“Ho l’archivio degli orrori: nelle celle torture e stupri ”

Appena uscito dalla prigione di Saratov, in Russia, il cittadino bielorusso Sergey Savelyev, – detenuto usato come informatico per cinque anni dai secondini –, ha subito cercato di contattare il fondatore della più nota ong russa che si batte per la difesa dei prigionieri: Vladimir Osechkin ha avviato Gulagu.net, “No al gulag”, nel 2011. Costretto poco dopo ad abbandonare la Federazione, nel 2015 si è trasferito in Francia, dove lo ha raggiunto qualche settimana fa Sergey, fuggito da Mosca e ora in attesa di ottenere l’asilo politico dalle autorità di Parigi. Un piano rocambolesco dopo l’altro: l’informatico, sfruttato dalle guardie giorno e notte per digitalizzare un colossale archivio dei supplizi, torture e stupri, commessi contro i detenuti in galera, è riuscito a trafugare migliaia di video che testimoniano le violenze compiute su almeno duecento vittime nelle prigioni delle regioni di Saratov, Vladimir, Irkutsk, Belgorod, Kamchatka

Vladimir, migliaia di video sono stati registrati in colonie di detenzione in diverse regioni russe, anche molto distanti tra loro. Ne ha parlato perfino Dmitry Peskov, portavoce di Putin.

V. O.: Quella delle torture in Russia non è un’eccezione, ma una regola. E’ una rete dell’orrore, che è stata creata, pianificata e diffusa in ogni regione russa. E’ una macchina della tortura. Si tratta di un sistema che non si organizza facilmente e ad ogni struttura tocca pianificarlo. Ci vogliono tempo e soldi per organizzare questo costoso meccanismo: devi trovare i sadisti, “i sadici”, quelli che le torture le compiono, poi un prokuror, un procuratore che mantenga tutto silenziato, in segreto .

Perché nessuno prima d’ora ha parlato delle torture ad alta voce?

V. O.: In questi anni sono stato contattato da ogni lato della Federazione, ma a mancare erano sempre le prove. In Russia chi riceve notizia delle violazioni o le denunce è l’organo stesso che le compie, una situazione assurda. Non c’è un’istituzione esterna obbligata ad indagare, manca il cosiddetto “controllore”. Personalmente ho cercato di contattare tutti, dai generali al direttore generale del Fsin, Servizio penitenziario federale. Sono arrivato a scrivere perfino al presidente Putin. Mai nessuna risposta. Quando abbiamo cominciato a pubblicare i video, il nostro sito è stato colpito improvvisamente da un cyberattacco. Adesso però ci sono giga e giga di evidenze: sono stati compiuti dei crimini contro l’umanità, questo materiale è adesso al vaglio del Consiglio d’Europa e Interpol. Ci aspettiamo reazioni dal Parlamento europeo.

Lei è stato più volte minacciato da quando ha fondato “No al gulag” e costretto ad abbandonare la Russia.

La nostra missione è dire a tutti cosa accade li dentro. Se io o Serghey pagheremo con la vita, – perché non è difficile trovare un modo per liquidarci-, spero che attivisti, giornalisti o anche cittadini non indifferenti porteranno avanti questa battaglia. Insomma, che il nostro sacrificio non cada invano.

Serghey, lei è un programmatore. Quando le guardie l’hanno scoperto, hanno deciso di sfruttare le sue capacità per organizzare “l’archivio dell’orrore”.

S. S.: Non ero solo un prigioniero, ero anche uno schiavo. Lavoravo 16 ore al giorno: dalle sei del mattino alle dieci di sera. Non c’erano giorni “di festa”. Quando si verificavano eventi di forza maggiore, mi prelevavano anche di notte. Il mio computer era negli uffici dei secondini, al secondo piano. C’era la mia scrivania e lì, seduto, nelle stanze delle forze di sicurezza, ho trascorso i cinque anni della mia prigionia.

In alcuni di quei video gli uomini vengono bendati e poi violentati. A volte con degli oggetti, altre da più persone. Perché le torture vengono meticolosamente filmate?

S. S.: I secondini sono i padroni unici delle vite di chi è lì dentro e decidono tutto. Sei completamente nelle loro mani, non hai un’alternativa. Le torture continuano da anni, se non da decenni. Nelle colonie penali, tutti si trovano sotto minaccia degli operativi, che ripetono che se i prigionieri non eseguiranno esattamente quello che dicono, faranno di loro quel che vogliono. Li trasferiscono nei reparti ospedalieri per curare la tubercolosi, molti dei quali sono ormai solo delle stanze per le torture. Lì vengono violentati. Gli stupri sono uno dei metodi utilizzati per ottenere confessioni false. I filmati vengono poi spediti ai piani alti per dimostrare che “il lavoro è stato fatto”. Inoltre servono a creare il “kompromat”, il cosiddetto materiale compromettente contro il detenuto, che sa che le divise hanno immagini degradanti, umilianti su di lui. Sono un altro modo per piegare la volontà di chi è in cella anche quando esce. Sono il potere che si può esercitare su un prigioniero, che rimarrà tale anche quando esce dal carcere.

Serghey, ora la chiamano “lo Snowden bielorusso”, come l’informatico americano a cui è stato garantito asilo politico proprio in Russia. Quando ha deciso che avrebbe denunciato tutto?

S.S.: Non ci ho messo un attimo. Per anni ho visto le vittime che soffrivano pene non possibili da immaginare. Quando sono riuscito a trafugare l’archivio e me lo sono ritrovato tra le mani, ho deciso definitivamente di non poter rimanere in silenzio. Non potevo essere io l’unico a saperlo. Per le autorità russe sono io il colpevole: sono stato accusano di aver trafugato segreti di Stato. Per fortuna il procuratore ha chiuso il caso e fatto cadere le accuse contro di me. Anton Yefarkin, a capo del servizio penitenziario di Saratov, ha detto che 18 ufficiali del carcere sono stati licenziati, ad altri 11 sono state imposte misure disciplinari rigide. Sono cinque i casi criminali invece avviati in relazione ai video, che sono ormai di pubblico dominio. È stato comunque fatto di tutto per screditare me e Vladimir, la sua integrità e l’attività che porta avanti.

Per cinque anni, tutti i giorni, lei ha visto filmati come questi. Come è riuscito a far uscire dalla sua testa quell’inimmaginabile quantità di violenza?

