Renzi d’Arabia. È il nulla pure sui giornali sauditi

Nell’editoriale del 9 novembre, dopo l’esame di un ennesimo “Caso Renzi”, Marco Travaglio si chiedeva: “Come mai il politico meno amato dagli italiani resta il più amato dagli editori? Devono mica ricompensarlo per qualcosa?”. Potremmo domandarci: perché è amato anche in Arabia?

Sappiamo che è fra le “firme” di Arab News, primo quotidiano arabo in lingua inglese, vicino alla famiglia reale saudita: i suoi editori in questo caso lo considerano non solo un membro dei vari cda e “board” (Future Investment Initiative, Progetto Al’Ula), ma anche un possibile ambasciatore del “nuovo rinascimento” presso un ampio pubblico internazionale, che è il target a cui mira quel giornale.

Bene – si poteva pensare – magari adesso ci parlerà di Al’Ula, cosa che finora non ha fatto in modo esauriente. Sembrava fatta: il primo editoriale firmato dal senatore, il 24 aprile, recava addirittura un titolo promettente: Al’Ula can be a city of the future, as well as of the past. Macché: il pezzo era un insulso e lungo bla-bla, senza che venisse illustrato un solo monumento. In compenso c’era uno stucchevole quanto improprio confronto fra il progettato rilancio del sito arabo e il “nostro” rilancio di Matera.

Il Fatto provò a illustrare Al’Ula, realtà in effetti stupefacente, lo scorso 30 maggio. Il sito si trova su una direttrice nord-sud da sempre frequentata: via carovaniera nell’antichità, ferrovia attraverso la Penisola Araba in tempi più recenti, oggetto anche delle note attività di sabotaggio di Lawrence d’Arabia. L’area principale è Mada’in Salih: in un panorama desertico sono sparsi enormi banchi di roccia, in cui sono scavate tombe con facciate monumentali.

La conformazione delle rocce è differente, ma le architetture rupestri ricordano quelle della favolosa Petra, che oggi è in Giordania, ma che in antico era inserita nella stessa realtà geopolitica in cui si trovava il sito detto oggi Al’Ula, e cioè il regno dei Nabatei (massima fioritura fra II sec. a.C. e inizio II d.C.).

Il progetto, per cui sono stati stanziati ben 15 miliardi di dollari, prevede una poderosa riqualificazione turistica, con biblioteche, strutture museali, sale da concerto e sontuose residenze anch’esse scavate nella roccia: forse un sito per nababbi più che per archeologi o appassionati.

Senza aver detto nulla di tutto questo, Renzi concludeva il suo editoriale con una frase buona per tutti gli usi: “La bellezza salverà il mondo”. Più recentemente, in un’intervista televisiva in cui gli si chiedeva conto della sua attività fra i Sauditi, tornava su Al’Ula, ma anche stavolta in maniera non troppo esauriente. Ecco: “Al’Ua è una città pazzesca. Ci sono stati anche i Romani”. Fine.

L’impressione è che l’editorialista- consulente-conferenziere non conosca le cose di cui parla. In quella stessa intervista, richiesto di indicazioni sulla condizione femminile, ha magnificato per ben due volte il fatto che le donne ora guidano. Un’ossessione: ha sbandierato questo dato anche nell’imbarazzante confronto con Massimo Giannini e Marco Travaglio a Otto e mezzo. E dire che invece, anche qui, ci sarebbe stato ben altro.

In un’intervista al Messaggero il principe Ahmed Al Zahrani, che era capo della delegazione saudita al G20 di Roma, ha spiegato che nel 2016 è stato lanciato un Piano di trasformazione nazionale, in cui fra l’altro si programmava di incrementare la partecipazione femminile al mondo del lavoro fino al 30% entro il 2030.

