanciando la popolarità di Trump in un momento in cui quella del presidente è al minimo. C’è però pure chi, fra i repubblicani, viene in aiuto della Casa Bianca: la strada del rifiuto scelta da Bannon e Meadow non prevarrà sugli sforzi della Commissione per ottenere risposte sul 6 gennaio e garantire che una cosa del genere non si ripeta”, afferma Liz Cheney, la deputata del Wyoming.

Crisi dei rifugiati: la Ue sanziona Minsk su hotel e società aeree

Una dozzina di ufficiali bielorussi. Agenzie di viaggio, alcune compagnie aeree e perfino alberghi: sono tutti finiti nell’ultima lista nera Ue. Più straordinaria delle altre la riunione dei 27 ministri degli Esteri di ieri: il consiglio ha dovuto ampliare i criteri del suo regime sanzionatorio per colpire le entità che contribuiscono al traffico di esseri umani e favoriscono la crudele “guerra ibrida” del presidente Lukashenko. Dove migliaia di migranti rimangono intrappolati tra la frontiera bielorussa e quella polacca, Varsavia conferma l’imminente costruzione di un muro. L’annuncio era stato già fatto alla fine di agosto.

Le misure restrittive Ue colpiscono anche la compagnia aerea siriana Cham Wings, che però da Damasco a Minsk, secondo Flight Radar, ha interrotto i voli già dal 7 novembre scorso. Perfino un hotel che si chiama come la capitale bielorussa, Minsk, è finito nella lista nera: era uno degli snodi principali usato dai trafficanti per trasportare i rifugiati dall’aeroporto ai boschi che dividono i due Paesi dell’Esti. Non si è potuto, per motivi puramente tecnici, sanzionare l’aeroporto della Capitale. Le misure entreranno in vigore tra qualche giorno, ha riferito l’Alto Rappresentante Ue per la Politica Estera Josep Borrell, che ha raggiunto ieri al telefono anche Vladimir Makei, ministro degli Esteri di Minsk, che ha negato ogni responsabilità per l’emergenza in corso.

“Siamo pronti a rispedirli nei Paesi d’origine, ma nessuno di loro vuole tornare indietro”: mentre Lukashenko riferiva ai canali della sua propaganda di essere favorevole a rimpatri o ad un corridoio umanitario verso la Germania con i voli della sua compagnia aerea Belavia, i suoi soldati continuavano a trasportare migranti al valico di frontiera di Kuznica. “Putin può influenzare Lukashenko, è tempo che lo faccia, i prossimi giorni saranno decisivi”: non solo la Merkel, anche la presidente della Commissione Ursula von der Leyen si aspetta l’intervento del presidente russo, accusato però da Polonia e Lituania di essere il vero regista della crisi. Varsavia chiede aiuto all’Alleanza e non all’Unione: vuole che la Nato allunghi la sua mano fino alla frontiera, anzi il suo braccio armato: “Lukashenko non si ferma con le parole” ha detto il premier polacco Morawiecki.

Dal prossimo 18 ottobre, riferisce Baghdad, partiranno i primi voli della Iraqi airlines per rimpatriare i cittadini dal confine polacco: lo ha confermato il portavoce del ministero degli Esteri Ahmed al-Sahaf. Salgono intanto a dieci i cadaveri rinvenuti nei boschi.

Maxwell, processo col morto. Lady Epstein va alla sbarra

L’iter del processo a Ghislaine Maxwell è iniziato formalmente alla Corte Federale di Manhattan, che ieri ha dato il via alla selezione dei giurati. 600 nominativi da ridurre a 12, più sei supplenti: e poi, dal 29 novembre, si entra nel vivo del dibattimento fra accusa e difesa. La prima domanda: resterà, come nelle intenzioni del giudice Alison J. Nathan, un processo a lei, Ghislaine, 59 anni, ereditiera e socialite britannica accusata di aver reclutato decine di giovanissime per i piaceri dell’ex compagno Jeffrey Epstein e del suo circolo internazionale di amici potenti, o sarà inevitabile che faccia i conti con un intero sistema di cui la Maxwell era, dice l’accusa, se non l’artefice, colei che lo facilitava?

