“Caro Letta, seimila tessere in una notte e il Pd finisce all’asta”

Miracolo in Irpinia! In una sola notte circa seimila cittadini, senza sapere nulla l’uno dell’altro, hanno deciso di sostenere lo sforzo riformatore e progressista del partito guidato da Enrico Letta. Tutti insieme, ciascuno con la sua carta ricaricabile, sotto la stessa luna piena, hanno deciso di ricaricare il Pd col loro bonifico da 22 euro.

“Non sono volti purtroppo, non sono corpi ahimè. Ma maschere. Carte ricaricabili che dispongono bonifici, tutto qui. Online, un clic e ce la fai”.

La solita moltiplicazione dei pani e dei pesci. In politica succede spesso.

La vicenda di Avellino è esemplare perché sviluppa teoria e prassi di come un partito importante, un pilastro della democrazia in Italia, può finire nelle mani di una srl, intendendo con ciò che siamo di fronte non a singoli che promuovono cordate, che pure sarebbe censurabile assai, ma ad interessi imprenditoriali che nel buio del clic investono in politica, in un brand. Ora punto su questo ora su quello.

Franco Vittoria insegna alla facoltà di Scienze Politiche della Federico II di Napoli, è militante attivo e dirigente del Pd. È stato anche segretario provinciale del Pd di Avellino e tuttora membro della direzione nazionale. Lei ha denunciato il carico sospetto di tessere, il miracolo irpino.

Ho denunciato tutto, ho scritto a Letta: caro Enrico, così non si può andare avanti. Neanche una sillaba come risposta.

Eppure tutto si può dire tranne che non sia sensibile al tema della moralizzazione della politica.

Sottovaluta, immagina che siano conti aperti tra tribù locali del Pd da cui è meglio starsene fuori. Invece temo che quella avellinese sia solo l’appendice di una storiaccia lunga, che vede tutto il Mezzogiorno mutuare queste pratiche.

Non ci si iscrive più nei circoli, in quelle che si chiamavano sezioni?

Esatto. Tutto all’online, alle solitudini che si sommano, ai corpi che svaniscono e diventano maschere. Cosa so io di te? Nulla, sei mio compagno di partito o solo una cifra di una carta ricaricabile?

Però è necessario accludere il documento di riconoscimento.

Sì, ma come è chiaro, è una barriera insignificante per chi decide di bypassarla.

Quante ricariche quella notte di ottobre?

Beh, eravamo in quattromila iscritti il 22 ottobre e ci siamo ritrovati in 10.400 il 23 ottobre. Moltiplichi per 22 euro il costo della tessera e faccia il conto.

L’ha già fatto lei.

280mila euro versati nelle casse del partito. Ma da chi?

Da chi?

Non da singoli né temo da collettori che vogliono crearsi la propria corrente. Io noto che dal clientelismo, dal familismo si sia passati a una forma più pericolosa di aggressione alla democrazia, alla vita di un partito. Gruppi di interesse che scelgono di sostenere l’uno o l’altro partito per raggiungere i propri scopi imprenditoriali. La sigla diviene un brand e l’orientamento politico è del tutto ininfluente. Oggi investo su di te, domani su quell’altro.

Esattamente come si pianificano le campagne pubblicitarie.

Esatto. Qui il ritorno atteso è ben più sostanzioso.

Avellino è una piccola città, la sua provincia marginale rispetto ai destini dell’Italia. E il disincanto è tale che nessuno troverà troppo disdicevole quel che lei denuncia.

Ad Avellino si susseguono i commissariamenti. Il partito diviene una piattaforma programmatica delle cattive intenzioni. Chiedo: e nelle altre città, nelle altre regioni che succede? È pratica sconosciuta?

Così fan tutti?

Tenga conto che i voti al Pd alle ultime regionali in provincia ammontano a 38mila. Dunque è del tutto certo che in alcuni comuni il partito avrà più tesserati che voti. È mai è possibile?

Secondo lei Letta dovrebbe correre in Irpinia?

Letta deve capire che è una pratica antica e comune a più territori, soprattutto nel Mezzogiorno.

Chi comanda nel suo partito?

Due correnti: la prima si rifà a Vincenzo De Luca e la seconda a Umberto Del Basso De Caro, da Benevento.

Al netto dei nuovi iscritti, di questa falange di seimila nuovi combattenti per il riformismo.

Tutti arruolatisi nella notte tra il 22 e 23 ottobre, nelle ore immediatamente precedenti alla chiusura del tesseramento.

Un clic e sei dei nostri.

Un clic, restando muto.

Cop 26, la lotta per il clima non ha guerrieri all’altezza

Una Cop26 mezza piena o mezza vuota? Certamente imperfetta e parziale, come le precedenti, ma non priva di avanzamenti. Chi si aspettava svolte epocali è rimasto deluso, ma le estenuanti trattative hanno portato a perfezionare alcuni punti dell’accordo di Parigi che lo avvicinano all’operatività. Il problema è il tempo: c’è una totale asimmetria tra l’urgenza di azioni concrete richiesta dalla scienza e la lentezza delle decisioni dei governi. Il coro è unanime: resta ancora tanto lavoro da fare. Il Segretario Generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres ha ribadito che “Cop26 è un compromesso, che riflette interessi, contraddizioni e volontà politiche del mondo contemporaneo. È un passo importante ma non è abbastanza. È tempo di passare a una modalità di emergenza”.

