A sinistra serve un partito: oltre la socialdemocrazia, contro la tecnocrazia

Fabrizio Barca è coscienza critica della sinistra italiana che si è fatta costruttrice. E questo si riversa, nella conversazione con Fulvio Lorefice, in un volume “politico” per nulla superficiale, anzi ben articolato tra riflessione teorica e “messa a terra”. “Serve un partito” è il messaggio del libro, che così allestisce gli attrezzi per cimentarsi con il compito. Si valorizza a pieno la produzione del Forum Diseguaglianze e Diversità, ormai molto più di un centro studi, a partire dal tema centrale della diseguaglianza, sociale, culturale, tecnologica, di opportunità, che è “frutto di scelte politiche e culturali”. L’ispirazione è data da Amartya Sen, in controluce si legge John Rawls.

Per la sinistra attuale sarebbe una boccata d’ossigeno, anche perché la socialdemocrazia, spiega Barca, ha ben meritato nell’affermazione del welfare, ma non ha saputo trasferire sapere e potere ai più vulnerabili. Altro contributo interessante del volume è il recupero di Angela Davis e della cultura dell’intersezionalità, che individua in “genere, razza e classe” le subalternità che dovrebbero riconoscersi l’una nell’altra e formare quello che Gramsci avrebbe definito “blocco storico”. Barca aggiunge una quarta contraddizione, l’ecosistema, urgenza non rinviabile dell’umanità.

La strada è “la ricostruzione di un soggetto politico” che recuperi l’intermediazione tra le persone e vada oltre la stagione gloriosa della socialdemocrazia”. A patto che ci si liberi dalla tecnocrazia. Barca, cresciuto in Banca d’Italia, sa di cosa parla e ne parla molto. Tra i tecnici del passato, “dei giganti”, cita Vincenzo Visco, Tommaso Padoa-Schioppa, Carlo Azeglio Ciampi. Non Mario Draghi. E soprattutto ricorda che i tecnici sono spinti, “e sempre più sono felici di essere spinti e spingono a loro volta, a sostituirsi alla politica nelle decisioni”. Gli esempi, attuali, non mancano.

 

Diseguaglianza, conflitto, sviluppo

Fabrizio Barca, con Fulvio Lorefice

Pagine: 200

Prezzo: 15

Editore: Donzelli

 

Il patriarca della narrativa ebraica e Gesù

“Il libro di Yehoshua com’era?”. Lei risponde: “Bello”, e lui di rilancio: “Bello come tutti i libri di Yehoshua”. Lo scambio di battute è in una delle scene più celebri di Aprile di Nanni Moretti. A suo modo un indizio del successo dello scrittore israeliano, nato a Gerusalemme nel 1936.

In Europa sono soprattutto i lettori italiani a tributargli un’appassionata fedeltà. Quando Einaudi comincia a pubblicare le sue opere la narrativa israeliana è pressoché sconosciuta (fatta eccezione per il Nobel Yosef Agnon). La letteratura ebraica prospera ma è quella della diaspora: gli autori tedeschi della Mitteleuropa, Bellow in lingua inglese, Singer in yiddish. Da noi la scoperta dell’ebraico moderno coincide con L’amante di Yehoshua nel 1990, cui si aggiungeranno in un fortunato contagio i connazionali David Grossman e il compianto Amos Oz.

A consolidare la parabola di Yehoshua è il riverbero delle notizie sul conflitto israelo-palestinese, che converge sulle sue pagine un interesse documentario prima ancora che letterario. La pubblicazione a distanza ravvicinata dei suoi capolavori (datati anni prima) schiaccia la lettura sul presente. Faenza nel trarre un film da L’amante, anziché scegliere lo sfondo storico originale della Guerra del Kippur del 1973, lo ambienta tre lustri più tardi. Nel romanzo il proprietario di un’officina e un’insegnante di francese ritrovano un equilibrio quando lei comincia a tradirlo. Quando l’amante scompare, il marito si prodiga per cercarlo al fine di tenere in piedi il matrimonio. Storia che per Yehoshua vale come una dichiarazione di poetica di tutte le sue successive.

