Joe Biden vede Xi Jinping: Usa e Cina si parlano, ma il meeting è virtuale

Lunedì prossimo il presidente Joe Biden, come ha confermato la Casa Bianca, avrà un incontro virtuale con l’omologo cinese Xi Jinping. Washington si mantiene vaga sui temi, il confronto servirà a “gestire responsabilmente competizione e interessi comuni”. Dietro la diplomazia ci sono però questioni urgenti, a iniziare dal destino di Taiwan.

 

Mai più profughi. Quattro bambini contro il destino

Un miliardo e mezzo. Sono, secondo i dati Unesco, gli studenti colpiti dall’impatto del Covid-19 sull’istruzione, ragazzi e ragazze le cui scuole o università sono state chiuse, le lezioni cancellate o ridotte per effetto della pandemia, e le conseguenze di questo vacuum educativo sono ancora tutte da misurare.

Ma l’impatto maggiore, scrive l’Unhcr, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, è stato proprio sui minori costretti a lasciare il proprio Paese da guerre, crisi economiche o politiche, carestie. La popolazione globale ‘dislocata’ è oggi di oltre 82 milioni di persone, il doppio che nel 2020 e il numero più alto mai raggiunto. Di queste, secondo gli ultimi dati raccolti in 40 Paesi, quasi 13 milioni sono in età scolare. Secondo Unhcr, fra il 2018 e il 2020 le nascite in condizione di rifugiato sono state quasi un milione.

I bambini, si legge nel rapporto Global Trends Forced Displacement del 2020, sono il 30% della popolazione globale, ma il 42% di quella displaced, sfollata. Circa il 68% dei bambini rifugiati ricevono qualche forma di scolarizzazione alle elementari, ma la percentuale è di meno del 25% alle superiori, quando sui minori cresce la pressione perché trovino un lavoro, e di uno su 20 all’università. Senza istruzione superiore, svanisce qualsiasi prospettiva di miglioramento delle condizioni di vita: la finestra di opportunità si chiude e questi ragazzi e ragazze entrano in un ciclo di povertà e sfruttamento da cui è rarissimo uscire. Eppure meno del 2% degli aiuti umanitari globali vanno in istruzione.

Sono dati che diventano storie nel documentario Awlad, “Bambini”, scritto e girato da Ane Irazabal Elkorobarrutia e da Cosimo Caridi (collaboratore del Fatto Quotidiano) e prodotto dalla cooperativa di giornalisti Muzungu Producciones. Cercando l’equilibrio tra empatia e rigore da cronisti, Awlad segue il percorso scolastico di quattro minori originari dei tre Paesi da cui fugge la maggioranza dei rifugiati: Siria, Venezuela, Afghanistan. I loro destini sono conseguenza delle circostanze economiche e culturali di partenza, ma soprattutto dell’efficacia delle politiche di accoglienza nei Paesi di destinazione. Mohammed è a Berlino, va regolarmente a scuola, vive in un bell’appartamento, il padre siriano ha aperto un ristorante e sta pensando di aprirne un altro, festeggia il compleanno con 20 parenti, riceve bei regali. Hadi, fuggito con i genitori e due sorelle, di cui una disabile, dalla crisi venezuelana, è nei Paesi Baschi, ben integrato in una piccola comunità, ma la sua sistemazione non è definitiva: il film mostra gli ultimi giorni nella comunità di accoglienza, il saluto commovente ai compagni di scuola, l’inizio incerto di una nuova vita a San Sebastian. Per le due ragazze, Muzhda e Aya, il futuro è molto più incerto. La prima, adolescente, è bloccata con quattro sorelle e i genitori, afghani ismaeliti fuggiti dai Talebani, ai margini della ‘Giungla’, il campo profughi dell’isola di Samos. Ambizioni e talenti bloccati dalla difficoltà, nell’attesa dei documenti per trasferirsi ad Atene, di accedere a una scuola pubblica già sovraccarica. Però perfeziona il suo inglese frequentando Mazí, la scuola dell’organizzazione indipendente “Still I rise” che offre istruzione superiore di emergenza a minori dagli 11 ai 17 anni rifugiati in Grecia e Siria e ha fondato scuole internazionali anche in Turchia, Kenya, Sudamerica e Italia.

