Fedez come Silvio, ma il suo “movimento” è uno spot

Stile e scenografia sono familiari. Questa volta però la discesa in campo è solo una parodia. Dopo una settimana di gossip sul presunto impegno politico di Fedez – che aveva registrato il dominio “fedezelezioni2023.it” – ieri il rapper ha pubblicato un video che ricalca la celebre “cassetta” con cui Silvio Berlusconi annunciò la candidatura nel 1994: “L’Italia è il Paese che amo – dice Fedez – qui ho le mie radici, le mie speranze, i miei orizzonti, qui ho imparato il mestiere di truffatore”. E poi il lancio di un movimento che in realtà è il titolo del nuovo album: “Il movimento si chiama Disumano ed è possibile realizzare insieme un grande incubo: quello di un’Italia sempre più ingiusta, menefreghista e che nelle recite di fine anno dell’Ue ha il ruolo del cespuglio”.

Colle: Letta, Verdini e Dell’Utri hanno già reclutato 30 peones

“Sembra di essere tornati al 2008, ma senza le olgettine”. La battuta è di un colonnello berlusconiano, di quelli che in villa San Martino ci entrano da oltre vent’anni. Dalla porta principale, naturalmente. Il significato è presto detto: i tempi passano, le carriere finiscono, i processi arrivano a sentenza, ma alla corte di Silvio Berlusconi sono tornati gli stessi uomini dell’epoca d’oro del berlusconismo. Ci sono i soliti Gianni Letta e Fedele Confalonieri e poi ci sono i due “uomini neri”. Quelli che parlavano poco ed erano temuti da tutti. Quelli che hanno sempre fatto il lavoro più sporco in nome del capo, fino a mettere le mani nei tubi melmosi del Parlamento. Le manovre parlamentari erano roba loro. Ora Marcello Dell’Utri e Denis Verdini sono tornati. Il compito è quasi proibitivo: issare Berlusconi al Quirinale. Per riuscirci servono almeno 50 voti, quelli per arrivare a quota 505 al quarto scrutinio.

Dell’Utri, che ha scontato una condanna a 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa, è tornato a frequentare le stanze di Arcore dopo l’assoluzione di Appello al processo sulla trattativa Stato-mafia e si sta muovendo dietro le quinte per cercare di recuperare più voti possibili. Nei giorni scorsi ha avuto anche una telefonata con Renzi e, di fronte ai vertici di Forza Italia, ha detto: “Renzi può aiutarci per Silvio al Colle”. Presto, sussurrano i big di FI, potrebbe tornare anche a Roma. Poi c’è Verdini che sta scontando i domiciliari nella villa fiorentina di Pian de’ Giullari dopo la condanna a 6 anni e 6 mesi per il crac del Credito Cooperativo Fiorentino. Fisicamente quindi “lavora” da casa per Berlusconi, ma più di un senatore nei giorni scorsi ha ricevuto la sua telefonata. “Tu Silvio al Colle lo sostieni, vero?” il senso delle frasi di Verdini che, come noto, può vantare anche un rapporto di lunga durata con Matteo Renzi dai tempi in cui quest’ultimo era presidente della Provincia di Firenze e il macellaio di Fivizzano lo avrebbe voluto come erede di Berlusconi. I 43 voti dei renziani fanno molto gola ad Arcore: poter contare anche sulla metà di questi vorrebbe dire, sulla carta, far diventare realtà il sogno dei 505. Anche perché, dopo una settimana di prime trattative, la convinzione ad Arcore è di poter contare già su 25-30 tra deputati e senatori del gruppo misto. Oltre a quelli del “Maie” e di “Coraggio Italia” di Toti e Brugnaro (presto nascerà un gruppo in Senato), una decina di voti dovrebbero arrivare dagli ex 5Stelle. “Se la tua candidatura prende forza, quei voti spunteranno” è la frase che i consiglieri hanno rivolto a Berlusconi in queste ore.