S.S.: Non è possibile, non si può. E non si deve.

La crisi galoppa, anche i funerali sono troppi costosi

Nella ex Svizzera del Medio Oriente anche la morte può trasformarsi in una tragedia economica. Perché la dipartita di un parente è diventata un pesante fardello finanziario per i cittadini in Libano, dove secondo le stime dell’Onu oltre il 55% della popolazione vive ora al di sotto della soglia di povertà. Il costo dei servizi funebri in Libano varia a seconda della comunità religiosa, sono più bassi per i musulmani rispetto a cristiani e drusi, che devono acquistare una bara, corone funebri e vestiti per il defunto, mentre gli islamici vengono sepolti avvolti in sudari. La lira libanese ha perso più del 90% del suo valore e il potere d’acquisto è crollato: lo stipendio minimo di 675 mila lire libanesi nel 2019 valeva 450 dollari, oggi ne vale meno 30. Il funerale e la sepoltura più economici costano almeno 600 dollari, e i prezzi sono in rapida crescita. La maggior parte delle materie prime utilizzate nella fabbricazione delle bare sono vendute in dollari. La bara di legno più economica costa 65 dollari ma può crescere a seconda della qualità del legno e del paese da cui viene importato. Il prezzo medio non è comunque mai inferiore a 2,5 milioni di lire libanesi (circa 150 dollari) e può raggiungere i 12 milioni lire libanesi (780 dollari). C’è da considerare anche il prezzo carburante – così costoso e così difficile da ottenere – per il trasporto della salma. Nessuno stampa più nemmeno i manifesti funerari per annunciare la dipartita di un parente, adesso passa tutto tramite WhatsApp o Facebook. Non è più considerato vergognoso non tenere un funerale formale e non servire cibo dopo la sepoltura a causa della grave crisi finanziaria e delle restrizioni per il Covid: molte famiglie sia musulmane che cristiane possono permettersi solo di offrire caffè e acqua. Alcune agenzie di pompe funebri hanno iniziato ad accettare pagamenti a rate.

A tutto ciò bisogna aggiungere il costo della tomba. La più economica è quella “temporanea”, cioè dopo cinque anni, le ossa del defunto vengono gettate in un ossario per permettere a un’altra persona di essere seppellita al suo posto, che costa 200 dollari.

 

“Frankenpipe” il gasdotto che terrorizza la Pennsylvania

Due palizzate metalliche alte sei metri tagliano a metà la piccola città di Uwchlan, a una cinquantina di chilometri da Philadelphia, in Pennsylvania, attraversando graziosi giardini, sfiorando le case, impedendo di vedere il paesaggio dalle verande. Nello spazio tra i due muri, degli uomini sono al lavoro: stanno scavando lunghi e stretti tunnel destinati a contenere due nuovi gasdotti, il Mariner East2 e il 2X, costruiti da Sunoco, filiale del colosso delle condutture per gas e petrolio, Energy Transfer. “I muri avrebbero dovuto proteggerci dal rumore. In realtà, non bloccano né i rumori martellanti, né le continue vibrazioni né il fumo”, osserva Paula Brandl, abitante del quartiere, stanca dopo mesi di lavori. E non è la sola ad esserlo nelle contee di Chester e del Delaware, vicine a Philadelphia, densamente popolate. “Altre aziende sono molto meno irresponsabili e rispettano di più le regole – osserva Alex Bomstein, avvocato che lavora con l’ONG Clean Air Council –. Non è così per Sunoco, che sta commettendo molti errori”.

Iniziato nel 2017, il cantiere colossale dei due gasdotti, lunghi 494 chilometri, si sta impantanando malgrado le rassicurazioni dell’azienda. Le due condutture serviranno a collegare i pozzi di gas da argille (detto anche gas di scisto) dall’ovest della Pennsylvania – dalla cui estrazione fuoriesce metano, un gas serra – al porto industriale di Marcus Hook, nei pressi di Philadelphia, per trasportare propano, butano ed etano. L’obiettivo è di esportare parte di questi gas via mare in Europa o in Cina, dove vengono utilizzati come materia prima per la fabbricazione di plastica e altri prodotti. La richiesta europea, in particolare da parte di Ineos, colosso petrolchimico britannico, ha contribuito, sin dal 2011, a dare il via libera alla costruzione dei due condotti. Il loro percorso è parallelo a quello del Mariner East1, un oleodotto costruito nel 1931 per trasportare il petrolio destinato al mercato locale – carburante e riscaldamento – dalla costa orientale verso l’interno della Pennsylvania. Dal 2014, l’uso dell’oleodotto è stato modificato per veicolare del gas etano verso il porto di Marcus Hook. Ma il primo Mariner East permette di trasportare solo 70.000 barili di gas naturale liquido al giorno. Sempre nel 2014, Sunoco ha quindi annunciato l’intenzione di quadruplicare il volume di gas trasportato (etano, propano, butano) grazie alla realizzazione di due nuovi gasdotti, costruiti lungo il percorso del primo. Sette anni dopo, i lavori sono fermi nella regione naturale del Marsh Creek Lake: migliaia di litri di liquido utilizzati per la perforazione hanno inquinato le acque del lago. Malgrado lo stop temporaneo dei lavori, delle sezioni del secondo Mariner East sono state raccordate a un altro gasdotto iche era inutilizzato, per trasportare grandi volumi di etano, propano e butano. Gli abitanti del posto gli hanno dato un soprannome suggestivo: il “Frankenpipe”. Sulla Shoen Road, a tre chilometri da Uwchlan, Ginny Kerslake ricorda il suo primo incontro con i responsabili di Sunoco. “Dicevano che i lavori non sarebbero durati a lungo, che non avremmo sentito né visto nulla. All’epoca eravamo molto impegnati, i nostri figli erano adolescenti, e decidemmo di firmare”. Ginny e il marito concessero a Sunoco il diritto di passaggio sulla loro proprietà in cambio di un risarcimento finanziario. “Nel 2017, hanno cominciato a tagliare gli alberi”, racconta. I lavori durarono 250 giorni, su quattro anni. “Se non avessimo firmato, ci avrebbero portato in tribunale”. Sunoco è molto potente in Pennsylvania. Secondo le autorità locali, l’azienda fornisce “servizi di pubblica utilità”.