Oltre a due capi di imputazione per falsa testimonianza, che verranno valutati separatamente, Ghislaine è accusata di sei reati incluso quello di traffico sessuale di minorenni. Si è sempre dichiarata non colpevole, anche di recente, nell’udienza preliminare dell’1 novembre, dove ha dichiarato: “Non ho commesso alcun crimine”. Ma è improbabile che, nel vivo del dibattimento, l’imputata prenda la parola a propria difesa, mentre testimonieranno certamente le sue quattro accusatrici, pronte a raccontare di essere state abusate, assieme ad altre decine, fra il 1994 e il 2004, quando erano adolescenti, nelle proprietà di Esptein a Palm Beach, in Florida, nella lussuosa residenza di Manhattan, nel ranch di Santa Fe, nel New Mexico, nella casa di Ghislaine a Londra. Non un singolo episodio, ma molti confermati a più voci. Racconti che chiameranno in causa, sembra inevitabile malgrado le intenzioni della Nathan, i personaggi che attorno a Epstein hanno gravitato per anni: il principe Andrew, l’ex presidente Bill Clinton, Donald Trump, l’avvocato Alan Dershowitz, che a maggio ha chiesto 20 milioni di dollari a Netflix perché il documentario Jeffrey Epstein: soldi, potere e perversione lo dipingerebbe “in modo deliberatamente diffamatorio”. Quanto svelerà questo processo del giro di potenti che, secondo l’accusa, Epstein e Maxwell coltivavano mettendo a disposizione, secondo l’accusa, quelle ragazzine? Sono dei primi di novembre le dimissioni del Ceo di Barclays Bank, Jes Staley, uscito di scena dopo aver visto le conclusioni preliminari di una inchiesta sui suoi rapporti con il finanziere americano, con cui si era scambiato 1.200 email in quattro anni. Quante altre teste altolocate potrebbero far rotolare i ricordi di quelle quattro donne?

Dal punto di vista processuale l’elemento dirimente riguarda la minore età: l’accusa sostiene di poter dimostrare che Ghislaine fosse perfettamente consapevole che le ragazze, fra cui una 14enne, non avevano l’età del consenso. La difesa, al contrario, cerca di ricusare una delle accusatrici perché aveva 17 anni, maggiore età nella giurisdizione dove sono avvenuti i fatti. Stupri e violenze sono del resto difficili da dimostrare, a distanza di tanti anni e con elementi per il momento solo indiziari. E poi c’è la battaglia fuori dall’aula del tribunale, quella mediatica. Gli accusatori punteranno naturalmente sulle testimonianze delle ragazze: la linea è che gli abusi successivi non sarebbero stati possibili senza Ghislaine, che le adescava, individuando le più vulnerabili, e normalizzava le molestie presentandole inizialmente come ‘massaggi’. La difesa sosterrà la tesi che Ghislaine sia la prima vittima del potere manipolatorio di Epstein. L’offensiva mediatica è partita domenica scorsa, quando, nella prima intervista in 16 mesi dietro le sbarre, la Maxwell ha descritto al Daily Mail la sua detenzione come un inferno, denunciando condizioni di isolamento disumane, fra topi che escono dalla doccia e molestie da parte delle guardie. Due settimane fa il fratello Ian aveva definito il trattamento ricevuto in carcere dalla sorella come “sostanzialmente un abuso di diritti umani mirato a spezzarla”. Va ricordato che Ghislaine ha trascorso 16 mesi di carcere da indagata, non da condannata. Ma il giudice Alison Nathan non sembra impressionata: le ha negato la condizionale già quattro volte, sottolineando come i tre passaporti, statunitense, francese e britannico, e l’ancora notevole rete di contatti rendano concreto il pericolo di fuga, e come la Maxwell abbia mentito sulla sua fortuna. Dopo l’arresto, nel luglio 2020, aveva dichiarato di 3,5 milioni di dollari, per poi ammettere di controllarne oltre 22 milioni.