Ebbene, dice il principe, in questo 2021 siano già al 33,9%. Inoltre, l’imprenditoria femminile nel Regno è salita al 50% nel 2019. Ora, può darsi che il principe sia stato troppo ottimista, ma quelli sono dati. Da verificare, ma dati. Come mai l’uomo che dovrebbe illustrarci la magnificenza di un fervore progettuale in cui lui stesso è coinvolto (intascando lauti compensi) non è andato oltre le “donne al volante”?

Insomma, Renzi si conferma, quantomeno, un pessimo comunicatore: ma perché il Regno Saudita se lo coccola?

 

Chappelle usa la fallacia emotiva come una clava contro le persone trans

I sei show di Dave Chappelle su Netflix hanno suscitato le proteste della comunità Lgbtq+ e delle associazioni per i diritti civili per le sue gag transfobiche e omofobiche, fondate su falsità fattuali, stereotipi denigratori e banalizzazioni reazionarie. La cosa ci interessa perché, in nome di una malintesa “libertà di espressione”, il discorso irresponsabile sta facendo proseliti anche da noi, complici le destre che se ne servono per la loro propaganda tossica.

Stereotipi denigratori. Chappelle inanella decine di gag che deridono le persone trans come fossero disgustose. Per esempio commenta l’idea di Caitlyn Jenner di posare per Sports Illustrated dicendo “Bleah!” (“Yuck!”); poi, avendo mangiato da piccolo cereali sulla cui scatola c’era la foto di Bruce Jenner, usa come punchline il proprio ribrezzo. Dello stesso tipo la gag sulla “tranny” (un insulto), descritta come “un uomo in abiti femminili”, per poi ribadire che detesta dover usare pronomi femminili per indicarla. Chappelle si difende dalle accuse sostenendo che il suo bersaglio sono i bianchi (ma l’equiparazione Lgbtq+=bianco è falsa, come abbiamo visto), e usa le persone trans come personaggi ridicoli: ma quelle gag non può farle lui, come un bianco non può fare battute denigratorie sui neri e un non ebreo non può fare battute denigratorie sugli ebrei. Perché no? Perché diventa razzismo. In un’altra gag scherza sul ragazzino abusato da Kevin Spacey, implicando che non fosse così innocente: ma un abuso non è mai giustificato (è l’ennesima variante della minigonna che causa lo stupro). Ferire la dignità di una minoranza, spesso vittima di violenze, le nega la legittimità dei suoi diritti: una cosa pericolosa per l’incolumità di quella minoranza. Inoltre, lo stigma sociale perpetuato nei media ha effetti negativi sulla salute mentale di quella minoranza (bit.ly/2ZHlbjj). Merrick Moise, attivista Lgbtq+: “Dave dovrebbe parlare con le persone trans nere per capire la gravità delle sue battute”.

Banalizzazioni reazionarie. Chappelle la butta in caciara (“Sto solo cazzeggiando”); denuncia la “cancel culture” e il “politicamente corretto” come fanno gli opinionisti di destra; e accusa i suoi bersagli di essere troppo “sensibili” e privi di sense of humour, come se il problema non fossero le sue gag razziste. Nel finale toccante ci informa che la comica trans bianca Daphne Dorman, che lo aveva difeso, si è uccisa dopo le polemiche; e annuncia di aver aperto una fondazione in favore di sua figlia (cfr. Ncdc 10 novembre). Iniziativa meritoria, ma raccontata così è una strumentalizzazione a fini retorici: è una fallacia emotiva (l’argomento ad misericordiam = difendersi suscitando la pietà) e pure una fallacia induttiva di generalizzazione indebita, la stessa dei razzisti bianchi che dicevano: “Non posso essere razzista: uno dei miei migliori amici è nero”. Nessuna fallacia ti autorizza a fare battute transfobiche. E che una persona trans sappia ridere di sé non autorizza chi non è trans a fare battute denigratorie sulle persone trans. Chappelle afferma infine che non farà più quelle battute: “Tutto ciò che chiedo alla vostra comunità, con tutta umiltà: per favore smettete di colpire dall’alto al basso la mia gente”. Intende i comici, le scrittrici e i rapper di successo che fanno battute transfobiche e omofobiche, di cui ha preso le difese negli show? Questo è rigirare la frittata: non puoi trattare la protesta legittima contro il bullismo reazionario come fosse una violenza. Spiega Jelani Cobb sul New Yorker: “La parte più reazionaria e pericolosa della politica culturale Usa contemporanea è interpretata da persone potenti che lamentano di essere vittime di gruppi che sono molto più vulnerabili di loro”. (15. Continua)