Ancora più indefinito il destino di Aya, 8 anni, siriana di Deraa, accolta con la famiglia nel campo di Zaatari, il primo per rifugiati siriani aperto dall’Onu in Giordania. La sorella Reem, 21 anni, sposata contro la sua volontà a 13 anni e subito rimasta vedova, ha frequentato tutti i corsi disponibili a Zaatari e cerca un’emancipazione nel lavoro all’ospedale del campo, mentre resiste alle pressioni della famiglia perché si risposi. Per Aya vuole una vita migliore: in una delle loro passeggiate la invita a scegliere se diventare medico o insegnante, alternative alla vita sospesa da rifugiate. Ma a Zataari la scuola delle Nazioni Unite non è riconosciuta dal governo giordano e non basta per tutti. Con Reem al lavoro, la madre trattiene Aya in casa perché l’aiuti nelle faccende domestiche.

Il film, girato durante l’Eid (la festa del sacrificio), si chiude con la bambina che progetta con l’inseparabile amica Sawsan, di tornare a scuola a giorni alterni dopo le vacanze. Unico spiraglio di speranza, lo spirito combattivo di Aya che assieme a Sawsan spaventa i maschietti che le seguono minacciandoli di cacciarli a pietrate.

Crisi al confine: stop ai voli che portano i disperati

Nuova puntata delle tensioni al confine tra Polonia e Bielorussia dopo che Minsk ha scaricato migliaia di profughi fatti arrivare con voli dal Medio Oriente. Alle truppe polacche ieri si sono aggiunte delle pattuglie inglesi, inviate da Londra più in qualità di osservatrici che di effettiva forza d’urto. La Turchia, tappa obbligata per chi fugge da quella parte del mondo in guerra, era fino a ieri era la soglia di partenza verso la Capitale bielorussa. Ma Ankara adesso impone lo stop a chi proviene da Iraq, Yemen e Siria. Da Baghdad, invece, il ministero degli Esteri assicura che avvierà il rimpatrio dei cittadini iracheni rimasti intrappolati tra il filo spinato dei due Stati. I migranti mettono in atto azioni disperate, e sfidando temperature siderali, almeno un centinaio di siriani e afghani è riuscito ad arrivare in Germania. Dall’inizio dell’anno, attraversando i boschi fino allo Stato della Merkel, sono riuscite a salvarsi quasi 10mila persone. La Commissione europea intanto – ha confermato ieri la portavoce Dana Spinant – sta stilando una lista nera delle compagnie aeree che favoriscono il traffico di esseri umani e assecondano la strategia del presidente Lukashenko, che usa i migranti come “arma ibrida” per fare pressione sull’Unione. Il Consiglio affari esteri, contro il suo regime, è pronto a varare lunedì prossimo un nuovo pacchetto di sanzioni. La Spinant ha anche aggiunto che l’Unione “non si fa minacciare” da Lukashenko, che due giorni fa ha intimato il taglio delle forniture di gas. Come Bruxelles, anche Minsk, non accetta gli ultimatum: il ministro della Difesa, Viktor Khrenin, ha assicurato che la Bielorussia dispone della forza necessaria per difendere il suo confine grazie “al suo alleato chiave, la Russia”. Da un fronte ad un altro. Nessuna invasione assicura il Cremlino: né in Ucraina, né in Europa. La Federazione Russa non ammassa le sue truppe ai confini di Kiev per alimentare il conflitto in Donbas, né soffia sulla crisi migratoria per aggravare l’emergenza in Polonia. Lo ha detto Dmitry Polyanskiy, vice ambasciatore alle Nazioni Unite, interrogato sugli aerei da combattimento recentemente avvistati nei cieli bielorussi: i caccia di Mosca – questa è la versione ufficiale – sono una risposta al massiccio dispiegamento delle truppe di Varsavia lungo la frontiera che adesso allarma l’intera Unione. Resta il fatto che anche gli Usa sono preoccupati per i mobimenti di truppe russe nel Donbas.

Libia, voto tra gli scongiuri. I mercenari sono ancora lì

Sotto il cielo plumbeo di Parigi parrebbe scoppiato il sereno tra l’Italia e la Francia sulla road map per stabilizzare la Libia. Il premier Mario Draghi, co-presidente con la cancelliera Angela Merkel della conferenza internazionale indetta da Emmanuel Macron, che ha riunito i leader del Paese nordafricano e delle nazioni maggiormente coinvolte nel teatro libico, ha mostrato infatti unità d’intenti con il capo dell’Eliseo. Ma l’iniziativa della Francia – a lungo sostenitrice del generale Khalifa Haftar, rais della Cirenaica, assieme a Egitto, Emirati Arabi e Russia – è stata azzoppata dalla mancata adesione della Turchia. Dalla scoppio della seconda guerra civile nel 2014, Ankara è diventata lo sponsor più pesante del governo di Tripoli, riconosciuto dall’Onu assieme all’Italia e agli Stati Uniti, dopo avergli inviato istruttori militari, migliaia di miliziani e armi sofisticate.