Privato e pubblico non sono mai distinti, intrecciati in una tensione etica che non lascia scampo (ne Il responsabile delle risorse umane un funzionario di un’azienda è costretto a occuparsi di una sua anonima dipendente vittima di un attentato). È la famiglia, esplorata in tutte le sue contraddizioni, il movente creativo. I rapporti coniugali e filiali sono esaminati come in laboratorio (con uno scavo psicologico finissimo, debitore della moglie Rivka, psicoanalista scomparsa nel 2016) e osservati attraverso la lente di un microscopio svelano i movimenti della società israeliana.

Le trame sono emblematiche. Un divorzio tardivo: un professore che ha abbandonato i propri cari in Israele per rifarsi una vita negli Usa ritorna in patria per firmare le carte del divorzio. Cinque stagioni: un impiegato statale dopo la morte della moglie tenta invano di superare la sua condizione di vedovo. Yehoshua distilla uno stile raffinato, racconta con continui cambi di prospettiva, mutuando da Faulkner la moltiplicazione delle voci. Il signor Mani – una sorta di Odissea ebraica che insegue cinque generazioni della famiglia Mani – è costruito con la tecnica del dialogo mancante, ovvero cinque conversazioni tra due interlocutori, delle quali sono trascritte solo le risposte del primo. La sposa liberata, fondativo per ricerca linguistica e identità nazionale come i nostri Promessi sposi, ha al centro un professore di storia mediorientale ossessionato dal matrimonio fallito del figlio. Vuole scoprirne le ragioni inseguendo l’ex nuora, aiutato dai suoi amici arabi. Un’evidente allegoria del destino di due popoli costretti alla convivenza.

Yehoshua, laico per formazione, si batte da anni per una convivenza pacifica con i palestinesi ma in virtù del sionismo, persuaso che lo Stato di Israele garantisca agli ebrei un luogo sicuro in cui vivere, un diritto inalienabile perché originato da un’esistenza in pericolo. Nel suo ultimo La figlia unica, in libreria per Einaudi, ambientato in Italia, il pretesto drammaturgico è singolare: Rachele, dodicenne erede di una famiglia di avvocati ebrei, deve rinunciare al ruolo della Madonna nella recita natalizia per la contrarietà del padre. Un morbido “scontro di civiltà” tra la diaspora ebraica e la cultura cattolica dove ancora una volta Yehoshua mostra la fatica e la bellezza di preservare la propria identità in comunione con le altre. Rachele, al capezzale del padre, nel parafrasare la nascita di Gesù, lo rassicura affermando che per lei a venire al mondo non è un altro Dio, ma un fratello capace di starle accanto.

Ispirato da Barthes, il dizionario amoroso del giallo di Lemaitre (appena 8 gli italiani)

Solo uno scrittore geniale come Pierre Lemaitre poteva compilare un dizionario del giallo ispirandosi a Roland Barthes e ai Frammenti di un discorso amoroso. “È dunque un innamorato che parla e che dice…”. E così uno dei principi transalpini del polar si è cimentato con una fatica enciclopedica nel vero senso del termine. Ovviamente a modo suo. Lemaitre è andato a naso, soprattutto in base alle sue preferenze. Tra gli italiani, fa piacere notarlo, rende omaggio al papà del giallo sociale e politico: Loriano Macchiavelli e al suo Sarti Antonio di Bologna, “poliziotto disilluso e caffeinomane”. Gli altri maestri di casa nostra presenti sono: Massimo Carlotto, Giancarlo De Cataldo, Marcello Fois, Fruttero & Lucentini, Carlo Lucarelli, Giorgio Scerbanenco.

Il dizionario gioca spesso con l’atavica questione del giallo come surrogato letterario di rango minore. C’è posto per entrambe le tesi. Dalla voce dedicata a Balzac: “L’elaborazione di una genealogia del giallo è sempre stata fonte di dibattito. Chi tra Sofocle, Shakespeare, Voltaire, Edgar Allan Poe ha il privilegio di essere l’iniziatore?”. Ed ecco invece alcune righe da quella di Simenon: “Simenon aveva ricevuto da Colette un consiglio d’oro: ‘Prima di tutto, niente letteratura!’. Quando gli chiedevano di definire il suo stile, rispondeva: ‘Piove’. Anche se l’aneddoto è apocrifo, è un approccio che adoro. Anch’io, quando ho bisogno che Jean apra una porta, di solito scrivo: ‘Jean aprì la porta’”. Elementare e illuminante. Quello che proprio non sopporta, Lemaitre, è il fenomeno del giallo nordico. Ha le sue ragioni laddove oggi “lo spazio dedicato alla vita privata dei personaggi è aumentato a spese delle trama”. Agatha Christie, infine. E l’accusa di aver rivoluzionato il giallo in modo sleale con L’assassinio di Roger Ackroyd. Anche Leonardo Sciascia intervenne a suo tempo nel dibattito. Ma la “assolse”.