Il documento finale mantiene l’obiettivo di non superare un aumento termico di 1,5 °C entro fine secolo, ma è ancora una volta un’intenzione vaga, non vincolante. Troppi verbi coniugati al futuro rendono l’imponente riduzione di emissioni di gas serra che sarebbe necessaria fin da subito una promessa che potrebbe anche non essere mantenuta. Si è fatto qualche passo sul graduale abbandono del carbone pur con le resistenze dell’India, sì è annunciato un maggior impegno contro le perdite di metano e la deforestazione, si è approvato un pacchetto di misure per l’adattamento ai cambiamenti climatici, accettate regole di trasparenza dei dati sulle emissioni nazionali, stabilite norme di finanza climatica e scadenze per la commercializzazione di auto con motore termico. Non si è avuto il coraggio di eliminare gli incentivi alle energie fossili, non ci si è accordati sul trasferimento dei 100 miliardi di dollari annui da Paesi ricchi a quelli poveri. In sostanza, con questi timidi intenti invece di bloccare l’aumento di temperatura a 1,5 gradi si va dritti verso 2,4 gradi, con tutti gli eventi climatici estremi che ne conseguono. E per ora è un programma soltanto sulla carta, che dovrà trasformarsi in realtà tecnologica, fiscale, giuridica in ciascun Paese. L’Italia a Glasgow ha tenuto posizioni ambigue, non ha firmato l’accordo sulla sospensione delle ricerche petrolifere (BOGA) ma vi ha aderito “come amico” senza impegni, né quello per l’uscita di produzione di auto a motore termico. Verdi a parole, fuligginosi nei fatti. Ma usciamo dalle aule della diplomazia per calarci tra la gente: manca la percezione dell’urgenza e della posta in gioco che implica il riscaldamento globale. Si tratta della sopravvivenza della specie umana. La finestra di prevenzione dello scenario climatico peggiore si sta chiudendo, ci resta una manciata d’anni per essere efficaci.

Dovremmo tutti avvertire una tensione sociale ed emotiva pari a quella che pervadeva gli Alleati contro il nazifascismo durante la Seconda Guerra Mondiale. Quel clima di azione collettiva ben interpretato dal discorso di Churchill del maggio 1940: “Non ho nulla da offrire se non sangue, fatica, lacrime e sudore […]. Abbiamo davanti a noi molti, molti mesi di lotta e sofferenza. Voi chiedete: qual è il nostro obiettivo? Posso rispondere con una parola. È la vittoria. Vittoria a tutti i costi, vittoria malgrado qualunque terrore, vittoria per quanto lunga e dura possa essere la strada, perché senza vittoria non c’è sopravvivenza”.

L’inerzia delle scelte climatiche non è solo colpa dei politici, ognuno di noi è chiamato a fare qualcosa. Vedo negozi con le porte aperte che lasciano sfuggire prezioso calore pensando di favorire lo shopping; stude elettriche o funghi a gas sui marciapiedi che dissipano energia e producono emissioni per intiepidire gli aperitivi di tanti che non hanno ancora compreso che vinceremo la sfida climatica solo con un’attenzione maniacale contro lo spreco, di qualsiasi natura.

La Ercolani, cantrice renziana e l’impero tv scritto con tanti zeri

C’è una doppia dimensione nella carriera di Simona Ercolani, ma è difficile far combaciare una metà con l’altra. La sua società di produzione televisiva Stand By Me è in crescita costante sin dalla fondazione nel 2010 e si è affermata nei palinsesti Rai e delle emittenti private. Prima ancora, nel 1998, Ercolani è stata l’ideatrice di Sfide, format che ha innovato il linguaggio del giornalismo sportivo in Italia. Ma è stata pure autrice di programmi che hanno alzato l’asticella del trash, come La Pupa e il secchione, La fattoria, Uno due tre… stalla!

Ercolani è una donna in carriera in un mercato competitivo e maschilista come quello della televisione, ma è anche una professionista che ha delegato parte delle sue fortune alla traiettoria di Matteo Renzi. L’ex premier le aveva affidato una parte significativa della sua “narrazione” politica. Negli atti dell’inchiesta Open, Ercolani è citata spesso (senza essere indagata). Non è solo la moglie e partner in crime di Fabrizio Rondolino, con cui redige l’ormai famigerata mail con la strategia diffamatoria da adottare nei confronti dei 5 Stelle e degli avversari politici. Ercolani è nella squadra della bestiolina social di Renzi e nel gruppo che si occupa dell’applicazione Bob, una specie di “Rousseau” renziana: uno degli esperimenti – non indimenticabili – della comunicazione web dell’ex premier. Lei avrebbe voluto chiamarla “Italia in cammino”, oppure “On”, ma alla fine il capo le dà il nome del fratello di John F. Kennedy. A Rondolino&c. sembra il nome di un cane, ma tant’è.

Le storie di Ercolani e Renzi si incrociano prima da avversari: nel 2012 è la spin doctor di Pier Luigi Bersani nelle primarie (vinte) contro il rottamatore fiorentino. È l’ultimo atto da post comunista: Ercolani ama raccontare di aver iniziato il suo percorso nel Pci e di aver fatto il suo primo scoop al congresso di Rimini del 1991, quando il partito di Berlinguer fu messo in soffitta. Malgrado la parentesi bersaniana, al momento della presa fiorentina di Palazzo Chigi, Simona si fa trovare già bella che renziana. Nel 2015 il grande capo la vorrebbe addirittura alla presidenza della Rai. Il suo nome è sostenuto dal ticket Luca Lotti-Antonello Giacomelli. Ci va vicina, ma le viene preferita Monica Maggioni. Sarebbe stato curioso: la proprietaria di una casa di produzione che fa affari con la tv di Stato, nominata al vertice dell’azienda stessa. Non succede, ma poco male: per Ercolani sono anni più che proficui. Nel 2015 e nel 2016 cura la “direzione artistica” della Leopolda. Nelle carte dell’indagine Open Alberto Bianchi, presidente della Fondazione, scrive a Lotti: “La Ercolani chiede 50+iva, totale 61 (mila euro, ndr). Dice di averlo concordato con te. È così?” Laconica risposta del “Lampadina”: “No”.

Al di là delle scaramucce contrattuali, Ercolani è ovunque. Partecipa alla campagna per il sì al referendum costituzionale. Nel 2015 è consulente di Palazzo Chigi per l’anniversario della Prima Guerra Mondiale e della Liberazione (46mila euro). Nel 2016 la Stand by me fa il colpaccio: 400mila euro per i video delle Olimpiadi di Rio, grazie a una procedura di gara senza bando formalizzata tre mesi dopo (non prima!) dei Giochi. La sua azienda ha una crescita impetuosa pure quando in Rai diventa amministratore delegato Fabrizio Salini (fino ad allora direttore generale di Stand by me). Nel 2014 fattura 5,1 milioni, nel 2015 7,8 milioni, nel 2016 supera i 10. Sempre col segno “+” fino al 2020, in cui nonostante la pandemia incassa 20,3 milioni di euro. Solo nel triennio di Salini – secondo fonti di Viale Mazzini – il giro di affari di Stand by me con la Rai è cresciuto del 20%.

