Obbligo di trasparenza: il cappio della Bonafede

Eora si scopre che l’uomo di fiducia di Matteo Renzi, l’avvocato Alberto Bianchi, aveva fretta di chiudere Open, la cassaforte del Giglio magico. Ché alle viste c’era l’approvazione della legge Spazzacorrotti che avrebbe imposto alla Fondazione gli stessi obblighi di trasparenza imposti ai partiti. Le nuove norme che sarebbero entrate in vigore a gennaio 2019 equiparavano infatti ai partiti i comitati, le associazioni o per l’appunto le fondazioni , “la composizione dei cui organi direttivi sia determinata in tutto o in parte da deliberazioni di partiti o movimenti politici ovvero i cui organi direttivi siano composti in tutto o in parte da membri di organi di partiti o movimenti politici ovvero persone che siano o siano state, nei dieci anni precedenti, membri del Parlamento nazionale o europeo o di assemblee elettive regionali o locali”. E ancora. “Persone che ricoprano o abbiano ricoperto, nei dieci anni precedenti, incarichi di governo al livello nazionale, regionale o locale ovvero incarichi istituzionali per esservi state elette o nominate in virtù della loro appartenenza a partiti o movimenti politici. Nonché le fondazioni e le associazioni che eroghino somme a titolo di liberalità o contribuiscano in misura pari o superiore a euro 5.000 l’anno al finanziamento di iniziative o servizi a titolo gratuito in favore di partiti, movimenti politici o loro articolazioni interne, di membri di organi di partiti o movimenti politici o di persone che ricoprono incarichi istituzionali”. Imponendo obblighi di trasparenza e accesso alle informazioni relative al proprio assetto statutario, agli organi associativi, al funzionamento interno e ai bilanci. E con il divieto specifico di devolvere, in tutto o in parte, le elargizioni in denaro, i contributi, le prestazioni o le altre forme di sostegno a carattere patrimoniale in favore di partiti e movimenti politici, delle liste elettorali e di singoli candidati alla carica di sindaco, se provenienti da governi o enti pubblici di Stati esteri e da persone giuridiche aventi sede in uno Stato estero non assoggettate a obblighi fiscali in Italia nonché da persone fisiche maggiorenni straniere.

Norme che evidentemente consigliavano di chiudere baracca e burattini, dicendo addio, senza rimpianti, alla Fondazione che avrebbe però continuato a far discutere prima e anche dopo e non solo per via dell’inchiesta di Firenze.

Era accaduto per esempio che il tesoriere dem Luigi Zanda sul finire del 2019 aveva accusando l’ex segretario di aver raccolto milioni convogliandoli alla Fondazione che finanziava le sue attività politiche, mentre il partito era in difficoltà nera. E la risposta di Renzi (che nel frattempo si era messo in proprio con Italia Viva) non si era fatta attendere: prima aveva strapazzato Zanda rinfacciandogli i suoi rapporti con Carlo De Benedetti. Poi aveva randellato il Pd reo di aver presentato un emendamento al dl Crescita, poi ritirato, che avrebbe fatto slittare l’applicazione della Spazzacorrotti. “Di giorno fanno i moralisti, di notte in commissione salvano le loro fondazioni” aveva chiosato Renzi. Che tanto giocava sul velluto: per non rischiare, Open l’aveva già chiusa l’anno prima.

A “Ottoemezzo” Renzi non risponde sul dossieraggio

Flashback. Per un attimo si torna al ventennio berlusconiano: un ex premier che non risponde, dà spettacolo e chiama “diffamatore” chi gli fa le domande. Ci mancava solo che Matteo Renzi spolverasse la sedia dello studio di La7, come fece l’originale di Arcore nella storica puntata di Servizio Pubblico del 2013, davanti a Michele Santoro e Marco Travaglio. Come 8 anni fa con Berlusconi, anche ieri sera a “sfidare” Renzi c’era il direttore del Fatto Quotidiano (collegato in video), insieme a Massimo Giannini della Stampa, ospiti di Lilli Gruber a Otto e mezzo.

Renzi s’infila l’elmetto e si cala in trincea: se non altro gli va dato atto del coraggio. Di risposte, invece, alle domande sull’inchiesta di Firenze e sugli altri guai renziani, non ce n’è praticamente una.