La conseguenza è che, se i proprietari rifiutano il compenso offerto per passare sulla loro proprietà, il terreno può essere espropriato su richiesta di Sunoco, con decisione di un giudice locale. Il potere dell’azienda deriva in parte dal certificato che gli è stato rilasciato nel 1931 per il Mariner East1. Il petrolio che l’oleodotto trasportava garantiva in effetti ampi vantaggi agli abitanti dello Stato. “Ma il nuovo Mariner East è un progetto esclusivamente per l’esportazione. Nessun vantaggio a livello locale”, sottolinea George Alexander, autore del blog Dragonpipe. Da parte sua, l’azienda ribadisce che i tre gasdotti Mariner East contribuiranno ad aumentare le forniture locali di propano agli abitanti della Pennsylvania, essenziale per il loro riscaldamento. Dei tribunali dello Stato della Pennsylvania e la Public Utility Commission (PUC) hanno confermato che il Mariner East2 sarà di “pubblica utilità”. Tuttavia Sunoco non ha precisato quanti barili saranno destinati al consumo locale. L’azienda gode inoltre del sostegno del governatore dello Stato, il democratico Tom Wolf. Dal 2019, la sua amministrazione è al centro di un’indagine dell’FBI sulle condizioni per la concessione dei permessi ambientali a Sunoco. I vicini di Ginny Kerslake sono stati meno fortunati di lei. Nel giugno 2017, Sunoco ha iniziato a perforare sul sito di Shoen Road per installare le condutture. Nel giro di poco tempo, quattordici proprietari della zona hanno avuto problemi con i loro pozzi d’acqua: la pressione o la quantità d’acqua diminuiva e l’acqua diventava torbida e cambiava colore. “Sunoco ha impattato una falda acquifera”, ricorda Ginny Kerslake. Il Dipartimento per la protezione dell’ambiente (DEP) dello Stato della Pennsylvania aveva concluso che “le attività di Sunoco nell’area di perforazione di Shoen Road hanno causato un inquinamento alle acque del Commonwealth”. Alla fine, l’azienda è stata costretta ad allacciare trentatré abitazioni alla rete idrica pubblica. L’elenco dei problemi ambientali creati dal Mariner East2 è lungo: dall’inizio dei lavori, il DEP ha emesso 125 notifiche per violazione delle norme ambientali contro Sunoco, per 16,5 milioni di dollari di sanzioni. “Delle briciole per un operatore come Sunoco”, ha commentato Danielle Friel Otten, eletta per il partito democratico alla Camera dei rappresentanti della Pennsylvania. Danielle Friel Otten ci ha dato appuntamento in Lisa Drive, una stradina del bel quartiere di West Whiteland, nella contea di Chester, a un’ora di auto da Philadelphia. All’inizio del 2018, delle voragini – le doline – si sono aperte nei cortili di alcune case.

Il suolo nella contea di Chester, composto principalmente da carso, può essere instabile. Il DEP ha registrato almeno dodici casi di “cedimenti” di terreno su un segmento vicino alla biblioteca di Exton, a 2,5 chilometri da Lisa Drive, dopo l’installazione del gasdotto. Il DEP si preoccupa anche per il suo “potenziale impatto sul ruscello Valley Creek e sulle zone umide circostanti”. Le doline sono una delle maggiori preoccupazioni per gli oppositori del progetto, che temono che questi cedimenti di terreno danneggino il Mariner East1, già in funzione. Anche una piccola fuga di gas potrebbe potenzialmente provocare un’esplosione. Le preoccupazioni non si limitano al Mariner East1 né a West Whiteland. Un po’ ovunque nelle contee di Chester e del Delaware, gli abitanti temono che il Mariner East2 e il 2X esplodano una volta messi in funzione. Nel tentativo di conoscere meglio i rischi, diverse associazioni opposte al progetto hanno chiesto di farsi comunicare il “blast radius”, ovvero l’area attorno alle condutture che sarebbe colpita in caso di esplosione. Finora senza successo. “Non ci sono abbastanza vigili del fuoco e poliziotti in zona. Al minimo problema, dovremo cavarcela da soli”, commenta Rebecca Britton, vicepresidente del distretto scolastico di Downingtown. Da parta sua, la casa madre Energy Transfer si dice determinata “a portare a termine la costruzione del sistema di gasdotti Mariner East in tutta sicurezza e nel rispetto dei permessi che sono stati rilasciati, con particolare riguardo alla protezione dell’ambiente, dei dipendenti e della popolazione”. Mentre il progetto sta ormai per essere completato, e malgrado le vittorie dei suoi oppositori, benché rare, Danielle Friel Otten non si fa illusioni: “Finché ci sarà domanda di gas dall’estero, non c’è da aspettarsi alcun cambiamento”.

(Traduzione di Luana De Micco)

Istituto per sordi. Fondi finiti: lavoratori senza stipendio da 6 mesi e utenti senza riscaldamento

All’Istituto statale sordi (Issr) i lavoratori sono senza stipendio da sei mesi e questo inverno non saranno in grado nemmeno di accendere i riscaldamenti. Succede in un ente pubblico, che vanta oltre duecento anni di storia al servizio delle persone non udenti, ma che negli ultimi venti è stato dimenticato da tutti i governi susseguiti, i quali non hanno mai approvato il regolamento per farlo funzionare, pure previsto da una legge del 1997, e soprattutto non hanno mai stabilito un finanziamento strutturale. Si sono limitati a sporadiche (e insufficienti) iniezioni di risorse, quasi sempre di tipo emergenziale – come quella arrivata nel 2017 – concentrate nei momenti in cui la struttura era sull’orlo del precipizio.

Più o meno la situazione che si sta vivendo in questi giorni, con l’istituto incapace di pagare i fornitori e di ristrutturare il suo enorme palazzo in via Nomentana a Roma. Ma, soprattutto, non in grado di onorare le retribuzioni dei suoi venti collaboratori – otto di loro sono sordi – che stanno continuando a operare pur di non far crollare tutto.