 

I netturbini vanno a lavoro scortati

Altro che Sparta, questa è Roma! E anche Roberto Gualtieri comincia a prenderne le misure. D’accordo la stampa amica, d’accordo gli ottimi rapporti col governo, d’accordo i soldi per il Giubileo e i fondi che arrivano a pioggia. Ma è quando si tratta di mettere le mani nella monnezza – materialmente e metaforicamente – che si solleva una puzza che arriva più in alto di Monte Mario. Ecco il bilancio di queste settimane di “pulizia straordinaria”, primo atto della sindacatura: la città è addirittura più sporca di prima; nel V municipio (Roma Est) gruppi di cittadini furibondi si sono dati al vandalismo e hanno cominciato a rovesciare l’immondizia dei cassonetti pieni in mezzo alla strada; i netturbini hanno già organizzato il primo sciopero e i sindacati della nettezza urbana lamentano che i camion hanno bisogno di girare con la scorta. Quest’ultima denuncia è stata raccolta domenica da Repubblica: “Gli operatori che raccolgono i rifiuti devono essere protetti e tutelati, se necessario anche dalla polizia locale. C’è troppa tensione in giro soprattutto nel quadrante Est”. In quell’area la monnezza si raccoglie meno anche perché ci sono molti mezzi guasti. E quando gli operatori finalmente passano, trovano un pubblico imbufalito.

Quirinale: tutti bruciati tranne “Mario-spritz”

In un articolo dal titolo “Il retroscena è un genere tutto italiano” l’autorevole (sempre) Le Monde rimbrotta bonariamente il nostrano “giornalismo di retroscena”, “il cui obiettivo è raccontare le trattative in corso come se ci si trovasse al centro del potere”. Infatti, “per farlo tutti i mezzi sono buoni, le citazioni anonime sono la norma, e se non si conosce con esattezza lo svolgimento dei fatti, nulla vieta di ricorrere alla fantasia”. Esatto, anche se l’autorevole (per sempre) Le Monde, nell’occuparsi della imminente elezione del capo dello Stato, non rinuncia a servirsi del medesimo sistema (“spiega un ex senatore”, “osserva un responsabile del Pd”).

Riguardo al genere, penso di saperne qualcosa visto che nei lontani anni Settanta fu l’allora direttore del Corriere della Sera, Piero Ottone, a spedirmi nel Transatlantico di Montecitorio con il mandato di raccogliere in quell’acquario della chiacchiera quante più chicche, anche anonime, fosse possibile, purché fuori dalle sciape dichiarazioni ufficiali.

Un nuovo modello di giornalismo basato su uno scambio alla pari. Il cronista portava a casa un pezzo sfizioso. Mentre il politico, senza nulla rischiare, si toglieva il proverbiale sassolino dalla scarpa (a volte anche un macigno) per danneggiare un avversario molesto, e più volentieri qualche scomodo compagno di partito. Come il totonomi sul Quirinale che, scattato quasi tre mesi prima, non può avere alcuna attendibilità sulla rosa dei favoriti, tranne quella di bruciarli in anticipo.

Giuliano Amato? Non simpaticissimo e poi i 5Stelle non lo voterebbero per una questione di prebende e i trascorsi craxiani. Idem per Marta Cartabia e per la sua “controriforma” della giustizia. Silvio Berlusconi? A parte i “precedenti”, se n’è parlato abbastanza da rendere la sua candidatura una comica. Romano Prodi: abbiamo già dato. Paolo Gentiloni: la destra non lo vota. Marcello Pera: la sinistra non lo vota. Pier Ferdinando Casini: una festa per i franchi tiratori.