Mail Box

 

Fa più notizia Puzzer delle calunnie del Giglio

I media italiani si preoccupano dei sit-in di Puzzer, mentre ignorano la macchina del fango dei renziani e plaudono alla candidatura di Berlusconi al Quirinale. La macchina del fango orchestrata dal Giglio magico per calunniare gli oppositori politici con false notizie sui social, con la collaborazione di giornalisti compiacenti e investigatori privati suscita sconcerto e viva preoccupazione. Ma i giornali (non tutti per fortuna) preferiscono minimizzare lo scandalo e dare invece maggior risalto alle imprese di Puzzer e ai deliri dei suoi fan. Con la differenza che lo Stato dispone di tutti gli strumenti per mettere in condizione di non nuocere le varie articolazioni dei negazionisti (no-mask, no-vax, no Green pass ecc), mentre sembra non accorgersi che l’introduzione di certi metodi va a inquinare la dialettica politica arrecando danni irreversibili alla nostra democrazia.

Maurizio Burattini

 

Le mie disavventure da insegnante precario

Cara collega Maria Cristina Fraddosio, il tuo articolo sul mancato pagamento dei supplenti, pubblicato domenica scorsa dal Fatto, ha riaperto una vecchia ferita. Negli anni Novanta succedeva pure a me e a migliaia di docenti di non essere pagati per lunghi mesi (il record, sei mesi). Allora c’era Prodi a Palazzo Chigi, ma le risposte degli uffici erano identiche a quelle del tuo racconto, per dirla in dialetto veneto : “doman!”. La situazione è andata avanti per anni. Ti auguro di cuore di non trovarti in altri “scenari kafkiani”, come giustamente li definisci tu. Per esempio potresti assistere all’ammissione in ruolo di persone senza laurea, senza diploma di maturità e senza alcuna abilitazione, come è successo a me. Se poi la persona che pretende insegnare senza alcun titolo si rivolgerà al Consiglio di Stato assistita da un principe del foro e dei consumatori, come ci raccontava Il Fatto Quotidiano qualche anno fa, saranno cavoli. Perché potreste perdere la causa, e dover ingoiare una sentenza choc, “anomala” come è successo a me in aprile 2006. E dulcis in fundo ti arriva il governo Renzi che s’inventa l’algoritmo diabolico ammazzaprecari per la sua Buona scuola, la famigerata Legge 107, che manda l’Agnese (moglie) sotto casa in un liceo di Firenze con chiamata diretta e il sottoscritto scaraventato a 950 km da casa, fuori dalle palle, definitivamente, di ruolo a 55 anni! Questo, cara collega, è il mio “attimo sfuggente”, ma ti assicuro che nel mondo della scuola racconti come il mio ce ne sono parecchi.

Lettera Firmata

 

Bisogna fermare subito gli infortuni sul lavoro

Per favore, facciamo qualcosa tutti insieme per far cessare gli infortuni sul lavoro. Tutti, ma primi quelli mortali che in questo periodo colpiscono ogni giorno persone come tutti noi, che escono di casa in buona salute al mattino e non tornano più a casa la sera dalle loro famiglie. Si sta instaurando un clima di acquiescenza e di accettazione passiva da far paura. Non è possibile che ci sia una reazione forte, determinata, coscienziosa a tutto ciò.

Luigi Spiota

 

Zemmour, il candidato francese islamofobo

Avendo vissuto 23 anni in Francia condivido gran parte dell’articolo su Zemmour pubblicato venerdì scorso sul Fatto, ma vorrei precisare: benché ultimamente Zemmour sia diventato il cavallo di battaglia di Cnews e di Bolloré, il giornalista e scrittore è molto popolare già da tanti anni. “Polemista di estrema destra” è la definizione di parte dei media di sinistra francesi per screditarlo. Le sue posizioni anti-islam e anti-femministe sono le stesse da decenni: di recente si è radicalizzato e ha fatto sua la tesi del grand remplacement, insistendo sul progetto di islamizzazione della Francia. Per contro, cerca di moderare le sue posizioni sulle donne, che saranno la sua palla al piede per le elezioni. Il discorso di Zemmour incontra una incontestabile adesione popolare, e occupa lo spazio lasciato vuoto da Marine Le Pen che ha ormai un discorso di centrosinistra.

Riccardo Audisio

 

DIRITTO DI REPLICA

Gentile redazione, il vostro articolo (“Prende più multe che caffè: Lotti si faceva pagare pure le ammende”) – in modo inopportuno – allude a miei non ben specificati comportamenti scorretti. Nulla di più falso. Come emerge chiaramente dagli atti dell’inchiesta, da esponente del governo io non facevo come tanti altri hanno fatto in passato, e cioè io non usavo l’auto di Stato per fare altro. Peraltro ho rinunciato all’auto blu, avevo una macchina di servizio solo per lo spostamento a Roma. Quando mi muovevo per ragioni legate alla Fondazione non pagavano i contribuenti, non pagavano gli italiani; pagava la Fondazione, che riceveva in modo trasparente contributi da privati e cittadini. E se durante queste attività è capitato di prendere delle multe, sono state pagate dalla Fondazione.