Si tratta di professionisti assunti come co.co.co. a tempo indeterminato, non come dipendenti proprio perché in questo “vuoto” regolamentare non esiste nemmeno una pianta organica. Non c’è una struttura di vertice, solo un commissario nominato quattordici anni fa dal governo. Come detto, nel 1997 la riforma Bassanini ha disposto la separazione tra la parte scolastica in senso stretto e l’istituto: quest’ultimo doveva diventare un ente “finalizzato al supporto dell’autonomia delle istituzioni scolastiche”. Nella pratica questo è avvenuto nel 2000 con un decreto del Provveditorato, ma da allora il ministero dell’Istruzione non ha redatto il regolamento né inviato soldi. Da allora a tenere in vita l’Issr sono i proventi degli affitti dei locali della sede, che oggi ospita scuole, un dipartimento del Cnr e associazioni legati alla sordità. Il guaio, però, è che da tre anni non ci sono più gli uffici della Provincia di Roma, che garantivano una fetta importante degli introiti. Ecco perché ora siamo arrivati probabilmente alla crisi più complicata di questi vent’anni.

Le attività svolte dall’Istituto vanno dallo sportello di consulenza gratuito rivolto agli stessi utenti sordi o agli operatori, alle pubblicazioni, ai corsi di lingua dei segni, all’organizzazione di eventi sulla sordità o alla collaborazione per rendere accessibili ai non udenti le manifestazioni organizzate da altre associazioni.

Poi c’è la cura di una mediateca che contiene un patrimonio librario e audiovisivo accessibile, e il festival del cinema sordo Cinedeaf, che negli ultimi anni non si è riuscito a realizzare. Un patrimonio che si rischia di disperdere perché tutti i governi e i parlamenti degli ultimi vent’anni, negli anfratti delle peggiori “marchette” spuntate nelle varie manovre finanziarie, non hanno trovato tre milioni di euro per tenere in piedi l’unico ente pubblico che si occupa di sordità.

 

Tasse ambientali: l’anomalia italiana dei trasporti stradali

È stato pubblicato recentemente l’ultimo aggiornamento di “Getting the prices right”, il documento del Fondo Monetario Internazionale che è diventato un riferimento per le politiche ambientali, e indirettamente per quello dei trasporti. È una “meta-ricerca”, cioè analizza un grandissimo numero di ricerche in giro per il mondo, e quindi è intrinsecamente una fonte più solida. Questa edizione si concentra sui sussidi alle fonti energetiche inquinanti e stima valgano 5,9 migliaia di miliardi di dollari, il 6,8% del Pil mondiale. E valuta anche, attraverso parametri standard di elasticità (cioè a quanto i consumi rispondono alle variazioni di prezzo), che eliminando tali sussidi le emissioni inquinanti diminuirebbero del 36%, un bel risultato.

I sussidi considerati sono, correttamente, di due tipi e quelli diretti, che riducono i prezzi per i consumatori, sono i meno importanti. Il tipo di sussidio dominante, raramente considerato in Italia, scaturisce dalla differenza tra i costi ambientali e la tassazione applicata alle fonti inquinanti. Infatti il benessere collettivo è massimizzato quando le esternalità vengono eliminate “internalizzandole”, cioè quando i consumatori pagano tutti (e soli) i costi che generano alla collettività. Questo avviene quando la tassazione delle fonti inquinanti è abbastanza elevata da corrispondere esattamente a quei costi “esterni”. Una tassazione troppo bassa danneggia la collettività, ma la danneggia anche una troppo alta. In generale siamo in una situazione di drammatica insufficienza delle tasse ambientali, soprattutto per la fonte energetica di gran lunga più inquinante, che è il carbone, dominante sia in Russia che in Cina (ma ancora rilevantissimo negli Stati Uniti ed in alcuni stati europei). Per il gas la situazione è meno drammatica: questa fonte energetica emette meno CO2 del carbone a parità di energia prodotta, e molto meno inquinanti locali, cioè quelli che danneggiano direttamente la salute umana (soprattutto particolati e ossidi di zolfo e azoto). Quindi per il gas il livello di tassazione che “internalizzerebbe i costi esterni” sarebbe più basso.

La “meta-ricerca” del Fmi poi si concentra sui carburanti, tema centrale per i trasporti, e trova che i casi di sussidio diretto (cioè di prezzi per gli utenti inferiori ai costi di produzione) sono abbastanza rari, e si ritrovano quasi solo nei Paesi produttori di petrolio. In generale, la tassazione è elevata, spesso tale da superare i costi ambientali generati, specie in Europa, e anche considerando il gasolio. Va detto però che, considerando i costi sociali (incidenti, la congestione del traffico, e l’usura delle infrastrutture) il quadro si inverte: la tassazione risulta insufficiente.

I Paesi che fanno eccezione sono pochi, ma uno di questi è l’Italia, a causa del combinarsi di un livello molto elevato di prelievo fiscale con un parco veicolare caratterizzato da cilindrate e potenze modeste. Sommando tutti i costi esterni, gli utenti italiani li “pagano” tutti, al contrario della assoluta maggioranza degli altri paesi. Qui emerge tuttavia un altro problema: mentre la tassazione sul carburante è strumento efficiente ed equo per le emissioni (“chi inquina paga”), non lo è per congestione, incidenti, ed usura delle strade, che richiedono strumenti diversi.

La congestione è fenomeno localizzato all’interno e all’intorno dei grandi conglomerati urbani, e va regolata con appositi “pedaggi di congestione”. Per gli incidenti, è fondamentale il rigoroso rispetto dei limiti di velocità. L’usura delle infrastrutture stradali è un caso molto diverso, di fatto all’opposto, dei due precedenti: per le autostrade a pedaggio, le tariffe non coprono solo questi costi, ma gran parte dei costi di investimento dell’infrastruttura, al contrario, per esempio, delle infrastrutture ferroviarie, dove gli utenti coprono tutti e soli i costi che generano viaggiando.

Per il caso italiano, in particolare sulle lunghe distanze, siamo in presenza di una “sovra-internalizzazione”. Ciò comporta che la quantità ottima di traffico dovrebbe essere superiore a quella attuale. Questa inefficienza implica anche che politiche che sottraggano ulteriormente traffico autostradale peggiorino, non migliorino, il benessere collettivo. Da qui il paradosso che la diversione del traffico originata da linee ferroviarie nuove parallele a tratte autostradali (come il terzo valico tra Milano e Genova, o il Tav Torino-Lione), generi benefici negativi alla collettività.

Lo studio dell’Fmi si limita ovviamente a considerare “non sussidiata” la situazione italiana per i carburanti, non potendo entrare nell’ulteriore dettaglio che tariffe e accise più elevate di quelle ottime generino una perdita di benessere sociale esattamente simmetrica a quelle di tariffe e accise insufficienti. Ma a livello delle politiche italiane dei trasporti di questi risultati occorre tener conto.

