I sussidi ai poveri e i Bolsonaro d’Italia

Al netto dei suoi difetti (che no, non sono le politiche attive), il Reddito di cittadinanza ha un paio di meriti storici: aver dato un po’ di respiro a qualche milione di italiani (troppo pochi comunque) e aver costretto i protagonisti del dibattito pubblico – politici, accademici, giornalisti, etc – a schierarsi da una parte o dall’altra del conflitto di classe (scusate la parolaccia). Un innocuo sussidio da 550 euro medi al mese a nucleo familiare è bastato a mandare ai pazzi mezzo Paese e in crisi il modello salariale Bangladesh su cui si è strutturata un bel pezzo dell’impresa italiana. Va apprezzato chi se ne rammarica in modo esplicito come il ministro leghista Massimo Garavaglia: “È del tutto evidente che il Reddito di cittadinanza abbia distorto il mercato del lavoro e creato problemi enormi agli operatori del turismo”. A destra pure il partito di Giorgia-soy-una-mujer chiede l’abolizione della legge “criminogena” per dare i soldi alle “imprese che assumono”. Al presidente di Confindustria Carlo Bonomi, visto che i partiti gli fanno da ufficio stampa, non è rimasto che fare la parte del leghista d’antan: “Il Rdc è un disincentivo a cercare lavoro al Sud” (i terroni sono pigri, si sa). I liberali nelle varie autodeclinazioni – liblab e socialisti, liberisti e libertari, astronauti e renziani, calendiani e tuttologi da salotto tv – sono il coretto necessario e storicamente inevitabile al classismo della destra. Il problema è che, a stare in mezzo al casino, si rischia di vedere gli alberi, ma non la foresta. È utile allora ricordare, allargando lo sguardo, che – usando gli stessi argomenti – il puzzone Jair Bolsonaro ha appena abolito il programma anti-povertà “Bolsa Familia”, introdotto da Lula 18 anni fa e che aveva aiutato finora decine di milioni di brasiliani: fino a fine 2022, visto che l’anno prossimo si vota, ci sarà una cosa chiamata “Auxilio Brasil”, anche se non si capisce ancora bene cosa sarà. Non servono troppe parole: è né più e né meno che una guerra contro poveri e disoccupati per non lasciare i padroni del vapore senza schiavi sul fondo della catena alimentare. Leghisti-fratellisti-liberalisti e stampa-al-seguito sono solo i Bolsonaro italiani, a volte meno razzisti, più educati e Lgbtq+ friendly, a volte nemmeno quello.

Il signor “Pressappoco” e la vita presa come un risciò

Tra i miei concittadini con i quali mi fermavo di tanto in tanto a scambiare quattro chiacchiere, ce n’era uno che tra me avevo soprannominato “Pressappoco”. Gli è che a qualsivoglia domanda gli sottoponevo non mancava quasi mai di impiegare l’avverbio citato. Come va la vita, come va il lavoro, la famiglia, eccetera. Pressappoco come al solito, la risposta che mi ritornava, come se io fossi aggiornato su tutto ciò che gli capitava e che, assommato, andava a determinare il risultato di quel “solito” che per me restava un mistero. Ovviamente dialogare con un essere siffatto non regala grande soddisfazione. Ma continuavo a chiedermi se quel suo svicolare da risposte più articolate fosse da attribuire al desiderio di non parlare dei fatti suoi oppure nascondesse dell’altro. Col tempo avevo archiviato la questione, sennonché un bel dì me la ritrovai sotto gli occhi. E non per strada, incrociando il soggetto di cui sopra, piuttosto tra le righe di un racconto del cinese Lu Hsun intitolato La festa della barca del drago. Il protagonista Fang Hsuan-ch’o ha pure lui un debole per l’avverbio pressappoco e lo usa per liquidare varie questioni tra le quali anche un giudizio sull’umanità, sentenziando che “gli antichi e i moderni non sono diversi “, gli uomini insomma sono pressappoco tutti uguali facendo, come si dice, di tutta l’erba un fascio. Tanto è bastato perché mi venisse voglia di incontrare il mio “pressappoco” e sottoporgli una sorta di quiz ricavato dal racconto citato: immaginasse di assistere alla scena di un passeggero che, poiché siamo in Cina, sta picchiando il conduttore di un risciò affinché vada più in fretta, cosa penserebbe di fare? Dopo uno sguardo incredulo, mi rispose, niente. Perché a suo giudizio le cose sarebbero andate pressappoco così anche a parti inverse, a prenderle sarebbe stato il passeggero e a menare il conduttore. Il mondo va così da sempre, come al solito chi può approfitta del suo potere, la filosofia che mi espose. Fu il discorso più lungo che gli sentii fare e mi dimenticai di dirgli che la pensava come il protagonista del racconto di Lu Hsun.

