Un miliardo e mezzo. Sono, secondo i dati Unesco, gli studenti colpiti dall’impatto del Covid-19 sull’istruzione, ragazzi e ragazze le cui scuole o università sono state chiuse, le lezioni cancellate o ridotte per effetto della pandemia, e le conseguenze di questo vacuum educativo sono ancora tutte da misurare.
Ma l’impatto maggiore, scrive l’Unhcr, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, è stato proprio sui minori costretti a lasciare il proprio Paese da guerre, crisi economiche o politiche, carestie. La popolazione globale ‘dislocata’ è oggi di oltre 82 milioni di persone, il doppio che nel 2020 e il numero più alto mai raggiunto. Di queste, secondo gli ultimi dati raccolti in 40 Paesi, quasi 13 milioni sono in età scolare. Secondo Unhcr, fra il 2018 e il 2020 le nascite in condizione di rifugiato sono state quasi un milione.
I bambini, si legge nel rapporto Global Trends Forced Displacement del 2020, sono il 30% della popolazione globale, ma il 42% di quella displaced, sfollata. Circa il 68% dei bambini rifugiati ricevono qualche forma di scolarizzazione alle elementari, ma la percentuale è di meno del 25% alle superiori, quando sui minori cresce la pressione perché trovino un lavoro, e di uno su 20 all’università. Senza istruzione superiore, svanisce qualsiasi prospettiva di miglioramento delle condizioni di vita: la finestra di opportunità si chiude e questi ragazzi e ragazze entrano in un ciclo di povertà e sfruttamento da cui è rarissimo uscire. Eppure meno del 2% degli aiuti umanitari globali vanno in istruzione.
Sono dati che diventano storie nel documentario Awlad, “Bambini”, scritto e girato da Ane Irazabal Elkorobarrutia e da Cosimo Caridi (collaboratore del Fatto Quotidiano) e prodotto dalla cooperativa di giornalisti Muzungu Producciones. Cercando l’equilibrio tra empatia e rigore da cronisti, Awlad segue il percorso scolastico di quattro minori originari dei tre Paesi da cui fugge la maggioranza dei rifugiati: Siria, Venezuela, Afghanistan. I loro destini sono conseguenza delle circostanze economiche e culturali di partenza, ma soprattutto dell’efficacia delle politiche di accoglienza nei Paesi di destinazione. Mohammed è a Berlino, va regolarmente a scuola, vive in un bell’appartamento, il padre siriano ha aperto un ristorante e sta pensando di aprirne un altro, festeggia il compleanno con 20 parenti, riceve bei regali. Hadi, fuggito con i genitori e due sorelle, di cui una disabile, dalla crisi venezuelana, è nei Paesi Baschi, ben integrato in una piccola comunità, ma la sua sistemazione non è definitiva: il film mostra gli ultimi giorni nella comunità di accoglienza, il saluto commovente ai compagni di scuola, l’inizio incerto di una nuova vita a San Sebastian. Per le due ragazze, Muzhda e Aya, il futuro è molto più incerto. La prima, adolescente, è bloccata con quattro sorelle e i genitori, afghani ismaeliti fuggiti dai Talebani, ai margini della ‘Giungla’, il campo profughi dell’isola di Samos. Ambizioni e talenti bloccati dalla difficoltà, nell’attesa dei documenti per trasferirsi ad Atene, di accedere a una scuola pubblica già sovraccarica. Però perfeziona il suo inglese frequentando Mazí, la scuola dell’organizzazione indipendente “Still I rise” che offre istruzione superiore di emergenza a minori dagli 11 ai 17 anni rifugiati in Grecia e Siria e ha fondato scuole internazionali anche in Turchia, Kenya, Sudamerica e Italia.
Ancora più indefinito il destino di Aya, 8 anni, siriana di Deraa, accolta con la famiglia nel campo di Zaatari, il primo per rifugiati siriani aperto dall’Onu in Giordania. La sorella Reem, 21 anni, sposata contro la sua volontà a 13 anni e subito rimasta vedova, ha frequentato tutti i corsi disponibili a Zaatari e cerca un’emancipazione nel lavoro all’ospedale del campo, mentre resiste alle pressioni della famiglia perché si risposi. Per Aya vuole una vita migliore: in una delle loro passeggiate la invita a scegliere se diventare medico o insegnante, alternative alla vita sospesa da rifugiate. Ma a Zataari la scuola delle Nazioni Unite non è riconosciuta dal governo giordano e non basta per tutti. Con Reem al lavoro, la madre trattiene Aya in casa perché l’aiuti nelle faccende domestiche.
Il film, girato durante l’Eid (la festa del sacrificio), si chiude con la bambina che progetta con l’inseparabile amica Sawsan, di tornare a scuola a giorni alterni dopo le vacanze. Unico spiraglio di speranza, lo spirito combattivo di Aya che assieme a Sawsan spaventa i maschietti che le seguono minacciandoli di cacciarli a pietrate.