Nella capitale francese, dove erano presenti tra gli altri la vice presidente degli Usa, Khamala Harris, la cancelliera Angela Merkel, il presidente egiziano al-Sisi, i rappresentanti dell’Unione europea e il ministro degli Esteri russo Lavrov, la comunità internazionale ha lanciato un appello per elezioni “libere” e “credibili” il 24 dicembre e minacciato sanzioni contro chi ostacolerà il processo elettorale e gli Stati che manterranno le proprie milizie sul campo. Motivo per cui il presidente turco Erdogan ha disertato l’incontro. In Cirenaica, nell’est del Paese, invece ci sono ancora i miliziani dell’agenzia privata di sicurezza russa Wagner, vicina al Cremlino per mantenere in vita politicamente l’indebolito Haftar. Il Segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, ha affermato in un videomessaggio che la presenza di elementi stranieri negli affari politici e di sicurezza interni della Libia desta una continua e profonda preoccupazione. Il premier Draghi ha affermato che “la piena attuazione dell’accordo sul cessate il fuoco del 23 ottobre 2020 resta un obiettivo cardine”. Secondo il nostro primo ministro uno dei quattro pilastri per la stabilizzazione è il tema dei diritti umani da gestire tutti assieme, un altro è l’approvazione di un bilancio nazionale unico. “La presenza qui dei due co-presidenti libici, Menfi e Dabaiba, significa che hanno fatto proprio il percorso verso la stabilità”, ha concluso Draghi. Il problema è che intanto il premier Dbeibah del governo di unità nazionale ad interim si è già auto sconfessato dopo aver disatteso la promessa di non correre per le Presidenziali. Il secondo ostacolo, grosso come una montagna, è che le “istituzioni” e i rappresentanti della società civile libica non riescono a mettersi d’accordo sulla legge elettorale né sulla calendarizzazione delle consultazioni, ovvero se celebrare prima le Presidenziali o le Legislative.

I vertici dell’operazione “Vulcano di rabbia” dell’esercito libico nazionale, che ha sconfitto le forze di Haftar nella guerra mossa contro Tripoli tra il 2019 e il 2020, hanno dichiarato di respingere le leggi elettorali messe a punto unilateralmente da Aguilah Saleh, il presidente del Parlamento basato nella città orientale di Tobruk perché non sono incardinate su alcun consenso politico, bensì decise d’imperio. Pur affermando che non rifiutano le elezioni come principio, i militari sostengono che tenerle senza una costituzione o una base costituzionale è un viatico per legittimare una nuova dittatura, non importa quali saranno i risultati. Gli alti dirigenti hanno anche accusato il capo dell’Alta Commissione elettorale nazionale e i membri della Camera dei rappresentanti di essere “complici” di Saleh. All’interno della compagine parlamentare, si è peraltro costituto un gruppo di 49 membri – tra cui il primo vicepresidente Fawzi al-Nuwairi – che ritengono fondamentale che le elezioni presidenziali debbano svolgersi su una base costituzionale concordata, chiedendo, di conseguenza, una revisione delle leggi elettorali presidenziali e legislative. Anche l’Alto Consiglio di Stato libico, una sorta di Senato, ha rinnovato la propria contrarietà alle leggi elettorali per violazione della dichiarazione costituzionale affermando che rifiutare le leggi non significa tuttavia rifiutare le elezioni di dicembre. Non è d’accordo su queste leggi neanche la Tripolitanian Society in quanto non sono state approvate dal quorum richiesto, per non parlare del fatto che non c’è stato un referendum popolare in merito.