Come arriveranno quei voti è difficile da dire. La promessa di una ricandidatura nel centrodestra potrebbe essere un’idea perché l’ex premier è convinto che, se dovesse essere eletto al Quirinale, Forza Italia tornerebbe ai fasti di un tempo e il taglio dei parlamentari diventerebbe un problema secondario. I modi per conquistare i voti dei “cani sciolti” del gruppo misto ci sono. Anche quelli meno nobili. Basti ricordare che Verdini è stato il padre delle operazioni che nei primi anni Dieci dei Duemila portavano voti a Berlusconi: la compravendita dei senatori nel 2008 per convincere il senatore dell’Idv Sergio De Gregorio a votare la sfiducia al governo Prodi e l’operazione “responsabili”, il gruppo di Antonio Razzi e Domenico Scillipoti, che si concluse con il salvataggio del governo Berlusconi IV nel 2010 dopo la scissione di Gianfranco Fini.

“Silvio è noto perché se vuole arrivare a una cosa ci arriva – scandisce oggi un big di FI – se ha bisogno di 30/40 voti il modo lo trova”. Tra Berlusconi e il Quirinale, però, resta un grosso ostacolo: la tenuta dei gruppi parlamentari. Perché ad Arcore, nonostante le promesse in privato e gli endorsement sfacciati, temono che Matteo Salvini e Giorgia Meloni alla fine lo fregheranno. O almeno, lo candideranno per bruciarlo nelle prime votazioni e poi lo scaricheranno dalla quarta. Anche perché i gruppi parlamentari di Lega e FdI, nel voto segreto, non lo sosterrebbero in massa. E dunque la parola d’ordine da Arcore è quella di “coccolare” gli alleati. Lui, nel frattempo, sta provando a riconquistare il palcoscenico internazionale. Dopo il faccia a faccia con la Merkel avrebbe partecipato al congresso del Ppe a Rotterdam del 18 e 19. Ma è stato annullato causa pandemia. E Berlusconi se n’è dispiaciuto molto.

Manovra, Draghi va per la sua strada (altro che “patto” di Letta coi partiti)

Enrico Letta, segretario del Pd, chiama i partiti di maggioranza a collaborare sulla manovra. I partiti rispondono. Mario Draghi, Presidente del Consiglio, però va avanti per la sua strada. Il patto che i leader si preparano a fare non lo riguarda. La manovra (che arriva oggi in Senato) è stata approvata in Cdm, e questo è quanto. E per gli 8 miliardi di “tesoretto” da spendere, l’intenzione è quella di fare un emendamento del governo. Letta ha intenzione di facilitare il compito del premier, ma a Palazzo Chigi guardano a questa operazione con distacco.

Sulla scia del segretario si è mossa la capogruppo in Senato, Simona Malpezzi, che ha chiesto un incontro tra i presidenti dei gruppi: in programma al più presto. I leader si vedranno poi, alla fine dell’istruttoria, tra fine novembre e inizio dicembre. Ma intanto oggi saranno tutti all’assemblea di Confesercenti. Per ora, è arrivato il sì pubblico sia di Forza Italia che della Lega. Per M5s, a fronte di un Conte silente, si è espresso Di Maio.

Il patto non dovrebbe esaurirsi con la legge di bilancio: l’idea è quella di cercare una convergenza pure per il Quirinale. Il fatto che tutti abbiano accolto l’invito di Letta significa almeno che nessuno vuole, (anzi può) andare a votare. Per il Colle, l Pd di candidati propri per ora non ne ha e non vuole trovarsi nella condizione di un muro contro muro. I dem ancora sperano in un ripensamento di Sergio Mattarella per il bis. Se non accade, dovranno convergere su Mario Draghi. A guastare le acque potrebbe arrivare Renzi, che tratta su più tavoli. Alla Leopolda potrebbe tirare fuori un colpo a sorpresa proprio sul Colle. E domani ha invitato a cena tutti i senatori.

Mattia Santori difende Matteo col silenzio “garantista”

Per Matteo Renzi non c’è posto “nel campo largo del centrosinistra”, ma i suoi guai giudiziari meritano solo un “no comment”. Così almeno secondo il fondatore delle Sardine, Mattia Santori, oggi consigliere comunale del Pd a Bologna, secondo cui “a oggi non ci sono le condizioni per avere uno come Renzi in coalizione, qualsiasi cosa lui rappresenti nel campo progressista”. Ma i finanziamenti dall’Arabia Saudita o dalla famiglia Benetton non smuovono granché Santori (che a sua volta, dopo il crollo del Ponte Morandi, si fece fotografare coi signori delle Autostrade): “Non commento perché sono garantista e mi fido della magistratura. Troppo spesso si sono dati giudizi frettolosi per poi scoprire che era tutto sbagliato”. Nessuna condanna, dunque, forse anche in ricordo della vecchia stima che portò il giovane Santori a votare Sì al referendum sulla controriforma costituzionale renziana del 2016.

