A Simone Bartoli, segretario regionale ArticoloUno Toscana, e i colleghi Dario Omenetto (Piemonte) e Pippo Zappulla (Sicilia) non è piaciuta l’adesione alle Agorà del Pd del loro segretario Roberto Speranza. Soprattutto non è piaciuta la dichiarazione “al Paese serve un nuovo Pd”. “Ai rischi di disorientamento e di delusione presenti a Sinistra – scrivono – bisogna dire con estrema chiarezza che la nostra ambizione non può venire soddisfatta dall’accomodarsi ad essere una nuova componente del Pd o andare ad irrobustirne una delle tante già esistenti”.
La “bestiolina” contro Emiliano: le pagine social per ridicolizzarlo
Non solo gli “oppositori” del Movimento Cinque Stelle e i giornalisti del Fatto. A meritare le speciali attenzioni della “Bestia” renziana c’erano anche gli avversari interni. È il caso di Michele Emiliano, presidente della Regione Puglia, che nel 2017 sfida Matteo Renzi alle primarie del Pd. Dall’inchiesta Open emerge infatti che la squadra social “unofficial” che per qualche tempo si era installata nell’ufficio fiorentino di via Giusti, spesata da Open, aveva creato tra i vari profili e pagine social fake anche un account contro l’ex magistrato: “Emiliano che confonde cose”, o anche “Emiliano confuso”. A raccontarlo ai pm è l’amministratore della pagina, Duccio Ristori, uno dei membri del team renziano: “Aveva lo scopo di fare satira contro Emiliano, candidato alla segreteria del Pd in opposizione a Matteo Renzi. La creai di mia iniziativa ma comunque informai la squadra”. La pagina, oggi semi abbandonata, ridicolizzava Emiliano con meme e fotomontaggi. Che, si scopre oggi, erano prodotti dall’entourage di Renzi. Una pagina non troppo distante dalla strategia proposta del giornalista Fabrizio Rondolino per gli “oppositori”: “Character assassination, notizie, indiscrezioni, rivelazioni mirate a distruggerne la reputazione e l’immagine pubblica”, o “meme per i social, contenuti ironici e strafottenti che ridicolizzano questa o quella proposta, dichiarazione, personaggio”. Renzi ha dichiarato che l’idea di Rondolino non fu accolta. Eppure il trattamento riservato a Emiliano le somiglia molto da vicino.
L’ex premier accoglie Calenda e “smonta” pure Tangentopoli
Residuale nei sondaggi, minoritario nel governo, mal sopportato nel Paese, esiste un posto dove Matteo Renzi è ancora accolto come una star. Al Festival de Linkiesta, che si è chiuso ieri a Milano, l’ex premier è del tutto a suo agio e può prendersela ancora col Fatto, col Pd, coi magistrati. A salutarlo c’è Andrée Ruth Shammah, padrona di casa al Teatro Franco Parenti: “A Otto e mezzo lo hanno massacrato, noi siamo tutti con lui e gli faremo sentire il nostro affetto e la nostra stima. Viva Renzi!”.
Il pericolo individuato da Christian Rocca, direttore de Linkiesta, è il “bipopulismo” tra sovranisti e grillini, motivo per cui da mesi sogna un “polo riformista”. Renzi si galvanizza: “Con buona pace dei Marco Travaglio abbiamo mandato a casa l’avvocato del popolo”. L’inchiesta Open? Robetta: “La nostra ‘Bestia’ è una idiozia totale. Hanno depositato 94 mila pagine, neanche fossimo mafiosi. Quando Rondolino ci propone di utilizzare il metodo del Fatto, io dico che non ci penso neppure. È un hackeraggio di Stato”. D’altra parte la colpa è di un “populismo giudiziario iniziato nel ‘92 con Tangentopoli”, perché “il giustizialismo è il populismo applicato al non diritto”.