Dal G20 a Cop26, è una truffa: green e pil sono incompatibili

C’è stato il G20 di Roma centrato su Climate Change and Environment e Sustainable Development. A seguire è venuto Cop26 di Glasgow organizzato dalle Nazioni unite sul cambiamento climatico. I cosiddetti Grandi della Terra hanno scoperto improvvisamente l’ambientalismo e fanno di tutto per accreditarsi come difensori del Pianeta. Non fan che parlare di bio e di green e hanno eletto a stella polare, vezzeggiata e coccolata, quel “mostrino” di Greta Thunberg. Naturalmente né il G20 di Roma, in cui Mario Draghi se la dava da leader mondiale, né Cop26 hanno cavato, anche a detta dei commentatori più benevoli, un ragno dal buco. Né potevano.

Come ha notato sul Fatto Luca Mercalli, nessun Paese sviluppato si è detto disposto a rinunciare a “standard di vita che nel mondo occidentale continuiamo a considerare non negoziabili, né a fermare la crescita economica così come la intendiamo oggi”. Siamo quindi, come al solito, di fronte a una truffa, tanto per tener buoni i giovani innocenti, ma inconsapevoli e creduloni, che manifestano in buona parte del mondo. Non si può inneggiare all’ambientalismo e, nello stesso tempo, alla crescita del Pil. Sono incompatibili. Né c’è “energia rinnovabile”, eolica o solare che sia, che può risolvere la questione. Perché ogni energia, qualsiasi energia, vuole per essere innescata altra energia. “Nulla si crea e nulla si distrugge” dice Democrito. La sola cosa seria da fare è ridurre i consumi e quindi la produzione. Ma da questo orecchio, essendo malati di otite permanente, nessuno ci sente, né i cosiddetti Grandi della Terra né i comuni cittadini. Insomma per parlare seriamente bisognerebbe rovesciare da cima a fondo l’attuale modello di sviluppo.

Vi immaginate un Premier che dicesse io non vi prometto più beni materiali, più viaggi, migliori automobili, più innovazione, più tecnologia, più bellurie di ogni tipo, ma vi propongo meno beni materiali, meno viaggi, meno automobili, siano esse a benzina o elettriche, meno innovazione, meno tecnologia, meno bellurie, insomma meno consumi, ma più tempo per voi? Sarebbe fucilato sul campo sia dai consumatori che dai produttori.

La sola cosa seria che possiamo fare è ridurre il superfluo di cui ci nutriamo. Qui nasce però il problema che mi pose quel grande storico, economista e intellettuale dotato anche, cosa assai rara, di sense of humour (Le leggi fondamentali della stupidità umana) che è stato Carlo Maria Cipolla: “Bisogna intendersi su che cosa consideriamo superfluo e cosa necessario. Per lei necessari sono magari i libri, per altri qualcuno degli infiniti beni che ci vengono offerti”. Vero. Però è altrettanto vero che l’area del superfluo è immensa da quando si è affermata, agli albori della Rivoluzione industriale, la terrificante legge di Say: “L’offerta crea la domanda”. La modernità ha creato bisogni di cui l’uomo non aveva mai sentito il bisogno. “Si scopre la natura illimitata dei bisogni o, piuttosto, la facilità con cui gli esseri umani si lasciano influenzare. Si scopre cioè che i bisogni possono essere eterodiretti, suscitati artificialmente e dall’esterno. Nasce il consumatore e con lui la produzione di massa del futile e anche dell’inutile” ( Il denaro “Sterco del demonio”). Oggi sono nate negli Usa e, naturalmente sbarcate immediatamente in Italia, le Tiktoker House cioè scuole dove influencer, che non san nulla di nulla, insegnano ad altri, in genere giovani, che ne san meno di loro come influenzare il mercato a uso di questa o quella azienda.