Il primo round si apre sugli atti dell’indagine Open. Travaglio legge l’email di Fabrizio Rondolino, ricevuta da Renzi e inoltrata a Marco Carrai, con la quale l’ex giornalista dell’Unità propone una task force per delegittimare gli avversari politici: la “character assassination” dei Cinque Stelle (Grillo, Di Maio, Di Battista e altri), di Travaglio e di Andrea Scanzi. Renzi ridacchia in sottofondo. Quando è il momento di replicare, lo fa con una sequela di insulti: “Maddai ragazzi. Due minuti e due secondi per dire quanto è disperato Travaglio. Per distruggere i Cinque Stelle è bastato farli governare. Per distruggere Il Fatto Quotidiano invece è bastato Travaglio”. Si riferisce alle cause vinte in tribunale (“una condanna penale e 10 condanne civili”), lo definisce “campione europeo di diffamazione”, lo chiama a più riprese “pregiudicato”. “Non voglio la fine del Fatto – dice – perché è un vitalizio per me e per la mia famiglia”. Travaglio sorride, è quasi una madeleine: “Mi sembra di essere tornati ai tempi di Santoro. I galoppini di Berlusconi citavano le mille cause che facevano. Una su mille riuscivano a vincerla e poi ti chiamavano pregiudicato”.

Sull’idea di Rondolino, Renzi si limita a poche parole: “Ovviamente non ha avuto seguito. Gli ho risposto di no, ma non per email. Altrimenti sarebbe stata agli atti. Il mio ufficio l’ha girata a Carrai in automatico”. In verità, dagli stessi atti, risulta che Rondolino e la moglie Simona Ercolani sono stati impiegati nella “bestiolina” renziana, la squadra della comunicazione web messa in piedi – secondo l’ipotesi dei pm – con le risorse della Fondazione Open dopo la sconfitta nel referendum costituzionale del 2016.

Giannini legge un’altra email, quella che lo stesso Renzi invia a Carrai per indirizzare i rapporti con i media (“conoscere le scalette”, “pretendere di indirizzare alcuni contenuti”). Il senatore va ancora sul personale: “Giannini, tu Carrai lo conosci, gli hai dato dei soldi come risarcimento di una causa. Statti buono”. “Falso, non ho pagato un centesimo”, replica il giornalista. “Allora hai dovuto chiedergli scusa sul tuo giornale”.

Renzi non risponde nel merito su Open (“È un hackeraggio di Stato”), né sui rapporti con Bin Salman (“Dite che le donne non possono guidare, non sapete niente di Arabia Saudita”), né sull’opportunità di prendere soldi da uno Stato estero (“Di quello che faccio ne rispondo ai cittadini. Voi alimentate una campagna di odio perché noi, da soli, abbiamo messo Draghi al posto di Conte”). Si dimentica persino di aver frequentato la commissione Esteri del Senato: “Non ci sono mai stato” (invece ne ha fatto parte dal 21 giugno 2018 al 29 luglio 2020). Deride ancora Travaglio con argomenti puerili: “Mi chiamavi ‘pelo superfluo’ e ho mandato a casa il tuo Conte. Sei una vedova di Conte”.

Sembra davvero lontano dall’impegno pubblico, nell’atteggiamento e nella dialettica: “Continuerò a fare politica? Non lo so. Siete ossessionati da me, ma io vi voglio bene a tutti”. E poi: “Non so se Draghi va al Quirinale, ma ho l’impressione che si andrà a votare nel 2022”. Poi potrà occuparsi in pace dei suoi affari.

Il diktat via mail: “Chiudere Open prima che arrivi la Spazzacorrotti”

La fondazione Open doveva chiudere prima dell’entrata in vigore della legge Spazzacorrotti. Non lo dice un testimone dell’accusa e neanche un avversario politico di Matteo Renzi. A scriverlo è un esponente di punta del Giglio Magico: l’avvocato Alberto Bianchi, presidente della cassaforte che ha accompagnato l’ascesa politica dell’ex presidente del Consiglio. Lo fa più volte in alcune email inviate a due volti di primo piano del renzismo: Maria Elena Boschi e Luca Lotti, entrambi consiglieri della fondazione al centro dell’inchiesta della procura di Firenze.