E Mario Draghi? Sfinge immobile e silenziosa finché il barista sotto casa non è caduto nel trappolone della geniale coppia assassina di Un giorno da pecora, divulgando presunte confidenze della signora Serenella favorevoli all’ipotesi Colle. Segnatevi ’sta storia dello spritz perché, a oggi, resta l’unica notizia autentica tra mille bollicine avvelenate.

Il mio primo “buco”: una droga chiamata dipendenza affettiva

“Non chiederti se saremo felici. Io so che lo saremo. Tanto. Tra le tue braccia io sarò duttile come la creta. Io sarò riservata e appassionata, fiera e sottomessa, come ogni eroina shakespeariana, se tu lo vorrai. O misteriosa, evanescente, pallida e trasognata come ogni creatura femminile del Poe. Non avrai che da scegliere”. Era il 1965. Una ragazza imperiese di 22 anni piena di talenti, ambiziosa, a un passo dalla laurea in Giurisprudenza, si era innamorata. Scriveva lettere appassionate all’oggetto del suo amore, uno studente fascinoso e irrimediabilmente fuori corso di Genova, che di anni ne aveva 31.

Di lì a poco – fresca sposa – quella ragazza avrebbe abbandonato l’università e si sarebbe trasferita in un luogo ignorato dalla geografia. Non fu mai docile come certe eroine shakespeariane. Fu però sottomessa. Da se stessa, soprattutto, e dalle sue scelte. Dall’idea romantica dell’amore che la ingannò e la convinse che solo nell’amore sarebbe stata piena e risolta.

Quella ragazza era mia madre.

Ho attraversato la sua rabbia per anni, promettendo a me stessa che mi sarei presa tutto quello a cui lei aveva rinunciato. Che io sarei stata la donna che lei non era stata. Che avrei studiato, lavorato, viaggiato, che non le avrei permesso di specchiarsi in una figlia pavida e inerte. Avrei spezzato quella catena di infelicità immobile e rabbiosa, di vite mai partorite, rintanate nel ventre illusorio del romanticismo. (…) Mi sarei presa il futuro che non era stato. Sarei stata un’eroina, sì, ma della Marvel. Quale Shakespeare.

E così fu.

Solo che mentre mantenevo fede ai miei propositi, mentre lavoravo, studiavo, guadagnavo, viaggiavo, non mi accorgevo che avrei potuto affrancarmi da tutto, tranne che da una cosa: l’imprinting sentimentale. Nella sfera relazionale ero quello che avevo respirato, senza realizzarlo. E se negli altri aspetti della mia esistenza – dal lavoro alla vita sociale – stavo agendo per compensazione, in quella emotiva agivo per reiterazione. (…)

Scoprii molti anni dopo, quando seppi dare un nome a quello che mi era successo, che i rapporti tossici hanno un inizio molto simile: tutto, all’inizio, è oltre l’idillio. Accade qualcosa di inebriante che invade la carne e i pensieri. Quando ero con lui io non ero solo felice. Ero dissetata. Provavo qualcosa di simile a un appagamento. E quando non ero con lui sentivo uno strano disordine emotivo, una specie di febbre, di sete che dovevo placare. Vivevo le mie giornate senza di lui come un intervallo, una pausa dell’esistenza. Mi spegnevo, in attesa di riaccendermi quando lo avrei rivisto. Ero appena diventata una giovane tossica, convinta, al contrario, di aver colmato quella zona irrimediabilmente cava della mia emotività. (…)