Il turismo riparte, ma si dimentica (ancora) delle guide

Alice ha trent’anni, accompagna turisti per le calli di Venezia, ha una laurea in storia dell’arte ma si occupa di food-tour: “Non avendo l’abilitazione da guida turistica, l’unico modo per lavorare nel settore è occuparmi di aspetti non strettamente culturali”. Marina, sua coetanea, ha invece il patentino da guida ma nonostante sia nata, viva e lavori a Pompei, l’ha preso in Sardegna, nel 2014: “Era rimasta una delle poche regioni a rilasciare abilitazioni”. La loro storia, con quella di tanti altri, inizia nel 2013, quando salta il sistema che norma in Italia le abilitazioni delle guide e delle altre professioni turistiche, con l’entrata in vigore della legge europea 97/2013. Le norme Ue erano incompatibili con abilitazioni valide sul territorio di una sola regione italiana o addirittura di una sola provincia, che avevano caratterizzatola nostra organizzazione fino a quel punto: ogni Regione abilitava guide turistiche quanto, quando e come voleva.

Le leggi europee si portano però dietro quello che viene considerato un vulnus per l’Italia: chi possiede una qualsiasi abilitazione a guida turistica, presa a Viterbo o in Lituania, può esercitare la professione in tutta l’Ue. Ci si sarebbe attesi che il Governo in carica, preso atto dell’impossibilità di proseguire con il sistema precedente, approvasse in fretta e furia nuove regole per le professioni turistiche. Non è andata così. Dal 2013 a oggi, il Ministero del Turismo (Mibact fino al 2021) ha fatto un solo tentativo di riforma a livello nazionale, nel 2016, che istituiva dei luoghi accessibili alle sole guide abilitate in Italia: proposta rapidamente bocciata dal Tar e poi dal Consiglio di Stato nel 2017 per incompatibilità con le normative europee.

In questo lasso di tempo, dal 2013 a oggi, se alcune Regioni – la maggior parte – hanno optato per la sospensione a tempo indeterminato delle abilitazioni (in alcuni casi le ultime risalgono al 2009), altre sono andate avanti come se nulla fosse accaduto, rilasciando patentini validi in tutta Italia e Europa. Ultime in ordine di tempo, la Calabria e la Sicilia, che nel 2018 hanno bandito nuovi concorsi abilitanti: ma sul bando calabrese è arrivata la sentenza del Consiglio di Stato che il 26 agosto 2020 ha sancito il divieto ad abilitare nuove guide turistiche a livello regionale in assenza di una normativa nazionale aggiornata.

Neppure questo è bastato a smuovere le istituzioni, irrigidite da una poca conoscenza del tema e dalle pressioni di parte delle guide turistiche abilitate che chiedono un (irreale) ritorno all’abilitazione territoriale: in più di 15 mesi, nessuna proposta è arrivata dai Ministeri competenti. Una situazione che anche le commissioni europee hanno chiesto di risolvere, tanto che nel Piano nazionale di ripresa e resilienza italiano, precondizione per ricevere i fondi del Recovery fund, il governo si impegnava a produrre un nuovo ordinamento delle professioni turistiche, “con l’obiettivo di dare, nel rispetto delle competenze regionali, una maggiore uniformità e qualificazione professionale alla categoria”. Due disegni di legge sono in discussione nella decima commissione del Senato dalla primavera: entrambi prevedono esame abilitante, corsi e laurea triennale come requisito, ma una delle due propone di reintrodurre la già bocciata abilitazione territoriale. Dal ministero del Turismo fanno sapere di condividere “gli obiettivi di entrambi gli atti” nonostante le differenze esistenti. Nel frattempo, da agosto, il turismo è ripartito con slancio in tutta la Penisola: tra pensionamenti, cambi di professione e mancate abilitazioni, le guide turistiche sono sempre meno. Ed ecco la strada spianata ad abusi. Proliferano non solo tour organizzati da appassionati non abilitati “in cambio di un’offerta”, ma anche corsi per abilitarsi come guida ambientale e escursionistica e come accompagnatore turistico, figure meno normate a livello europeo, che possono facilmente “mascherare” la professione di guida turistica (gli accompagnatori non possono spiegare i luoghi; le guide ambientali non possono occuparsi di musei, siti archeologici e centri storici).

Non solo: all’estero aumentano i corsi abilitanti pensati proprio per gli italiani, a prezzi italiani. A volte i portali che li promuovono lo dichiarano esplicitamente: “Abilitazione valida anche in Italia”, “become a tourist guide in Italy”. Nel post-Covid alcuni corsi, per cifre che si aggirano intorno o oltre il migliaio di euro, si tengono completamente online, e aperti a chiunque paghi: ben lontano da una figura qualificata come quella che tanti aspiranti, spesso laureati in discipline attinenti il settore, chiedono. Il tutto legale, in assenza di una normativa italiana che intervenga.

Nell’anno in cui il turismo sta ripartendo dopo 16 mesi di stop, il Paese è in una empasse ormai decennale, favorevole solo a pochi gruppi di interesse. Di nuovi percorsi formativi e di abilitazione, organici e adeguati alla nuova dimensione europea, nemmeno l’ombra. “L’applicazione della riforma” che aggiornerebbe le norme “permetterebbe di regolamentare i principi fondamentali della professione di standardizzare i livelli di prestazione del servizio su tutto il territorio nazionale, producendo un effetto positivo sul mercato” dice il testo del Pnrr. E dal rinato ministero del Turismo fanno sapere che la linea “è quella di tentare di conseguire tempestivamente l’obiettivo […], collaborando attivamente – come stiamo facendo – con la Commissione del Senato per realizzare il più celermente possibile la riforma in questione”. Ma quale riforma, ancora non è chiaro: e senza un cambio di passo, le conseguenze potranno solo essere un aumento del caos e dello sfruttamento.