Niente ravvedimenti, neanche sulle conferenze saudite: “Se fanno una legge che lo impedisce, ne prendo atto”. Si parla anche di Quirinale e Renzi lascia intendere che, con Mario Draghi premier ideale fino al 2023, ci sarà da parlare con le destre: “Il Pd è il partito del bla bla, si è visto col ddl Zan. Per il Colle bisogna avere pazienza, mediare”. Non come nel 2013: “Bersani ha bruciato Marini e Prodi e non per colpa mia, perché nei 101 non c’era nessuno dei nostri”. Una versione sorprendente tanto quanto quella sul Recovery Fund: “Non c’è stata alcuna trattativa, i soldi sono stati distribuiti con un algoritmo”. Spazio allora per un progetto centrista con Carlo Calenda: “Bene che sia entrato nel gruppo Renew Europe. Dobbiamo fare tutti uno sforzo, non vedo divisioni insormontabili”. Mica come con quelli del bla bla.
Colle, Dell’Utri a B.: “Renzi mi ha detto che ci potrà aiutare”
È stata raccontata come la riunione della cautela. Quasi del diniego rivolto a chi, nel suo partito e nel centrodestra, lo tira per la giacchetta facendogli sognare il Quirinale: “Non posso fare giri a vuoto, non bruciatemi. La mia storia non me lo permetterebbe” ha detto lunedì scorso Silvio Berlusconi davanti ai coordinatori regionali di Forza Italia e ai vertici del partito. Un avvertimento che ha fatto pensare al gran rifiuto. E invece no. Quel pranzo ad Arcore è stato tutt’altro. Lì è partita un’operazione politica: conquistare i voti dei parlamentari renziani. E a lanciarla non è stato un dirigente qualunque bensì, come ha raccontato ieri La Stampa, Marcello Dell’Utri, fondatore di Forza Italia, storico braccio destro di Berlusconi che ha scontato una condanna a 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa. È tornato a frequentare le stanze di villa San Martino da un paio di mesi, dopo l’assoluzione in Appello al processo sulla Trattativa Stato-Mafia. Ma a qualcuno, ai piani alti di Forza Italia, questa cosa non piace perché, insomma, l’ex senatore “sarà pure un buon cristiano” ma è pur sempre un pregiudicato.
Dell’Utri però è tornato lo stesso a sussurrare all’orecchio di Berlusconi. Lo si era visto il 29 settembre per festeggiare l’85esimo compleanno dell’ex premier, ha apparecchiato la tavola a Firenze tra Gianfranco Miccichè e Matteo Renzi per l’accordo tra Forza Italia e Italia Viva in Sicilia ed è tornato ad Arcore lunedì scorso per la riunione con i coordinatori regionali e i vertici del partito. E non è stata una presenza casuale.
Al momento del dolce, dopo aver scosso i suoi chiedendo una “maggiore presenza sul territorio” e in tv, Berlusconi ha toccato l’argomento del Quirinale. Il tema dei temi. Molti coordinatori sono intervenuti rivolgendosi così al leader: “Presidente, sarebbe davvero bello vederla al Quirinale”. A quel punto il padrone di casa ha dato la parola a Dell’Utri. Che, silenzioso fino a quel momento, ha rivelato: “Nei giorni scorsi mi ha contattato Renzi e mi ha detto che non gli dispiacerebbe vedere Silvio al Quirinale – ha spiegato Dell’Utri – ha detto che ci può aiutare con i suoi voti”. Fonti di Italia Viva confermano la telefonata tra Renzi e Dell’Utri. Qualcuno, seduto alla tavola, ha però obiettato che “Renzi non è affidabile” e che “gioca su molti tavoli” solo per spingere la candidatura di Pier Ferdinando Casini. Ma a chiudere la conversazione ci ha pensato Berlusconi che ha fatto capire di voler andare a caccia dei voti renziani. “Renzi dice che può aiutarci ma ci ha già fregato nel 2015 con Mattarella (l’allora premier ruppe il patto del Nazareno e l’accordo su Giuliano Amato, ndr) – ha concluso il padrone di casa – vediamo cosa si può fare, dovremo parlare con tutti”. Insomma, il tentativo di conquistare quei 43 preziosi voti sarà fatto.