“Case vendute e cibo alla Caritas. E a gennaio finisce pure la Cassa”

Il 10 gennaio saranno quattro anni. Proprio quel giorno di inizio 2018 arrivò la lettera di licenziamento collettivo per i 497 lavoratori dello stabilimento Embraco di Riva presso Chieri, nel torinese. Non bastasse l’anniversario dell’inizio di un incubo, per i 391 rimasti nel limbo di una nuova partenza che non arriva mai, il 22 gennaio 2022 finisce pure la cassa integrazione straordinaria. È la fame. È per questo che i dipendenti ex Embraco hanno scritto (e tentato di consegnare) una lunga lettera al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, ieri in visita a Torino: l’ha ritirata il prefetto Raffaele Ruberto e si spera che il capo dello Stato l’abbia letta, perché è istruttiva e dignitosa e giusta.

C’è l’intera storia della fabbrica, in quella lettera, che è anche un pezzo di storia dell’industria italiana e la plastica rappresentazione di cosa significa stare dal lato sbagliato della globalizzazione, delle filiere globali del valore, delle delocalizzazioni che il governo continua a ignorare (Gkn, SaGa Coffee sono solo le ultime due) nascondendo il timido decreto predisposto in estate. Fondata negli anni Settanta, la fabbrica di Riva presso Chieri va così bene che attira l’attenzione del colosso Whirlpool, che la compra tramite la controllata Embraco nel 1986, ed “è sempre stata considerata, anche nelle parole dell’azienda, un’eccellenza del settore per capacità, conoscenza, professionalità e qualità”. Ma più dell’eccellenza poté il profitto: dal 2004 la multinazionale Usa prova a portar via la produzione dall’Italia verso i suoi stabilimenti in Slovacchia e in Asia dove il lavoro costa meno. Da allora e per 14 anni è stata lautamente pagata dalla Repubblica per restare, finché nel 2018 anche quello non è bastato più e s’è avviata la procedura che ci ha portato a oggi: quattro anni di ammortizzatori sociali e progetti mai nemmeno partiti di re-industrializzazione (prima la filiera del fotovoltaico, ora il progetto di tornare ai compromessori), mentre Whirlpool svuotava serena l’impianto.

Ora la giostra sta per finire e i lavoratori scrivono al supremo custode della Carta repubblicana fondata sul lavoro: “Siamo le lavoratrici e i lavoratori dello stabilimento Embraco di Riva presso Chieri, 391 persone che da quattro anni stanno vivendo l’incubo di essere vittime del furto del proprio lavoro”. Trecentovantuno, l’ultima goccia nel mare delle 32mila che hanno perso il posto per la crisi dell’industria solo nel torinese: “391 famiglie sempre più disperate: da anni sopravviviamo con le poche risorse della cassa integrazione, molti hanno dovuto fare sacrifici impensabili come quello di vendere la propria abitazione, e in tanti dobbiamo ringraziare gli aiuti materiali forniti da Caritas e altre organizzazioni che si occupano di sostegno alla povertà”.

S’appellano a Mattarella queste lavoratrici e questi lavoratori, a lui “che è il capo dello Stato e il garante della nostra Costituzione: una multinazionale non può cancellare i diritti di cittadine e cittadini in questa maniera, dopo avere sfruttato tutto quello che poteva! L’assenza e l’inazione dello Stato deve finire, si ritorni ad applicare quanto scrissero i nostri Padri costituenti”. A verbale.

La manovra va in Senato 23 giorni dopo la scadenza

E alla fine il giorno è arrivato. La manovra di Bilancio approda al Senato. Il più importante testo di finanza pubblica è stato depositato ieri, 15 giorni dopo il Consiglio dei ministri che lo ha approvato e 23 dopo la scadenza per presentarlo alle Camere che la legge fissa al 20 di ottobre. Non è il record assoluto (che appartiene al 2020, in piena pandemia però) ma poco ci manca.

Come i lettori del Fatto sanno, la procedura non è una novità ma, oltre a essere assai imbarazzante, è soprattutto illegittima: la legge prevede che i testi vengano messi a disposizione dei ministri giorni prima, discussi in un pre-Consiglio poi e infine approvati nella forma definitiva in Consiglio. Questo ddl Bilancio però è partito male e finito peggio. Gli uffici del Tesoro, senza una ragione apparente, sono arrivati in ritardo coi lavori preparatori del testo, consegnato ai ministri al solito qualche ora prima. Il Cdm l’ha approvato il 28 ottobre, ma da allora è sparito per due settimane, durante le quali è lievitato di 34 articoli (una cifra record, anche a non voler considerare i 20 sugli stati di previsione di spesa dei ministeri) e questo al netto dei tanti articoli completamente riscritti. Nel 2020 il Conte 2, che aveva approvato la manovra “salvo intese”, fu costretto almeno a salvare le apparenze con un secondo passaggio in Cdm. Stavolta Draghi se l’è cavata con un “è stata approvata formalmente” e tanto è bastato, nel silenzio del Quirinale.