Nobili e il falso dossier per colpire “Report”. Con dati bancari veri

Non chiamatelo “dossier Nobili” se no si offende. “Ma quale dossier? Non ho visto nessun dossier, nessun estratto conto”, giura Luciano Nobili. Ma insomma, c’erano copie di un estratto conto nel dossier contro Report, rifiutato da vari giornalisti e poi di fatto trasfuso nei video, nelle interviste e in un’interrogazione parlamentare del renzianissimo deputato romano sulla trasmissione di Sigfrido Ranucci. Erano i movimenti bancari di un ex manager di Piaggio Aerospace, sospettato di aver informato Report sulla presa di controllo di quell’azienda strategica, in epoca renziana, da parte degli Emirati Arabi Uniti. Non erano in un fascicolo giudiziario, come quelli di Matteo Renzi e di migliaia di indagati. Non era facile procurarseli legalmente. Magari provenivano da uomini d’apparato, investigatori privati, hacker. “Quel dossier me lo fece vedere un collega”, racconta Franco Bechis, direttore del Tempo. “Dissi al collega che noi non potevamo esibire come prova un documento come la distinta bancaria che, perfino, con rogatoria giudiziaria si sarebbe faticato ad avere”, ha scritto sul suo blog. Lo cestinò. Ora aggiunge: “Potevano accusarci di ricettazione”. Anche Augusto Minzolini, oggi direttore del Giornale, non utilizzò quelle carte.

Nella prima parte del dossier c’erano le supposte mail tra Ranucci e Rocco Casalino, allora con Giuseppe Conte a Palazzo Chigi, per concordare l’uscita del servizio su Alitalia e Piaggio, a fine novembre 2020, durante la crisi di governo. In quei mesi Report si occupava anche del Vaticano e di Cecilia Marogna, che coinvolgeva pezzi dei Servizi. Il 2 febbraio, dopo le dimissioni di Conte, Valerio Valentini sul Foglio e Bechis e Minzolini sui loro giornali accennano al carteggio, senza nominare Ranucci (“un conduttore Rai”) e almeno Bechis, ipotizzando che sia un falso, per dare conto dei veleni attorno ai negoziati sul nuovo governo. Casalino e Ranucci smentiscono le mail, nessuno le mostra. Mario Draghi giura il 14 febbraio.

La seconda parte del dossier arriva ad aprile, dopo che Report ha mandato in onda l’ex leghista “gelliano” Gianmario Ferramonti che parla di Maria Elena Boschi, la quale però nega i contatti. A Bechis la porta sempre il collega: c’era, scrive il direttore del Tempo, “una distinta di liquidazione Rai per 45 mila euro a una società (…) e un estratto conto di banca lussemburghese di una persona fisica che (…) secondo il collega sarebbe stata intervistata da Report con volto oscurato e voce distorta”. La tesi era che la Rai avesse pagato, con oggetto “Alitalia/Piaggio”, la Tarantula Luxembourg, società di produzione, che poi avrebbe girato i soldi a Francesco Maria Tuccillo, l’ex manager contrario agli Emirati in Aerospace.

Per Bechis è una “polpetta avvelenata”. Neppure Minzolini pubblica. La notizia esce solo il 3 maggio, all’indomani del servizio di Report sull’incontro all’autogrill tra Renzi e il dirigente dei Servizi Marco Mancini, poi pensionato. La tira fuori Nobili: “Voglio sapere se la Rai abbia o meno pagato una fattura alla società lussemburghese Tarantula e, se sì, perché ha pagato questa fattura, in virtù di quale servizio? La società Tarantula ha collaborato alla realizzazione del servizio su Renzi su Alitalia, su Piaggio Aerospace?”. E presenta un’interrogazione parlamentare.

“Con Tuccillo abbiamo parlato, ma non ci ha detto nulla e non l’abbiamo mai mandato in onda coperto”, dice Ranucci. “La fattura non esiste”, fa sapere Report. “I renziani hanno ricevuto e portato in Parlamento un dossier falso”, scrive Marco Travaglio nel libro I segreti del Conticidio (Paper First) uscito a fine maggio. Nobili replica a Report: “Anche noi abbiamo i nostri informatori”. L’interrogazione è rivolta al ministero dell’Economia, azionista Rai, ma viene bloccata alla Camera; il renziano Michele Anzaldi cortesemente rifiuta di portarla in Vigilanza Rai: “Sono eletto a Roma, è stato un atto di coraggio”, rivendica, alludendo al peso politico di Nobili. Viene ammessa solo il 27 ottobre. Ripulita. Non ci sono più i 45 mila euro e non c’è più il riferimento ai “rapporti economici fra la società lussemburghese e il dottor Francesco Maria Tuccillo”, di cui si poteva sapere solo in base all’estratto conto del dossier. Resta però Tuccillo, di cui Nobili non dovrebbe nemmeno conoscere il nome. “Lo sapevamo in tre in redazione”, dicono a Report. E chissà poi se il Mef potrà rispondere sui rapporti tra Report e una presunta fonte, coperti dal segreto professionale.

La sua “Bestia” costava troppo: Renzi scaricò i conti sul Pd (in rosso)

Più di 330mila euro al mese. Tanto costava la “bestia”, l’allegra macchina per la propaganda social voluta da Matteo Renzi. Neppure i generosi finanziamenti raccolti tramite Fondazione Open da Bianchi&C. bastano a pagare fornitori e personale. Già a metà del 2017 alcune società minacciano di fare causa, i collaboratori di andarsene, ma sul conto della Fondazione son rimasti giusto 406 euro. Ed è allora che il piccolo gabinetto di guerra inizia a trasferire contratti e spese sulle casse del Pd, già in rosso per 9 milioni e con tutti e 174 i dipendenti in cassa integrazione.