Ufficio Stampa on. Luca Lotti

 

Prendiamo atto che la rettifica dell’onorevole Lotti conferma pienamente quanto abbiamo scritto.

M. Gra.

 

Le insinuazioni contenute nell’articolo “In Borsa. I molti (e mai chiariti) interessi finanziari…” pubblicato ieri sono prive di fondamento. Il comportamento del Commissario Gentiloni è sempre stato ispirato alla massima correttezza nel pieno rispetto delle normative italiane e, negli ultimi due anni, del Codice di condotta della Commissione Ue. Tutto ciò è facilmente verificabile consultando atti pubblici del Parlamento e di autorità italiane e europee.

Simon O’Connor,

Ufficio Stampa di Paolo Gentiloni

 

L’articolo non contiene insinuazioni, ma fatti. Ne mancano alcuni – importanti – perché il commissario Ue ha opposto il “no comment” a tutte le domande inviategli. Restiamo in attesa delle risposte.

I.C.

Vaccini. Il richiamo “risveglia” il nostro sistema immunitario. Ed è necessario

 

Gentile redazione, ho un paio di dubbi: magari la professoressa Maria Rita Gismondi può aiutarmi a fare chiarezza. Ve li sottopongo:

1. Gli addetti ai lavori ci dicono che i vaccini sono efficaci e ormai si ammalano in maniera seria solo i non vaccinati: allora che bisogno c’è di fare una terza dose ai vaccinati?

2. Se si vaccina una percentuale assai elevata (ad esempio oltre il 90 per cento) della popolazione italiana, come si potranno verificare eventuali effetti negativi a lungo termine dei vaccini, non essendoci più campioni significativi di confronto?

Grazie.

Stefano Diomedi

 

Gentile signor Diomedi, purtroppo l’efficacia di questi vaccini non ha durata per tutta la vita. Si è visto che dopo 6-9 mesi si ha un calo degli anticorpi e, sembra, della memoria anticorpale, pertanto è consigliabile “risvegliare” il nostro sistema immunitario. Quanto alla seconda domanda, esiste anche la possibilità del confronto storico. In questo caso si raffronta l’eventuale incidenza di una certa patologia nella popolazione italiana vaccinata con l’incidenza che si aveva nella popolazione non vaccinata.

Prof. Maria Rita Gismondo

L’obbligo vaccinale selettivo ci salverà

È stato detto che probabilmente (appare scontato) lo stato di emergenza sarà prorogato. Non se ne comprendono le motivazioni. Né la campagna vaccinale, né disposizioni sulle misure di contenimento necessitano di tale provvedimento per venire attuate. Lo stato d’emergenza ai sensi della legge n. 225 del 1992 sulla Protezione civile è un provvedimento del Consiglio dei ministri in virtù del quale il governo esercita dei “poteri sostitutivi” degli enti locali in situazioni di particolare rischio. Si garantiscono così interventi immediati a favore della popolazione e del territorio con mezzi e poteri straordinari: interventi che vengono decisi con ordinanze emanate dal capo della Protezione civile in deroga alle disposizioni di legge. Ne abbiamo bisogno? Credo di no. Piuttosto si dovrebbe avere il coraggio dell’unico provvedimento che non solo migliorerebbe lo stato delle cose, ma darebbe trasparenza al Green pass, l’obbligo vaccinale per alcune fasce di popolazione. Non accadrà per più di un motivo, responsabilità che il governo non vuole assumersi, impedimento da parte del Parlamento Ue che s’è pronunciato all’unanimità contrario e altri motivi politici che sfuggono alla mia ottica di osservazione. Tornando allo stato d’emergenza, se ormai, come pare, è stato deciso di prorogarlo, ci chiediamo perché aspettare l’ultimo minuto utile per annunciarlo. Si ha la sensazione che non si riescano a valutare le conseguenze di alcuni comportamenti. A causa del Covid, vista la grave carenza di sanitari, ne sono stati arruolati migliaia con contratti a termine, molti dei quali scadono il 31.12, proprio perché vincolati allo stato d’emergenza. Questi colleghi non sanno se dal 1° gennaio saranno disoccupati. In mancanza di indicazioni precise, i precari dovranno godere delle ferie entro fine anno, procurando un vuoto lavorativo insostenibile. Allo scadere dello stato d’emergenza, si esauriranno migliaia di gare per prodotti sanitari acquistati in regime d’emergenza. La sostituzione di queste procedure d’acquisto non può avvenire in un giorno. Il rischio è rimanere senza test diagnostici o altro materiale sanitario.