 

Il giallo secondo me

Pierre Lemaitre

Pagine: 756

Prezzo: 24

Editore: Mondadori

“Io, una donna-oggetto nata per dare piacere”

Questa non è una storia d’amore e neppure di non amore. Atti di sottomissione (Atti di disperazione è il titolo originale), esordio dell’irlandese classe 1990 Megan Nolan (finalmente una voce alternativa all’ormai vip Sally Rooney), è piuttosto una confessione in prima persona tanto sincera quanto cruda su cosa significhi disgustare se stesse al punto di credere di non meritare amore ma non poter evitare di chiederne. Farlo soprattutto attraverso il corpo: offerto per sentirsi vere e vive, leso e ferito (da tagli, digiuni e abbuffate, droga e alcol), sacrificato, abusato.

Questo è un viaggio che può stordire o far sentire a casa. La protagonista senza nome (la narrazione è autobiografica ma non si nota perché non è ombelicale) di quello che è già un “piccolo” caso editoriale vorrebbe per una volta provare un desiderio di cui poter dire “è solo mio”, che non abbia a che fare con gli uomini, con quanto accaduto in passato con loro. Vorrebbe smettere di credere che l’amore sia “la grande consolazione” ma non le riesce e, senza il sesso, “accedere ai modi di stare al mondo che mi procurano sollievo e gioia” è impossibile. L’incontro cardine è in quel di Dublino col bel Ciaran, critico d’arte danese radical chic. Per lui, narcisista patentato, si ridurrà a una nullità oscillando tra euforia e autodistruzione, finta calma e rabbia viva. “Sarei stata completamente vuota e immobile se era quello che voleva, o rumorosa quanto bastava per riempire i suoi silenzi”. Non è lui a chiederglielo, è lei a volerlo. La relazione, un lungo, tossico e fallimentare tentativo di colmare un abisso interiore e far sì che lui si arrenda a lei, “amandola in modo assoluto o dominandola in modo dichiarato”, fa franare un terreno già smottato. Cercando approvazione in Ciaran, lei conferma sia una coazione a ripetere sia paure che dovrebbe esorcizzare come essere un “oggetto costruito per procurare piaceri basici ma non per essere guardato con piacere, non per essere bello o puro”. Sapere d’inanellare un atto di sottomissione dietro l’altro – “Tutte le cose che mi eccitano, che mi rendono fisica, vorace e forte come un uomo, riguardano cose che mi vengono fatte. Raramente sono cose che faccio io” – non la fa però scadere nel vittimismo né nella richiesta di empatia o saggi consigli.

Nolan fa scricchiolare i cliché sul desiderio femminile ma non punta mai il dito contro gli uomini. “Il potere che gli uomini hanno avuto su di me, più che una ragione per odiarli, mi sembra un dato di fatto. Non avrei potuto rendermi immune da questo loro potere con un po’ di forza di volontà, educazione e orgoglio, in questo nuovo secolo? Certo che avrei potuto, ma non l’ho fatto, e questa, la mia storia, è la storia di questo atto mancato”. Trasferitasi ad Atene, a una manciata di anni da quegli eventi, intenta a capire come riempire lo spazio vuoto lasciato dalla momentanea assenza di pensiero sul binomio sesso-amore, scrive: “Se voglio raccontare qualcosa della mia sofferenza, sento la mia voce entrare nel canone delle Donne Che Sono State Ferite, diventando sconosciuta, non-mia. Non posso, e nemmeno voglio, fare in modo di essere capita”. Questo sì, la non necessità di esser comprese ma solo quella di dirsi, che è un atto di sovversione.

 

Atti di sottomissione

Megan Nolan

Pagine: 288

Prezzo: 19

Editore: NN

“Povero Amleto”: finalmente un testo critico (per bambini e no) degno del Bardo

Finalmente un commento critico all’Amleto che non puzzi di psicoanalisi o filosofia della domenica. L’hanno scritto e illustrato – coi disegnini è tutto più chiaro – Barbro Lindgren e Anna Höglund, autrici svedesi, ma la Danimarca la capiscono benissimo. In sole trenta pagine osano dire quel che molti trascurano, per dolo o ignoranza, e soprattutto lo dicono ai bambini, ma non quelli paurosi delle Storie della buonanotte: Povero Amleto, sì, ma è un assassino e per mano, o colpa, o concorso di colpa suoi, alla fine sono “tutti morti. Buona nanna!”.