Agli atti dell’inchiesta su Open c’è una mail di Marco Carrai che riepiloga i costi mensili del gruppo social al 27 di marzo 2017: 270mila euro per la parte software e propaganda su Internet, che da sola costa 9mila al giorno, più 7mila euro per l’affitto della sede di via Giusti, altri 50mila per i collaboratori, oltre ai compensi per chi sta al vertice del team, come il fedelissimo Alessio De Giorgi, capo del digitalteam, che dovrà penare per avere gli 85mila euro promessi.

La “bestia”, visti i costi, sfugge presto di mano. L’8 giugno 2017 Alessandro Bianchi manda a Luca Lotti il quadro dei conti traballanti: la Fondazione deve ancora da pagare 282.500 euro per la Leopolda 2016; restano da saldare 113mila euro per il Lingotto di Torino, dove Renzi lanciò l’ultimo appello per il sì al referendum; più 170mila euro di spese da rimborsare allo stesso Bianchi. Ma il debito maggiore è proprio quello causato dalla costosa macchina per la propaganda social, con un’esposizione di 483.685. Risultato: a breve dalle casse di Open devono uscire 1.173.649 euro, ma sul conto ne restano appena 406. Le fatture non pagate si accumulano da marzo. Google stessa, per questo, bloccherà le sponsorizzazioni. Fioccano solleciti.

Sociometrica Srl fornisce il “monitoraggio degli orientamenti politici degli italiani”: a marzo 2017 riceve 12mila euro, dovrebbe averne altri 46mila nei mesi successivi. “Matteo mi chiede giornalmente i report che sto continuando a fornire. Però senza i pagamenti sono in grande difficoltà”, scrive il 4 settembre 2017 il titolare a Bianchi. La società concede uno sconto di 16mila euro. Riceverà poi un incarico per analogo servizio dal Pd, a cui fatturerà 8mila euro nel 2017 e 12mila nel 2018: proprio la stessa somma “scontata” a Open.

Perché qualcuno il conto lo dovrà pur pagare. Gli inquirenti annotano diversi casi in cui contratti stipulati dalla fondazione per la struttura social vengono “trasferiti” integralmente al Pd negli anni 2017-2018. Accade per Culture Digital Media, ingaggiata per servizi di strategia di comunicazione digitale e analisi dati sul software israeliano Tracx, che dalla fondazione incassa 44mila euro, ma tra 2017 e 2018 fattura pure 81mila euro al Pd. Idem per la licenza del software Tracx, che dalla fondazione passa al Pd.

Anche il personale che l’alimenta finisce vittima della “bestia”. Il 28 novembre 2017 uno dei “ragazzi” del gruppo social invia una mail per sollecitare gli stipendi pregressi: “Vorrei gentilmente sapere se e come volete procedere al pagamento dei circa 50.000 euro dovuti ai vostri 20 ex componenti del gruppo social fiorentino”. La storia – aggiunge – rischia “di farvi sconfinare nell’illegalità”.

Per qualcuno però c’è più speranza, come per una collaboratrice di Renzi che si occupa della sua posta elettronica: “Il tesoriere del partito dell’epoca, Francesco Bonifazi, mi chiese se era possibile assumerla tra le fila del Partito – racconta in un verbale Antonella Trevisonno, responsabile amministrazione della sede nazionale del Pd -. In merito, feci notare che non era possibile perché all’epoca tutti i dipendenti del Pd usufruivano della cassa integrazione”.

Tra le vittime c’è perfino Alessio De Giorgi, il cuore della Bestia. Sulla carta ha un contratto da 85mila euro ma a settembre 2017 deve ancora ricevere mensilità arretrate per 37mila, nonostante i continui solleciti. Già a marzo aveva minacciato di andarsene. Ad agosto Bianchi lo gela: “Caro Alessio, la situazione finanziaria di Open e le previsioni a venire non consentono pagamenti sino a settembre inoltrato”. Per lui però la soluzione si trova, ed è la solita: “Bonifazi – scrive De Giorgi in un sms a Bianchi – mi ha detto che da settembre ha senso che passi al Pd come contratto e compenso”.

Ma mi faccia il piacere

Materie prime. “Perché i gatti ci accompagnano in bagno? Anche così ci dimostrano il loro affetto”, “Questa foto è stata scattata ieri mattina nel bagno di casa: si può facilmente immaginare dove fossi seduto io e perché. Non credo di essere l’unico a ritrovarsi, poco dopo aver lasciato il letto, in una situazione del genere” (Fabrizio Rondolino, Corriere della sera-Scienza, 13.11). Ecco di chi era la colpa della macchina renziana spara-merda: del gatto.

Querelite. “Renzi: ‘In tribunale contro Travaglio e il mio vicino di casa’” (Adnkronos, 11.11). E se fossero la stessa persona?

Si è fastidiato. “Ho provato a vedere la discussione tra Renzi e Travaglio e ho provato la stessa sensazione di disagio di quando scanalando mi è capitato di vedere quelli che litigano al Grande Fratello. Quelli (sic, ndr) roba che provi pietà per loro, mista a un po’ di umano fastidio” (Luca Bizzarri, Twitter, 12.11). Oh, poverino, e adesso come facciamo?

The Genius. “Ho dato solidarietà a Renzi, la gogna avvelena la politica” (Irene Tinagli, vicesegretaria Pd, Messaggero, 9.11). Ergo lei solidarizza con quelli che la gogna la organizzavano. Un genio.

Clint Salvini. “Salvini mi fa venire in mente Clint Eastwood” (Susanna Ceccardi, eurodeputata Lega, Rai Radio1, 5.11). Per l’indimenticabile interpretazione in “Gran Burino”.

E allora Bibbiano? “Affidi illeciti e ‘sistema Bibbiano’: 4 anni per Foti, 17 a giudizio, anche il sindaco Pd per abuso d’ufficio” (Corriere della sera, 12.11). Ora Di Maio dovrà chiedere scusa di aver chiesto scusa al “partito di Bibbiano”.

Scandali nazionali. “Dalla mafia alla Lollo l’ultima giravolta del narciso Ingroia. L’annuncio in un video, sarà il suo avvocato” (Repubblica, 13.11). Un avvocato che accetta di difendere una cliente: dove andremo a finire.

