Il ‘freddo’ Abbatino: “Per parlare mi serve protezione”

Si può avere ancora paura per un incontro avvenuto 43 anni fa. Anche se sei “il Freddo” della Magliana. Maurizio Abbatino, sentito ieri come teste al processo in Corte d’Assise sulla strage di Bologna del 2 agosto 1980, non ha voluto rispondere alla domanda sui rapporti tra la Banda e istituzioni ai tempi del sequestro Moro. Gli avvocati di parte civile avrebbero voluto approfondire un colloquio con l’ex segretario Dc, Flaminio Piccoli, in cui l’onorevole chiese alla Banda di rintracciare il covo Br. Un incontro organizzato su richiesta del camorrista Raffaele Cutolo. “Ho già fatto dichiarazioni in passato su questo, vi ricordo che la mia collaborazione è finita. Se devo ripetere tutto, rimettetemi nel programma di protezione. Il ministero dice che non sono più un collaboratore. La storia dell’onorevole Piccoli l’ho raccontata nel 1992, ma forse me la chiedono ora perché non c’è più l’onorevole Piccoli. Non le avete volute approfondire all’epoca, perché farlo ora?”. Abbatino è uscito dal programma testimoni nel 2015, all’inizio del processo Mafia Capitale dove era imputato anche Massimo Carminati, l’ex Nar coinvolto in passato proprio nell’inchiesta sul depistaggio nelle indagini sulla strage. Carminati aveva accesso al ministero della Sanità, dove c’era il deposito di armi della Banda. Da qui “er cecato” prese un mitra Mab, poi ritrovato nel gennaio 1981, pochi mesi dopo la strage, in una valigetta sul treno Taranto-Milano per depistare le indagini e portarle su una pista straniera. “Mi avete fatto domande su Carminati, io sto scontando ancora una condanna e lui è fuori. Che debba stare ancora qui a parlare di Carminati e del sequestro Moro non va bene”. Carminati venne assolto in appello solo grazie alla testimonianza di Sergio Calore, ucciso a picconate nel 2010. Un omicidio ancora irrisolto. Mercoledì 24 novembre, invece, deporrà il principale imputato, l’ex di Avanguardia Nazionale Paolo Bellini, accusato di concorso nella strage.

Il Financial Times e il “furto” di Dini al Senato. “Gliene regaliamo noi una copia al giorno”

In principio fu un biglietto anonimo. Lasciato nella sala lettura del Senato, in mezzo alle mazzette dei giornali: “Si invita il senatore Dini a desistere dal sottrarre il Financial Times alla lettura di colleghi del Senato”. Avevamo raccontato quella curiosa denuncia sul Fatto Quotidiano del 23 settembre. “Tanto per cominciare, là dentro il sottoscritto è l’unico che quei giornali li sa leggere” rispose Dini in un’intervista al Corriere della Sera, il giorno successivo. “Ovviamente – aggiunse – non ho mai rubato il Financial Times dalla sala lettura del Senato”. Ora, nel dubbio, l’ex presidente del Consiglio potrà leggere il quotidiano inglese comodamente a casa, senza alimentare i pettegolezzi delle serpi di Palazzo Madama. Grazie a un gentile omaggio dello stesso Financial Times: il giornale britannico ha deciso di regalare un abbonamento annuale al senatore Dini. Per chiudere il caso. Ne resta aperto solo un altro. Di chi è la mano che aveva scritto il messaggio lasciato tra i quotidiani in Senato? Resta il mistero.

Il virus si riprende gli ospedali. “Interventi rinviati e visite saltate”

In Alto Adige, al confine con l’Austria dove l’incidenza supera i 750 casi ogni centomila abitanti in sette giorni e potrebbe entrare in vigore il lockdown per i non vaccinati, i reparti Covid riaprono con oltre 400 operatori sanitari sospesi perché non immunizzati. Già da qualche giorno alcuni ospedali, come quello di Merano, hanno rinviato parte degli interventi chirurgici non urgenti, come nei momenti peggiori della pandemia. Tengono le terapie intensive, anzi hanno anche accolto due pazienti gravi dalla Baviera ricambiando la solidarietà offerta dai tedeschi mesi fa, ma i reparti di area medica sono ormai occupati al 13,6% da pazienti Covid e la soglia del 15 è dietro l’angolo. Anche a Bolzano, dove l’adesione alla campagna vaccinale è la più bassa d’Italia, si ipotizza di chiudere in casa chi rifiuta l’iniezione.

Non va molto meglio in Friuli-Venezia Giulia, che ha soprattutto in Trieste un’altra roccaforte no-vax e la curva dei contagi risente della vicinanza con la Slovenia e più in generale con i Paesi dell’Europa dell’est. Superata la soglia del 10% nelle terapie intensive, il sindacato degli anestesisti-rianimatori ha chiesto espressamente il passaggio in zona gialla, che per ora non avverrà perché i reparti ordinari sono molto meno intasati. “A Trieste registriamo 20 ricoveri Covid al giorno – ha detto Alberto Peratoner, presidente del sindacato Aaroi-Emac del Friuli-Venezia Giulia – con la necessità negli ultimi giorni di chiudere reparti per adattarli ai pazienti Covid”.