Questo modo di legiferare produce diversi effetti collaterali, qualcuno non del tutto sgradito a Palazzo Chigi. Tra questi c’è il fatto che i tempi parlamentari per discutere la manovra vengono brutalmente compressi. Di fatto solo il Senato potrà discuterla, e a passo di carica, e certamente si finirà col solito maxi-emendamento votato in Aula con la fiducia. L’ok finale deve arrivare entro fine dicembre, il che significa che la Camera difficilmente potrà modificare questa legge, ma solo approvarla in bianco. Per evitare una sommossa, ai parlamentari viene lasciato il solito contentino del fondo per le modifiche (cosiddetto “mancia”), stavolta da 600 milioni.

L’altro effetto collaterale è quello del caos normativo, che sfocia in vere e proprie figuracce. L’ultima, per dire, riguarda il Reddito di cittadinanza: il 28 ottobre Draghi, in conferenza stampa, annuncia con orgoglio che tra le modifiche c’è quella che evita un taglio netto dell’assegno se si trova lavoro per non scoraggiare la ricerca di un impiego. Ecco, quella modifica, come ha segnalato Il Foglio, è saltata, probabilmente per ragioni di copertura. Ma le riscritture hanno riguardato tutti i capitoli più importanti, dalle pensioni (Opzione donna) ai bonus edilizi.

Su questi ultimi, peraltro, si rischia il cortocircuito normativo. Due giorni fa un Cdm convocato di fretta ha approvato un decreto che dà una stretta agli adempimenti per evitare abusi (850 milioni di euro quelli stimati dal Fisco). Problema: le nuove norme hanno mandato in tilt il sistema, non ancora preparato a sopportare il cambiamento istantaneo imposto dal decreto e l’Agenzia delle Entrate ha dovuto interrompere la trasmissione dei documenti per avere gli sconti in fattura e la cessione dei crediti. Non a caso i 5 Stelle avevano chiesto che le modifiche potessero essere discusse con un emendamento in manovra.

Mail Box

 

Manifestare in periferia per zittire la protesta

Vi scrivo a proposito dell’annunciato provvedimento che vieterà le manifestazioni nel centro città e presso tutti i “luoghi sensibili” per via della pandemia, nonché per i danni che i commercianti quantificano al 30%. Ora, a parte che un provvedimento che mischia la pandemia con i danni presunti dei commercianti (a proposito, chi ha verificato il danno reale? Non sarà come quello denunciato dalle discoteche, rivelatosi enormemente gonfiato?) fa riflettere sul vero obiettivo di tale provvedimento. A mio giudizio si sta creando un precedente pericolosissimo che, una volta approvato, rischia di rimanere definitivo e valido per sempre. E allora a pandemia passata, e quando ci saranno vertenze con migliaia di licenziamenti, quelle persone dove andranno a manifestare le proprie motivazioni? In uno sperduto viale di periferia dove nessuno li ascolterà? Non spreco mai inutilmente il termine “dittatura” perché quella vera non mi permetterebbe neanche di scrivere al mio giornale questa lettera, ma sicuramente intravedo il progressivo lento restringimento di molte libertà democratiche che la nostra Costituzione originariamente prevedeva. Vorrei ricordare, ad esempio, quando venne promulgata la legge 146 che proibiva lo sciopero nei trasporti, salvo regole rigidissime, e poi fu estesa in altri settori produttivi. Ma il risultato qual è stato? Che mentre le aziende fanno il bello e il cattivo tempo, come ad esempio licenziare in massa, la legge impedisce lo sciopero immediato e lo lega a procedure burocratiche lunghissime che, spesso, fanno arrivare lo sciopero quando è ormai troppo tardi e la gente è in mezzo alla strada. Un po’ come se in un incontro di boxe uno dei due pugili avesse le mani legate. Si inserisce un provvedimento alla volta, ci si abitua e diventa normale e ci si accorge del danno quando è troppo tardi. P.s. chiarisco, perché ormai il clima è da tifoserie opposte, che sono vaccinato, metto la mascherina dove è prevista e uso il Green pass.