Figlia di Papi. “Mio padre al Quirinale? È bastata la sola ipotesi e si è scatenata subito la macchina del fango” (Marina Berlusconi, Corriere della sera, 13.11). La sua.

Già Vazzi. “Il debito è un concetto del secolo scorso” (Francesco Giavazzi, consigliere economico di Draghi, Corriere della sera, 13.11). Quindi i suoi trent’anni di editoriali sul debito (anche in questo secolo) li buttiamo?

Autocoscienza. “Travaglio bue dà del cornuto all’asino” (Alessandro Sallusti, Libero, 13.11). E l’asino, comprensibilmente, si offende.

Ucci ucci. “È giunta l’ora di divorziare da Travaglio” (Andrea Marcucci, senatore Pd, Riformista, 10. 11). Ma chi t’ha mai sposato?

Noblesse oblige. “Dieci anni fa lo hanno abbattuto. Ora la storia dà ragione al Cav… Oggi è il padre nobile del Ppe” (Paolo Guzzanti, Giornale, 13.11). Uahahahahahah.

Sorpresona. “‘Sono omosessuale. Il coming out di Spadafora da Fazio” (Corriere della sera, 8.11). No, che notizia! E chi l’avrebbe mai detto?

Letture miracolose. “Gli avevano vietato di leggere la Cartabia al 41 bis: ora sta diventando cieco” (Dubbio, 12.11). Pensa se leggeva pure la Cartabia.

Due piccioni con una fava. “Ue, pressing di Letta: ‘5S nei progressisti’. E Calenda se ne va” (Repubblica, 12.11). Basta l’annuncio e i Socialisti europei già ci guadagnano.

Moiro Orfeo. “Accordo Agnoletti-Orfeo” (Matteo Renzi a Marco Carrai, 31.12.2017). “Mario Orfeo verso la riconferma al Tg3 nel segno della continuità” (Stampa, 12.11.2021). Le famose nomine dei Migliori che non ascoltano i partiti.

Memoria corta. “L’eliminazione del finanziamento pubblico dei partiti è stata la madre della corruzione della politica” (Nadia Urbinati, Domani, 12.11). Infatti ai tempi di Tangentopoli c’erano sia il finanziamento pubblico sia le mazzette.

Al galoppo. “Progetto Islander, così Nicole Berlusconi ha tratto in salvo 500 cavalli” (Repubblica, 5.11). Per giustificare l’esistenza del Cavaliere e dello stalliere.

La Monarchia. “La classifica dei principi più eleganti al mondo. Con un illustre assente. Da Pierre Casiraghi al figlio del sultano del Brunei, passando per il principe Carlo d’Inghilterra, ecco chi sono i sette uomini reali cui la storica rivista britannica Tatler ha assegnato il titolo di arbiter elegantiarum. E vediamo anche chi manca” (Repubblica, 13.11). Ma questa Repubblica, con Sambuca Molinari, non si starà spostando troppo a sinistra?

Fine pena mai. “I grandi elettori mandino Berlusconi al Colle. L’elezione del Cavaliere sarebbe un risarcimento per lui e per quello che ha patito il Paese” (Piero Sansonetti, direttore del Riformista, Giornale, 7.11). Ma non era contro l’ergastolo?

Il titolo della settimana/1. “Amato vorrebbe una donna al Colle” (Corriere della sera, 11.11). “Voglio una donnaaaa!” (Ciccio Ingrassia, Amarcord di Federico Fellini, 1973).

Il titolo della settimana/2. “Fedez entra in politica? È giallo” (Riformista, 11.11). Epatite?

Il titolo della settimana/3. “Il peto di Biden terrorizza Carlo e Camilla” (Libero, 9.11). Ma non dovevano ridurle, le emissioni?

Gifuni e amici persi nel fascismo e Marcorè diviso tra donne e Osho

In coincidenza con l’uscita nelle sale italiane del suo The French Dispatch, Wes Anderson sta completando le riprese di Asteroid City, un film come di consueto ricco di star, girato questa volta a Chinchon, Madrid, in ambienti che ricordano un paesaggio desertico e una finta stazione ferroviaria. Il 52enne regista texano può contare in questa occasione su new entry d’eccezione come Tom Hanks, Margot Robbie, Scarlett Johansson e Matt Dillon, che affiancano alcuni suoi attori feticcio come Bill Murray, Tilda Swinton, Adrien Brody, Jason Schwartzman e Jeff Goldblum.

Neri Marcorè ha ultimato le riprese della serie Le più belle frasi di Osho nel ruolo di Enzo Baroni, un antennista romano che dopo essere scomparso per qualche mese ricompare in città vestito con una sorta di saio e la possibilità di usare poteri superiori ed emettere giudizi e sentenze “definitivi”. Dirette da Laura Muscardin e interpretate anche da Carlotta Natoli e Rossella Brescia, le dieci puntate da 25 minuti ciascuna andranno in onda su RaiPlay a partire dal prossimo febbraio. Marcorè intanto inizierà a lavorare tra una settimana sul set di Le ragazze di carta, una nuova commedia di Luca Lucini scritta dal regista con Mauro Spinelli e ambientata a fine anni 70, fra Treviso e dintorni, realizzata da Pepito Produzioni con 302 Original e Rai Cinema e interpretata anche da Maya Sansa, Giuseppe Zeno, Cristiano Caccamo e Andrea Pennacchi.

Dopo “La belva” Fabrizio Gifuni sta per recitare ancora con il regista Ludovico Di Martino in I viaggiatori, un film Sky Original prodotto da Groenlandia e interpretato, tra gli altri, anche da Vanessa Scalera, che racconta le vicende avventurose di un gruppo di giovani amici di oggi che grazie a una macchina del tempo si ritrova intrappolato nella Roma fascista del 1939.

Secondo gli uffici stampa esce un capolavoro al giorno: l’editoria è in mano ai mitomani

Leggo libri da una vita e scrivo di quelli che mi hanno colpito dove posso, su giornali e riviste. Negli anni 70 mi capitava di essere ringraziato dall’autore analizzato molto tempo dopo l’uscita della recensione. Mi succedeva raramente che l’ufficio stampa mi telefonasse già prima dell’uscita per caldeggiare un romanzo o un libro di poesie. Non si usava. Certo, qualche amico, dopo un mese dall’uscita di un suo libro, mi telefonava per sapere se lo avessi letto, se le poste avessero funzionato. Una volta chiesi anch’io, per un romanzo, ad Alberto Arbasino se lo avesse ricevuto e lui mi rispose semplicemente e ironicamente: “Sììì”. Riattaccai e non mi permisi più. Certo attendevamo con ansia di vedere sul giornale un riscontro, ma rimaneva un’ansia privata, privatissima.