Nata nel 2012 col nome di Big Bang, Open viene posta in liquidazione il 29 giugno 2018, poche settimane dopo la nascita del governo gialloverde. Una delle ultime voci in uscita è rappresentata dai 134.900 euro spesi per il volo che ha condotto Renzi a Washington, alla cerimonia in memoria di Bob Kennedy. Poi, nel gennaio del 2019, Bianchi accelera sulla chiusura della liquidazione. Ma c’è un problema: un’imprecisata somma di denaro rimasta in cassa al Comitato per il Sì al referendum costituzionale del 2016. L’avvocato scrive più volte a Boschi e Lotti, proponendo di girare quei soldi alla fondazione, che però è già in fase di liquidazione da quasi sei mesi.

La corrispondenza, contenuta nei dispositivi informatici di Bianchi e sequestrata dagli inquirenti, va avanti per qualche giorno. Ma l’avvocato ha fretta. Il 20 gennaio scrive ai due ex ministri: “Mari, Luca, ho URGENZA (in maiuscolo nel testo originale, ndr) della vs decisione sull’argomento. Se decidiamo che i fondi del Comitato per il Sì vanno a Open, il materiale trasferimento deve essere fatto entro giovedì 25 gennaio. Altrimenti i fondi andranno altrove, dove deciderete. La Fondazione deve essere chiusa in ogni modo entro il 31 gennaio, altrimenti entriamo nell’orbita di applicazione della l. 3/2019, con le complesse conseguenze che ne seguirebbero”.

La legge 3 del 2019 è la Spazzacorrotti ed è entrata in vigore l’ultimo giorno di gennaio dello stesso anno: considerata una delle norme bandiera dei 5Stelle, è stata approvata in via definitiva alla Camera il 18 dicembre 2018, tra le proteste di Forza Italia (che non partecipa alla seduta) e i voti contrari del Pd, di cui all’epoca fanno ancora parte i renziani. Tra le novità contenute nella norma c’è anche l’equiparazione ai partiti di tutte quelle fondazioni che hanno all’interno dei propri organi direttivi esponenti politici: basta essere stati parlamentari o aver ricoperto incarichi di governo nei dieci anni precedenti. È proprio il caso di Open, visto che nel consiglio siedono Lotti e Boschi, ex ministri e deputati in carica. La questione delle fondazioni che si muovono come i partiti è un passaggio cruciale dell’inchiesta di Firenze: gli inquirenti, infatti, vogliono dimostrare che Open agiva come l’articolazione della corrente renziana dentro al Pd, già prima della Spazzacorrotti. Ecco perché agli atti ci sono anche le mail di Bianchi, che parla di “complesse conseguenze” legate all’entrata in vigore della legge. Il 12 febbraio del 2019, l’avvocato scrive di nuovo a Lotti e Boschi, inviando tutte le carte relative alla chiusura dell’operazione liquidatoria. E i soldi rimasti sul conto del Comitato per il referendum? “In considerazione della necessità di chiudere al 30 gennaio, ossia prima dell’entrata in vigore della legge 3/2019, ho rinunciato all’operazione di trasferimento a Open dell’eccedenza del Comitato per il Sì che, tra una storia e un’altra, avrebbe portato via ulteriore tempo”. Insomma, pur di chiudere prima possibile, Bianchi rinuncia a quel passaggio di soldi. E dire che la fondazione ne avrebbe bisogno, visto che – come documentato dalla Guardia di finanza – chiude il bilancio finale di liquidazione con una perdita di 288.174 mila euro. Denaro che Open doveva al suo presidente, cioè allo stesso Bianchi. Che però non solo rinuncia ufficialmente a incassare il credito, ma dichiara di accollarsi ulteriori debiti che dovessero emergere dopo la chiusura della fondazione.