direttore microbiologia clinica e virologia del “Sacco” di Milano

Da Ferdinando I a Churchill: quanti segreti su un treno

Revfolver Georges. Nagelmackers, inventore dei wagon-lit, alla partenza dell’Orient Express consigliò ai viaggiatori – tutti uomini – di infilare un revolver nel bagaglio.

Giocattolo. Ferdinando I, prima principe ereditario e poi re di Bulgaria, si metteva ai comandi dell’Orient Express e si divertiva a frenare e ad accelerare bruscamente, sballottando e facendo cadere a terra i passeggeri. La direzione dell’Orient Express dovette ammonirlo che quel treno non era un giocattolo.

Churchill. “Winston Churchill voleva essere sepolto, con i suoi antenati, nel cimitero di Bladon, a sud di Blenheim Palace, vicino a Oxford, dov’era nato nel 1874. Bisognò perciò preparare un treno che lo portasse da Londra alla stazione di Handborough. Churchill aveva espresso anche un altro desiderio: che il convoglio partisse dalla Waterloo Station. Secondo alcuni, lo fece perché De Gaulle fosse costretto a marciare a capo scoperto nella stazione che porta il nome di una delle più grandi vittorie britanniche sulla Francia. Celia Sandys, sua nipote, racconterà una versione differente. Spiegherà che suo nonno era affascinato da Napoleone. Possedeva in effetti un’immensa biblioteca dedicata all’imperatore e aveva rilegato lui stesso i libri, mettendo le insegne imperiali. Sarebbe stata la sua passione per Napoleone a fargli desiderare che il suo ultimo viaggio partisse dalla Waterloo Station”.

Thermae. “Nell’VIII secolo avanti Cristo i terreni dell’Esquilino a est di Roma, dove si trova oggi la stazione Termini, erano utilizzati come cimitero per i poveri e gli schiavi. In seguito, sotto l’impero, si coprì di magnifici giardini. Nel 305 l’imperatore Diocleziano vi fece erigere le più grandi terme mai costruite nella Roma antica. Potevano accogliere tremila persone, vale a dire il doppio di quelle di Caracalla, considerate fino a quel momento le più grandiose. Rimasero in attività fino al 537, poi finirono in rovina. I romani le demolirono in parte per recuperare pietre e altri materiali utili a costruire le loro case. Delle terme di Diocleziano non rimasero che ruderi, ma parecchi anni più tardi furono loro a dare il nome di ‘Termini’ (da thermae) alla stazione centrale della capitale”.

Termini. “Roma Termini, con i suoi 24 binari per i treni nazionali e internazionali e i 4 riservati alle linee del Lazio, è oggi la più importante stazione italiana e una delle maggiori d’Europa. Ogni anno assiste al passaggio di oltre 150 milioni di viaggiatori”.

Manica. “L’idea di fare un tunnel sotto la Manica risale al XVIII secolo, ben prima dell’avventura ferroviaria. Nel 1751, in occasione di un concorso indetto dall’Accademia di Amiens per migliorare gli scambi commerciali tra Francia e Inghilterra, un geologo francese, Nicolas Desmarets, aveva ventilato l’ipotesi di costruire una galleria sott’acqua. Nel 1802 l’ingegnere minerario Albert Mathieu-Favier espone a Bonaparte il progetto di un tunnel sottomarino formato da due gallerie sovrapposte. (…) Il progetto del tunnel torna all’ordine del giorno nel 1931, poi si parla addirittura di costruire un ponte. Negli anni Sessanta ci si concentra di nuovo sulla possibilità di scavare un tunnel, ma sarà soltanto nel gennaio del 1986, a Lille, che François Mitterrand e Margaret Thatcher daranno ufficialmente avvio al progetto. Il primo ministro britannico, circondato dalla guardia repubblicana francese e dalla guardia reale inglese, dichiara in francese: ‘Questo progetto non è la nostra ultima parola, bensì il nostro primo passo’”.