I molti (e mai chiariti) interessi finanziari di un uomo politico

L’ex premier Paolo Gentiloni, da commissario Ue per gli Affari economici – e ancor più se volesse correre per il Quirinale – dovrebbe garantire la massima trasparenza sui suoi interessi finanziari: a partire dalla girandola di compravendite azionarie attuate quando ricopriva ruoli politici in Italia e poteva avere accesso, direttamente o indirettamente, a informazioni riservate. Il Fatto gli ha dato l’opportunità di fare luce sul suo “dossier titoli”, partendo da quando era ministro degli Esteri, e di chiarire se è iscritto al fondo previdenziale privatizzato e privilegiato Inpgi 1, quello dei giornalisti, che il governo Draghi intende salvare accollandolo alla collettività. Ha preso tempo, in linea con il suo soprannome “er moviola”, e poi ha detto “no”.

Già da candidato a commissario Ue aveva rischiato di saltare per il “vizietto” del politico che investe in Borsa. Prima dell’audizione di verifica all’Europarlamento, dovette promettere di vendere tutti i titoli e le quote di fondi d’investimento per evitare conflitti d’interessi. Agli eurodeputati – per bocciarlo – sarebbero potuti bastare i suoi 111 mila euro in azioni Amazon, la multinazionale Usa che da commissario Ue avrebbe dovuto mettere nel mirino per le note questioni fiscali.

Possedeva pure altri titoli quotati nelle Borse in Italia e all’estero – alcuni forse imbarazzanti per un politico eurosocialista – come Eni, Enel, Expedia, Essilor Luxottica, LVMH, Diasorin, Experian, Campari, e fondi di investimento attivi sui mercati europei, americani, perfino nei “Paesi emergenti”. Si seppe che aveva comprato e venduto azioni Microsoft, Nestlè, Unicredit, Total, Saint Gobain, Ferragamo, Ferrari, Basf, Bio on, Amplifon, Cucinelli, Technogym, Nexi, ecc.. Le permissive norme italiane lo consentivano. Ma, visto che a Bruxelles ha dovuto vendere tutti i titoli, la legislazione nazionale non andrebbe adeguata?

Gentiloni non ha voluto far sapere dove ha collocato l’ingente liquidità ricavata dalle recenti vendite azionarie, chi la gestisce e quanto ha guadagnato o perso sui singoli titoli. Sarebbero informazioni importanti per rassicurare i cittadini sull’assenza di conflitti d’interessi e di altri comportamenti almeno inopportuni per un membro della Commissione europea (come per ogni politico). Tanto per fare un esempio, non ha voluto chiarire nemmeno se ha fatto attenzione a non essere usato inconsapevolmente come “pesce pilota”. Questo termine, nel gergo della Borsa, indica i politici o altri potenti con accesso a informazioni riservate, quando guadagnano spesso nelle operazioni azionarie. I loro acquisti e vendite possono essere utilizzati da “squali” della finanza, pronti a seguirli investendo capitali ben più ingenti. Gentiloni si era cautelato per non essere monitorato? Perché almeno non rende noto che i suoi acquisti in Borsa gli hanno procurato anche perdite, come in genere accade ai comuni investitori? Nessuno “squalo” della finanza lo avrebbe usato come “pesce pilota”, se non avesse guadagnato con continuità. Molte perdite escluderebbero anche tante altre anomalie.

Il commissario Ue non ha poi voluto confermare o smentire se tra i suoi interessi finanziari ci sia la partecipazione al fondo privatizzato Inpgi 1, al collasso per avere elargito per decenni “pensioni d’oro” e altri privilegi troppo costosi alla minoranza meglio pagata dei giornalisti dipendenti (la massa dei precari è stata ghettizzata nel penalizzante Inpgi 2)

Ne hanno beneficiato anche tanti politici di mestiere, maturando una ricca rendita con pochi anni in un giornale di partito e molti contributi figurativi da parlamentare (gratuiti). “Er moviola” ha diretto per un po’ una testata di ambientalisti. L’attivismo per il salvataggio del fondo – a spese dello Stato – del suo sodale della cordatina dei “Rutelli boys” ed ex renziano, Filippo Sensi del Pd, ha fatto ipotizzare un interesse del commissario Ue. Cosa ci vuole a dire, non c’entro nulla? O forse Gentiloni non intende dissociarsi dal silenzio che, da tanti anni, i politici mantengono per tutelare i colleghi con “pensioni d’oro” Inpgi 1?

La poltrona non è il potere: l’Ue amara di Paolo “er moviola”

Il commissario Ue per gli Affari economici Paolo Gentiloni del Pd, che in Europa fa parte degli eurosocialisti, appare marginalizzato sulla sua europoltrona. Si sta dimostrando poco influente perfino nelle discussioni per la riforma del controllo dei bilanci nazionali e negli aspetti politici delle verifiche per i fondi del Next Generation Eu all’Italia, che sarebbero il suo “core business”. In pratica si trova schiacciato: a Bruxelles dal suo superiore ben più esperto e determinato, il vicepresidente lettone della Commissione Valdis Dombrovskis, capofila della linea maggioritaria dettata dalla Germania e dai suoi alleati del Nord; nel rapporto con Roma dal premier ed ex presidente della Bce Mario Draghi, accreditato di ben altra competenza e autorevolezza in Europa, che non ha bisogno di Gentiloni per i dossier economici di peso per l’Italia. Draghi delega il delegabile al fidato ministro dell’Economia, Daniele Franco, ex dg di Bankitalia, in passato per tre anni distaccato proprio alla direzione Affari economici della Commissione.

Insomma, potrebbero essere realistiche le indiscrezioni su un Gentiloni ansioso di correre per la successione a Sergio Mattarella, per la Nato o per qualche altro incarico. Soprannominato “er moviola” per la flemma e l’eloquio a volte soporifero, si è spesso dimostrato rapidissimo quando c’era da occupare una poltrona. Lo dimostrò spuntando “a sorpresa” come ministro degli Esteri del Pd, gradito al presidente Giorgio Napolitano: il premier era Matteo Renzi (allora del Pd), che – dopo la disfatta referendaria – lasciò; Gentiloni gli subentrò di corsa a Palazzo Chigi per terminare la legislatura.