I reparti Covid riaprono in tutta Italia, anche dove le cose vanno meglio. “In Campania i ricoverati erano scesi a 170 nel momento migliore, ieri eravamo a 280”, spiega il professor Paolo Maggi, direttore delle Malattie infettive e tropicali all’Azienda ospedaliera Sant’Anna e San Sebastiano di Caserta. “Non c’è paragone con il passato, però non è nemmeno possibile una gestione fluida di questa nuova normalità. La vita degli ospedali ne risente. In alcune strutture mancano le stanze di isolamento e le stanze singole per i pazienti Covid, così è più difficile ricoverare malati di Tbc o Aids. Poi c’è il problema del personale, ne serve di più per il Covid e bisogna sottrarlo all’attività ambulatoriale, che è quasi sempre di attività di prevenzione e viene penalizzata”. Insomma, ci risiamo. Per curare il Covid saltano altre attività. Al secondo anno di pandemia cadono le braccia, anche perché i numeri crescono ma non sono enormi per fortuna.

“Anche noi, come gli altri ospedali del Lazio, abbiamo incrementato i posti letto. Ma è una situazione di preallarme, non di allarme”, spiega il professor Massimo Andreoni, direttore delle Malattie infettive al Policlinico di Tor Vergata, l’ospedale universitario di riferimento del popoloso quadrante Sud- Est di Roma. “Aumentano le nuove diagnosi e di conseguenza anche i ricoveri – osserva Andreoni, che è anche direttore della Società italiana di malattie infettive –­ma naturalmente ora il rapporto è più favorevole perché i soggetti vaccinati non tendono a evolvere in quadri clinici gravi. Finché siamo sotto i 10 mila nuovi casi al giorno a livello nazionale l’impatto sull’attività ospedaliera è minimo, non si riducono gli interventi chirurgici né i ricoveri per altre malattie. Bisognerà vedere, però, quanto aumenteranno le diagnosi”.

Incidenza, +47% in 7 giorni. Nessuna regione in “giallo”

All’11 novembre, ieri l’altro, l’incidenza dei nuovi casi di Covid a livello nazionale ha raggiunto i 78 ogni centomila abitanti in sette giorni, cioè il 47% in più rispetto al 53 del 5 novembre con punte di 316 a Bolzano, 233 in Friuli-Venezia Giulia e 115 in Veneto. Solo Basilicata, Puglia, Molise e Sardegna sono sotto i 50. “È una situazione nuova, difficile fare previsioni. Le cose potrebbero cambiare se ci fosse una corsa a vaccinarsi mentre ora c’è una certa stasi. E l’evoluzione dipende anche dalle misure che si prenderanno”, ha detto ieri il professor Gianni Rezza, direttore della Prevenzione al ministero della Salute, spiegando che è difficile costruire modelli matematici per confermare l’ipotesi di un picco dei contagi a dicembre, che poi significherebbe un costante aumento dei ricoveri fino a gennaio.

Il monitoraggio settimanale dice che Rt, il tasso di riproduzione del virus calcolato al 2 novembre sui casi sintomatici, è a 1,21, ancora in crescita rispetto alla precedente rilevazione, ma si va stabilizzando (1,14) quello calcolato sui soli ricoverati e comincia a diminuire quello prospettico (1,1). In sette giorni i pazienti Covid nelle terapie intensive sono passati da 385 a 421 (al 9 novembre) con un aumento del 9,3% che porta al 4,6% (era 4,2) l’occupazione media dei reparti di rianimazione; in area medica l’aumento è più consistente (+14,3%) e l’occupazione complessiva è il 6% (era il 5,2) per un totale di 3.436 pazienti Covid. Alcune Regioni superano la soglia del 10% nelle terapie intensive: sono il Friuli-Venezia Giulia (10,9 per cento) e le Marche (10 per cento) per le rianimazioni, come già registrato nei giorni scorsi. Nessuna passerà in zona gialla perché il colore cambia solo se si supera il limite (15%) anche nei reparti ordinari, come potrebbe accadere in Friuli-Venezia Giulia nel giro di una o due settimane: da qui a un mese, secondo le tabelle dell’Iss, è probabile che si arrivi anche al 30 e al 40%. In Veneto i dati degli ospedali sono ancora rassicuranti, ma l’aumento dei contagi è molto rapido. In generale crescono i casi non associati a catene di trasmissione, 11 mila contro 8.300 da una settimana all’altra (+32,1%) e questo conferma le difficoltà del tracciamento.