Notizie tratte da: Sophie Dubois-Collet, “La storia prende il treno”, Add, 247 pagine, euro 16 (2. Fine)

Carrón si dimette, ma la crisi di Cl covava da quasi dieci anni

Comunione e Liberazione ha un nome bellissimo di cui si riconosce l’impronta sessantottina, anche se ben presto Cl si sarebbe offerta alla gioventù cristiana lombarda come contraltare del movimento di rivolta, vera e propria antitesi culturale del Sessantotto. Non accontentandosi di una presenza religiosa, nella sfida di quegli anni Cl scelse di consolidarsi attraverso “opere” che presero la forma del potere. E diede vita a un inedito clericalismo dal basso che l’ha favorita anche nella battaglia delle preferenze, prima dentro la Dc e poi in Forza Italia. Procurandole inoltre una speciale benevolenza dei due pontefici conservatori Wojtyla e Ratzinger.

La crisi che oggi si manifesta con le dimissioni anticipate di Julián Carrón in realtà covava da tempo. Trae origine dalla lettera con cui, quasi dieci anni fa, lo stesso Carrón prese le distanze dagli scandali del politico ciellino più in vista, Roberto Formigoni: “Se Cl è identificata con l’attrattiva del potere, dei soldi, di stili di vita che nulla hanno a che vedere con quello che abbiamo incontrato, qualche pretesto dobbiamo aver dato”. Quella svolta voluta da Carrón fu male accolta, in quanto atto di debolezza, da esponenti come don Luigi Negri e Giancarlo Cesana (oltre che, naturalmente, dallo stesso Formigoni). Il sacerdote spagnolo che don Giussani scelse come successore preferendolo a esponenti italiani più carismatici e combattivi, annunciava un distacco dalle contese ideologiche e politiche, nonché un colpo di freno alla ricerca di posti di potere. Non tutta la vecchia guardia ha gradito. Più o meno apertamente, Carrón è stato accusato di rinunciare alla difesa dei ciellini inseriti nell’establishment, nel mentre privilegiava la dimensione internazionale del movimento e l’attività educativa delle scuole parificate. Anche il recente commissariamento vaticano dei Memores Domini, ordine monastico laico di Cl cui appartiene lo stesso Formigoni, è derivato dalla messa in discussione del ruolo di guida spirituale di Carrón. Il quale ha rotto gli indugi dichiarando aperta una crisi che era già latente. Lo ha fatto con due anni di anticipo sui limiti temporali del suo mandato, condividendo le nuove disposizioni di papa Francesco: d’ora in poi nei movimenti ecclesiali il ricambio della leadership deve scaturire dal coinvolgimento degli associati, scongiurando pericolose investiture a vita.

Per Comunione e Liberazione questo è davvero un passaggio epocale, forse più ancora che per i Focolarini e gli altri movimenti interessati dal provvedimento. Nel libero dibattito che lo stesso Carrón chiede si svolga prima della successione, se sarà pubblico come egli si augura, emergeranno le contraddizioni di una storia lunga ormai più di mezzo secolo. L’esaltazione dello spirito di appartenenza, che in passato è servito a giustificare la spregiudicatezza della lunga marcia dentro il potere, troverà ancora nostalgici sostenitori? Oppure il distacco dalle tentazioni materiali perseguito da Carrón camminerà sulle gambe delle nuove generazioni cielline, quelle cui non è mai stato chiesto di schierarsi in politica? Di più. Comunione e Liberazione è chiamata a fare i conti con la sua adesione a una visione tradizionalista del ruolo pubblico della Chiesa, quello impersonata a lungo, per esempio, dal cardinal Ruini; e dall’ostilità con cui ha sempre guardato alle esperienze del cattolicesimo democratico (memorabile resta il giudizio sprezzante sull’episcopato milanese del cardinal Martini). Insomma: nelle tempestose vicende della Chiesa contemporanea guidata da papa Francesco, il movimento ciellino è destinato a rimanere parte dello schieramento conservatore? Una cosa è certa. Il progressivo estinguersi del lascito culturale sessantottino rende anacronistico anche il movimento dell’anti-Sessantotto, chiamato a rinnovare la sua stessa idea di cristianesimo.