Col morto in casa

Molti lettori ci scrivono inorriditi per la macchina del fango renziana contro i 5Stelle e il Fatto. Ma soprattutto per il silenzio degli altri giornali (a parte La Verità) e dei tg. La spiegazione è semplice: hanno quasi tutti il morto in casa. Del resto, per quanto bassa sia la nostra considerazione di quel trust di cervelli, non possiamo credere che nel 2017 pensassero di fermare la marea montante anti-partiti che gonfiava le vele al M5S con un Rondolino, una Chirico e un commissario Iacoboni (quello dello scoop su Beatrice Di Maio, presunta Mata Hari putinian-grillina, poi rivelatasi essere la moglie di Brunetta). Basta scorrere giornaloni, tg e talk da riporto nell’ultimo anno prima delle elezioni del 2018 per ricordare che avevano tutti un solo obiettivo: sputtanare i 5S dimostrando che rubavano come gli altri. E, non riuscendo a trovarne neppure mezzo che lo facesse, nascondevano scandali e inchieste sui renziani (ma pure su B., promosso da Scalfari a diga anti-barbari), e pompavano microscandaletti grillini inventando notizie false o modificando geneticamente mezze verità per trasformarle in menzogne intere. Raggi e Sala imputati per abuso d’ufficio, lei senza prove e lui per due documenti d’appalto retrodatati a sua firma? Centinaia di titoli sulla Raggi, dipinta come una tangentista un po’ mignotta: infatti fu assolta. Zero tituli su Sala, dipinto come un tapino costretto a fare carte false per il nostro bene: infatti fu condannato e poi prescritto. E rubrica fissa su Spelacchio per impiccarvi la Raggi.

L’Appendino mostrificata come una serial killer per la tragedia di piazza San Carlo, causata da una gang di rapinatori. E l’inchiesta Consip sul Giglio Magico per tangenti promesse sul più grande appalto d’Europa prima oscurata e poi spacciata per un mega-complotto di Noe e Woodcock per far dimettere Renzi (che si era già dimesso). Grande rilievo alla colf in nero di Fico, che non era una colf e non lavorava per Fico, e alla “Cinquestellopoli” spacciata per un mega-furto di soldi pubblici, mentre i parlamentari M5S che non restituivano la quota di stipendio si tenevano soldi propri. Molto spazio allo scandalo del padre di Di Maio indagato per una carriola piena di calcinacci nell’orto. Poche righe per la soffiata di Renzi a De Benedetti sul dl Banche e ai 600 mila euro guadagnati in Borsa dall’Ingegnere. Il 2017 si concluse con la grande campagna dei giornaloni sui fake russo-grillini denunciati da Renzi alla Leopolda e sulla sua ideona di “una commissione parlamentare d’inchiesta con i poteri della magistratura per scoprire chi c’è dietro le fake news”, naufragata per mancanza di tempo. Peccato, sennò magari scopriva che dietro c’era lui. O chi per lui.

Cop26 e auto, è sempre il solito (e inutile) gioco delle parti

Il Risiko sull’ambiente va avanti. Tra proclami più o meno vuoti, e l’appello accorato del Santo Padre che tenta di smuovere coscienze e azioni. La Cop26, che oggi chiuderà i battenti, a meno di clamorose quanto improbabili inversioni di tendenza, registrerà l’ennesimo risultato deludente. Per l’auto, un’impasse annunciata dopo le prese di posizione dei costruttori. Solo in sei hanno firmato la dichiarazione di intenti per l’abbandono della produzione di veicoli con motori endotermici entro il 2040: BYD, Ford, General Motors, Jaguar-Land Rover, Mercedes e Volvo. Rimangono fuori attori importanti come Bmw, Renault-Nissan, Stellantis, Honda, Toyota e Volkswagen. Nonostante anche questi siano impegnati con convinzione (e investimenti economici) nella transizione verso una mobilità che tenda all’impatto minimo sull’aria che respiriamo. Come mai questa frenata, dunque? Beh, quando a non firmare la dichiarazione d’intenti sono i paesi che più inquinano al mondo, ovvero la Cina (che non ha aderito neanche all’accordo per fermare la produzione di energia elettrica dal carbone) e gli Stati Uniti, così come quelli dove è più radicata la produzione di auto (Giappone, Germania, Spagna, Repubblica Ceca, Slovacchia e anche Italia), chi di mestiere deve far quadrare i conti qualche dubbio se lo pone. Per intenderci: la transizione energetica costa parecchio, e i costruttori sono disposti ad accollarsi il rischio solo se i governi fanno altrettanto. Favorendo la creazione di un ecosistema, leggi infrastrutture e sostegni finanziari, favorevole a batterie e elettroni. L’alternativa è il fallimento.