Fresco di stampa con Iperborea (traduzione di Giola Spairani; pagine 32, 16 euro), Titta Hamlet è un gioiello di ironia e crudeltà, intelligenza e sintesi: camuffata sotto un finto idioma infantile (“Amleto non contento. Mamma di Amleto cattiva… Altro papà supercattivo”) e personaggi animaleschi tra topi, lepri, agnelli e volpi, l’operina svedese sussume in 14 tavole più didascalie l’opera più maestosa e magniloquente della letteratura teatrale.

Semplicità è qui il contrario di semplicismo: Amleto non è il dramma interiore di un romantico e malinconico, giovane e fragile filosofo a tempo perso; Amleto è la tragedia di almeno due famiglie accecate e ammazzate dalle vendette reciproche, dall’odio, dall’invidia, dall’inganno. Alla fine del testo, giacciono quattro cadaveri in scena – Amleto, Laerte, Claudio e Gertrude –, a cui vanno sommati Ofelia, suo padre Polonio (“Ops, pardon, l’avevo preso per un topo”, si giustifica il principino di questa versione, e scappa pure un sorriso: irresistibile), gli amici serpentini Rosencrantz e Guildenstern e, comunque, il re Amleto, da cui tutto ebbe inizio. Quindi, Povero Amleto, sì, orfano di padre e con una madre frivola, ma soprattutto, poveri tutti gli altri.

 

Brook e Prospero, liberi dalla Tempesta

È inutile cercare l’isola di Prospero. Persino sulle macchie bianche delle vecchie carte geografiche è impossibile rintracciarla. L’isola, nell’ultima opera di Shakespeare e nell’ultima rappresentazione che ne ha fatto Peter Brook, Tempest Project, è il mondo, o la scena. “In un sol viaggio Prospero in una povera isola (trovò) il suo ducato, e noi tutti abbiam ritrovato noi stessi, quando nessuno era più se stesso”, recita il testo considerato da molti il testamento del più grande drammaturgo di sempre.

Il teatro di Peter Brook è indissociabile da Shakespeare. E Brook, 95 anni, è tornato, dopo la pandemia e in prima assoluta, per presentare la sua ricerca – adattata e diretta assieme a Marie-Hélène Estienne, più della sua ombra, negli ultimi 40 anni di scena – sulla Tempesta di William Shakespeare. Lo spettacolo è rimasto bloccato venti mesi, causa Covid, e ha così debuttato l’8 novembre a Solomeo, in Italia, nel “teatro dell’uomo” di Brunello Cucinelli che, “a cospetto di quello della natura”, aveva già ospitato il regista inglese in passato. Lui, Brook, non c’era. Ha chiamato alla fine della rappresentazione, dopo quell’ora e un quarto di messa in scena essenziale e di copione sfrondato a cui negli anni ci ha abituato. Voleva sentire, in “viva voce”, dopo tanti mesi di silenzi e sala vuota, l’applauso e il calore della risposta del pubblico: per sapere se lo spettacolo “è piaciuto, o meno”. In platea, gli occhi attenti e divertiti della sua sodale Estienne, venuta appositamente da Parigi, dal Bouffes du Nord, per seguire la loro compagnia di attori internazionali (Ery Nzaramba-Prospero in testa, ma da segnalare pure i due bravissimi fratelli gemelli Fabio e Luca Maniglio).

Sulla scena non c’è più il tappeto di sabbia dei precedenti adattamenti di Brook de La Tempesta, ma sempre più un concentrato di natura. Qualche tronco, sparso qua e là, qualche canna di bambù. Qui, le colpe sono state condonate, i delitti perdonati. La magia e la follia: dissipate. Le passioni, spente, gli elementi placati. La tempesta, ora, è già passata. E la storia di Prospero come storia shakespeariana del mondo – ovvero lotta per il potere, sopraffazione, congiura – è distante. Si è già consumata. O, meglio, s’è congedata (come un po’ sembra preannunciare per sé lo stesso regista). Una sola parola riecheggia, costante. Detta anche la battuta finale: “Sono libero”. La libertà di Calibano, di Ariel, di Prospero.