Usciremo mai da questo circolo vizioso? No, perché, per riprendere Cipolla, la prevalenza del cretino è indistruttibile. In quanto ai giovani che scendono in strada senza sapere “di che sangue e di che lacrime grondi” ciò che chiedono, la sola cosa, modesta ma onesta, che possono fare è: invecchiare.

 

Per salvare il pianeta non basta recitare il solito “mea culpa”

 

“È mite e sobria la spinta a un consumismo sfrenato che divora quotidianamente interi continenti di risorse, e che sta portando dissesti tendenzialmente irreversibili ai complessi equilibri della terra?”

(da Elogio della radicalità di Piero Bevilacqua – Laterza, 2012 – pag. 6)

 

Estremisti, allarmisti, catastrofisti, millenaristi. Se ne sono sentite dire di tutti i colori gli ecologisti, in Italia e nel resto del mondo, da trenta o quarant’anni a questa parte, quando denunciavano il degrado dell’ambiente, l’inquinamento atmosferico, il buco dell’ozono, l’effetto serra, il surriscaldamento del pianeta, il pericolo del cambiamento climatico. Avranno pure esagerato talvolta i verdi, nei toni più che nelle parole, ma avevano ragione a invocare il rispetto della natura e del territorio, a contrastare il dissesto idrogeologico, a reclamare la salvaguardia dei fiumi e del mare. E ora che i Grandi della Terra si ritrovano una settimana sì e l’altra pure per ammettere che “il tempo sta scadendo” o che “manca un minuto all’ora X” (Boris Johnson), che “dobbiamo fare di più” o che “siamo lontani da dove dovremmo essere” (Barack Obama), il mea culpa collettivo appare tanto tardivo quanto ipocrita e sospetto. Né si può dare torto a tutte le Greta del globo quando contestano questo “bla bla bla” e voltano le spalle ai potenti che pretendono di rinviare al 2030, al 2050 o addirittura al 2070 l’impegno ad affrontare concretamente un’emergenza climatica già in atto.

Ma il rito del pentimento non chiama in causa soltanto le responsabilità della politica. Anche il sistema mediatico ha le sue colpe da farsi perdonare. Indifferenza, insensibilità, disinteresse, distacco. Per troppo tempo i mezzi di comunicazione di massa – e in particolare la televisione, con la sua ideologia pubblicitaria iperconsumista – hanno ignorato o sottovalutato il problema, infliggendo una sorta di black-out all’ambientalismo, se non addirittura criticandolo o irridendolo. Un fronte negazionista omologo, non a caso, a quello dei no-vax e No-green pass. E così i media hanno contribuito, più o meno consapevolmente, a formare un’opinione pubblica refrattaria e riluttante nei confronti dell’ecologia e di ciò che comporta: vale a dire un cambiamento radicale del nostro modello di sviluppo economico-sociale, delle nostre (cattive) abitudini, dei nostri comportamenti, dei nostri cosiddetti “stili di vita”.