Che quello di Renzi sia un bluff o meno, come temono alcuni dirigenti di FI, si vedrà. Se però il leader di Iv intende davvero percorrere la strada di un accordo con il centrodestra per eleggere Berlusconi o un altro candidato – oltre a Casini, si fa il nome di Maria Elisabetta Alberti Casellati – dovrà prima vedersela con la sua truppa parlamentare. Come ha raccontato ieri il Fatto a una decina di deputati e senatori renziani non sono andate giù le rivelazioni sul caso Open e l’avvicinamento del capo al centrodestra. Tant’è che diversi di loro, come il senatore Leonardo Grimani e il deputato Camillo D’Alessandro, hanno fatto capire che in caso di accordo con la destra per il Colle, si terranno le mani libere. In queste ore, alla vigilia della Leopolda del prossimo fine settimana, si torna a parlare di possibili fuoriuscite da Iv: tra i nomi in bilico ci sono Grimani, D’Alessandro, Mauro Marino e Massimo Ungaro. Si parla di un possibile passaggio ad Azione di Calenda. E che Iv sia destinata a scomparire presto lo ammette lo stesso Grimani: “Non abbiamo una prospettiva, dobbiamo superare il nostro partito” dice al Fatto. Va sciolto? “Quello lo deciderà Renzi…”
Insulti, minacce e altre bugie. Lo show del senatore d’Arabia
Quando gli scheletri escono dall’armadio, i loro proprietari – se dotati di un minimo di senso della realtà – si ritirano in silenzio, smettendo l’incessante emissione di fiato e la sincope di movimenti scomposti; quindi, ovviamente, Renzi fa l’esatto contrario.
Arriva negli studi di Otto e mezzo con un solo argomento per controbattere alle domande circa la melma che sta uscendo dalle intercettazioni sulla Fondazione Open: dare a Travaglio del “pregiudicato”, del “diffamatore seriale”, del “disperato” e della “vedova di Conte”. Si pensava che insulti così fiacchi e triviali fossero appannaggio di qualche disagiato del web al fine di racimolare like dalla parte più becera dei renziani fulminati: invece venivano dalla fonte (o sono stati da questa sposati).
A Lilli Gruber: “Io vorrei vedere lei, se le prendono il telefonino e le vedono negli ultimi 10 anni che ha fatto”. Il senatore, che non rammenta di esserlo, lascia intendere che se si conoscessero gli altarini degli interlocutori (“indiscrezioni”, per dirla come il suo staff di comunicazione, da raccattare anche mediante un “investigatore privato”), lui ne uscirebbe come il più pulito. È una forma di intimidazione. Il fatto che lui sia un senatore della Repubblica e all’epoca delle intercettazioni fosse segretario del Pd, mentre i giornalisti sono cittadini comuni, è irrilevante. (Questo signore è stato presidente del Consiglio, incontrava funzionari dei servizi segreti negli autogrill, voleva dare la cybersecurity a Carrai, etc. Un personaggio così affidabile, che Letta voleva imbarcarlo nel nuovo Ulivo).
Massimo Giannini, che legge la mail con cui Renzi chiedeva al suo staff di indirizzare i contenuti dei canali televisivi anche facendo accordi col dg della Rai, è liquidato così: “Tu Carrai lo conosci bene, gli hai dato dei soldi come risarcimento per una causa. Statti buono”. Dopo la fine della trasmissione, posterà la schermata con una lettera privata di Giannini a Carrai e la foto di un assegno firmato, lui che fino a due minuti prima strillava alla violazione della privacy per la pubblicazione delle elargizioni a suo favore per due milioni di euro. Sbraita: “Io sono trasparente”, ma non risponde a nessuna delle domande su di lui (giustamente, si guarda bene dal frequentarsi).