Lancia, nel 2028 il ritorno della Delta

Nostalgici e appassionati di Lancia sono rimasti tristemente in disparte per tanti anni, dopo che Sergio Marchionne “degradò” il marchio a realtà ormai solo regionale. Anche in virtù del fatto che, con un solo modello (la Ypsilon), la stragrande parte delle vendite si facevano e si fanno in Italia.

Ora tuttavia (o meglio, in futuro) per il brand torinese sembrano aprirsi scenari nuovi all’interno del gruppo Stellantis. A parlarne, in un’intervista rilasciata alla testata specializzata Automotive News Europe, è stato l’amministratore delegato Luca Napolitano. Il quale ha illustrato la road map di Lancia per gli anni a venire, che prevede l’arrivo di tre nuovi modelli e il ritorno sui grandi mercati continentali (inizialmente Francia, Germania, Spagna, Austria Belgio e, in un secondo momento, anche Regno Unito), a partire dal 2024.

Ma la notizia è che, tra quelle tre novità, c’è anche la nuova Delta: un nome capace di accendere l’entusiasmo fin d’ora, anche se il suo debutto è previsto solo nel 2028.

La prima ad arrivare sarà la nuova generazione (la quinta, mentre la prima risale al 1985) della Ypsilon, che sfruttando la base costruttiva della piattaforma Cmp dell’ex Psa (la stessa di Peugeot 208, per intenderci) verrà offerta anche con una variante ibrida mild ed elettrica. Del resto, le sinergie industriali con innescate con la fusione tra Fca e Psa lo consentono.

Poi, nel 2026, sarà la volta di un crossover di dimensioni medie con powertrain a batteria il cui nome ad oggi è Aurelia, e chissà che non venga mantenuto anche nella versione definitiva. Comunque sia, rappresenterà il top di gamma almeno per due anni. Fino all’arrivo, come anticipato, dell’erede della Delta nel 2028. A questo punto è lecito chiedersi: come sarà?

Luca Napolitano ha detto che avrà un’architettura da hatchback, definizione un po’ generica che tuttavia identifica una berlina (con ogni probabilità elettrica) a due volumi. Compatta, come la gloriosa Delta che fu.

E speriamo anche sportiva.

Parcheggio selvaggio, monopattini e device: occhio al nuovo codice

È entrato in vigore in settimana il nuovo Codice della Strada e sono tante le novità da conoscere. La prima è che al volante, oltre allo smartphone, è ora vietato usare pure altri device elettronici, come tablet, computer portatili, notebook e “dispositivi analoghi che comportino anche solo temporaneamente l’allontanamento delle mani dal volante”. Pugno di ferro contro chi parcheggia indebitamente nelle aree di sosta per disabili: le sanzioni pecuniarie andranno da 168 a 672 euro, mentre i punti decurtati dalla patente diventeranno 6 anziché 2.

Da gennaio 2022 i disabili potranno parcheggiare gratis su striscia blu, a patto che le aree di sosta loro riservate siano già occupate. Gli stalli preposti alla ricarica di auto elettriche devono essere occupati solo per il tempo necessario al rifornimento e trascorsa un’ora, è vietato sostare ulteriormente. Il divieto non vale tra le 23 e le 7 del mattino, a eccezione degli spazi riservati alle colonnine fast e alle super fast, da liberare a ricarica ultimata. Stretta per i dueruotisti: d’ora in avanti il passeggero senza casco è sanzionato direttamente, anche se minorenne.