“Siamo nella terza settimana consecutiva in cui sta aumentando in modo generalizzato il numero di nuovi casi di Covid, e l’indice Rt è sopra la soglia epidemica, dunque è importante agire in modo preciso su due azioni per contenere la circolazione del virus: vaccinare la platea che non ha iniziato ancora il ciclo vaccinale e mantenere elevata la copertura immunitaria a partire dalle categorie a cui è raccomandato”, ha detto ieri il professor Silvio Brusaferro, presidente dell’Istituto superiore di Sanità. I casi aumentano in particolare nelle fasce 30/39 e 40/49 anni, l’età mediana dei contagiati è 43 anni ma crescono anche le infezioni sotto i 12 anni, cioè tra i bambini non ancora vaccinabili per i quali le agenzie regolatorie si pronunceranno a dicembre. Non è ancora chiaro come cambierà il green pass in funzione della terza dose che dal 1° dicembre riguarderà tutti gli over 40. Le disposizioni del Viminale hanno indotto le questure a vietare, per le manifestazioni contro il green pass, l’area di piazza Duomo e Corso Vittorio Emanuele a Milano e via Toledo, via Chiaia e altre strade del centro di Napoli.

“Mattarella presta il fianco ai pasdaran dell’ex premier”

Nessuna “campagna scandalistica e invereconda”, ma “una delle più belle pagine del giornalismo indipendente italiano” il cui ricordo, soprattutto in giornate come queste, non può prestare il fianco a chi vuole silenziare la stampa.

Il senatore del Movimento 5 Stelle, Primo Di Nicola, si rivolge al presidente della Repubblica Sergio Mattarella con una lettera dai toni rispettosi ma decisi. Di Nicola, per una vita giornalista di inchiesta e che della campagna dell’Espresso è stato uno dei protagonisti, ricorda bene la vicenda citata due giorni fa da Mattarella, che nel celebrare l’ex presidente Giovanni Leone ha spiegato come “venne fatto in maniera ignobile” il nome dello stesso Leone collegandolo allo scandalo di tangenti Lockheed, “pur sapendo come fosse del tutto estraneo alla vicenda”.

Il riferimento implicito è a L’Espresso, che a lungo si occupò del caso. Ma Di Nicola, che all’epoca lavorava al settimanale, precisa invece che “gli articoli decisivi che portarono alle dimissioni di Leone c’entrano poco o niente con le tangenti dello scandalo Lockheed”: “Indagando su quello, semmai, scoprimmo anomalie nelle sue dichiarazioni dei redditi e pubblicammo una lunga inchiesta al riguardo”. Parlare di giornalismo scandalistico “secondo un modello altre volte registrato”, come asserito da Mattarella, presenta dunque un rischio. Se non altro perché non specificare in maniera chiara a che cosa ci si riferisca potrebbe dare occasione a qualcuno di strumentalizzare le parole del presidente: “Se una voce autorevole come quella del presidente della Repubblica fa riferimento ad altri episodi, senza però circoscrivere il ragionamento a casi specifici, è facile aspettarsi che chi vuole difendere per esempio Renzi dalle polemiche di questi giorni si faccia scudo con le parole di Mattarella”. In altre parole, il pericolo è di “dare fiato a chi, in questi giorni e anche dagli scranni parlamentari, usa tutti gli strumenti disponibili per gettare fango su quelle testate e quei cronisti che fino in fondo cercano di fare il proprio dovere per fornire ai cittadini le verità più scomode intorno a chi li governa”.

Homer Simpson e truppe di troll contro i “nemici”

Profili più o meno falsi in azione, simil-bot umani che alimentano la claque, innocue pagine Facebook che si trasformano in strumenti di propaganda renziana con centinaia di migliaia di seguaci da un giorno all’altro. Dagli atti dell’inchiesta sulla Fondazione Open emerge il modus operandi della “Bestia” di Renzi. Il punto di partenza è il 3 marzo 2017, quando Alexander Marchi, coordinatore del team comunicazione, invia a Simona Ercolani e Marco Carrai un’email con allegato l’elenco “dei nostri alternativi”. Dentro c’è uno schema: 16 persone gestiscono in totale 128 account tra Facebook e Twitter. Li chiamano profili “unofficial”.