Quando il glorioso settimanale L’Europeo, a metà degli anni Settanta, pubblicò al centro del giornale un’inchiesta in 12 puntate intitolata Il Malpaese a cura di Salvatore Giannella e Paolo Ojetti, fummo costretti a interrompere un dibattito sulla Rupe di Orvieto a rischio crollo, in seguito alle proteste di una parte del pubblico che si sentì offesa da questa iniziativa. E quando L’Espresso, nella seconda metà degli anni Ottanta, varò la “Goletta Verde” per il monitoraggio del mare con l’allora Lega per l’Ambiente di Ermete Realacci, la campagna fu accolta all’inizio con diffidenza e ostilità dagli amministratori locali e Panorama di Claudio Rinaldi replicò con malagrazia: “Non rompeteci le vacanze”. Per non parlare qui del referendum sulla caccia e soprattutto di quello contro il nucleare.

Certo, non basta più il “bla bla bla” per scongiurare l’Apocalisse. Occorre più radicalità in questa crociata, politica e mediatica. Decisioni più rapide e immediate. Scelte nette e risolutive. A cominciare dalla richiesta che l’Onu dichiari l’emergenza climatica globale, come reclama Greta Thunberg dopo la farsa in due atti messa in scena a Roma (G20) e a Glasgow (Cop26). Lo dobbiamo a noi stessi e soprattutto alle generazioni future, ai nostri figli e nipoti. È in gioco la sopravvivenza del pianeta e del genere umano.

 

Il virus ha ucciso anche il sacro diritto di critica

Mentre in Germania si dice ormai apertamente che l’impennata dei contagi è dovuta alla troppa libertà concessa ai vaccinati (“Il virus si sta diffondendo anche tra i vaccinati. Il vaccino ha efficacia su una percentuale di persone oscillante tra il 50% e il 70%, questo significa che su dieci vaccinati, da 3 a 5 potrebbero trasmettere il virus. E quando si consentono manifestazioni senza più misure di controllo senza test e distanziamento, queste diventano focolai d’infezione”, ha detto al Corriere della Sera il microbiologo Alexander Kekulè), in Italia ci si dedica alla repressione delle manifestazioni del dissenso. Invece di chiedersi se sia stato sensato fidarsi dei tamponi veloci, abolire il distanziamento a scuola; far gremire (e senza alcun filtro) supermercati, treni pendolari, autobus urbani e chiese; far affollare ristoranti necessariamente senza mascherina; e riportare al 100% la capienza di cinema e teatri, è molto più semplice praticare l’eterna caccia all’untore: la colpa è dei no-vax!

Come se non esistessero circa sei milioni di bambini non vaccinati, oltre ai marginali abbandonati a se stessi, e ai turisti che arrivano esibendo solo un tampone (altrettante potenziali bombe virali: ma ‘portano soldi’). La sensazione è che invece di correggere (certo dolorosamente, per tutti noi: ma doverosamente) comportamenti pericolosi si preferisca imboccare la strada larga della ricerca del nemico. La stampa, quasi coralmente genuflessa davanti al soglio di Draghi, non esorta alla responsabilità di ciascun vaccinato e non richiama il governo alla prudenza, ma fabbrica colpevoli, capri espiatori, streghe da bruciare. Intendiamoci: chi non si vaccina (quale che sia la ragione, spesso una incontrollabile paura, che andrebbe anch’essa curata) fa una scelta individualista, anzi gravemente egoista, lacerando ogni vincolo di solidarietà e responsabilità sociale. E deve dunque accettare di essere trattato diversamente nell’accesso agli spazi chiusi: ma questo non significa affatto che abbia perso anche il diritto a manifestare liberamente in piazza. Un diritto che ha a che fare non solo con la sua, ma con la nostra comune libertà. Naturalmente ogni degenerazione violenta va fermata (prima e non dopo, come invece nel caso dell’assalto fascista alla Cgil), ma non è pensabile che una democrazia vieti la manifestazione del dissenso di coloro ai quali impone (pur per ottime ragioni) un trattamento sanitario di fatto pressoché obbligatorio.