Secondo conti suoi, le cause intentate contro il Fatto superano la quota societaria; ergo, saranno gli azionisti a decretare la fine del giornale – a differenza che in Arabia Saudita, dove vigono modi più spicci per decretare la fine dei giornalisti.
Altro argomento forte: lui tifa per l’Italia (i suoi tirapiedi battono da mesi la velina “Travaglio è anti-italiano”). Naturalmente il suo “Forza Italia” determinerà ipso facto il pareggio degli azzurri. Nota: la puntata è stata registrata un’ora e mezza prima della messa in onda, ma lui finge di stare rinunciando alla partita per essere lì.
Per un filologo dei bassifondi del web, a sentirlo parlare non sarebbe difficile rintracciare la matrice degli insultatori a gettone della “bestiolina” renziana, presumibilmente capitanata dallo “stimato giornalista” Fabrizio Rondolino e dalla di lui moglie Simona Ercolani, una macchina da guerra deputata alla demolizione di avversari politici e giornalisti (altro che Putin: lui aveva la temibile utente lucciola84). Ma lui ci mette un secondo a scaricare pure i guru del web, a cui dice di non aver dato retta; guru che, senza il suo patrocinio, sarebbero allora degli squilibrati con fantasie megalomani che parlano da soli. (Risultato: Italia viva all’1 virgola qualcosa per cento).
Nervoso, maldestro, dialetticamente nullo, atteggia il volto a maschera ilare. “Sfido a trovare un mio solo voto in conflitto di interessi”, dice. Come se non controllasse il voto di decine di parlamentari (quelli di Iv, a dir poco); vedi legge Zan, affossata mentre lui era in Arabia Saudita per affari privati (è disdicevole essere pagati da La7 per fare i giornalisti; non lo è presenziare su compenso ai fasti di una dittatura come i cantanti neomelodici ai matrimoni).
Sollecitato da Gruber sull’etica politica, dice: “Come dice Benedetto Croce, la vera onestà è riuscire a portare a casa dei risultati”. Abbiamo compulsato Etica e politica di Croce: naturalmente non c’è traccia di questa frase. C’è invece questa: “L’individuo morale è tenuto a serbare la dignità, che non è solo prova della sua energia d’individuo, ma ossequio all’ideale morale che vive nel suo petto”.
“Pensi che lei gli dà anche lo stipendio, a Travaglio!”. Lilli Gruber, che datrice di stipendio dilettante: non ha manco un giornalista fatto a pezzi in giardino.
“Prende più multe che caffè”: Lotti si faceva pagare pure le ammende
Alla fine viene fuori che Open saldava anche le infrazioni stradali: “Si piglia più multe che caffè”, lamenta Alberto Bianchi, presidente del think tank renziano. “Infatti, ma non importa – replica la collaboratrice Carole Schmitter – visto che paga la Fondazione”. Le sanzioni erano addirittura inserite nelle scritture contabili di Open: una voce che nel 2017-2018 valeva 5.817,80 euro. Ma chi le prendeva tutte queste multe (e, soprattutto, perché non le pagava di tasca sua)? Se lo chiede anche il commercialista Massimo Spadoni: “Ma cavolo chi è che guida questa auto? Ha preso tutte le multe, negli stessi punti, due al giorno, ci si deve proprio impegnare oppure la Fondazione si è prefissa lo scopo di risanare il Comune di Roma?”. Per risolvere l’arcano gli inquirenti convocano l’autista Gennaro Ardito, referente della ditta “Moto 2 rent srl” che aveva sottoscritto il contratto di noleggio con l’ex ministro Luca Lotti: “Le multe si riferiscono alle auto da me guidate in zona centro di Roma, supponevo fossero dotate di permesso per accedervi – dice Ardito ai pm – le macchine sono state da me utilizzate come autista per l’ufficio di segreteria di Matteo Renzi. Nel 2017 sono rimasto in servizio presso l’ufficio del consigliere militare della presidenza del Consiglio, utilizzando l’auto anche per Matteo Renzi in relazione alla sua attività politica sia a Roma che anche in altre città. Mi venivano date specifiche indicazioni a chi addebitare i rifornimenti dalle persone che trasportavo, ad esempio Luca Lotti ogni volta mi diceva se addebitare il rifornimento alla Fondazione Open”.