Ursula Bassi è una delle componenti dello gruppo di via Giusti, quello che si occupava della comunicazione social dell’ex Rottamatore. Dallo schema inviato da Marchi a Carrai, tra i vari profili da lei gestiti ci sono anche quelli di “Calogero Pizzuocco” e “Dante Fusi”. Il primo risulta essere un anziano signore che ha su Facebook una bacheca praticamente vuota, il secondo – anche lui in là con gli anni – vanta un solo follower. Poi ci sono l’infaticabile “Sandro Cortesi”, particolarmente specializzato nella propaganda anti-grillina, e tale “Giulia Cortesi”, che esordisce su Facebook alla fine del 2016 e che è alacremente attiva nella pagina dedicata a Homer Simpson, un esempio di come si sviluppava lo schema del consenso renziano sui social e di cui parleremo tra poco. Stando allo schema inviato a Carrai, il primo profilo è gestito direttamente dallo stesso Marchi, mentre dietro quello di “Giulia Cortesi” c’è Armando Taccone, uno dei ragazzi del team. Lo schema social, tra l’altro, vige ancora, benché i signori nessuno abbiano lasciato il posto a personaggi pugnaci dagli pseudonimi più accattivanti. Tra questi, svetta il troll che porta il nome della giornalista Maria Teresa Meli, che stranamente non è stato sospeso da Twitter. Caratteristica comune dei bot simil-umani citati: non sono più attivi dalla primavera 2017. Nei mesi successivi al referendum, infatti, l’attività di alcuni utenti fittizi è consistita nel retwittare cinguettii altrui o nel commentare i big del Pd renziani, quasi a voler aumentare la percezione del consenso nei confronti di Renzi anche dopo il flop referendario. Poi è svanita irrimediabilmente.

Altra tecnica era quella di infiltrarsi e cambiare per sempre insospettabili paginette. L’esempio lampante è quello relativo a “800.000 iscritti per Homer Simpson presidente del Consiglio”. Fino al novembre del 2016, la pagina si proponeva come un semplice calderone di aforismi e di freddure di celebrità sparse. Nata nel 2011, aggiornata a singhiozzo e seguita da pochi utenti, si presentava come una delle tante community che affollano la galassia di Zuckerberg: battute scialbe, immagini dei Simpson, gemme filosofiche tratte da qualche bignami in Rete. Poi la metamorfosi, esattamente un mese prima del voto per il referendum costituzionale del dicembre 2016: le perle di Jim Morrison e di Marylin Monroe fanno spazio a una agguerrita propaganda filo-renziana, facendo guadagnare a quella paginetta insignificante oltre 300mila follower e trasformandola in una vera e propria falange anti-grillina che sganciava ogni giorno meme al fiele, molti sponsorizzati per accrescerne la visibilità. E infatti i numeri parlano chiaro: da una misera decina di condivisioni, i post della pagina raggiunsero un pubblico sempre più numeroso, arrivando a decine di migliaia di like.

Se quella pagina, ormai non più aggiornata dal 17 maggio 2020, campeggia ancora su Facebook, diverso destino è toccato ad altre ormai defunte, come “Voglio solo amore”, “Giorno dopo giorno” e “Frasi bellissime”. Questi lidi social sono stati analizzati su Vice.com da Leonardo Bianchi, che ha raccolto diversi post: strali contro i 5Stelle e in particolare contro il portavoce Rocco Casalino, meme bellicosi per il Sì al referendum, esaltazione di Renzi, spesso proposto come contraltare dell’ex premier Mario Monti. La strategia era chiara: veicolare la propaganda attraverso pagine dal nome esplicito, come “Basta un sì” (disattivata dopo il referendum) e al contempo utilizzare community che avessero nomi non rimandabili alla politica. Ma non solo. Come detto, la tattica prevedeva anche il ricorrere a nomi noti per condurre la campagna referendaria e in parallelo avvalersi di utenti sconosciuti per convincere gli indecisi: dall’uomo attempato con un solo follower che elogia compulsivamente Renzi e Boschi fino alla signora che mette l’hashtag #bastaunsì in un tweet sul sisma del centro Italia nell’agosto del 2016. Tutto fa consenso.

Così la “bestia” renziana creò la fake news

I dossier, il possibile utilizzo di un detective, i software israeliani per influenzare la campagna per il referendum e, poi, per distruggere gli avversari politici e i giornalisti scomodi. Nei giorni scorsi il Fatto ha raccontato il funzionamento della “Bestia” di Renzi. Mancava il caso di studio, la testimonianza plastica che traducesse in fatti le strategie del Giglio “unofficial” sui media. Eccolo.