Io ero scivolata in una dipendenza senza accorgermene. Non sapevo neppure che esistessero le dipendenze affettive, figuriamoci se avrei mai potuto immaginare di essermi impantanata in una relazione disfunzionale. Ero cupa e inebetita quando non c’era lui perché – ovvio – ero troppo innamorata. Ero euforica e sovreccitata quando stavo con lui perché – ovvio – ero troppo innamorata. Ogni piccola incomprensione era una sciagura emotiva perché – ovvio – ero troppo innamorata. Ed era vero che era tutto “troppo”. Non era vero, però, che ero innamorata. Mi ero ammalata. Troppo. (…)

L’infelicità mi trovò impreparata. Arrivò veloce e furiosa come un’onda d’urto, senza consentirmi di mettere al riparo nulla. Mentre cercavo ancora di metabolizzare l’atmosfera militaresca in cui ero immersa, il suo atteggiamento inaspettatamente autoritario e la cupezza di certe giornate in cui non c’era spazio per un pensiero leggero, dal rimprovero lui passò al disprezzo. (…)

Ero bella e corteggiata, e questo era qualcosa che lo infastidiva per ragioni estranee alla gelosia. O meglio, c’era anche quella (restituita con abbondanza), ma mentre io ero scioccamente gelosa perché tutte erano migliori di me e sarei stata abbandonata, lui non sopportava che piacessi agli uomini perché quello luminoso, quello da ammirare, per cui sfregarsi gli occhi dalla meraviglia era lui.

Quindi sì, piacevo, ero bella forse, ma “una bellezza da camionista”. E me lo argomentava scomodando un concetto inedito, quello del “benaltrismo estetico”, inventato per l’occasione: la bellezza elegante, raffinata, era ben altro. Le sue ex fidanzate, a suo dire, erano tutte molto diverse da me, molto sofisticate. Meno vistose, magari, ma con un fascino più intrigante. Finalmente veniva allo scoperto. Ora sapevo che il suo mostrarmi fin dal primo giorno i suoi splendidi trofei, era propedeutico a questa seconda fase, quella della spietatezza. (…)

Nel giro di pochi mesi ero annientata. Soprattutto, avevo paura. Più vedevo le cose precipitare, più mi rifiutavo di accettare la realtà. Era una barca che stava affondando, con l’acqua ormai fino alla prua, ma anziché mettermi in salvo io rimanevo a bordo con un secchiello. L’unica cosa che mi interessava era compiacerlo e non mi importava che il prezzo da pagare fosse la mia infelicità e, di riflesso, quella di mio figlio. Come accade in ogni dipendenza, dovevo avere la mia dose di lui, anche se ormai stavo bene un minuto, magari il tempo di un bacio, e poi male per due giorni. Perché con le droghe funziona così: a ogni buco, il senso di benessere ha una durata sempre inferiore. Tu però continui a bucarti, nell’illusione di provare ancora l’estasi della prima volta.

© 2021 Mondadori Libri S.p.A.

CL, don Julián Carrón si dimette da presidente

Dopo uno scontro durato diverse settimane con la Santa Sede, il presidente di Comunione e liberazione, don Julián Carrón, si è dimesso, dopo averlo guidato ininterrottamente Cl dal 2005.. Il diretto successore di don Luigi Giussani, che nel 1954 fondò Cl, è stato costretto ad accettare la decisione irrevocabile presa dal Vaticano, secondo cui i presidenti dei movimenti ecclesiali non possono restare in carica oltre 10 anni. Papa Francesco, a settembre, ha commissariato l’associazione laicale di Cl, i Memores Domini, di cui Carrón era consigliere ecclesiastico.

Mega-discarica Bussi, riparte causa vs Edison

“La Cassazione nei giorni scorsi ha definitivamente indicato in Edison il responsabile dell’inquinamento delle mega-discariche di veleni a Bussi sul Tirino (Pescara), dove per decenni sono state seppellite scorie di lavorazione delle industrie chimiche”. Così il Partito della Rifondazione Comunista (Prc) annuncia per oggi una conferenza stampa in cui interverrà anche il segretario nazionale Maurizio Acerbo. “È una storia surreale. I funzionari ministeriali hanno rallentano una bonifica che poteva già essere conclusa. Ci auguriamo – si legge in una nota – che Pd e M5S dopo le sonore bocciature da parte di Tar, Consiglio di Stato e Cassazione stiano dalla parte dei cittadini e non della multinazionale Edison”.