Sui monopattini, a partire dal 1° luglio 2022, diverranno obbligatori frecce, stop e freni su entrambe le ruote: non possono superare i 6 km/h durante il transito nelle aree pedonali, viaggiare oltre i 20 km/h in tutti gli altri casi, circolare e sostare sui marciapiedi oltreché andare contromano. L’assicurazione di tali mezzi diventa obbligatoria per quelli a noleggio. Novità per i candidati a ottenere la patente: per loro la validità del foglio rosa è estesa a un anno. Ma per chi si esercita senza istruttore al proprio fianco è prevista una multa da 430 a 1.731 euro e il fermo amministrativo del veicolo per 3 mesi. Stanziato un contributo per il conseguimento del documento di guida patente: fino a mille euro per i giovani fino a 35 anni, per chi riceve reddito di cittadinanza o ammortizzatori sociali. Sarà valido sino al 30.07.2022, non potrà essere superiore al 50% delle spese sostenute per la patente e vincolato all’ottenimento di un contratto di lavoro da conducente. Altra novità importante è che col nuovo CdS sono i clienti delle società di noleggio a pagare le infrazioni commesse mentre sono alla guida: in caso di infrazione, le imprese di noleggio forniranno alle autorità le generalità del sottoscrittore del contratto di locazione. Mentre gli enti locali dovranno pubblicare una relazione pubblica annuale sulla destinazione dei proventi delle multe. Infine, diventa obbligatorio far passare i pedoni che si apprestano ad attraversare la strada e dare loro la precedenza a prescindere dal fatto che i pedoni abbiano iniziato o meno l’attraversamento.

Amore, politica, amicizia: alla fine Vasco è “Siamo qui”

Lucido come mai, lo si evince dall’ascolto del nuovo album Siamo qui. Tema: lavorare su se stessi e accettarsi. Cosa rende Vasco così inarrivabile rispetto ad altri artisti? La sua capacità di sintesi. Condensare in quattro, cinque parole un’esistenza di esperienza: dietro una sua frase si celano universi paralleli. L’amore l’amore evoca la magia di Innocenti evasioni di Battisti: è il Vasco degli esordi, la chiusura del cerchio, con un messaggio pansessuale (“l’amore si fa come si vuole!”). In XI Comandamento l’artista scrive l’epitaffio sulla sua visione politica del Paese in preda al populismo: “Non puoi discuterci con l’arroganza”. Ritroviamo il classico fraseggio sui sentimenti in La pioggia alla domenica: “ho capito che non mi diverto, perché non ha più senso un aeroplano senza un aeroporto”. Il concetto è spiegato dallo stesso autore: “Dobbiamo difendere quello che abbiamo fatto anche se non sappiamo perché lo abbiamo fatto. Non cerco più il godimento fine a se stesso. Quando fai una promessa e hai un figlio non è che puoi continuare a innamorarti”. Ed ecco Ho ritrovato te, intrisa di disincanto e redenzione, soprattutto verso l’altra metà di coppia: “avevo litigato con la vita, avevo litigato con me, avevo fatto a pezzi il mondo, avevo chiuso fuori anche te. Non ho fatto la pace con tutto, però ho ritrovato te”. La sveglia arriva con un attacco ispirato a London Calling dei Clash, incipit di Un respiro in più, forse il brano più maturo mai scritto, quasi a catturare il bocciolo che sboccia, nulla da invidiare a Leonard Cohen: “quando avrai constatato che esistere è soltanto un respiro in più, sarai pronto a morire per vivere, finalmente come vuoi tu”. E, nel frattempo, Vasco ci invita in Prendiamo il volo nel suo personalissimo Yellow Submarine: “prenditi questa bugia, mettiti comodo, sali con me sulla scia di questo sogno”.

Il tour inizierà il 20 maggio 2022 a Trento.