Invece, è quel che fa il governo Draghi: che non scioglie (come potrebbe e dovrebbe) Forza Nuova, ma applica nel peggiore dei modi le pessime norme repressive contenute nei decreti Sicurezza di Salvini (il quale, peraltro, ora protesta in un sussulto estremo di cialtroneria), rifugiandosi dietro i contagi. Quei contagi che non impedirono ai vertici della Repubblica di festeggiare la vittoria agli Europei, ma oggi impedirebbero di esercitare un diritto costituzionalmente protetto. La cosa peggiore di questa orribile situazione è che è estremamente difficile distinguere e sviluppare quella critica che invece appare vitale. Il linciaggio delle poche voci dissonanti è desolante: non sono d’accordo con la gran parte delle obiezioni degli sparuti intellettuali critici sulla gestione del green pass e dei vaccini, ma riconosco che la loro voce è preziosa, che il loro diritto al dissenso coincide col nostro comune diritto alla democrazia. Più in generale, deve essere possibile contestare la razionalità delle argomentazioni usate per i progressivi giri di vite imposti dall’esecutivo senza essere accusati di intelligenza col nemico no-vax. Si può dire che è intollerabile proibire le manifestazioni all’aperto invocando il contagio, e al tempo stesso consentire lo shopping prenatalizio nei centri commerciali o costringere gli studenti e i lavoratori a viaggiare in carri bestiame che sembrano allevamenti di Covid? E che tutto questo rivela che ci sta molto più a cuore il mercato che non la democrazia? Occorrerebbe, soprattutto, equilibrio. Ma lo stesso capo dello Stato ha attaccato con inusitata virulenza le manifestazioni di dissenso, affermando che avrebbero provocato impennate di contagi e che sarebbero “tasselli, più o meno consapevoli, di una intenzione che pone in discussione le basi stesse della nostra convivenza”.

Le Costituzioni nascono per proteggere chi sta in basso dagli abusi di potere di chi sta in alto: ora invece il garante della Costituzione si schiaccia sull’esecutivo e denuncia minacce dal basso. Se si aggiunge che il Parlamento è di fatto congelato e l’astensionismo dilaga, l’impressione è che stiamo riducendo la democrazia alla dimensione della decisione, rinunciando a ogni bilanciamento, a ogni garanzia. Come se la democrazia, in tempi di emergenza, fosse un intralcio e non la nostra più importante risorsa.

 

Le gag di Dave Chappelle, tra falsità fattuali e stereotipi denigratori

Diverse organizzazioni, tra cui GLAAD, l’organizzazione che monitora nei media i pregiudizi contro la comunità LGBTQ+, hanno criticato i sei show Netflix di Dave Chappelle in quanto transfobici e omofobici. La sua retorica tossica procede per falsità fattuali, stereotipi denigratori e banalizzazioni reazionarie.

Falsità fattuali. Chappelle inscena di continuo una contrapposizione assurda fra la comunità LGBTQ+ (da lui equiparata a quella bianca) e la comunità nera (“Come cazzo stanno facendo i trans a battere i neri alle Olimpiadi della discriminazione?” “Se la polizia uccidesse la metà dei trans rispetto a quanti negri ha ucciso l’anno scorso, ci sarebbe una cazzo di guerra, a Los Angeles. Conosco dei neri a Brooklyn, dei figli di puttana, dei duri da strada, che si mettono i tacchi alti solo per sentirsi al sicuro.” “Pensavo che saremmo venuti alle mani. Ero pronto, e poi proprio quando pensi che avremmo litigato, indovina cosa ha fatto? Ha preso il telefono e ha chiamato la polizia. E questa cosa che sto descrivendo è un grosso problema che ho con quella comunità. I gay sono minoranze, finché non hanno bisogno di essere di nuovo bianchi. Un gay nero non me lo avrebbe mai fatto. Perché un gay nero lo sa, quando la polizia si presenta, a loro non importa chi li ha chiamati. Siamo tutti neri.” “Litigo coi bianchi da tutta la mia carriera. Proprio quando pensavo di avervi in pugno, cambiate le regole. (fa la voce profonda)