E allora se è vero quanto scrivono Brook-Estienne, se “la Tempesta è un enigma, è una favola in cui nulla sembra poter essere preso alla lettera e se rimani in superficie la sua qualità nascosta ti sfugge”, la chiave è ancora una volta affidata all’attore e al suo personaggio. Perché per poter mettere in scena Shakespeare, specie questo Shakespeare, bisogna “dimenticare che ci sia mai stato un uomo con questo nome”, disse Brook alla sua compagnia di allora, qualche decina d’anni fa. “E pensare che la tua responsabilità, in quanto attore, è quella di dar vita a un essere umano, a un essere umano travolto dal flusso degli eventi. Le parole non sono parole di un testo, ma pronunciate… E, così convinti, sorge in noi il vivo desidero di conoscere questa persona eccezionale”. La rappresentazione sta dunque per terminare. Per l’ultima volta Prospero chiama Ariel e traccia il cerchio magico. Abbandona i suoi poteri magici, è pronto a tornare. E, con lui, la storia stessa. Al punto di partenza. Lo spettacolo è finito. Resta da capire se, ancora una volta, ricomincerà daccapo.

 

Tempest project

Brook – Estienne

in tour in Francia e dal 10 al 13.02 al Teatro Goldoni di Venezia

Il meraviglioso mondo di Wes e la nostalgia per i giornali

Coralità di adorabili loser, formidabile mix di arguzia & innocenza, cifra linguistica e stilistica inconfondibili. Così è, da sempre, il genio di Wes Anderson che oggi, però, necessita di precauzioni per evitare che quel “fa sempre lo stesso film” lo trasformi in un autore le cui strabilianti invenzioni degradano in convenzioni.

Ecco perché ogni giudizio affrettato su The French Dispatch va “protetto” invocando questo criterio, fermo restante il sacro diritto ad apprezzare o meno il film, già concorrente all’ultimo Festival di Cannes e nelle sale da due giorni.

Il texano più “vintage” ed europeo della storia del cinema è un mago nella composizione dello spazio, un architetto di poesie, un’inesauribile fonte di idee visive che appaiono ripetitive solo a coloro a cui sfugge il concetto di “Visione di mondo coerente in sé”. In tal senso le fiabe del suo universo parallelo, cioè la filmografia intesa come “opera”, non possono che richiamarsi e autocitarsi esattamente come fanno Tarantino, Allen, Sorrentino e, prima di loro, da Fellini in giù.

Il problema per Anderson, semmai, è che la sua estetica così fortemente “inquadrata” non sempre può generare solo incanti per lo sguardo, da I Tenenbaum allo “zweigano” The Grand Budapest Hotel passando per Il treno per Darjeeling e Fantastic Mr Fox. L’unica fragilità, se tale può dirsi, di The French Dispatch è l’eccessivo schematismo su cui è edificato questo tenero e sofisticato omaggio alla bilateralità provinciale, al di qua e al di là dell’Atlantico, dove l’umanità perde l’innocenza ma non la sua purezza (anche quando trattasi di villain) dentro all’elaborazione di un lutto a più livelli, tanto del fondatore e direttore della rivista che dà il titolo al film, quanto del mondo analogico, la “romantica carta”, pressoché in estinzione.

Strutturato col perfezionismo di uno scacchista, il film informa come episodi distinti i servizi giornalistici che compongono il numero commemorativo di The French Dispatch dedicato appunto al suo direttore, interpretato dalla maschera-feticcio Bill Murray. Ogni storia procede distinta eppure organica nel collage che, oltre a celebrare The New Yorker e la Francia ormai patria del regista, è un inno al cinema dei generi e degli Autori.

Zerocalcare, voci e “strappi lungo i bordi”: eccellente

Creata, scritta, diretta – e vociata – da Zerocalcare, Strappare lungo i bordi è una serie animata in sei episodi da quindici minuti che sarà disponibile su Netflix dal 17 novembre. Consegna al movimento e al sonoro le immagini che hanno fatto di Michele Rech un protagonista del fumetto italiano, e non, ovvero le avventure esistenziali(ste) di Zero, assistito dalla propria coscienza, l’Armadillo (voce di Valerio Mastandrea), e accompagnato dagli amici di sempre Secco e Sarah.