È l’arte degli affari d’oro: fatturato da 4 miliardi

La prima ricerca sull’industria dell’arte in Italia. Uno studio dell’Osservatorio Nomisma, promosso dal gruppo Apollo, ne radiografa lo stato di salute negli ultimi dieci anni. Segmento per segmento, tra campanelli d’allarme ed exit strategy. Il biennio horribilis del Covid ha tracciato un solco, specie nel comparto della logistica; ma il quadro generale resta incoraggiante. E decolla chi sta al passo coi tempi digitali. L’evidenza è nei numeri: diminuiscono gli operatori, aumenta sensibilmente il volume d’affari. Nel 2019 c’erano, per esempio, nella nostra penisola 1.667 gallerie, 610 in meno del 2011, e 1593 antiquari a fronte dei 1890 precedenti. Tuttavia il fatturato è lievitato: considerando insieme gallerie, antiquari, mercanti d’arte e case d’asta, siamo dalle parti del boom, 1,04 miliardi di euro. E se a questi aggiungiamo tutti i player della filiera (compresi i restauratori, gli artigiani, l’istruzione, le fiere, le assicurazioni, le pubblicazioni, eccetera), il giro d’affari balza a 1,46 miliardi di euro, l’impatto economico complessivo a 3,78 miliardi, il valore aggiunto prodotto a 1,60 miliardi, l’effetto moltiplicatore a 2,60 miliardi. Non trascurabili nemmeno le ricadute occupazionali: sono 36 mila i lavoratori interessati, per 597 milioni di euro di reddito. Il 28 per cento delle imprese tricolori d’area galleggia nel range dei 65–200 mila euro fatturati l’anno; un quinto assurge sopra il milione di euro.

Le cifre sono relative al 2019. Su scala internazionale, il valore delle vendite del mercato dell’arte e dell’antiquariato si attesta, a quella data, a 64 miliardi di dollari e a livello europeo il nostro paese ne assorbe il 2%. Il 6%, se si esclude il Regno Unito ormai fuori dall’Unione.

Fiere d’arte: nel 2019 l’indotto diretto era di 68,1 milioni di euro e dopo il bruciante stand-by dei lockdown e delle zone rosse monta adesso un grande senso di rivalsa. La rediviva edizione autunnale di Mercanteinfiera, a Parma, ha registrato un indotto di 14,8 milioni di euro, più 1,5 milioni di euro rispetto a due anni fa. Molto giocherà in futuro la formazione, che vede attualmente all’opera 32 accademie e istituti di eccellenza con 2.200 studenti diplomati l’anno. Nuove professioni si stagliano all’orizzonte, d’accordo con un “processo di decentramento amministrativo e il coinvolgimento di attori privati”: in primis, il manager culturale, “la cui formazione di qualità deve essere ‘ambidestra’, tecnico-culturale e amministrativo-gestionale”. È lui che deve orchestrare gli eventi delle strutture culturali, “cooperando con architetti, ingegneri, conservatori e archeologi”. Con l’aiuto, si intende, di fotografi e videomaker, illustratori digitali, sviluppatori di app, web developer, data scientist, esperti di blockchain e di realtà aumentata. Solo che “la dinamicità del mercato richiede un mix di competenze ben bilanciato e trasversale che non corrisponde alle attuali offerte formative – lamenta Nomisma –. Si rende necessario uno sforzo politico per rafforzare l’identità delle accademie e superare lo squilibrio tra potenzialità e risorse disponibili”.

Ci vorrebbero certezze normative e azioni prioritarie “per supportare la sostenibilità economica dell’impresa e del settore” alla luce della pandemia perdurante. Come “la semplificazione della normativa sull’export e sull’acquisto di opere vincolato”, o “la riduzione dell’Iva sulla compravendita”. Meno burocrazia, più strategia, nel nome universalmente inteso dell’arte.

Le basi del diritto. Fidarsi dell’altro

Quando ero ragazzo ascoltavo stupito e ammirato i miei zii commercianti narrare che ai loro tempi i contratti si chiudevano con una stretta di mano. Oggi solo uno sprovveduto venderebbe o comprerebbe alcunché senza adeguate garanzie legali. Abbiamo sempre meno fiducia negli altri. Gli studi sociologici confermano da anni queste convinzioni di senso comune.

Robert Putnam, nel suo classico Bowling alone. The Collapse and Revival of American Community, 2000 (“Capitale sociale e individualismo: crisi e rinascita della cultura civica in America”, Bologna, Il Mulino, 2004) ha documentato che negli Stati Uniti la fiducia negli altri è aumentata dalla metà degli anni Quaranta fino alla metà degli anni Sessanta, quando la tendenza si è invertita ed è iniziato un visibile declino. Con il trascorrere degli anni sono sempre meno le persone che condividono il principio che la maggior parte delle persone merita fiducia, mentre sono sempre più numerose quelle convinte che non si sia mai abbastanza diffidenti nei rapporti con gli altri. Perfino i giovani sono diventati più diffidenti dei loro genitori e dei loro nonni.