I paggetti di “In Onda” riciclano la fake news sui conti correnti violati

In Onda tutta renziana, domenica sera su La7. Ospite Maria Elena Boschi. Ospite di rinforzo: Umberto Galimberti. Attore non protagonista: Gianrico Carofiglio. Comparse: i conduttori Concita De Gregorio e David Parenzo. Un assolo: Boschi recita a memoria lo spartito della casa, zero domande vere. La più incisiva è quella di Parenzo in apertura: “Secondo lei Renzi dove ha sbagliato. Se ha sbagliato”. Giammai. “Parlare di errore – s’indigna Boschi – quando c’è un’inchiesta dove sono state violate le leggi dello Stato… Novantaduemila pagine di atti giudiziari si fanno forse per i reati di mafia”. O per i nazisti: “Un magistrato come Nordio ha detto che neppure nel processo di Norimberga… Io l’ho pagato sulla mia pelle, quando c’è stata l’archiviazione del caso Etruria, i giornali gli hanno dedicato al massimo un trafiletto”. Parenzo annuisce: “Questo è un annoso problema, certo”.

Irrompe Galimberti. “Renzi è una vittima. Il Pd ha una sola ragione sociale: farlo fuori”. Carofiglio (del Pd) tace. Poi bisogna occuparsi del vero scandalo: l’intrusione nei conti correnti del fu Rottamatore. Un breve servizio della redazione di In Onda introduce l’argomento: “Le notizie hanno rilevanza politica ma non erano rilevanti ai fini penali. Allora, chi ha fatto uscire gli estratti conto di un senatore?”. Parenzo è illuminante: “Un conto sono le prestazioni con Stati come l’Arabia Saudita, lecite e legittime, ma certo prendere soldi da Bin Salam (sic!) non è la cosa migliore. Altra cosa è quella che ha fatto il Fatto Quotidiano, cioè pubblicare altri dati, come gli 80mila euro presi per un libro, che non hanno né rilevanza penale né sono interessanti come notizia”. Boschi pontifica: “È una violazione del diritto alla riservatezza. Lasciamo stare che stavolta abbia riguardato Renzi, ma se chi fa le indagini è al di sopra delle leggi, può succedere a qualsiasi cittadino”. Concita è lisergica: “Lei fa questo mestiere da molto tempo, ogni tanto succede, sa benissimo che esistono i dossieraggi”. Meb salomonica: “Non credo sia normale, non dovrebbe essere così”.

Eletti e trasparenza: la lettera di Bonafede ignorata da Casellati

Il Senato dove siede anche Matteo Renzi è rimasto finora sordo alle “raccomandazioni” del Greco, il Gruppo anticorruzione del Consiglio d’Europa: non ha varato l’auspicato “codice di comportamento” per prevenire i tanti conflitti di interessi in cui si imbattono i parlamentari. La presidente del Senato Maria Elisabetta Casellati, addirittura, in una lettera inviata al capo di gabinetto dell’allora ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, Raffaele Piccirillo, e che il Fatto ha potuto leggere, arriva a esaltare la legge “Spazzacorrotti” per ridimensionare l’assenza del codice. E così i senatori possono dormire sonni tranquilli: non devono temere, se assumono incarichi palesemente inopportuni, come ha fatto Renzi, consulente dell’Arabia Saudita, né leggi ad hoc né un codice etico.

Ma per capire meglio facciamo un salto indietro di cinque anni. Autunno 2016: siamo in piena campagna referendaria per cambiare la Costituzione e mettere all’angolo il Senato, come voluto dall’allora presidente del Consiglio Renzi, salvo poi dimettersi per la secca sconfitta referendaria del 4 dicembre, candidarsi ed essere eletto proprio senatore. Il Greco, il 21 ottobre, approva un rapporto sull’Italia, con 12 raccomandazioni, alcune di queste riguardano i parlamentari. Si raccomanda che il nostro Paese regoli “la spinosa questione” del conflitto di interessi. La Camera dei deputati adotta il codice di comportamento anche se, secondo il Greco, non ha finito i compiti. I senatori ignorano la faccenda, pensano, ci racconta qualcuno degli ex, che Palazzo Madama sia al tramonto. Invece, il Senato è sopravvissuto, ma un codice di comportamento non l’ha adottato. Eppure, dopo la prima valutazione del Greco, c’è stata una sollecitazione alla presidente Casellati, che era succeduta a Piero Grasso a marzo 2018. A scriverle, il 9 luglio 2020, è Piccirillo, come capo di gabinetto di Bonafede e come capo della delegazione italiana presso il Greco. Piccirillo, che è rimasto capo di gabinetto anche con la ministra Marta Cartabia, scrive che “entro il 30 settembre la delegazione italiana da me presieduta dovrà trasmettere al Segretariato del Greco una relazione sui progressi compiuti” anche in merito alle raccomandazioni disattese da palazzo Madama. “Le sarei grato, conclude, se potesse far pervenire a questo ministero entro il 31 luglio 2020 ogni contributo ritenuto utile”.