Già negli anni 80 del secolo scorso le cose cominciarono a cambiare. E con il nuovo secolo la situazione è anche peggiorata. Gli uffici stampa propagandano i loro libri come capolavori assoluti, in genere di esordienti. E siccome ne stampano tantissimi, i recensori sono sommersi da Divine commedie e da Bovary indiscutibili ogni settimana. Gli autori sono obbligati a presentare i loro libri in diverse città. La pubblicità non si limita alla copertina, ma è zeppa di indicazioni su incontri qui e là, sperando che qualcuno, vedendo l’autore sotto casa, acquisti il capolavoro. Ricordo Paolo Milano che ironicamente mi mostrava il castello dei libri in attesa di recensione sul suo tavolino. Scriveva sull’Espresso, ma non gli capitava come oggi di essere assalito da telefonate di autori ormai fuori di testa alla ricerca dei pochi che se ne intendono. Si lagnano poi degli uffici stampa che, passate le prime settimane, già pensano a lanciare un altro capolavoro e si chiedono se è il caso di continuare un mestiere di così poche soddisfazioni.

Qualche giorno fa, un autore di tutto rispetto che mi ha mandato un giallo, non sapendo della mia avversione al genere, mi ha confessato che il suo editore ogni tanto lo spedisce in città di provincia dove ci sono ancora lettori vergini, non sospettando nemmeno della fatica di incontri simili, senza ricevere nemmeno il biglietto del treno. Recentemente i lamenti degli autori si sommano a quelli di chi lavora in nero nelle case editrici, ma anche di chi i libri li stampa, senza ricevere alcun guiderdone. E il bello è che escono articoli che sostengono che in epoca di Covid i lettori sono aumentati. Temo che si riferiscano ai lettori di Vespa o di altri marpioni simili.

Gli autori e le autrici sono arrivati a un livello di disperazione tale che si stanno chiedendo inutilmente come godersi la vita, mandando all’inferno, tutte le ambizioni della loro adolescenza. Già al terzo libro c’è chi si chiede perché non fare la domanda per ricevere il Nobel, perché non lo ha avuto ancora. Ma la gloria che cos’è? Così i recensori prendono il posto degli psicoanalisti, sperando di curare quegli eccessivi narcisismi con qualche parola di conforto, non volendo essere corresponsabili di eventuali suicidi. Vale ancora il detto di Dante: “State contenti umana gente al quia”?

Ora il diavolo veste “Gucci”: Gaga sembra Lady Macbeth

House Of Gucci ha trovato la costellazione giusta e dopo infinite false partenze è arrivato in dirittura d’arrivo. Il film sulla dinastia della famiglia toscana, diretto da Ridley Scott, sarà nei cinema il 16 dicembre (con una preview il 15 per coloro che riusciranno a prenotarsi online) con protagonista indiscussa Stefani Joanna Angelina Germanotta in arte Lady Gaga.

Quello che rischia di essere un blockbuster mondiale – oltre che uno sterminato product-placement – ha davvero un cast stellare: Jeremy Irons, Al Pacino, Jared Leto, Adam Driver e Salma Hayek. La cantante ha presentato la pellicola ieri a Milano: “Essere in Italia, conoscerne la cultura, capire da dove viene la mia famiglia è emozionante”, racconta vestita come Biancaneve. “Vorrei imparare l’italiano correttamente e girare una pellicola nella vostra lingua. Mio padre viene dalla Sicilia e sono certa che mio nonno Giuseppe mi sta guardando dal cielo”, chiosa senza riuscire a trattenere le lacrime.

L’artista ci tiene a delimitare i confini: sul set di Scott non ha voluto fare altro che recitare, scartando d’intesa col regista eventuali ruoli da cantante o da interprete di brani della colonna sonora. Il film si concentra soprattutto sull’incontro appassionato tra Maurizio Gucci e Patrizia Reggiani, sulla loro scalata al controllo della maison e sull’estromissione forzata di padre, zio e fratello dal board di comando, stigmatizzando come le figure esterne e finanziarie ne abbiano progressivamente eroso il controllo.

Più che per possessività o gelosia, il movente dichiarato dalla Reggiani – “un gesto di stizza” – sembra nobilitarsi in una trama macbethiana per aver trasformato l’ingenuo marito Maurizio in un mostro di potere che ha finito per travolgerla ed estrometterla dalla famiglia. Dinamiche dell’omicidio si possono approfondire nel libro di Sara Gay Forden (Garzanti), da cui il film è tratto. “È stato complicato interpretare la Reggiani: non ho voluto parlare con lei, sarebbe stato molto difficile per ovvie ragioni. Ha commesso un omicidio ed è orribile e tragico. È stato difficile per me interpretare il suo ruolo perché molti pensano che lei sia solo una criminale, una malvagia. Ma è stata anche una giovane donna italiana che aspirava a una vita migliore, godendosi appieno la sua storia d’amore. Voglio dire alle donne che va bene anche sopravvivere ma bisogna restare fedeli a se stesse: Patrizia ha commesso un grave errore e credo che ancora oggi ne stia pagando il prezzo. Inoltre mi interessava capire chi erano davvero i Gucci: sono convinta che lei e Maurizio fossero innamorati e il disastro sia accaduto perché hanno focalizzato l’attenzione solo sul business anziché sulla loro vita. Mi sono molto documentata; per l’interpretazione del personaggio abbiamo visionato le fotografie e i costumi dell’epoca: in parte mi sono ispirata a Gina Lollobrigida e Sophia Loren, studiando i loro film, oltre che a mia mamma e mia nonna. Non mi interessa essere bella nel film, ma essere fedele e aderente al personaggio che interpreto. Soprattutto quando lei implode dopo essere stata estromessa dalla famiglia: cambia anche il suo trucco e i suoi vestiti. C’è una trasformazione ed è quella che cerco di raccontare, quella che custodiva in fondo alla sua anima”.