“Er moviola” è stato anche pronto a cambiare bandiera: dalla sinistra extraparlamentare al PsUp, dagli ambientalisti alla cordatina dei “Rutelli boys”, dai centristi della Margherita al Pd area Napolitano. Da ministro degli Esteri capì che in Europa il potere vero ce l’ha la Germania: da sola, con gli alleati nordici e in asse con Parigi. Si è regolato di conseguenza, diventando ben visto a Berlino e poi commissario per l’economia pur avendo poca competenza. “Per due ore Gentiloni non ha risposto a nessuna domanda”, commentò l’eurodeputato tedesco Markus Ferber, coordinatore degli europopolari nell’audizione di verifica della sua candidatura al Parlamento Ue: “È un vero politico, ma questo non è abbastanza per diventare commissario”. Passò nell’ambito della lottizzazione delle nomine – tra socialisti, popolari e liberali – pilotata da Germania e Francia.

Gentiloni si sarà trovato in imbarazzo, al termine dell’ultimo Consiglio dei 27 capi di Stato e di governo, quando il premier Draghi ha reso noto di puntare al riequilibrio tra il tanto elargito dall’Ue per il Mediterraneo orientale (per bloccare in Turchia i profughi diretti principalmente in Germania) e il poco o nulla per quello centrale (attraversato dai migranti verso l’Italia). Da premier, “er moviola”, non ne voleva sentir parlare. Condivideva il diktat della cancelliera Angela Merkel: 6 miliardi Ue al dittatore turco Erdogan e nemmeno uno all’Italia, lasciata sola davanti ai flussi dall’Africa. Anche la Francia approvava i fondi per Ankara per via del solito do ut des riservato con Berlino. Uno di questi, secondo i rumors dell’epoca a Bruxelles, prevedeva di dare la sede dell’Agenzia europea delle medicine (Ema) all’Olanda, fedele alleata della Germania, e l’Autorità bancaria Ue a Parigi. L’asse franco-tedesco così apprezzò molto la condiscendenza del Gentiloni premier quando Milano, che aveva requisiti migliori, si vide “scippare” l’Ema da Amsterdam, priva perfino della sede (sarà costruita solo dopo l’assegnazione). L’Authority per le banche, ovviamente, andò alla Francia.

“Er moviola” si giustificò parlando di “sfortuna sfacciata” perché la città olandese avrebbe battuto Milano in un misterioso sorteggio durante una riunione segreta del Consiglio dei ministri Ue degli Affari generali il 20 novembre 2017: le schede di voto furono subito bruciate. Perfino alcuni presenti in quella sala riservata del Palazzo Justus Lipius non riuscirono a spiegare ai giornalisti come sarebbe avvenuta l’estrazione (e con quali garanzie di regolarità). Il ministro degli Esteri olandese era lì dentro a tutelare Amsterdam. Gentiloni inviò il sottosegretario Sandro Gozi, un renziano poi passato al servizio del governo francese (dove saltò presto per “consulenze” a paradisi fiscali). Non solo: il premier escluse dalla delegazione italiana il consulente della candidatura di Milano, Enzo Moavero, ex giudice Ue, ex alto euroburocrate ed ex ministro delle Politiche comunitarie, che da esperto avrebbe almeno fatto registrare una “riserva” sul presunto “sorteggio”. Gozi – d’accordo col premier – non lo fece. Il Corriere della Sera rivelò molte anomalie nella vittoria di Amsterdam, ma “Er moviola” fece solo avviare un lento ricorso alla Corte europea di giustizia. Il mese scorso l’Avvocato generale ha chiesto di respingerlo perché non di competenza del tribunale.

Gentiloni, da ministro degli Esteri, aveva fatto un altro regalo alla Germania, impegnatissima a imporre il tedesco nelle attività Ue, ben conscia dell’importanza della lingua per il peso politico di un “Sistema Paese”. Il “cavallo di Troia” era il Brevetto europeo: a Berlino volevano impostarlo sul trilinguismo (il tedesco in aggiunta alle due lingue di lavoro dell’Ue, francese e inglese); l’Italia, uno dei grandi Paesi membri e contributore netto al bilancio comunitario, pretendeva con la Spagna anche italiano e spagnolo. Il dossier restò bloccato per decenni. Finché la Germania convinse la Francia e gli altri partner alla linea dura: avanti sul Brevetto Ue in tre lingue senza Roma e Madrid, per isolarle. Si rivelò un autogol. Gli italiani potevano registrare un Brevetto europeo per gli altri Paesi Ue in inglese, francese e tedesco, mentre in Italia, un mercato da 60 milioni di abitanti, per tutti restava l’obbligo dell’italiano. A Berlino schiumarono rabbia quando si accorsero che avevano di fatto aiutato la lingua di Dante. Presero a premere sulla Farnesina. Inutilmente. Ci pensò Gentiloni, in sintonia col premier Renzi e il solito Gozi, ad “alzare bandiera bianca”.

Candidandosi a commissario Ue, “er moviola” ha però forse sottovalutato che a Bruxelles, per contare politicamente, non basta la poltrona: è dura trovare spazi quando sono in ballo enormi interessi economici, soprattutto per chi non è certo un Draghi. Il Fatto ha inviato a Gentiloni 10 domande per fargli chiarire cosa fa in concreto, le sue posizioni in Europa e alcune ombre. Ha opposto un abbastanza irrituale “no comment” su tutto.

Forse spera di riprendere spazio con il probabile successore di Merkel, Olaf Scholz, socialista anche lui, ma il tedesco stima il capofila nella Commissione del suo europartito, l’esperto vicepresidente olandese Frans Timmermans (da sempre filo-Berlino). E poi il probabile cancelliere, da ministro delle Finanze, ha dialogato per anni con Draghi, allora in Bce, nelle riunioni dell’Eurogruppo. Tratterà con “er moviola” la riforma del Patto di Stabilità?

Mail box

 

Calcio alle regole: Covid, allo stadio vige l’anarchia

Ormai ogni volta che c’è una manifestazione contro il “green pass” o il governo, si accusano i manifestanti di violare le regole sull’uso delle mascherine e sul distanziamento sociale. Invece prendiamo in considerazione una partita di calcio di Serie A: non valgono regole analoghe? Sono andato a vederne una allo stadio, il posto dove ci si sfoga e ci si dimentica di tutti i problemi. Anche della pandemia.

Aldo Arena

 

Venezia, la folla tra le vie aspettando la 4ª ondata

Premetto che sono vaccinata ,in attesa della terza dose e contraria ai No vax, ma mi domando: perché i loro cortei sono stigmatizzati e additati come responsabili dell’ aumento dei contagi, mentre la folla stipata nelle strette calli di Venezia non è vista come un problema sanitario? Forse perché qui ci sono di mezzo i soldi? Si continua a spolpare questa città fregandosene della vivibilità, dei suoi abitanti (sempre meno purtroppo). Prendere, prendere, in attesa della quarta ondata. Sempre più probabile.