Mercoledì 16 novembre, La Stampa in prima pagina: “Cyber propaganda M5S, la procura indaga sull’account chiave. Algoritmi, false notizie, bufale. Palazzo Chigi denuncia per diffamazione”. L’autore è Jacopo Iacoboni, firma del giornale allora diretto da Maurizio Molinari. È la storia della fantomatica Beatrice Di Maio, presunta adepta 5 Stelle che vergava tweet diffamatori contro il governo Pd di Renzi e i suoi esponenti. Fra questi Luca Lotti, ad aprile 2016 definito mafioso. L’allora sottosegretario alla presidenza del Consiglio denuncia, i parlamentari del Pd firmano interrogazioni contro la “macchina del fango M5s” e gli “hacker filo russi dei grillini”. Polemica a livelli massimi. Dopo una settimana la spy story diventa farsa: si scopre che Beatrice Di Maio era Tommasa Giovannoni, la moglie di Renato Brunetta, che nel 2018 è stata condannata a 1500 euro di multa per quel tweet. Altro che hacker di Putin, quindi. Ciò che non è mai tornato in questa storia era il link (e la tempistica) tra denuncia e pezzo della Stampa. Gli atti dell’inchiesta sulla Fondazione Open hanno chiuso il cerchio. La montatura mediatica aveva un mandante: la Bestia di Matteo Renzi. Emblematica una chat tra Alberto Bianchi (presidente di Open) e Fabio Pammolli, docente del Politecnico di Milano, ex consulente del governo e ad aprile 2021 messo dal ministro Giovannini a capo di una commissione di studio sui trasporti. Pammolli è una figura di spicco della Bestia viola ed è anche collaboratore de La Stampa. Martedì 8 novembre 2016 scrive a Bianchi, chiede gli estremi di una denuncia che Lotti presenterà dopo una settimana esatta. E spiega: “Qui tutto nasce dalle interazioni di m con Iacoboni. Va detto che Iacoboni è su una pista molto molto rilevante per mettere a nudo alcune caratteristiche della rete”. La pista è Beatrice Di Maio, quel “m” non si sa: nelle carte dell’inchiesta è la consonante con cui il Giglio Magico chiama Matteo Renzi. Pammolli ha fretta e la mattina del 14 novembre scrive: “Mercoledì Jacopo vuole uscire e domani aspetta da me estremi”. Nel pomeriggio il docente è in pressing: “Da Jacopo: Domani alle 11 c’è la riunione. Dici che arriva questa denuncia e faccio partire la macchina e Maurizio per pubblicare Beatrice?”. Bianchi assicura: “Entro domani la depositiamo di certo”. È di parola: il 15 novembre la denuncia è depositata, l’articolo può uscire. Il giorno dopo i due si scambiano il link dell’articolo di Jacoboni e decidono chi deve inviarlo a Dagospia. Soddisfatti? No: “Ma hanno messo troppo in evidenza la denuncia, su cartaceo titolo meno efficace perche Molinari era in Israele”, scrive Pammolli. Il 24 novembre il colpo di scena. Bianchi, incredulo: “Beatrice di Maio moglie Brunetta??”. Pammolli: “A noi risulta che quel IP fosse Casaleggio”. Il 25 novembre i due commentano un post di Davide Vecchi sul sito del Fatto. Il titolo è emblematico: “È se la cyber propaganda fosse a palazzo Chigi?”. Per Bianchi e Pammolli è “fanghiglia”. Non era così. Oggi quella vicenda è chiara: era un graffio della “Bestia” renziana, peraltro rivelatosi piuttosto maldestro. Due giorni fa il Fatto ha contattato Iacoboni per capire perché il suo nome era nel piano d’attacco antigrillino inviato da Rondolino a Renzi. Il giornalista ha assicurato che né Rondolino né personaggi a lui vicini sono mai stati sue fonti. A La Verità, tuttavia, ha raccontato di aver avuto rapporti lavorativi con Pammolli. E quando il Fatto gli ha chiesto della vicenda di Beatrice Di Maio e di eventuali collegamenti con la “Bestia” ha assicurato: “Avevo diverse fonti per quella storia: ho fatto verificare in maniera indipendente a un paio di professori alcune analisi sul network in questione”. Docenti collegati al giro di Renzi? “No. Non ho avuto contatti con queste persone”.

Gli obiettivi della “Bestia” erano precisi. Chiusa l’esperienza a Palazzo Chigi il 12 dicembre 2016, c’era l’esigenza di rinnovare la strategia social di Renzi. Dalle carte depositate a Firenze emerge che appena due giorni dopo, il 14 dicembre, il giornalista Alessio Di Giorgi (estraneo all’inchiesta) inviava una e-mail a Marco Carrai con allegata un powerpoint dal titolo “Strategia Social 2017”, nel quale, fra le “ipotesi di lavoro” c’era la proposta di creare canali in rete divisi in 6 categorie, tra cui “canali ad hoc ‘contro’: contro i 5 stelle, Salvini, contro la sinistra-sinistra”. Nelle slide si proponeva anche di dotarsi della app americana Ucampaign, nota per aver fatto le fortune politiche di Donald Trump: “Già pronta testata e brandizzabile (…) Svantaggi: è quella utilizzata dai repubblicani statunitensi”. Lo stesso giorno giunge a Renzi anche un e-mail di Pammolli (estraneo all’inchiesta), che propone la “Trasformazione della Pagina del Comitato ‘Basta un Sì nella Pagina della Fabbrica delle Idee” con una “task force collegata”.