Ma quali hacker: è solo attività dell’antiriciclaggio
Matteo Renzi definisce l’inchiesta nei suoi confronti “un hackeraggio di Stato”. Sono parole usate venerdì sera nel salotto di Otto e mezzo, ospite di Lilli Gruber, a confronto con Marco Travaglio e Massimo Giannini, direttori del Fatto e della Stampa. “Hanno preso il telefonino di centinaia di persone – ha detto Renzi – Hanno preso illegalmente il mio conto corrente. Io non ero nemmeno indagato”.
Ma è davvero così?
L’acquisizione dei movimenti bancari, anche per persone non indagate, è in verità una prassi piuttosto comune, in qualsiasi inchiesta che ipotizzi un qualche reato di tipo economico. Ed è già accaduto, senza che si ricordi in proposito un intervento del senatore Renzi, che segnalazioni sospette in tema di antiriciclaggio finissero sui giornali. Accadde ad esempio per la carta di credito usata dal compagno di Rocco Casalino, portavoce dell’ex premier Conte, vicenda che coinvolgeva soldi privati e su cui non c’era alcun reato. È successo per i finanziamenti dell’armatore Vincenzo Onorato (oggi indagato per bancarotta a Milano) a diversi soggetti, fra cui la Casaleggio associati. Questi controlli, del tutto ordinari, sono la base della normativa antiriciclaggio italiana, ispirata alle leggi europee.
Il sistema di prevenzione si fonda su un sistema di alert che coinvolge diversi operatori (banche, commercialisti, notai) tenuti a segnalare alla Banca d’Italia operazioni che, per varie ragioni, possono apparire anomale (ad esempio per la cifra di un pagamento, l’identità dei soggetti coinvolti, la giustificazione poco solida della transazione). Un’attenzione particolare, come ovvio, è riservata alle movimentazioni che riguardano politici, per via della delicatezza del ruolo di chi è chiamato ad amministrare la cosa pubblica.
Queste segnalazioni, decine di migliaia ogni anno, sono poi filtrate dall’ufficio antiriciclaggio della Banca d’Italia (l’Uif). Quelle più rilevanti diventano Segnalazioni di operazione sospetta (Sos): una comunicazione che a quel punto viene inviata agli organi competenti (Procure, Guardia di Finanza o autorità antimafia) per valutare l’apertura di un’indagine. Insomma, fino a questo momento, nessun reato, dunque nessun indagato. All’origine dell’inchiesta Open ci sono varie Sos sul senatore Matteo Renzi, e su persone a lui vicine, come Marco Carrai. E in nessun caso c’era bisogno di indagati. Il sospetto è che il senatore Renzi conosca bene questi meccanismi. Come del resto sia pienamente consapevole dei passaggi che consentono a un pubblico ministero di ottenere un sequestro o un telefono intercettato da un giudice. Come anche del fatto che i giornalisti, quando accedono ad atti giudiziari pubblici, ne pubblicano i contenuti, se sono di interesse pubblico. Insomma, che conosca meglio di quanto ha detto in tv la differenza fra l’hackeraggio, ambito di competenza della cybersecurity, e un’inchiesta giudiziaria, disciplinata dal Codice penale.