Nonostante l’urgenza, Casellati risponde fuori tempo massimo, invia le sue “considerazioni” il 19 ottobre 2020. L’incipit della presidente del Senato, berlusconiana di ferro, è sorprendente: si appella alla “legge 9 gennaio 2019”, la spazzacorrotti di Bonafede, per giustificare la mancanza di un codice di condotta in Senato: “È ragionevole ipotizzare che i fenomeni corruttivi in ambito politico possano essere prevenuti anche attraverso un rafforzamento degli standard di trasparenza dei partiti e dei suoi movimenti politici, con positivi effetti – sia pure indiretti – anche rispetto alle Camere e altresì rispetto a possibili fenomeni corruttivi riguardanti i parlamentari”. La presidente, inoltre, riferisce che “attualmente è allo studio l’introduzione di una disciplina relativa al predetto codice” che, da regolamento, dovrà essere approvato dal “Consiglio di Presidenza”. Ma il Codice non è pervenuto.

Pensare che anche nel 2018 il Greco scrive che “il Senato è invitato a impegnarsi a un percorso analogo della Camera”, che deve completare. Piccirillo, nella lettera del 2020 a Casellati informa che il Greco, fra l’altro, insiste sulla raccomandazione di varare in Italia “un solido insieme di restrizioni in materia di donazioni, manifestazioni di ospitalità, favori e altri benefici concessi ai parlamentari”. Scrive il Greco: “Il Senato in questo campo non ha compiuto alcun risultato”. Nel frattempo c’è stato un rapporto al Consiglio d’Europa del 25-26 marzo scorsi secondo il quale nel nostro Paese si deve “ampliare la gamma delle sanzioni non penali per le condotte moralmente discutibili” dei parlamentari.

13 domande del M5S a Renzi. E la destra lo salverà al Senato

Quel centrodestra che sembra il suo naturale approdo pare già pronto a salvarlo dai giudici, con il voto della Giunta per le immunità, in Senato. Ma mentre già pregusta la votazione salvifica che tanto potrebbe pesare anche in vista del Quirinale, Matteo Renzi chiama alla sfida pubblica in tv il nemico che cita sempre e ovunque per (ri)darsi un’identità e forse uno scopo, quel Giuseppe Conte che ieri sera gli ha recapitato 13 domande sul caso Open tramite il portale dei Cinque Stelle. “Renzi rispondi” recita l’hashtag, e di seguito si leggono i 13 quesiti che rinfacciano al senatore risposte e silenzi sulla vicenda. Un morso a cui il fu rottamatore risponde di corsa via Twitter, evocando lo scontro frontale: “Conte ha preparato per me 13 domande: sarò felice di rispondere in un confronto in diretta tv. Aspetto la sua proposta di data e nel frattempo preparo le 13 domande per lui, dalle mascherine al Venezuela. Sono certo che non scapperà dal confronto democratico, vero?”. Dai piani alti del M5S soffiano subito un “figuriamoci”. Però è evidente che Renzi insisterà, anche per coprire i nodi postigli dal M5S.