‘Davvero?’ (voce normale)

Sì, figlio di puttana. (voce profonda)

‘Bè. Adesso sono una donna e devi trattarmi come tale. Chiamami donna, negro.’ (voce normale)

È seccante, cazzo”. “Caitlyn Jenner è stata eletta donna dell’anno… Non ha mai avuto il ciclo. Sarei furioso, se fossi una donna. Sarei furioso se fossi me, seduto ai BET Awards, e dicessero: ‘E il vincitore per la categoria ‘Negro dell’anno’… Eminem!’”). Commenta l’attivista Raquel Willis, donna trans nera: “È conveniente per i comici maschi neri cis-etero parlare di persone LGBTQ+ come se il nostro gruppo fosse prevalentemente bianco. Con quel frame, non devono fare i conti con la violenza fisica e psicologica contro le persone LGBTQ+ nere messa in atto dalle persone nere cis-etero.” Il pregiudizio di Chappelle che essere LBGTQ+ sia roba da bianchi non è solo una sciocchezza: è razzismo al contrario. LGBTQ+ non è sinonimo di bianco.

Stereotipi denigratori. Sbeffeggiare minoranze che sono vittime di violenza è pericoloso per la loro incolumità. Oltre a reiterare lo stereotipo della donna trans che inganna l’uomo (“Andiamo al club e inganniamo i negri a scoparci.”), Chappelle sciorina decine di gag che deridono le persone trans come fossero ridicole e in maschera: “Era un uomo molto ricco che indossava un vestito femminile. Non so come lo chiamate. Una tranny, o una drag queen, forse.” “Se indosso un maglione a rombi e dico: ‘Ehi, gente, mi sento un bianco con questo maglione, e voglio un po’ di rispetto e un prestito bancario’, non funzionerà.” “Oh, crescete: questo non mi rende gay. Le ho scopato solo solo le tette. Quelle tette sono vere come tutte le tette di Los Angeles.” “Questa idea che una persona possa nascere nel corpo sbagliato… devono ammettere che è una situazione esilarante. Se fosse successo a me ridereste, no?” “Guarda quella grande mascella cesellata, quel grosso collo alla Joe Rogan. Tua figlia è un uomo?” “Le dico: ‘Cosa ci fa una trans in un posto come questo? È molto pericoloso’… Un altro paio di bicchieri, e potevano cominciare a chiederle la passera che non ha.” “Non dico che non sia una passera, ma è Oltre la Passera o una Passera Impossibile. Sa di passera, ma non è quel che è, no? Quello non è sangue, è succo di rapa”. (14. Continua)

 

Sulla terza dose c’è troppa confusione

Si va, come abbiamo detto, verso la terza dose in ordine sparso, ignorando il ruolo delle Agenzie Regolatorie. Infatti, prima che queste si fossero pronunciate, politici e non solo, hanno annunciato l’avvio della nuova campagna di richiamo. Una certa discrepanza si osserva anche fra le indicazioni delle diverse istituzioni internazionali. Risulta difficile da comprendere come mai, visto che Ema, Aifa e Oms analizzano gli stessi risultati dei i trial clinici, diano indicazioni non univoche. Aifa, il 9 settembre indica la terza dose a “soggetti sottoposti a trapianto d’organo o in condizioni di immunosoppressione, nei grandi anziani (con più di 80 anni) e nei soggetti ricoverati nelle Rsa, ma ritiene che al momento non ci siano sufficienti evidenze per raccomandarla nella popolazione generale. La Fda Usa, il 17 settembre, indica la terza dose per la popolazione over 65, per i soggetti ritenuti più fragili e per le persone che corrono maggiori rischi di contagio, dagli operatori sanitari ai detenuti. La decisione provoca immediatamente un terremoto con le dimissioni ai primi di settembre di due dirigenti dell’Office of Vaccines Research and Review per i quali il presidente stava correndo troppo. L’Ema europea, il 4 ottobre, suddivide la platea dei soggetti interessati in due tronconi: gli immunodepressi, per i quali la terza dose assume le caratteristiche di una dose aggiuntiva da fare già 28 giorni dopo la seconda vaccinazione, e tutti gli over 18, per i quali si parla di dose “richiamo” dopo sei mesi. Ministero della Salute, 8 ottobre: “Alla luce delle ultime deliberazioni di Ema, via libera alla terza dose (booster) di vaccino per i fragili di ogni età e per tutti gli over 60 sempre dopo almeno sei mesi dal completamento del ciclo primario di vaccinazione”. Tutto ciò mentre l’Oms sconsiglia la terza dose, perché riconosce la priorità assoluta di vaccinare tutto il mondo, prima di utilizzare dosi disponibili. A chi si deve fare riferimento?