Essendone in prima persona singolare e poliedrica artefice Rech stesso, la differenza potrebbe perdersi, ma è sensibile: più che originale tout court la serie pare una trasposizione delle sue stripes, a partire da La profezia dell’armadillo. Michele era rimasto, ehm, insoddisfatto dell’adattamento live action diretto da Emanuele Scaringi nel 2018, Strappare lungo i bordi è in fondo l’adattamento che avrebbe voluto, complice il controllo pressoché totale su forma e sostanza garantitogli dal servizio streaming. Non c’è nessuno elemento di stupore nei sei episodi, ma non è detto sia una diminutio: il microcosmo di Zero si rivela con calma e agio, dispiegando sullo schermo riflessioni, gag, citazioni con libertà sintattica e rabdomanzia semantica. Maître à penser della generazione Y, e non solo quella, Rech passa in rassegna divani occupati e bagni pubblici, idiosincrasie relazionali e gelati in quota Secco, ripetizioni e futuro incerto, potendo contare su un impianto audiovisivo più che dignitoso fornito da Movimenti Production in collaborazione con Bao Publishing. In una cornice naïf e pop, tra tinte antagoniste e viraggi punk, molto è mosso dall’amore, non dichiarato, di Alice per Zero, che non ricambia perché nemmeno ne è avvertito: un rapporto tardoadolescenziale in cui l’incomunicabilità invero comunica tantissimo, delle difficoltà del vivere, anzi, sopravvivere – in primis a se stessi – qui e ora. C’è empatia, sentimento, introspezione con una profondità e insieme una sprezzatura aliene al panorama cinematografico-seriale nazionale: si sta – letteralmente – a cavallo tra BoJack Horseman, la fuoriserie creata da Raphael Bob- Waksberg per Netflix, e back in the days Daria, la fortunata sitcom animata andata in onda su Mtv tra il 1998 e il 2002. A parte le peculiarità stilistiche, temperamentali e motivazionali di siffatti “modelli”, una differenza dà non tanto nell’occhio quanto nell’orecchio: la spiccata romanità di Calcare, sullo schermo ancor più massiva che sulla carta. Non che uno si debba snaturare, ma questa indicazione geografica tipicissima può pregiudicare, almeno nella piena comprensione del valore artistico, la diffusione oltre i nostri confini. A Netflix ne saranno sicuramente consapevoli, del resto il gioco de noantri vale la candela: detto che ci vuole pochissimo, Strappare lungo i bordi è una delle cose migliori che il servizio abbia fatto in Italia. E non solo serialmente.

 

Addio Galeazzi, giornalista capace di remare controcorrente

Giampiero Galeazzi, “Bisteccone” per gli amici (cioè per tutti), era uno che razzolava meglio di come predicava, e non è che predicasse male. Aveva iniziato nel modo giusto per un cronista sportivo, facendo sport lui stesso, campione italiano di canottaggio parecchi anni prima di essere assunto a RadioRai. Il canottaggio è una disciplina umile e primordiale in cui si deve remare con le braccia, con il cuore, con la testa, con le corde vocali. Galeazzi remava, remava, sapendo che qualunque cosa gli fosse capitata di fare, la sua vera vocazione sarebbe rimasta la pagaia. Nel 1988 rema insieme ai Fratelli Abbagnale nella telecronaca divenuta virale ieri mattina, un attimo dopo la notizia della sua scomparsa, li accompagna materialmente all’oro olimpico di Seul 1988: “Era come se fossi in barca con loro, era un ‘tre con’. Poi ho collassato”.

Negli anni Novanta, pur senza dimenticare i remi, passa al timone. Gli viene affidata la conduzione di Novantesimo minuto; dopo la scomparsa di Paolo Valenti, e senza più l’esclusiva del gol, la testata di culto aveva bisogno di un mattatore per compensare il declino delle macchiette, i mitologici inviati dalle sedi regionali. Bisteccone si rivela l’uomo giusto, diventa l’uomo della domenica in perfetta simbiosi con Mara Venier; il calcio che si allea con il varietà un attimo prima di diventare un varietà per conto suo. A quel punto, Galeazzi poteva diventare uno dei tanti vip che vivono in tv; invece sceglie di rimanere un giornalista alla sua maniera: remando, remando, continuando a dare al giornalismo quell’umanità che già allora cominciava a scarseggiare. Non gli piaceva stare in tribuna d’onore, il suo posto o era in campo, o nell’anello dei popolari, a sgolarsi. Ieri se ne è andato in silenzio, e sa il cielo quanto deve essergli costato.