I suggerimenti vengono sviluppati. In una bozza si ipotizzano dei target social suddivisi in tre categorie: “brand”, “competitor” e “campaign/eco system”. Fra i “competitor”, troviamo politici di vari partiti (Calenda, Meloni, Salvini, Berlusconi, D’Alema), molti pentastellati (Di Battista, Raggi, Grillo, Di Maio) e un solo giornalista, il direttore del Fatto Marco Travaglio. Fra i “brand” da spingere, invece, al primo posto c’e’ Matteo Renzi, al secondo la moglie Agnese Renzi. A seguire Gentiloni, Franceschini, Boschi, Del Rio, Minniti e molti altri, tutti estranei all’inchiesta. La proposta segue di un mese l’email dell’ex dalemiano Fabrizio Rondolino (non indagato) che proponeva a Renzi un “character assassination” per “distruggere la reputazione e l’immagine pubblica” di politici del M5s e di “Travaglio e Scanzi”.

Dalle indagini emerge anche come la “Bestia” si nutriva da Palazzo Chigi. Dove dopo le dimissioni di Renzi da premier, parte del suo staff ha continuato gestire ai dati dei cittadini. Sentita dalla Finanza, Elena Ulivieri (estranea all’inchiesta) ha raccontato il suo ruolo nella “task force impiegata per la corrispondenza (…) email del Presidente del Consiglio (…) con i cittadini”, e la gestione della “casella matteo@governo.it”. Dimessosi Renzi e arrivato Gentiloni, secondo l’informatica, i dati non andarono perduti. “In quel periodo – spiega – partecipavo a un progetto su una sorta di intelligenza artificiale (…) Il titolare (…) era una infrastruttura, ovvero la So Big Data, alla quale, con apposito Nda (non disclosure agreement), sono stati donati i dati della casella di posta elettronica matteo@governo.it”.

Come fare epurazioni alla Rai, da B. a Matteo

Tra il 2004 e il 2005 Matteo Renzi è agli albori della sua sfolgorante carriera. È appena stato eletto presidente della provincia di Firenze. In quel mentre in Rai è attivissima la cosiddetta Struttura Delta, quel manipolo di persone coordinate da Deborah Bergamini, capo del marketing piazzata lì da Silvio Berlusconi (al suo secondo governo), che concordava con i capi di Mediaset palinsesti e programmi in modo da avvantaggiare le reti del Biscione.

È lì che, secondo molti osservatori, cambia il rapporto tra la tv e la politica. L’antipasto c’era stato due anni prima, nel 2002, con l’editto bulgaro del Caimano contro Michele Santoro, Enzo Biagi e Daniele Luttazzi.

Ecco, le mail che il 31 dicembre 2017 Renzi si scambia con Marco Carrai sulle strategie per controllare i media hanno un po’ quel sapore. Con i dovuti distinguo: Renzi, a differenza di B., non possiede tv e giornali. È però ancora il politico più potente d’Italia: ex premier ma ancora segretario del Pd, dopo la sconfitta referendaria è in fase calante e ha bisogno come l’aria di sponde mediatiche. Ma se alcuni passaggi sembrano normale strategia, altri vanno ben oltre. Come “conoscere le scalette”. O “accordo Agnoletti (capo della comunicazione renziana, ndr)/Orfeo”, che allora era dg Rai. O “accordo con Confalonieri e Brachino”. “Come direttore ho sempre lavorato nel rispetto di un solo interlocutore, il mio editore che, anche nella campagna 2018, mi ha chiesto pluralismo e rispetto della par condicio, come poi è stato”, risponde Brachino, allora direttore di Videonews. “Non avevo alcun accordo con Agnoletti”, taglia corto Orfeo.

Le mani sulla tv l’ex premier del resto le aveva già messe. E durante i suoi tre anni a Palazzo Chigi (febbraio 2014-dicembre 2016) e anche dopo diversi sono stati gli “epurati”, con Campo Dall’Orto, prima, e con Orfeo, poi. Per esempio Virus di Nicola Porro, chiuso da Ilaria Dallatana nel giugno 2016. “A un certo punto ci accorgiamo che diamo fastidio. Vanno via tre giornalisti e non mi danno i rincalzi, una sera mi chiedono di occuparmi di cronaca con la puntata politica già pronta. Non si voleva disturbare il manovratore”, ricorda Porro. Che rivela: “Avevano già deciso di chiuderci e all’ultima puntata viene Renzi. Gli dico: presidente, spegne lei le luci dello studio stasera? E lui: non mi permetterei mai di accendere o spegnere le luci dentro la Rai…”.