 

direttore microbiologia clinica e virologia del “Sacco” di Milano

Giornali muti: ci vuole l’esorcista

Chissà cosa direbbero gli psichiatri di fronte alla bizzarra categoria clinica rappresentata dalla stampa italiana. Ieri il Fatto ha dedicato ampio spazio alla notizia che Matteo Renzi e il suo staff avessero ideato – erano gli anni d’oro del Giglio Magico – un piano per denigrare Marco Travaglio e Andrea Scanzi, insultando in chat diversi nostri giornalisti e arrivano a ipotizzare l’uso di investigatori privati per pedinarli e sputtanarli. Grave, no? Roba che con Berlusconi avrebbe provocato girotondi in piazza. Ma con Renzi non se ne parla neanche. Letteralmente. A parte il Fatto e La Verità, ieri nessun quotidiano ha scritto una riga sulla vicenda. Non un trafiletto, non un boxino tra un necrologio e un annuncio erotico. Niente. Un silenzio stampa autoimposto che spiega molto bene il contesto mediatico su cui Renzi ha potuto contare negli anni del suo governo. Cose da psichiatri, dicevamo. Ma forse è il caso di preallertare direttamente gli esorcisti.

Un ex premier colpito e affondato

Oggi la reputazione di Matteo Renzi si misura con il terrificante inglese alla corte di Mohammad bin Salman e dei Kennedy, o con la smandrappata banda rondolina che organizza figuriamoci la “Character assassination” per “distruggere” i Cinque Stelle e il Fatto. È la sindrome frustrata di un ex premier colpito e affondato, del vorrei ma non posso più, del lei non sa chi ero io, all’inseguimento a ritroso dello stile di vita precedente che ora indossa come uno smoking raffazzonato e che gli tira sui fianchi.

È l’ansia da io sono ancora qui che si sublima nel jet privato da 130mila euro per volare da Bill Clinton, richiesta che respinta dagli stremati amministratori di Open (“ha perso la testa”) diventa la ricerca a sbafo di un “amico riccone” che gli dia un passaggio. La ricerca costante di una rivincita con un contesto non sempre all’altezza finisce in parodia. Come con la tormentata, a dir poco, contabilità della fondazione. O quando si fantastica di 007 per organizzare la “contropropaganda antigrillina”. Perfino nella commistione tra politica e affari non c’è mai la sfida sfacciata al codice penale del suo modello Berlusconi. Ma si pigola asserendo che “non c’è reato”, come se lo sputtanamento fosse tutto sommato un prezzo equo da pagare.

Simile al George Dandin di Molière, che da contadino arricchito cerca di migliorare la sua condizione sociale sposando una nobile da cui viene regolarmente cornificato, Renzi non si accorge di essere usato dai suoi nuovi compagni di strada, compreso quel tizio del car sharing, che l’ha sfruttato come spot per poi mollarlo. Scarsa solidarietà gli giunge da Italia Viva, il partitino dell’uno virgola dove alla vigilia del si salvi chi può, e in attesa di trovare altre collocazioni, si cerca di non dare troppo nell’occhio. Anche perché la magistratura con Open non ha ancora finito. In tanti gli ridono appresso quando si pavoneggia da gran regista del governo dei Migliori, ma lo sanno anche i muri che gli è toccato il lavoro sporco, affondare il governo Conte, ricevendo in cambio una mancia ministeriale.