“Fu una lotta”: blitz, vertici e voti segreti per le fondazioni
La legge che a qualcuno mise molta fretta ebbe un parto difficile, quasi fortunoso. Ha dovuto superare assalti tramite emendamenti e vertici notturni infiniti, quella Spazzacorrotti faticosamente approvata in via definitiva il 18 dicembre 2018, cioè in pieno governo gialloverde, con il Pd a votare contro e la Lega a dire sì assieme al Movimento, costretta a deglutire la pillola in nome del famigerato contratto di governo e della ragion di poltrona. Sono passati meno di tre anni eppure sembra trascorsa un’era geologica, da quando vide la luce il provvedimento che in pancia aveva – ed ha – l’equiparazione tra fondazioni e partiti, con tutti gli obblighi conseguenti, a cominciare da quello di rendere pubblici nome e cognome di chiunque doni più di 500 euro. Regole, come ha raccontato il Fatto Quotidiano, che spinsero il presidente della fondazione Open, Alberto Bianchi, a scrivere a Maria Elena Boschi e a Luca Lotti per sollecitare scelte chiare: “La Fondazione deve essere chiusa in ogni modo entro il 31 gennaio, altrimenti entriamo nell’orbita di applicazione della l. 3/2019, con le complesse conseguenze che ne seguirebbero”. E la 3/2019 è proprio quella Spazzacorrotti figlia dei Cinque Stelle e dell’allora Guardasigilli Alfonso Bonafede, che prima di guardarsi indietro rivendica: “Non entro nel merito della vicenda giudiziaria di Open, che non commento. Però ribadisco che la legge voleva cancellare le zone grigie del finanziamento alla politica e ai partiti, insomma fare chiarezza. Perché l’intento era innanzitutto quello di prevenire la corruzione, attraverso la totale trasparenza dei fondi”.
Ma non appariva facile, far passare quelle norme. Tanto che ai tempi Bonafede lavorava a un primo testo della Spazzacorrotti che non le prevedeva. Invece alla fine si trovò posto anche per le regole su fondazioni e partiti. “Per il Movimento erano una priorità – ricorda l’ex ministro – Ricordo che Luigi Di Maio, allora capo politico del M5S e vicepremier, mi disse che era essenziale farle approvare prima possibile”. Non solo. “Quella scelta – continua Bonafede – ebbe il pieno appoggio anche del premier Giuseppe Conte, tanto che lavorò su quelle norme in prima persona, assieme all’ufficio legislativo di palazzo Chigi. Anche se mi ricordo lo stupore dei funzionari del mio ministero, quando dissi loro che nella legge entrava anche la parte sulle fondazioni. Avevano lavorato tutta l’estate a un testo già pieno di norme d’impatto…”.
Ma il clima era difficile, ricorda il 5Stelle Vittorio Ferraresi, allora sottosegretario di Bonafede: “In commissione Giustizia la Lega si oppose in ogni modo alle norme sui partiti, fu uno scontro duro”. Tracimato in emendamenti che volevano cancellare le norme sulla trasparenza dei finanziamenti o almeno far salire il tetto oltre il quale renderli pubblici (sopra i 3 mila o i 5 mila euro). Tanto che alla Camera si arrivò all’incidente, ossia all’approvazione con il voto segreto di un emendamento alla legge dell’ex grillino Catello Vitiello – ora in Italia Viva – che ammorbidiva le sanzioni per il reato di peculato. E a farlo passare fu anche un bel pezzo del Carroccio. Uno strappo che fece vacillare la maggioranza gialloverde. “Ci volle un vertice la notte stessa tra noi e la Lega per rimettere a posto le cose – ricorda Bonafede – Matteo Salvini alla fine si rassegnò ma dovemmo correre per stare nei tempi”. E il punto di caduta fu innanzitutto lo slittamento della riforma della prescrizione al 1° gennaio 2020, nel frattempo inserita nella legge. Ma le norme su fondazioni e partiti avrebbero ballato ancora. Nel dettaglio, nel dicembre di due anni fa, quando in commissione Finanze venne approvato – di notte – un emendamento che rinviava la loro entrata in vigore.