Altro programma svanito è Ballarò. La gestione post-Floris di Massimo Giannini dura due stagioni (2014 e 2015) e alcuni scontri con l’universo renziano, come una puntata su Banca Etruria, restano epici. “Leggere quelle mail non mi scandalizza, conosco il modus operandi di quel mondo. Tutti i leader politici vogliono controllare la Rai. Un conto, però, è pianificare strategie per essere più efficaci o chiedere chi saranno gli altri ospiti di un programma, altro è voler di conoscere scalette o metter veti tipo ‘se c’è tizio non vengo io’. O pretendere di essere intervistati da giornalisti considerati amici”, osserva il direttore della Stampa. Che punta il dito anche sulla nostra categoria, “perché se i politici chiedono, vuol dire che spesso ottengono”. Al suo posto Daria Bignardi mette Politics, con Gianluca Semprini, che nemmeno mangerà il panettone. Poi arriverà Bianca Berlinguer, con Cartabianca, ma intanto Floris su La 7 s’era pappato gli ascolti. Altro caso è la chiusura dell’Arena di Massimo Giletti, la domenica pomeriggio su Raiuno. “Io sono stato cacciato da Orfeo, forse davo troppo spazio ai 5 Stelle. Renzi non è il primo né l’ultimo a voler controllare l’informazione. Ma c’è anche ipocrisia: chi di noi non ha mai ceduto a qualche richiesta per avere un ospite? Io però il mio programma in Rai adesso non lo potrei fare…”, dice il conduttore, trasmigrato a La7. “Ormai siamo tutti qui e non è un caso…”.

L’ira dei peones Iv: “Fa i suoi interessi, noi liberi sul Colle”

Per ora sono crepe. A gennaio potrebbero diventare una spaccatura profonda. Lo scandalo Open – con la pubblicazione di donazioni private anche da uno Stato estero a Renzi e la “Bestia” ideata per “distruggere il Fatto e il M5S” – sta suscitando malumori anche dentro Italia Viva. Da una parte ci sono i vertici del partito – Ettore Rosato, Davide Faraone, Maria Elena Boschi, Elena Bonetti – che fanno da scudo a Matteo Renzi gridando alla “barbarie” per la pubblicazione delle carte sui giornali. Ma poi, nelle retrovie, c’è la truppa parlamentare: 43 tra deputati e senatori che faranno da ago della bilancia nella prossima partita per il Quirinale. E almeno una decina di loro non ha preso bene le rivelazioni sui giornali della vicenda Open. Perché, al di là della questione penale, le carte fotografano un modo di fare politica volto quasi esclusivamente agli interessi personali di Renzi. E di questo alcuni parlamentari renziani sono preoccupati. Le chat ribollono. La paura è quella che dopo il voto del Quirinale Renzi si voglia liberare del partito: “Dopo il Colle siamo in mezzo alla strada” sussurra un renziano.

Anche perché quella del Quirinale potrebbe essere l’ultima partita politica che Renzi può giocare da protagonista. Vuole fare il kingmaker. Ma dopo lo scandalo Open dovrà fare i conti con un problema in casa sua: non è detto che tutto il gruppo parlamentare lo segua. Soprattutto se il leader di Iv giocherà per rompere l’asse Pd-M5S e magari votare un candidato con il centrodestra per ufficializzare una nuova maggioranza politica. A quel punto tutto il potere contrattuale di Renzi verrebbe meno. Leonardo Grimani, senatore umbro con un passato nei Ds e nel Pd, mette in discussione la linea di Renzi: “Iv sta vivendo una fase complicata – sospira – non abbiamo una prospettiva politica. Io non ho gradito queste manovre di avvicinamento alla destra in Sicilia e in altre regioni, è un progetto che non condivido e che non ha deciso nessuno. Non possiamo fare patti con Miccichè”. Grimani poi lancia un avvertimento a Renzi sul Quirinale: “È vero che il centrosinistra non ha i numeri per eleggere da solo un capo dello Stato, ma non possiamo nemmeno andare al traino del centrodestra. Se il partito decidesse di fare un accordo con Salvini, farei le mie valutazioni. Che facciamo, votiamo Berlusconi?”.

Anche Camillo D’Alessandro, deputato renziano, sul Quirinale spiega che Iv deve stare col centrosinistra e non fare accordi sottobanco con Berlusconi, Salvini e Meloni: “La nostra collocazione naturale è quella del centrosinistra e in questo campo dobbiamo mettere in piedi una strategia comune contro la destra. Se qualcuno in Iv immagina un secondo tempo a destra, io non sono d’accordo e ha sbagliato partito”. Sullo scandalo legato all’inchiesta Open, D’Alessandro è cauto: esclude che Renzi abbia “messo in piedi una Bestia come quella leghista” e sui viaggi in Arabia Saudita e i pagamenti dall’estero precisa che “ciò che è legale è opportuno e ciò che è illegale è inopportuno”. Però poi, sulle trasferte del capo da Mohammad bin Salman è gelido. È opportuno? “Per Renzi evidentemente sì. La legge vale per tutti, l’opportunità per i singoli”. Grimani invece critica il leader: “Matteo si deve dedicare all’attività parlamentare e meno a quella di conferenziere”. E sulla “Bestia” ideata da Fabrizio Rondolino ci va giù pesante: “Dobbiamo essere coerenti: per anni abbiamo attaccato il M5S e la Lega per il loro uso spregiudicato delle fake news sui social e se lo ha fatto qualcuno dei nostri ha sbagliato. In una guerra non si possono usare le stesse armi dell’avversario se prima le abbiamo contestate”.