Tommaso Greco, nel suo importante saggio La legge della fiducia. Alle radici del diritto, condivide e rafforza l’idea della crisi della fiducia: “Sappiamo di essere diffidenti e predichiamo consapevolmente la necessità di esserlo per evitare brutte sorprese. Viviamo pienamente in un modello di relazioni che possiamo chiamare sfiduciario e lo impieghiamo a maggior ragione per interpretare i nostri ruoli e le nostre azioni nelle situazioni regolate dal diritto. Anzi, andiamo oltre e magari ci comportiamo di conseguenza, secondo un modello fondato sulla scelta dell’opportunismo come suprema regola sociale”. Per sostenere e precisare la sua tesi Greco cita Jon Elster, il massimo studioso contemporaneo dei comportamenti collettivi: “Perseguire il proprio interesse richiede […] di non dire la verità né mantenere le promesse, a meno che non convenga fare il contrario; di rubare e ingannare se solo è probabile che se ne esca bene, o, più in generale, tutte le volte in cui il valore atteso di tali azioni è maggiore di quello promesso dal comportamento contrario; e, ancora, di considerare la punizione semplicemente come il prezzo del reato, e le altre persone come strumenti della propria soddisfazione”.

Greco sa bene che da secoli i filosofi hanno messo in evidenza che gli individui sono più inclini a non fidarsi che a fidarsi: “Basta leggere le ultime pagine di un testo fondamentale come l’Etica Nicomachea aristotelica per trovare una piena consapevolezza del fatto che ‘molti non sono per natura portati a obbedire per rispetto, bensì per paura, né ad astenersi dalle cose cattive per la loro turpitudine, bensì per le punizioni’. E invita a meditare il famoso passo dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio dove Machiavelli scrive che ‘come dimostrano tutti coloro che ragionano del vivere civile, e come ne è piena di esempli ogni istoria, è necessario a chi dispone una republica, ed ordina leggi in quella, presupporre tutti gli uomini rei, e che li abbiano sempre a usare la malignità dello animo loro, qualunque volta ne abbiano libera occasione […] Gli uomini non operarono mai nulla bene se non per necessità’.

La diagnosi è ancora più grave per l’Italia, dove da sempre è carente la cultura della legalità. Nella mentalità collettiva gli eroi sono i furbi che ingannano e sfuggono alla legge. Il cittadino onesto che assolve con scrupolo i propri doveri, il giudice inflessibile, il politico integerrimo sono spesso derisi come sciocchi. Per non parlare poi della inveterata arte italiana della simulazione e della dissimulazione. Coltivare la fiducia con i simulatori e con le persone che credono che onestà e doveri siano qualità degli sprovveduti, sarebbe pura follia. Meglio non fidarsi e “volpeggiare con le volpi”, come insegnavano i trattatisti della Controriforma.

Il rimedio consiglia Greco, può e deve venire da una seria riconsiderazione del ruolo della teoria del diritto: “La teoria del diritto deve solo esplicitare – invece di nascondere – quel che dentro il diritto presuppone e implica inclinazioni positive e cooperative. Facendolo, non si falsa affatto la realtà ma le si rende giustizia, mettendo l’accento sulla responsabilità dei soggetti e aiutando quindi ad evidenziare le mancanze di chi a quelle inclinazioni viene meno”. Ubbidienza e responsabilità “non sono due cose distinte, ma si richiamano l’una con l’altra. Una ubbidienza senza responsabilità possiamo chiederla soltanto agli automi”. Se sappiamo che gli altri non ci inganneranno perché se lo facessero incorrerebbero nelle sanzioni della legge, possiamo, con gli occhi bene aperti, cooperare loro. Ma se sappiamo che non ci inganneranno perché detestano l’inganno, e non perché temono la sanzione del giudice, allora potremo davvero fidarci. Accanto al diritto con le sue sanzioni è dunque necessaria l’educazione civile con il suo potere di formare coscienze e additare i giusti esempi.