Andrea Cavola

 

Caro Andrea, sì, questo giro di vite contro le manifestazioni è molto preoccupante. Se non fosse opera dei Migliori, si griderebbe al fascismo.

M. Trav.

 

I bizzarri criteri delle notizie nei media

Leggo e sento spesso sui media giornalisti e politici che si lamentano del fatto che in questo o in quel caso viene dato risalto a fatti che non costituiscono reati. Come fare uso di sostanze a livello personale, partecipare a manifestazioni di partiti politici spagnoli o incassare soldi dall’Arabia Saudita. Orbene, mai mi ero accorto che bisognasse dare notizie solo di reati! Ma, allora, in una vittoria Berrettini o in una sconfitta della Spezia, dov’è il dolo?

Giuseppe Raspanti

 

Attaccano il “Fatto” e smontano la Bonafede

Sto ascoltando la discussione in Senato sul decreto con cui il governo ha rimesso la solita 23esima fiducia. Molti interventi sparlano del Fatto Quotidiano e delle notizie su Renzi, che voi giustamente avete dato. Stanno smontando pezzo per pezzo le giuste istanze per contrastare la corruttela e i mali più endemici degli intrallazzi e, logicamente, la odiata riforma Bonafede. Tutto con una maggioranza dove anche il Movimento è parte attiva, anzi passiva. A questo punto non se se augurarmi un nuovo 1992 moltiplicato per mille o cos’altro. In vista della grande mangiatoia dei 250 miliardi si tenta di dar modo di passarla liscia?

Massimo Giorgi

 

Tutti i danni provocati dal silenzio della politica

È uscito anche il decreto Concorrenza, e la vicenda Autostrade è stata dunque archiviata invano. Anzi, ora avanti tutta: per avere un prestito che magari non saremo in grado di spendere e che comunque nessuno che conta ha voluto in Europa. Dobbiamo massacrare il Paese con altre allucinanti privatizzazioni e tagli al welfare. Le condizioni del Pnrr e gli obiettivi sono circa 528, lo ricordiamo? L’aria che tira è mefitica e sembra chiaro che l’uomo in Loden era uno sprovveduto dilettante, a confronto dell’attuale timoniere. Ora il Paese sarà rivoltato come un calzino, in modo scientifico, quasi teutonico. Questo è il frutto dell’entrismo di Salvini? E che dire del sindacato, che ormai inanella una sfilza di “Caporetto” che sembrano non avere fine? E l’opposizione dura di Fdl? Non pervenuta. Per fortuna che la cortina fumogena dell’emergenza pandemica distrae, per ora, la massa già spaventata per il virus, e la spinge, a tempo pieno, nella ricerca punitiva degli untori. Niente di meglio della paura per distrarre e introdurre stravolgimenti in un paese e nei suoi ordinamenti democratici.

Roberto Petacco

 

In Bielorussia e Polonia si continua a morire

Assisto ormai quotidianamente a spettacoli della politica per niente edificanti. Una grande parte di questi signori non svetta certo per dignità, etica della responsabilità, pensiero critico, rispetto e impegno civile. In questi giorni assisto alla tragedia, ai confini in Bielorussia e Polonia, di esseri umani che scappano dalla guerra in Iraq, Siria e Afghanistan. Ma i “signori della guerra” non gli hanno portato la democrazia facendo la guerra? Bisogna vomitare o forse c’è una qualche alternativa?

Roberto Infrasca

Pandemia. “Grazie agli edicolanti che hanno illuminato i giorni più bui”

Rinnovare e reagire: ecco il segnale importante di fiducia nel futuro che un giovane imprenditore dopo aver rilevato la storica edicola del paese, conquistandosi da subito un’affezionatissima clientela anche dai Comuni limitrofi, ha voluto lanciare non solo a se stesso, ma a tutti noi. Il virus non molla, la pandemia neppure, ma la vita deve continuare e alimentare occasioni continue di speranza che vanno colte.

Nei tempi più bui della pandemia, Giorgio Carraro – questo il nome dell’edicolante – non fece mai mancare il giornale, anche consegnandolo a domicilio: un servizio prezioso specie per chi non poteva muoversi e che contribuì a tener accesa la luce in attesa di tempi migliori.

I giornali hanno da tempo mutato veste aggiornandosi con le nuove tecnologie e possibilità offerte dalla Rete, ma la “vecchia” carta stampata è da sempre una indispensabile luce: l’edicolante è l’insostituibile, prezioso, lampionaio che la cura e tiene viva.