Partendo dal primo, innescato dalla proposta di character assassination a suo tempo formulata tramite email a Renzi dal giornalista e sodale Fabrizio Rondolino. “Lei – scrivono i 5S – ha definito un’ipotesi di scuola il progetto mirato a creare una ‘struttura di propaganda antigrillina’ e a diffondere ‘rilevazioni mirate a distruggere la reputazione e l’immagine pubblica’ del M5S e di alcuni giornalisti. Ma a che tipo di ‘scuola’ e di ‘offerta didattica’ lei e i suoi collaboratori vi siete dedicati?”. Il portale gli ricorda anche “la quantità impressionante di profili di illiceità (dagli investigatori privati ai server sottratti alla legge italiana)” di cui era colmo quel progetto, e gli chiede perché “lo inoltrò via iPhone, senza alcun commento, a un altro suo collaboratore (Marco Carrai, ndr), anziché prendere le distanze”. E poi vari altri quesiti: se Iv si opporrà alla proposta di legge sul conflitto di interessi “con divieto per i parlamentari italiani di ricevere finanziamenti da governi stranieri”. E se “non ha ritenuto quantomeno inopportuno ricevere somme dai Benetton con la procedura di annullamento della concessione ancora aperta”. Un fiume di contestazioni, che ha un primo obiettivo politico, dicono fonti dei 5Stelle: “Rendere chiaro al Pd che si devono allontanare da Renzi, e che devono tenerlo a distanza”. Riassumendo, “che non può stare ai tavoli”. E a due mesi dalle votazioni per il Colle è una considerazione che può avere un peso. Anche per il Renzi ormai pronto alla Leopolda 11 che – ha detto ai suoi fedelissimi – “sarà esplosiva”. La manifestazione si terrà nel fine settimana, proprio quando ci sarà il voto in Giunta per le immunità del Senato sull’uso delle intercettazioni disposte dalla Procura di Firenze nell’inchiesta Open. Dal palco del capoluogo toscano, Renzi potrebbe annunciare proprio l’uso “illegittimo” delle intercettazioni da parte di pm fiorentini visto che il centrodestra, che ha la maggioranza in giunta, è pronto a salvarlo. Questa sera alle 20 infatti l’organo del Senato inizierà a valutare la richiesta di immunità inoltrata dall’ex premier alla presidente di Palazzo Madama, Maria Elisabetta Alberti Casellati, lo scorso 7 ottobre. All’ora di cena sarà la relatrice di Forza Italia, Fiammetta Modena, avvocato umbro che sostiene fortemente i referendum leghisti sulla giustizia, a presentare e analizzare giuridicamente il caso. Ieri sera Modena, contattata dal Fatto, faceva sapere di stare ancora “studiando le carte” e che ultimerà la sua relazione solo questa mattina. Ma già il fatto che sia lei la relatrice è un punto in favore del senatore di Scandicci. Ottimista, e per capire perché basta leggere i numeri: sui 23 componenti, la Lega ne ha 6, Forza Italia 3 e Italia Viva 3. Il conto fa 12 senatori, compreso il presidente Maurizio Gasparri. Senza contare i due di Fratelli d’Italia, Lucio Malan e Alberto Balboni, che con ogni probabilità si asterranno. Pd, M5S e LeU, in teoria contrari all’immunità per Renzi, potranno invece contare su 5 voti. Incerti i 4 del Misto: ci sono gli ex grillini Mattia Crucioli, Gregorio De Falco e Mario Giarrusso e l’autonomista Meinhard Durnwalder. Anna Rossomando, unico membro del Pd, deciderà “in base alle carte”.

E comunque dai vertici di Lega e Forza Italia è arrivato l’ordine: “Renzi va salvato”. Un primo do ut des in vista del Quirinale anche se Renzi, come noto, sta giocando su più tavoli. Berlusconi, d’altronde, nel Colle ci spera eccome e punta proprio sui 43 voti renziani per essere eletto. Chissà se se ne parlerà, nella Leopolda che inizia venerdì. Il costo è di circa 400 mila euro, finanziati da Italia Viva, e gli ospiti sono ancora segreti. Al caso Open Renzi dedicherà la parte centrale dell’evento. Sabato, al posto della mostra sull’inchiesta Open, il leader di Italia Viva farà un monologo dedicato alla vicenda andando all’attacco dei pm fiorentini rei di aver commesso “un hackeraggio di Stato” e della stampa che ha pubblicato le carte. Un modo per ricompattare i suoi intorno alla guerra contro la magistratura “politicizzata”. Come un Berlusconi qualunque.