Forse l’ultima cosa sincera Renzi la disse a Matrix nel 2018: “Se vuoi accettare contratti milionari non fai il politico”. Una verità che ora gli si ritorce contro ogni sera, in ogni talk. Tu l’as voulu George Dandin.

Stop ai fossili? No, con la “Boga” siamo solo amici

La notizia viene data come un grande traguardo, un traguardo significativo raggiunto dall’Italia. Due giorni fa, alla Cop26 (il summit sul clima dell’Onu ormai concluso a Glasgow), il ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani ha annunciato di aver portato l’Italia nell’alleanza Boga (Beyond Oil and Gas Alliance) che, nata con Danimarca e Costa Rica, punta a una graduale eliminazione della produzione di petrolio e gas ma attraverso obiettivi tangibili e misurabili. “L’Italia su questo programma è perfino più avanti e abbiamo le idee chiare – ha detto il ministro – il grande piano per le rinnovabili con 70 miliardi di watt per i prossimi 9 anni per arrivare al 2030 con il 70% di energia elettrica pulita”.

L’annuncio era mediaticamente importante, anche perché l’Italia da questa Cop26 non porta a casa impegni particolarmente rilevanti: non ha firmato per lo stop alle emissioni delle auto entro il 2035, ha firmato last minute l’impegno per l’uscita dalle fonti fossili (non senza uno scontro tra Cingolani e il ministro dell’Economia, contrario) e non ha preso una posizione netta sul nucleare. Ciò che non viene detto è che Cingolani avrebbe però potuto scegliere di aderire a tre livelli diversi di partenariato: il primo, come partner “core” (che oggi include oltre a Danimarca e Costa Rica anche Francia, Groenlandia, Irlanda, Scozia, Svezia e Quebec) che richiedeva impegni come “porre fine a nuove concessioni, licenze o round di leasing per la produzione e l’esplorazione di petrolio e gas e fissare una data allineata all’accordo di Parigi per porre fine alla produzione e all’esplorazione di petrolio e gas sul territorio su cui hanno giurisdizione”; il secondo, come “partner associato” (California, Portogallo e Nuova Zelanda), che prevede “passi concreti significativi che contribuiscono alla riduzione della produzione di petrolio e gas, ad esempio la riforma delle sovvenzioni o la fine del sostegno finanziario pubblico internazionale per l’esplorazione e la produzione di petrolio e gas all’estero”; infine, il partner “amico” (solo l’Italia) che semplicemente sottoscrive “la Dichiarazione BOGA, che sostiene una transizione globale socialmente giusta ed equa per allineare la produzione di petrolio e gas con gli obiettivi dell’Accordo di Parigi e impegna le firme a lavorare insieme per facilitare misure efficaci a tal fine in linea con l’accordo di Parigi e gli obiettivi nazionali di neutralità climatica”. Nulla di più, insomma, rispetto a quanto già previsto negli obiettivi nazionali e soprattutto europei.

Come abbiamo poi già raccontato, per l’Italia questa è stata la Cop senza inviato per il clima, introdotto con una legge entrata in vigore i l 24 giugno e che prevedeva una figura che garantisse all’Italia “una più efficace partecipazione agli eventi e ai negoziati internazionali sui temi ambientali, ivi inclusi quelli sul cambiamento climatico”. Per la nomina avrebbero dovuto accordarsi il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, e quello della Transizione ecologica, Cingolani. Pare che nei giorni scorsi a Cingolani siano arrivati due nomi e che su uno di essi, un diplomatico, si sia trovata una quadra. Quando verrà annunciato ancora non si sa. Quel che è certo è che gli appuntamenti più importanti saranno ormai conclusi. Meglio tardi che mai, in questo caso, potrebbe non funzionare.