 

In tv s’è visto il vero leader Iv: un uomo alla canna del gas

Se qualcuno volesse sapere cosa non si deve mai fare in tivù, avrebbe da venerdì la risposta pronta: quel che ha fatto Matteo Renzi, o ciò che ne resta, la sera del 12 novembre a Otto e mezzo.

1. Renzi si autoinvita venerdì mattina per la sera stessa a Otto e mezzo. Già solo questa notizia dimostra quanto l’uomo sia alla canna del gas e disposto a tutto. Persino farsi crivellare da una delle persone che odia più al mondo, ovvero Marco Travaglio. A questo punto manca solo che accetti di farsi “bastonare” pure da me, ma io gli sto persino più sugli zebedei di Marco, e quindi (per mia fortuna) non corro il pericolo di imbattermi nel suo faccione. Renzi aveva accettato di affrontare Travaglio anche cinque anni fa, prima della meravigliosa sconfitta del “sì” al referendum del 4 dicembre 2016, e anche in quel caso ne era uscito con le ossa rotte. Cinque anni dopo, Renzi sembra il nonno di se stesso: rugoso, brizzolato, gonfio, senza più elettori né consenso. Un Craxi mai stato Craxi, che vive anticipatamente la sua Hammamet. Spiace (ma anche no).

2. Il giorno della sfida non è casuale. Al mattino Il Fatto Quotidiano ha aperto con la notizia terrificante del “piano Rondolino”, ovvero un dossieraggio spietato contro Marco, il sottoscritto e i big del Movimento 5 Stelle. In qualsiasi altro Paese sarebbe stata la prima notizia su ogni giornale e tivù, ma tutto o quasi tace. Anzi: Renzi, che nel mondo reale ha verosimilmente meno consensi del Covid, continua a godere nei media (e in quel nulla travestito da social morto chiamato “Twitter”) di non pochi Lucabizzarri & Gaiatortora, pronti a minimizzare ogni sua nefandezza con la stessa naturalezza con cui Garrincha seminava i terzini.

3. Renzi accetta pure di confrontarsi con Gruber, rea secondo i renziani di avere trattato mesi fa la Boschi come da sempre merita di essere trattata una come la Boschi, e Giannini, uno che quando conduceva Ballarò su Rai3 fu trombato proprio dai renziani. Lo fa perché è disperato, ma anche per due altri motivi: perché da sempre si sopravvaluta comicamente, e dunque è convinto di gestire tutti e tre; e perché una volta terminata la puntata vuole recitare la parte del martire ed esaltare la “Curva Scalfarotto”.

4. La performance di Renzi è imbarazzante sin dalla partenza: una serie di insulti a Travaglio sulla falsariga berlusconiana (di cui da sempre è brutta copia) del “pregiudicato condannato diffamatore seriale”. Bla bla bla. Noioso, scorretto e banale come nessuno. E la cosa bella è che, nel dire quelle cose lì, Renzi si sente pure intelligente.

5. Renzi non risponde mai nel merito. Il nulla totale. Ciancia contro i giudici, insinua, allude, insulta, balbetta (sempre stato un oratore pessimo), esibisce la faccia forzatamente sorridente del Mister Bean più caricaturale, afferma che Rondolino è “uno stimato giornalista”, sostiene che l’Arabia Saudita tutto sommato è un bel Paese democratico. E continua a parlare di se stesso dall’alto di non si sa bene cosa. Disastro totale.

6. Nel tentativo perverso di sabotare gli ascolti di Otto e mezzo, Renzi allude alla partita in contemporanea dell’Italia. A fine puntata esclama: “Posso dire Forza Italia?”. E la Gruber: “No, perché quel partito ancora non è il suo”. È la pietra tombale sul senatore di Scandicci, il ko definitivo di un match da lui combattuto come un Gasparri in ciabatte contro Conor McGregor.

Ho sempre pensato che Matteo Renzi e i suoi lacchè fossero il peggio del peggio della Seconda Repubblica, ma onestamente non credevo – e men che meno speravo – di avere così ragione.