Feltri contro Feltri

Adoro Libero perché amo gli ossimori. E stravedo per Vittorio Feltri per il suo passato di penna all’arrabbiata, per la sua totale assenza di scrupoli e freni inibitori, ma soprattutto perché non ha la più pallida idea di quello che scrive. Ieri ha preso le difese del suo ex vice al Giornale Alessandro Sallusti, che l’altroieri avevo indicato come l’artefice della celebre patacca del 2009 sull’allora direttore di Avvenire Dino Boffo “noto omosessuale già attenzionato dalla Polizia di Stato per questo genere di frequentazioni”. “Travaglio scrive cazzate”, “inventa favole e fandonie”, afferma Feltri, “il contenuto del documento raccontava un episodio vero” e soprattutto Sallusti non c’entra: “al massimo può essere considerato mio corresponsabile, ma sarebbe una forzatura”. Ora, sapete chi aveva indicato Sallusti come artefice della bufala in varie interviste e dinanzi al pm Gianfranco Scarfò che nel 2012 lo aveva sentito come teste sotto giuramento e obbligo di dire la verità? Feltri.

Intervista all’Espresso (3.7.2014): “Fu Sallusti a dirmi che la fonte della velina su Boffo era il cardinale Bertone, che l’aveva data a Bisignani e alla Santanchè. Poi era arrivata a Sallusti. È quello che ho raccontato ai magistrati… Io ero direttore e mi sono fidato… Visto quello che è successo, facevo bene a non fidarmi”. Anche perché l’Ordine dei giornalisti sospese Feltri, non Sallusti: “Ho pagato solo io, come sempre… Quel cretino del direttore ci va di mezzo”. Intervista, sempre di Feltri, a Repubblica (5.7.2014): “Arriva Sallusti e mi dice che c’è questa storia di Boffo. Mi porta dei documenti. Gli chiedo: ‘Chi te li ha dati?’. E lui: ‘È quel giro lì, Santanchè-Bisignani-Bertone’. ‘Siamo sicuri?’, gli faccio. ‘Sicuri’. Lo prego di fare ulteriori verifiche: lui le fa. A quel punto decido di andare avanti… (Il pm) mi dice che se voglio posso appellarmi al segreto professionale. Figuriamoci. Perché mai dovrei coprire dei falsari? Il segreto professionale lo usi per proteggere delle fonti buone, mica chi ti ha venduto una patacca… una bufala… balle… A un magistrato non puoi raccontare puttanate. Quindi ho detto la verità”. Sallusti nega tutto e lo accusa di falsa testimonianza: “Ricostruzione senza alcun fondamento”. E Feltri: “Ho rinunciato al segreto perché sarebbe assurdo coprire una fonte infedele imbrogliona. Mentre Sallusti non ha svelato la fonte delle notizie false su Boffo, proteggendo i falsari che mi avevano danneggiato. Perché? Io fui sospeso dall’Ordine tre mesi e dovetti rinunciare alla direzione del Giornale. Al mio posto guarda caso subentrò Sallusti”. Prima di attribuire a me “cazzate”, “fandonie” e “favole”, Feltri dovrebbe chiarirsi col suo ex-neo-direttore Sallusti. Ma soprattutto con Feltri.

Mio figlio, i suoi diari. Jeff Buckley e i ricordi di mamma Mary

Era il 1994, Rock Planet di Milano, showcase dal vivo di Jeff Buckley. Ci sono solo tre giornalisti tra cui Davide Sapienza che cattura il pensiero del giovane artista: “Vivevo nella mia visione quando sono stato notato”. Poi un tuffo fatale nelle acque del Mississippi e la resurrezione – nel tempo – del suo album Grace, considerato un capolavoro. E arriva in libreria anche il suo diario, raccolto e centellinato dal giornalista David Browne e, soprattutto, da sua mamma Mary Guibert, che ci ha aperto il suo personale scrigno: “Credo nella continuità della vita a tutti i livelli e, anche se non ci vediamo fisicamente tra questi, si possono veicolare i messaggi da un livello all’altro. La musica apre questi canali spirituali”.

Lei scrive che non tutti saranno d’accordo sulla condivisione del diario di suo figlio.

In tutti questi anni ci sono state persone che hanno parlato di Jeff “spacciandosi” per esperte. Io ho la fonte dei suoi pensieri, i suoi diari, e pubblicarli è l’unico modo di difendere le sue vere idee.

“Quello che mi sta a cuore è suonare senza preoccuparmi del successo”.