Genoa Calcio, Zangrillo è il nuovo presidente

Dopo18 anni finisce ufficialmente l’era Enrico Preziosi e inizia quella di Alberto Zangrillo, medico personale di Silvio Berlusconi. Il closing con il fondo 777 Partners firmato ieri a Milano sancisce il passaggio di consegne ufficiale del club ligure alla nuova proprietà americana. Presenti l’ex patron, Andres Blazquez, e il nuovo presidente Zangrillo. Con la chiusura della trattativa tra 777 Partners ed Enrico Preziosi è avvenuto il definitivo passaggio di consegne dall’imprenditore che aveva acquistato il Genoa salvandolo dal fallimento al Tribunale di Treviso nel 2003, alla holding americana che dal 22 settembre scorso, giorno delle firme, è diventata nuova proprietaria del club più antico d’Italia.

Altri due operai morti: 910 vittime nel 2021

Incidente mortale sul lavoro per due operai nel Fiorentino e nel Salernitano. A Cerreto Guidi (Firenze), in un cantiere per la realizzazione di un collettore fognario, ha perso la vita un lavoratore di 51 anni: si è ribaltato con lo schiacciasassi che stava guidando, finendo in un fossato. A Bellizzi (Salerno), un altro operaio di 57 anni ha perso la vita. L’uomo, secondo una prima ricostruzione, stava ispezionando la canna fumaria di una stufa a pellet in un appartamento, per cause ancora ignote, ha perso l’equilibrio ed è caduto nel vuoto battendo la testa. L’impatto non gli ha lasciato scampo. In nove mesi, tra gennaio e settembre, sono nel complesso già 910 gli operai morti sul lavoro denunciate all’Inail.

Il Pd sospende il tesseramento online ad Avellino: “Gravi anomalie”

Il Partito democratico di Avellino sospende il tesseramento. Dopo le “gravi anomalie” registrate negli ultimi giorni e dopo la denuncia del dem Franco Vittoria uscita ieri sul Fatto Quotidiano, la segreteria nazionale del Pd ha deciso di interviene e bloccare le nuove adesioni in vista del congresso provinciale fissato il prossimo 10 dicembre. A suscitare l’indignazione di molti era stato il boom di tessere: 8.400 in una sola notte attraverso il modulo online, più altre 4 mila stampate in presenza. Di certo una buona notizia per le casse del partito, nelle quali sono confluiti circa 230 mila euro (il costo della singola iscrizione è fissato in 22 euro), ma molto meno buona per quanti, dirigenti locali e nazionali, hanno evidenziato il rischio di una partito “messo all’asta”. La Direzione nazionale del Pd, insieme al commissario della Federazione irpina Michele Bordo, oltre a sospendere le iscrizioni online annuncia anche di “aver attivato tutti i controlli necessari ad individuare la reale natura dei fatti”. In particolare, le verifiche proveranno a scoprire “con certezza l’identità di chi si è iscritto online pagando con la carta di credito o il bancomat (con una sola tessera si poteva pagare fino a tre iscrizioni)”, secondo “la loro autonoma volontà ad iscriversi con risorse proprie e non provenienti da terzi”. Il riferimento è alla pubblicazione di alcune testimonianze e a stralci di chat private in cui esponenti del Pd di Avellino si rendevano disponibili con amici e parenti a compilare per l’adesione al partito e a farsi carico delle spese. In questo modo, al costo di qualche centinaio di euro a testa, poche persone sarebbero state in grado di condizionare la partita del congresso. Motivo per cui da Roma è arrivato l’ordine di congelare il tesseramento fino a che non sarà fatta chiarezza.