L’edicola, causa Covid, s’è dovuta adattare, centellinando le presenze e il tempo che prima si misurava a spanne, scandito dalle ciàcole sui grandi e piccoli accadimenti del giorno, ma resta sempre, immutabilmente, un posto del cuore e della mente: del cuore perché ci trovi quel pane fragrante delle notizie e dei commenti che nessuna tivù o aggeggio elettronico ti potrà mai dare in modo così completo, nutrimento quotidiano di cui abbiamo bisogno; della mente perché, senza giornali, quelli stampati che tocchi e sfogli al mattino davanti al caffè, le tue “celluline grigie”, per dirla alla Poirot, non si rimetterebbero in moto scattanti e allegre propiziando così la giornata.

Vittore Trabucco

Costanzo e quota 4000 (talk)

Chissà se nella complessa ingegneria della riforma delle pensioni Draghi ha messo allo studio un emendamento, un’opzione ad personam per Maurizio Costanzo. Una cosuccia come Quota Mille, o meglio, Quota Quattromila e rotti, quant’è il totalizzatore delle puntate del Maurizio Costanzo Show, genitore 1 e genitore 2 di tutti i talk, la cui quarantesima stagione si è materializzata su Canale 5 come il monolite superstite di un mondo parallelo (quando è nato c’era solo lui; adesso ci sono solo talk show con gli stessi ospiti che a volte si trasformano in conduttori). E certo, se insieme alle pensioni che non maturano si potesse emendare il tempo che invece continua a scorrere, allora saremmo i primi a candidarci alla Quota Costanzo. Ma, almeno per il momento, i superpoteri di Draghi non sono riusciti a raddrizzare la curvatura dello spaziotempo, così abbiamo uno show incapsulato nel sonno criogenico, sempre meno agito da ritmi e colpi di teatro, la vera eredità non raccolta della tv di Costanzo. Il perfido, geniale puparo degli anni Ottanta si è fatto paterno, magnanimo, il suo palcoscenico da ring è diventato uno spazio museale, tra il centro di accoglienza e il lapidarium. Per mettere un po’ di pepe, don Maurizio ha chiamato il vice Sgarbi, Giuseppe Cruciani, ma con il ruolo del maestro Giulio Perboni, scrivere alla lavagna i buoni e i cattivi, così anche Cruciani è finito nel libro Cuore. I politici vengono solo se accompagnati dai parenti, e questo è uno spunto da sviluppare fino in fondo (al massimo si invita la figlia di Gasparri senza Gasparri), mentre un posto fisso lo hanno conquistato i televirologi più à la page, che hanno preso il posto dei comici emergenti. Sono anni in cui c’è poco da ridere, e molto da scongiurare. Oggi Sileri, domani Bassetti: si accomodano sulla poltroncina rossa eleganti e sorridenti, consumati animali da palcoscenico, lieti di avere a fianco Anna Falchi, Iva Zanicchi e Rudy Zerbi. Un’evidenza più catodica che scientifica.

Draghi? “Fa veri e propri miracoli”

Mario Draghi è un po’ cauto? “Assolutamente no, ma assolutamente no: fa veri e propri miracoli”. Tipo? “Be, ci sono le riforme messe in cantiere…”. Giovedì a “Otto e mezzo” Franco Bernabè, presidente di Acciaierie d’Italia (ex-Ilva), non ha risparmiato complimenti al premier che a maggio l’ha messo a capo della fonderia di Taranto. I due si conoscono dal 1972, quanto basta per fargli dormire sogni beati. Sollecitato da Lilli Gruber, risponde infatti che entro “il 31 dicembre dovranno essere approvate 27 riforme, e saranno approvate, perché altrimenti non arrivano i soldi. Uno può dire: sono poche, sono tante, sono soffici… però ci sono”. Pazienza se qualcuno si aspettava cambiamenti all’altezza del governo dei migliori, dovrà accontentarsi della sofficità. Perché per il presidente dell’ex-Ilva l’importante è la stabilità. “Si è visto – ha aggiunto – che quando c’è una persona credibile, una situazione di stabilità, un consenso, per quanto complicato…”. Insomma, “il Paese ha bisogno di stabilità, di rassicurazioni, di messaggi positivi”.
E quindi, gli chiede Gruber, “Draghi deve continuare a fare il presidente del Consiglio?”. Bernabè non risponde, trattenendo appena un ghigno soddisfatto.