C’è stata sicuramente una trasformazione in seguito all’energia che viene da così tante persone che hanno una reazione profonda alla tua musica… Non aspirava a essere una mega star, anzi, era intossicante per lui, voleva solo la sua gente ad ascoltarlo.

Ci sono ancora inediti?

No, sapevo che c’erano cose buone in fondo al barile: è stato un duro lavoro far emergere il bel dipinto che c’era e che andava rivelato. Restano alcune versioni dal vivo, ma le canzoni sono sempre le stesse.

Molti artisti hanno tributato grandissimi elogi a Jeff: Bob Dylan (“miglior compositore”), Jimmy Page (“il miglior album”), David Bowie (“lo porterei su un altro pianeta”), Joni Mitchell (“grazie Signore per la sua follia e passione”), Bono (“una goccia pura in un oceano di rumore”).

Ho incontrato Chris Martin – Shiver dei Coldplay è dedicata a Jeff – e Ben Harper, che era un buon amico di Jeff: mi ha raccontato dell’emozione di mio figlio a un Festival in Europa nel quale ha conosciuto Jimmy Page e Robert Plant nel backstage. Ben gli aveva dato il suo pass e poco dopo lo vide arrampicato su una impalcatura con una catena legata al polso a dondolarsi in mezzo ai due Led Zeppelin. In seguito Cameron Crowe mi svelò che un giorno si trovò in un pub con Page e Plant al tavolo, ma loro non si parlavano da tempo e non si guardavano nemmeno negli occhi. Poi il regista nominò Jeff e si sciolsero facendo pace e parlando di mio figlio come la voce migliore del secolo.

Una frase colpisce col senno di poi: “Ti può distruggere in un secondo ma comunque ne sei attratto anche solo per osservare la sua vastità ondeggiante”.

Per un cantante, quando sei di fronte al pubblico tiri fuori la tua arte senza altre proiezioni e le persone sono visceralmente collegate. Senti il potere di essere integrato con altri esseri umani, pura magia.

“Non ho nessuno su cui poter contare e non faccio mai durare una storia d’amore”.

Guardiamo altrove intenzionalmente perché non vogliamo che la ricerca cessi. A lui piaceva il processo della ricerca, non voleva smettere; più confusione c’era meglio era. Se non c’erano risposte, meglio.

“Jimi Hendrix, James Brown, Elvis nel pieno del loro momento d’oro sciamanico. Un uomo che è sprofondato nella musica da non esister più”. Totalitario, senza compromessi.

Le frasi sono nate dalla sua devozione per Nusrat Fateh Ali Khan: gli spiegò che i cantanti Sufi entrano in trance per raggiungere il volto di Dio e portarlo al pubblico, senza intermediari. E guardando le sue performance si poteva vedere la sua trasformazione.

Il rapporto con il padre è anche un confronto musicale.

Tutto il periodo di esordio di Jeff era un tributo alla musica del padre e molti la ritrovavano in lui. Lo ha incontrato solo due volte e sono sicura che se non fosse morto si sarebbero capiti molto bene.

Con Jeff si è realizzata la profezia di Neil Young, “è meglio bruciare in fretta che arrugginire”?

Jeff non si è bruciato, è stato un incidente. È entrato nell’acqua, voleva fare il bagno e andare al largo, metafora di come affrontava la vita; ma lui voleva diventare vecchio e crescere, e continuare a suonare finché non lo avessero portato via dal palco su una sedia a rotelle. Nell’autopsia non c’era traccia di droga o alcool. Un amico mi ha detto che cantava mentre faceva il bagno ed era in uno stato mentale positivo e produttivo. Nella sua mente era in uno stato di grazia.

Cavallerizza Reale all’asta. “Franceschini intervenga”

Negli ultimi decenni l’Occidente è stato regolato da una “‘costituzione’ non scritta, ma applicata con maggior rigore di molte Costituzioni formali, volta a cancellare le conquiste che la classe lavoratrice e le classi medie avevano ottenuto nei primi trenta o quarant’anni dopo la guerra”, scriveva Luciano Gallino in Il colpo di stato di banche e governi. L’attacco alla democrazia in Europa (Einaudi 2013). E continuava spiegando che il primo articolo di quella legge fondamentale – virtuale quanto ferrea – dice che “lo Stato provvede da sé a eliminare il proprio intervento o quantomeno a ridurlo al minimo, in ogni settore della società: finanza, economia, previdenza sociale, scuola, istruzione superiore, uso del territorio”. Lo Stato si è suicidato, e oggi a guidare la res publica italiana è un banchiere-privatizzatore. Pian piano, le conseguenze di quel suicidio vengono sotto gli occhi di tutti, sul territorio della Repubblica: abbiamo visto i casi di Cala di Forno e del Casino dell’Aurora a Roma, straordinari brani del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della nazione che in altri tempi lo Stato avrebbe assicurato alla proprietà, e al godimento, pubblici.