“Noi nella notte tenebricosa sotto una luna focacciosa”

Supponiamo dunque che la notte sia una grandissima pentola; ne verrà, in un primo ordine di immagini, che noi in essa stiamo addentro, e dunque siamo cibo: crudo, per certo, ma che per giaculatoria di millenni va cuocendosi, e insaporendosi, e dorandosi a cattivare appetiti; e potremo dire essere cibo variamente lavorato: e forse le foglie d’ottobre quando croccano, saranno prefigura dell’universo cotto, ma per essere fragili e rade, in tanta acerbità di oggetti, non durano e si disfano. E allora diremo: essendo noi cibo, commisto di verdure e carni mobili, di che ci saleremo? E qui vi è copia di estrose risposte: salati da meteoriti, dirà taluno, che piovono dal cielo, che ha nelle stelle i buchetti della capovolta saliera; e aggiungerà: di là dalla pentolissima, per certo una gran mano scuote e arrovescia su di noi la celeste pepaiola, che avrà forse forami più lati e radi: che noi diciam pianeti; altre ilarità: ci è sale la deiezione degli angeli, che scende su di noi come rugiada, o piova, o polvere cosmica; o non sarà sale le rocce che inabitiamo, messe qui a sciogliersi, con noi infitti nel mezzo, a quelle inutilissime e pittoresche? E come saremo noi rimestati? Coi tremuoti, inventa uno, che sarebbero sommovimenti che la gran massaia dà al pianeta, per meglio rassettarvi le pietanze.

Ma seguiamo quest’altra invenzione: chi dirà essere la notte codesta massaia, potrà aggiungere: essa è tonda, pingue, o piuttosto paffuta; e infatti, come è costume delle cuoche, ci va assaggiando, per tastar la nostra cottura; e i morti notturni saranno i deliziosi bocconcini della oscura risdora; che, quelli, inghiotte, ma altri risputa, come crudi e indizi di crudità, e sono i suoi sputi le stelle filanti agostane; a chi dirà perché agostane? si potrà ribattere: che la notte allora attizza i suoi calori sul fornello del mondo, e spera di più in più alacre consumazione dei cibi, e tenta, impaziente, e spazientita s’adira… Laggiù, nel fondo della pentola, già si gonfiano le crêpes, i soffioni ben cotti, e noi ci stiamo avvicinando, e un giorno noi splenderemo della medesima perfetta cottura sul fondo di essa pentola. O anche: il cibo che si prepara vuole spezie e sughi, e stelle e pianeti e la focacciosa luna sono dosi, lieviti, pepizie, che per lo spazio ci vengono addosso a insaporirci dei loro esiziali splendori; e che il buon sapore vuole siffatte manipolazioni eteree… Se la notte è pentola, essa è certamente la più congrua a nostri modi e estri: e l’esser tutta tonda vuol dire che ci vuole tutti equamente cotti, e forse che vuol di noi fare salsa o purea o finanziera o cibreino o crema o budino o zuccotto; e si dirà: non pentola, ma forma, quale ospita e imbraga in mentite, effimere sculture zabaglionati biscotti o domestiche cioccolate; tutta la gran confusione del nostro mascalzonesco coesistere cibesco, il mangiarume untume, l’umanesimo vanesio e incommestibile, vengono travasati piamente in quella gran forma negricante, e le stelle vi stanno a mo’ di canditi, di zucche, di zibibbi illuminosi, da sovrapporsi alla nostra canaglia irsuta, ridotta a bene ordinata calotta, liscia e idonea ad ospitare quelle celesti letizie. E sarà la luna la ciliegia per cui s’azzuffano gli infanti…

Come recipiente, la notte tenebricosa terrà forse più del tegame, e la nostra inesatta tondità mieterà la nipponica solarità dell’ovo: indizio ovvio che ci troviamo coinvolti in un solstizio di magro, che gli dei non hanno riscosso lo stipendio, o che, a punizione dei nostri peccati, essi ci danno prova di dedizione e umiltà cibandosi di noi a mo’ di uovo, anziché di sapida cotoletta alla Bismarck…