“Brando aveva poco fascino Marilyn viveva di domande. E quella notte con Agnelli…”

Marina Cicogna parla e tratta Marlon Brando e Marilyn Monroe come comuni vicini di casa. Vicini di casa con cui la confidenza va oltre il buongiorno e buonasera, ma con la giusta distanza. (“Marlon? Fuori dal set non aveva fascino. Marilyn? Poneva solo domande”).

Lei è nata e cresciuta in un tempo da cartolina in bianco e nero, quando il Lido di Venezia non era ancora una delle passerelle del cinema mondiale, ma giusto una stazione balneare ambita, elegante, aristocratica, suggestiva, replicata, con accenti snob. Lei è sempre quella cartolina. Nel tono della voce sicuro, celato nelle emozioni più alte, come quando parla del tumore o del suo rapporto con Gian Maria Volonté (“mi suscitava tenerezza”); da cartolina nell’abbigliamento impeccabile e affascinante nonostante sia in camicia bianca e jeans; da cartolina nella casa di un ultimo piano romano, con grandi vetrate che sembrano risplendere di un sole primaverile pure in un autunno inoltrato. (“Se le persone mi invidiano? Non credo, e comunque l’invidia è dei cretini”).

Da poco è uscito un documentario (Marina Cicogna. La vita e tutto il resto, regia di Andrea Bettinetti): un’ora e mezzo intensa, con i toni giusti e contributi all’altezza (da Alessandro Michele a Jeremy Irons). Ma a stare con lei si ha la sensazione che per raccontare questa donna intrepida, in grado di conquistare un Oscar da produttrice a trentasei anni (Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto) non basterebbero neanche le diciotto stagioni di Grey’s anatomy.

Cosa ha provato nel riguardare il documentario?

Rispetto alla vita sono abbastanza strana nelle reazioni: quando prendo un impegno mi dedico come se fosse la mia professione da sempre; (sorride) solo la recitazione mi è ostile, per il resto vado senza problemi; (ci pensa) davanti alle immagini a volte mi sono trovata bellissima, in altri casi orrenda.

Si è commossa?

No, però durante la proiezione ha pianto chi era intorno a me. E parlo di gente tosta; comunque erano anni che mi chiedevano di girarlo.

Come mai ha accettato?

Mi piace lo stile di Bettinetti, ma poco dopo l’inizio delle riprese è scoppiato il Covid e ho scoperto di avere un tumore: siamo stati costretti a cambiare qualche piano.

Nella vita cosa le suscita imbarazzo?

(Pausa) Quando ho reazioni non controllate e poi sono costretta a scusarmi; (cambia tono) penso ad alcune liti abbastanza pesanti scoppiate il sabato sera a casa di Francesco Rosi; oppure ricordo un’estate sulla barca di Valentino, a Saint Tropez, quando a Giancarlo Giammetti (storico socio di Valentino), uomo fondamentalmente maleducato, dissi “smettila, perché forse tra duecento anni mi potrai parlare in questa maniera”. Subito dopo averla pronunciata ho pensato: “Ma come mi vengono ’ste cazzate?”.

Rispetto ai comportamenti degli altri?

(Sorride) Ornella Vanoni ha un cane e secondo lei non bisogna insegnargli nulla: combina di tutto, ovunque.

La Vanoni la definisce snob.

Nel documentario non solo lei.

E…

Non lo so, cosa vuol dire? (Pausa) Dentro di me non credo (altra pausa, ci pensa). Conoscevo una nobile gentilissima con i domestici, le persone modeste e la gente normale; poco cortese con chi si dava delle arie. Forse anche io sono un po’ così: non amo chi si ritiene importante perché nella fattispecie, in ogni minuto della vita, nessuno di noi lo è.

La temono?

Sì, evidentemente ho una personalità abbastanza forte. L’ho capito nel corso degli anni.

Ha picchiato Patroni Griffi.

(Sorride) Giravamo a Roma, con Peppino che da giorni mi faceva impazzire con ritardi e richieste, fino a quando ho reagito; ricordo Enrico Lucherini (storico ufficio stampa) seduto nel cortile che gridava “hai ragione, hai ragione!”.

L’avvocato Agnelli la temeva?

Non temeva nessuno; anzi, forse solo sua moglie. Io e lui siamo sempre stati in armonia, entrambi veloci nelle risposte.

Attratti l’uno dall’altra?

Più no che sì; giusto una sera, al Grand Hotel, mentre stavano partendo per l’India, vennero a trovarmi lui e la moglie in stanza perché avevo l’influenza. Giusto qualche chiacchiera, e andarono via; poco dopo tornò solo: lì c’è stato l’unico suo tentativo, ma è stato un momento (resta in silenzio).

C’è un “ma”…

Lui considerava quasi doveroso rendersi disponibile, e lo dico in generale, mentre nel mio caso eravamo amici e si sarebbe divertito.

E lei?

Forse per un secondo. Poi ho pensato a Marella e ho detto di no.

Torniamo al documentario: secondo suo padre chi si occupava di cinema era un ladro.

Nel primo dopoguerra c’era Vittorio De Sica che andava in giro con la sceneggiatura di Ladri di biciclette solo che David O. Selznick (celeberrimo produttore) gli proponeva Cary Grant come protagonista e non voleva; fino a quando arrivò a mio padre, allora giovane banchiere, e accettò le condizioni di Vittorio.

A suo padre è andata bene.

Alla prima proiezione gli prese un colpo: “Questo è un film comunista!”. Poi De Sica lo convinse ad andare avanti e sempre papà, successivamente, comperò La vita è meravigliosa per distribuirlo in Italia, fino a quando l’amministratore della sua società prese i soldi e scappò in Argentina. Lì nacque la storia dei ladri.