Oggi un terzo, eccezionale bene comune è alla ribalta, e proprio nella Torino di Luciano Gallino: la Cavallerizza Reale. Più volte, in questa rubrica, si è parlato di quel meraviglioso brano dei palazzi reali sabaudi, vittima di scelte politiche dissennate e insieme teatro di un impegno politico collettivo. Ora siamo al dunque: la Cavallerizza è stata venduta. Un pezzo di Torino, un pezzo di un bene definito dall’Unesco “patrimonio dell’umanità” ha avuto un prezzo: 11 milioni e 305 mila euro, offerti dalla Compagnia di San Paolo, in sinergia con l’università di Torino. Una fondazione bancaria (privata) e una università (pubblica): una coppia i cui rapporti di forza non sono un mistero per nessuno. E sono tali da far concludere che, sì, ancora una volta “lo Stato provvede da sé a eliminare il proprio intervento”.

C’è un’alternativa? È quel che credono gli illustri firmatari – Salvatore Settis, Alberto Barbera, Alessandro Barbero, Marco Brunazzi, Gastone Cottino, Giovanni Ferrero, Roberto Gnavi, Clara Palmas, Diana Toccafondi – di una lettera aperta promossa dalla Società della Cura che chiede al ministro Franceschini “di esercitare il diritto di prelazione in base agli art. 59-62 del Codice dei Beni Culturali per riportare il Compendio della Cavallerizza Reale fra i Beni Culturali indisponibili dello Stato”. Con molta grazia, la lettera ripercorre il rosario di mostruosità giuridico-politiche che hanno sbattuto all’asta questa pagina della nostra storia comune: la scelta del Comune di Torino di chiederne il passaggio dal demanio dello Stato a quello della città, per poi liquidarla; il fatto che questa assurda richiesta sia stata accolta, quando al contrario il Compendio della Cavallerizza Reale avrebbe dovuto essere “riconosciuto come monumento nazionale perché esprime inequivocabilmente ‘un collegamento identitario o civico di significato distintivo eccezionale’ (art. 10, comma 3, lettera del Codice dei Beni Culturali)”. E ancora: “per non tradire lo spirito iniziale della ricomposizione unitaria del bene Unesco, ribadito anche nella delibera del Comune di Torino del 2007 laddove si esplicita che ‘sfruttando la vocazione museale propria di detto complesso attraverso una completa riqualificazione patrimoniale ed urbanistica, l’Amministrazione comunale intende realizzare al suo interno un percorso culturale integrato’, sarebbe stato necessario che il piano urbanistico deliberato nel gennaio 2021 escludesse destinazioni d’uso non coerenti con tale finalità. Cosa che non è avvenuta, mettendo dunque a repentaglio la tutela e pubblica fruizione del Complesso che, senza un intervento del Ministero, vedrebbe una schiacciante prevalenza di funzioni che nulla avrebbero a che fare col suddetto percorso culturale integrato”.

Ora un singolo atto del ministro Franceschini potrebbe rimettere le cose a posto: “Lei può esercitare, come previsto dalla legge, il diritto di prelazione sull’acquisto del Compendio della Cavallerizza Reale riportandola, come sarebbe doveroso e necessario, in seno alla sua naturale collocazione accanto al Palazzo Reale (…). Gli edifici del Compendio della Cavallerizza Reale, compresa l’ex Zecca che ne è parte integrante, ponendosi in diretta continuità col Palazzo Reale – adibito a funzioni museali e all’Archivio di Stato – dovrebbero nella loro totalità costituire un necessario ampliamento e completamento di tali funzioni, diventando un polo di alta formazione, conservazione ed esposizione, di prestigio e livello europeo”.

Comprare la Cavallerizza costerebbe come un paio di grandi mostre, subito dimenticate: la Costituzione della Repubblica, quella vera, sarà capace di vincere su quella oscena costituzione mai scritta? Lo Stato batterà un colpo a Torino?