Votarono a favore Pd, Leu e, incredibilmente, anche il Movimento. “I nostri si sbagliarono” riconosce Ferraresi. Di certo fu un assist per Italia Viva, che aveva votato contro. “Di giorno sui social fanno i moralisti e di notte in commissione salvano le loro fondazioni” twittò Matteo Renzi. Tanto Open era già chiusa da un anno. La nuova maggioranza, quella giallorosa, poi riparò. E quelle norme sono ancora qui. Con una modifica di buon senso, quella che esclude la loro applicazione alle associazioni del terzo settore, salvo quelle che nel comitato direttivo abbiano una quota di politici o ex eletti. Ma questa è già un’altra storia.
“Difendimi dai pm”: così Renzi chiede l’immunità alla Casellati
Ciò che è avvenuto per quanto riguarda le conversazioni di Matteo Renzi finite agli atti dell’inchiesta della Procura di Firenze non ha rappresentato “una utilizzazione parcellizzata e disconnessa dalla posizione dei parlamentari”, bensì una “utilizzazione che ha evidenti ed inequivocabili incidenze sulla loro posizione nell’ambito del procedimento penale”.
I magistrati della Procura di Firenze – che hanno iscritto il leader di Italia Viva con altri per concorso in finanziamento illecito – depositando le conversazioni in cui era presente anche l’ex premier hanno violato “le guarentigie costituzionali del parlamentare”. È con queste parole che il 7 ottobre scorso Renzi ha chiesto a Maria Elisabetta Alberti Casellati di “porre in essere tutte le azioni a tutela dei diritti del parlamentare”. La presidente del Senato ha deferito la questione alla Giunta per le immunità del Senato che proprio martedì entrerà nel vivo: dopo le 20 in Giunta, nonostante l’ora, è previsto il pienone perché si comincerà a discutere della richiesta inoltrata da Renzi a Casellati. Della lettera del 7 ottobre i legali, dell’ex premier hanno informato anche la Procura di Firenze.
Già nelle scorse settimane il Fatto ha raccontato delle lettere di Renzi e di come il caso in Giunta sia stato affidato alla senatrice di Forza Italia Fiammetta Modena. Ma cosa c’è scritto di preciso nella missiva spedita a Casellati? Alla “Eccellentissima sig.ra Presidente” il senatore ha rappresentato anche quanto avvenuto il 4 ottobre, quando la Procura di Firenze ha dichiarato il non luogo a provvedere rispetto all’istanza dei legali di Renzi che qualche giorno prima avevano avanzato “formale intimazione al Procuratore Aggiunto, dott. Luca Turco di astenersi dallo svolgimento di qualsivoglia attività investigativa preclusa in base all’articolo 68 della Costituzione (sulle guarentigie dei parlamentari, ndr)” e dall’utilizzo di “conversazioni e corrispondenza casualmente captate (…) senza la previa autorizzazione della Camera di appartenenza”.
La richiesta è stata respinta sulla base della circostanza che l’utilizzazione dei dati processuali in questione è stata operata non già nei confronti di Renzi, ma di un altro indagato che non essendo parlamentare non poteva invocare quelle garanzie riconosciute agli eletti. Di qui la lettera di doglianze di Renzi alla Casellati: “La lapidaria affermazione dei pm non è in alcun modo condivisibile e viola le guarentigie costituzionali del parlamentare, dal momento che volutamente trascura una circostanza di centrale rilievo. Le conversazioni oggetto dell’istanza sono, infatti, avvenute tra parlamentari e non, e sono state utilizzate dalla Procura per sostenere la propria tesi accusatoria senza la previa autorizzazione delle Camere di appartenenza”. “Non si tratta – continua Renzi – di una utilizzazione parcellizzata e disconnessa dalla posizione dei parlamentari, ma di una utilizzazione che ha evidenti ed inequivocabili incidenze sulla loro posizione nell’ambito del procedimento penale e delle relative indagini”.