E per lei…

Non è esattamente così, c’era piuttosto la tendenza ad arrangiarsi: quando Florinda (Bolkan, sua compagna per molti anni) doveva girare Cari genitori, pellicola prodotta da Ponti, non c’era nessuno disponibile a fornirle i vestiti: siccome eravamo amici di Valentino, lui si offrì. Finite le riprese, dopo l’uscita, Florinda vinse il David e lo stesso Valentino ci disse che non gli avevano saldato il conto. Mandai un messaggio a Ponti: “Se non chiude la questione, alla cerimonia del David, Florinda rivelerà a tutti il problema”. Dopo ventiquattr’ore è arrivato il saldo.

Ha sofferto a essere l’unica donna in una realtà maschile?

Non ci pensavo; ricordo Mario Cecchi Gori quando venne nel mio ufficio: si sedette in poltrona e rimase in silenzio, a guardarmi, come ad aspettare l’arrivo di un uomo.

Lei giovane.

Ventisette anni. E Cecchi Gori aveva un caratterino: gli piacevano molto le donne e in quel periodo aveva una cotta per Lisa Gastoni; (ci ripensa) la questione uomo-donna non l’ho mai considerata, guardo sole alle persone.

Si è mai sentita femminista?

Sì, però non ho mai pensato a lottare per questo; (pausa) sono amica di Asia Argento e capisco la sua denuncia a Weinstein, personaggio pessimo, al quale avrei dato un calcio nel culo e negli stinchi. Faceva schifo. E non l’ho mai frequentato nonostante gli inviti e le occasioni.

Però…

Non credo alle denunce dopo vent’anni, anche se tempo fa si aveva paura a ribellarsi.

Dopo Weinstein negli Stati Uniti esiste la figura del “sex coaching” per pianificare le scene di sesso.

C’era Marilyn Monroe che non ascoltava mai le indicazioni del regista ma seguiva solo quelle del coach: tutti gli attori diventavano matti; comunque mi sembra abbastanza inutile.

Ha conosciuto tutti i grandi divi: di chi ha subito di più il fascino?

Non Brando: una sera è stato pure ospite da me a Venezia, è quasi sempre rimasto seduto da una parte e nessuno si è accorto di lui. Il più attraente è Alain Delon: ha una personalità fortissima, un uomo maschile ma con dolcezza.

Ha smontato Brando.

Ci sono persone bellissime, con talento, che diventano vive solo davanti alla macchina da presa, poi nella vita non hanno lo stesso carisma. Questa massima può essere vista pure all’incontrario; (ci pensa) Silvia Monti, ragazza bellissima, con la macchina da presa si perdeva; Montgomery Clift era affascinante, tormentato, intelligente, bizzarro; (torna a prima) Marlon era chiuso, in mezzo alla folla si perdeva, mentre Delon non potevi perderlo d’occhio.

Marilyn fuori dal set.

Carina. Compensava la sua insicurezza attraverso le domande: chiedeva di tutto, a ripetizione e per questo, escluso Billy Wilder, non ha mai girato due film con lo stesso regista. La giudicavano insopportabile. Lauren Bacall voleva strozzarla sul set di Come sposare un milionario.

A lei la Monroe cosa ha chiesto?

Com’erano gli uomini italiani perché stava per sposare Joe DiMaggio.

La trovava affascinante?

Sì, come tutte le persone differenti dalle altre; stessa storia per Greta Garbo o Marlene Dietrich, donna per niente simpatica.

Nel cinema italiano attuale quale attore considera unico?

Laura Morante, ma le poche volte che ci siamo incontrate ha fatto di tutto pur di non parlarmi; poi sono amica di Valeria Golino. Forse in questi momenti mi affascinano più le attrici inglesi come Judy Dench, sublime, o Kate Winslet.

Nel documentario parla di Volonté con tenerezza.

Gian Maria ha avuto un’infanzia difficile, un fratello morto in prigione, lui stesso passava periodi in cui era abbastanza sereno e altri in cui diventava violento. Ma in lui sentivo la tenerezza. Siamo sempre stati amici.

L’ha mollata in Metti, una sera a cena.

Dopo mi ha chiamato tutti i giorni per accertarsi se avessi risolto il problema; (sorride) normalmente, quando arrivavano i produttori sul set, magari Cristanti o De Laurentiis, si chiudeva in camerino e dava indicazioni perentorie: “Avvertitemi quando sono andati via”. Mentre con me il rapporto era intenso, umano e non è mai stato influenzato dal mio essere donna proveniente da una famiglia aristocratica.

Neanche per il differente orientamento politico?

No, forse compensavo la sua insicurezza.

Ha mai temuto che si potesse perdere proprio per via della politica?

Gian Maria poteva cadere su qualsiasi cazzata, ma cercava la sua voglia di vivere in differenti forme, non solo sul set. E si manifestava con straordinari momenti di follia.

Zeffirelli l’accusò di comunismo.

Più che altro per lui con il cinema tradivo le mie radici, anche se entrambi i miei genitori erano socialisti.

E lei?

Mai stata di sinistra.

Neanche socialista?

Mi sono disamorata dei socialisti quando ho iniziato a frequentare i salotti romani con Craxi protagonista: terrificanti.

Perché?

Pieni di mignotte.

Nani e ballerine.

Parliamo tanto di Berlusconi, ma era la stessa roba: tutto nasce da lì; (pausa) si sentiva l’odore di un sistema poco limpido.

Un leader politico che l’ha colpita.

Non sono mai stata affascinata dalla politica, ma un giorno ho assistito Andreotti mentre inaugurava due diverse manifestazioni: una la mattina e l’altra il pomeriggio. Due appuntamenti diametralmente differenti in quanto ad argomento, eppure in entrambi i casi è stato perfetto, preparatissimo; (sorride) in una serata da Valentino ho conosciuto Berlusconi, uomo simpatico, ma il suo era ed è un diverso mestiere.

Dell’invidia altrui cosa ne pensa?

Non credo di essere una persona soggetta, non ne vedo il motivo, ma se c’è, penso che sono solo dei cretini.

Si guarda allo specchio, e…?

Non vedo una 87enne e spero di tirare avanti almeno un po’ in questa maniera, di non subire una terribile decadenza fisica: ancora cammino dritta e per la mia età è l’aspetto più raro. È una fortuna, ma anche una mia scelta. Per il resto, mi manca giusto la possibilità di poter sciare, a Cortina, all’alba. Era il massimo.