Patrizia Gatto

 

Il Quirinale e l’appello ai partiti: troppi precari

Il Presidente Mattarella ha puntato l’indice contro la precarietà e frammentarietà dei contratti di lavoro. Troppi precari senza diritti. Speriamo che la politica raccolga l’appello del capo dello Stato. Le istituzioni dovrebbero combattere la marginalità dei lavoratori.

Gabriele Salini

 

Brunetta merita il Nobel Sì, ma dell’incompetenza

Francamente comincio a seccarmi delle uscite estemporanee del ministro Renato Brunetta, che qualche masochista continua a proporre alla guida della Pubblica amministrazione, anche se parla solo di fannulloni e controlli all’ingresso coi tornelli . Eppure ci sono decine di studi che, dai tempi del compianto ex ministro della funzione pubblica Massimo severo Giannini, indicano con chiarezza e competenza i principali elementi di riforma. Basterebbe seguirli, per portare la nostra pubblica amministrazione ad accompagnare (come avvenuto nel dopoguerra) l’Italia verso l’élite delle principali potenze economiche e politiche del mondo. Solo che ai politici l’amministrazione non serve per governare ma per sistemare i propri “clienti”. La pandemia infatti ha costretto la maggior parte dei pubblici dipendenti a lavorare a distanza tra iniziali sbandamenti (lavorare da casa con figli e parenti presenti), fino a giungere ad un’accettabile compromesso tra efficienza professionale e vita familiare. Ci sono studi che dimostrano la capacità degli impiegati di lavorare bene da remoto. E il nostro ministro Brunetta, anziché valorizzare la novità, l’ha liquidata con una motivazione a cui nessun esperto di cose amministrative avrebbe pensato. Ha dichiarato che i pubblici dipendenti sarebbero dovuti rientrare in ufficio perché lo reclamavano i ristoratori. Non vogliamo dare al ministro Brunetta il nobel cui ambisce?

Gian Carlo Lo Bianco

 

Reddito, è caccia ai furbi. E grandi frodi nell’oblio

Secondo una stima al ribasso da parte dell’Agenzia delle Entrate, pubblicata recentemente su Il Sole 24 Ore, ammonterebbero ad 800 milioni di euro le frodi sui crediti d’imposta e sugli sconti fiscali relativi al superbonus edilizio. Si tratta di importi per opere mai realizzate, intestate anche ad ignari prestanome per spese gonfiate in fattura. Sul totale dei 19 miliardi di Euro erogati dallo Stato per tale agevolazione fa circa il 4 per cento, quasi un punto superiore ai 48 milioni di reddito di cittadinanza indebitamente percepiti sullo stanziamento complessivo del miliardo e mezzo per l’anno in corso. D’altronde la stessa quota percentuale, tra il 3 e il 5, si ritrova applicata in altri torbidi affari del nostro paese: il pizzo che la mafia richiedeva al tavolino per la spartizione degli appalti pubblici; la tangente dei partiti della Prima repubblica; la ricompensa che, si vocifera, alcuni amministratori di condominio esigerebbero dalle ditte assegnatarie di lavori. Sarebbe curioso stimare simili proporzioni per quanto concerne le finte pensioni di invalidità e gli assegni di disoccupazione, solo per fare degli esempi; chissà che non si ottenga un malefico numero aureo dell’illegalità in Italia. Ma è significativo come il dibattito pubblico si concentri spesso solo su alcune storture: il più delle volte, il biasimo riguarda illeciti connessi al welfare e all’assistenza verso i deboli. Come se le truffe dei più forti siano meno gravi (o trascurabili): il che è il paradigma su scala mondiale dei nostri tempi.

Marco Lombardi

M5s, il movimento deve fare i conti prima con se stesso (poi con Draghi)

Draghi infila 34 nuovi articoli nella legge di Bilancio, i ministri applaudono senza avere diritto di parola, Fraccaro sui social lamenta il modo di lavorare del governo dei migliori. Ma io mi chiedo: i 5 stelle hanno la maggioranza, perché stanno a guardare? Stiamo percorrendo una via di non ritorno, con limitazioni alle manifestazioni e la voglia di imbavagliare la stampa libera. Giuseppe Conte e il M5s, se ci siete battete un colpo.

Giovanni Caggegi

 

Tra i compiti a casa che ciascuno offre ai Cinquestelle questo che lei indica, costruire cioè una opposizione più serrata contro la direzione di marcia del governo di Mario Draghi, è sicuramente il più gettonato. Trascura, caro Giovanni, un fatto. I Cinquestelle tuttora impiegano molte delle risorse a loro disposizione nel misurare, “interna corporis”, i propri destini. Non c’è giorno che le cronache non riportino micro bollettini di guerra, posizionamenti e riposizionamenti, altolà, contestazioni, diffide, eccetera. Se la vita di un movimento è occupata da queste urgenze, il resto – anche quello in cui si misura la qualità del sostegno a questo esecutivo di emergenza – perde valore, energia, capacità di essere performante.

I Cinquestelle, per risolvere una drammatica crisi interna, hanno chiesto a Giuseppe Conte di assumerne la leadership. Che però già non piace più tantissimo, già sembra sospetta, già non si ritiene giustificata nella sua completa espressione. Prima che a Draghi, io penso, dovrebbero chiarirsi le idee su Conte. Dovrebbero parlarne, anzi parlarsi. Invece no, mugugnano. E a chi serve un Movimento del mugugno? Dare un senso al proprio destino politico significa dare un senso al proprio ruolo. Per quel che ricordo, il sostegno a Draghi fu giustificato soprattutto dalla svolta che il suo esecutivo avrebbe dato alla cosiddetta transizione ecologica. Un mutamento epocale degli stili di vita, del lavoro. La rivoluzione verde, il cambio di sistema, di modello economico, il nuovo generatore di opportunità avrebbe dovuto assorbire ogni energia da parte del Movimento. Invece siamo sommersi dal silenzio. Perciò penso che prima che con Draghi i Cinquestelle debbano fare i conti – e per bene questa volta – con se stessi. Chi sono? Dove vogliono andare? Per fare cosa?

Antonello Caporale