Renzi aveva già scritto alla Casellati a dicembre 2020 allegando una comunicazione con cui chiedeva conto al Procuratore aggiunto di Firenze di quanto avevano riferito i quotidiani a proposito dell’avvenuta esecuzione di intercettazioni e/o comunque captazioni di conversazioni o comunicazioni o corrispondenza dello stesso senatore e/o di altri parlamentari coindagati, nonché l’inserimento nelle chiavi di ricerca di telefoni e pc sequestrati dei nomi di parlamentari. Una comunicazione, inoltrata per conoscenza alla Casellati, in cui Renzi auspicava una smentita da parte del Procuratore aggiunto, ritenendo che, in caso contrario, sarebbe stato “evidente il tentativo di intercettare, captare e acquisire, senza la necessaria preventiva autorizzazione, conversazioni o comunicazioni o corrispondenza del parlamentare”. Poi con la lettera del 7 ottobre Renzi punta a ottenere a una pronuncia da parte del Senato. Da martedì, la Giunta per le immunità potrà riservare tante sorprese.
Alla corte di Bin Rignan
Riceviamo lezioni di giornalismo da autorevoli docenti, indignatissimi perché diamo notizie vere su Renzi (come su tutti) e perché i pm di Firenze indagano su notizie di reato. David Parenzo, noto per non aver mai dato una notizia in vita sua e sinceramente sgomento dinanzi all’oggetto misterioso, dice che pubblicare i finanziatori di un senatore indagato per finanziamento illecito fa di noi “soltanto dei guardoni”. Lui, intanto, non lo guarda nessuno. Alessandro Sallusti, passato dalla corte di B. a quella di R. come se facesse differenza, spiega che “non c’è da stupirsi” se la Bestiola renziana progettava di “distruggere” e “diffamare” i 5Stelle e due giornalisti, perché lo fanno tutti da sempre tranne lui. E cita “i film di Giovannino Guareschi” (che non ha mai fatto film) e le accuse (ovviamente vere) a vari politici, da Leone a B.. Ergo “Travaglio è il bue che dà del cornuto all’asino”. Quanta modestia. Sallusti è l’artefice della patacca su Dino Boffo, che su Avvenire osò criticare B. per i bunga-bunga e si ritrovò sul Giornale un’“informativa” giudiziaria (ovviamente mai esistita) che lo definiva “noto omosessuale già attenzionato dalla Polizia di Stato per questo genere di frequentazioni”. Ma è anche l’unico direttore finito ai domiciliari per varie diffamazioni e graziato da Napolitano (con gran sollievo della Santanchè che l’aveva in casa come pena accessoria): il tutto perché pubblicò su Libero un pezzo che accusava un giudice di aver costretto una ragazza ad abortire e poi, scoperta la falsità della notizia, anziché rettificarla, la ripubblicò raddoppiando il danno.
Un’altra lezione giunge dall’ex pm Carlo Nordio: sul Messaggero definisce “processo politico”, “porcheria” e “nefandezza” l’inchiesta Open e “compiacenti” i giornali (due o tre) che la raccontano, per avere “vilipeso i più elementari diritti alla riservatezza”. E lui è una nota vestale della privacy: nel 2000 convalidò il sequestro dell’auto di un 25enne sorpreso dai carabinieri con una squillo e accusato inopinatamente di favoreggiamento della prostituzione, dopodiché il giovane, rincasato in taxi, s’impiccò con la cintura; e nel 2004 Bruno Vespa scoprì che dal 1998 Nordio s’era scordato nel cassetto il fascicolo sulle presunte tangenti a D’Alema e Occhetto, anziché trasmetterlo a Roma, dove giunse impolverato e prescritto. Potete ben intuire l’autorevolezza del pulpito.
Ps. In un vertice ad Arcore sulla corsa al Quirinale, “Dell’Utri ha detto che Renzi gli ha fatto sapere che, se la partita di Berlusconi diventa giocabile, lui è pronto a giocarla” (Stampa). Ora, noi non sappiamo se davvero Bin Rignan abbia parlato con Dell’Utri. Ma, se l’ha fatto, è stato solo per dirgli quello che ripete sempre agli amici B. e Verdini: “Pregiudicato!”.