Pd tra silenzi e imbarazzi: la paura di perdere voti e i vecchi conti degli “ex”

Nel gennaio 2017, quando Fabrizio Rondolino invia una mail a Matteo Renzi suggerendogli di mettere su una piccola struttura, con tanto di investigatore privato, per dedicarsi alla “character assassination” degli avversari politici (come si legge nelle carte dell’inchiesta Open), il fu Rottamatore ha appena perso il referendum, ha lasciato Palazzo Chigi, ma è ancora segretario del Pd. Si prepara a dimettersi per poi ripresentarsi alle primarie. Sarà rieletto, infatti, alla guida del partito, dopo la scissione di Bersani e una competizione senza brividi. Nel 2018 quando comincia a guadagnare cifre sempre più elevate dalle sue attività di conferenziere e consulente (arriva a 2,6 milioni di euro complessivi tra il 2018 e 2020), fa le liste elettorali, sapendo che quanti più parlamentari sarà in grado di controllare, tanto più la sua sopravvivenza politica sarà garantita. E perde le elezioni. Anche se resta segretario del Pd fino al settembre 2019, comincia a fare un altro mestiere, mentre parallelamente lavora a mettere su il suo partito (che sarà Italia viva), in modo da essere libero di brigare e manovrare sulla scena politica italiana.

Nel Pd ieri non c’era certamente la fila per commentare i fatti che emergono dalle carte di Open. I deputati e i senatori sono tutti stati messi in lista dalla segreteria Renzi, anche quelli che all’epoca erano i suoi avversari interni. Come i ministri, Dario Franceschini, Andrea Orlando e Lorenzo Guerini, anche se in maniera molto diversa tra loro, con il senatore di Scandicci hanno condiviso pezzi di vicenda politica. Non commenta, però, neanche Enrico Letta, che da Renzi fu defenestrato e che oggi è segretario del Pd. Un silenzio che deriva più che altro dalla voglia di non mischiarsi, dalla decisione di lasciare che l’ex premier si rovini da solo. Letta vuole starne fuori, insomma, anche se al Nazareno ci tengono a ricordare che gli attacchi ai giornalisti sono un attacco alla democrazia. Va detto pure che Letta per mettere Renzi fuori dal suo progetto di Ulivo 2.0 ha aspettato la morte della legge Zan. E tra i dem i ragionamenti che si fanno sono molteplici. A fronte di un rancore crescente dei più nei confronti del loro ex segretario e di uno sdegno inespresso davanti a quanto emerge dall’inchiesta, c’è anche chi reputa che non è il caso di attaccarlo, perché anche se Iv non ha troppi voti, il timore è quello di perdere anche parte di quell’elettorato. Le mosse tra loro contraddittorie di Carlo Calenda, che da una parte non vuole fare il centro con il leader di Iv, dall’altra si unisce al suo gruppo a Bruxelles, dicono qualcosa della posizione ambivalente rispetto al renzismo. Al Nazareno sottolineano il fatto che con la gestione Renzi la segreteria Letta non ha nulla a che vedere.

Il gruppo del Senato è la dimostrazione plastica che non è esattamente così. A rimborsare 8.363 euro per il viaggio a Johannesburg per le commemorazioni di Nelson Mandela (15-17 luglio 2018), presente anche Barack Obama, è proprio il gruppo dem di Palazzo Madama. Una decisione presa da Andrea Marcucci (allora presidente dei senatori dem) e rimbalzata sul tesoriere, Stefano Collina, uno degli uomini più vicini allo stesso Marcucci. “Le spese dei Gruppi sono finalizzate esclusivamente agli scopi istituzionali”, si legge nel “Regolamento di contabilità dei gruppi del Senato”, che rimanda all’articolo 16, comma 2, del Regolamento di palazzo Madama: i contributi “sono destinati esclusivamente agli scopi istituzionali riferiti all’attività parlamentare e alle attività politiche ad essa connesse, alle funzioni di studio, editoria e comunicazione ad esse ricollegabili, nonché alle spese per il funzionamento dei loro organi e delle loro strutture”. Non è chiaro, dunque, come tale viaggio si giustificasse. Ma la questione si ripropose a novembre, quando il gruppo Pd del Senato finanziò un’iniziativa della corrente renziana a Salsomaggiore.

Marcucci oggi non è più capogruppo, Collina è ancora tesoriere. Presente all’epoca, anche Luca Lotti, l’autosospeso. A proposito di eredità del renzismo tra i dem.