Fabrizio Rondolino il Pio Pompetta della Bestia di Renzi

La Bestia del primo Matteo (Salvini) per ora è congelata dopo le disavventure del suo stratega, Luca Morisi. Ma intanto emerge la Bestia del secondo Matteo (Renzi), raccontata dagli atti dell’inchiesta sulla Fondazione Open. È una vera macchina da guerra, un apparato d’intelligence privato, una struttura professionale di disinformazione da far invidia alle barbe finte dei servizi segreti. Almeno nei progetti. La Bestia di Renzi è pianificata, a partire dal 2014, come un apparato di guerra psicologica, d’intossicazione informativa. L’Italia è il Paese dei dossier del Sifar (il vecchio servizio segreto militare), dell’Ufficio Affari Riservati del prefetto-gourmet Federico Umberto D’Amato, del covo di via Nazionale del Sismi di Pio Pompa. La qualità del lavoro, com’è evidente, va nel tempo via via scemando. Il dramma scolora nel vaudeville. La Storia si presenta dapprima come tragedia, poi come farsa. Infatti lo stratega della Bestia renziana sarebbe Fabrizio Rondolino, sedicente giornalista un tempo al servizio di Massimo D’Alema. Comunque inquietante il messaggio che invia a Renzi il 7 gennaio 2018: “Caro Matteo, eccoti un primo appunto sulla struttura di propaganda antigrillina che ho preparato con Simona in questi giorni. Sarebbe utile vederci presto per approfondire e iniziare la Lunga marcia”. Renzi-Mao riceve l’email e la gira a Marco Carrai, esperto di cybersecurity, con allegato il documento Word che esplicita i punti strategici del piano di lavoro. Tra questi, la “character assassination: notizie, indiscrezioni, rivelazioni mirate a distruggere la reputazione e l’immagine pubblica di Grillo, Di Maio, Di Battista, Fico, Taverna, Lombardi, Raggi, Appendino, Davide Casaleggio (e la sua società), Travaglio e Scanzi”. Il punto 2 del piano è: “Realizzare inchieste/indagini serie sul personale grillino”. Per concretizzarlo, “è necessario creare una piccola, combattiva redazione ad hoc, che lavori esclusivamente sul progetto nella massima riservatezza: vanno individuati almeno due giornalisti d’inchiesta e un investigatore privato di provata fiducia e professionalità (a costo medio-alto)”.

Il Piano di rinascita democratica di Licio Gelli era scritto meglio, ma erano anche altri tempi, altro fuoco. Stavolta i giornalisti individuati sono invece del calibro di Annalisa Chirico. Di lei parlano in una chat l’ex ministro Luca Lotti e il presidente della Fondazione Open Alberto Bianchi. “La Chirico scrive domani sul Foglio sulla vicenda Consip. L’ha sollecitata M. (Matteo Renzi, ndr). Mi chiede se hai qualche elemento da darle della tua difesa”: così scrive il 2 marzo 2017 Bianchi a Lotti. Qualche giorno dopo, aggiunge: “La Chirico stasera va dalla Gruber, glielo ha chiesto Matteo”. Fino a prova contraria, la Chirico era per la Bestia renziana anche la fornitrice di contenuti da diffondere: “Il post della Chirico sui popcorn stamattina è da viralizzare”, ordina il 15 marzo 2017 l’amministratore della chat “Gruppo per post” ai 115 membri del gruppo. Senza badare a spese, con l’utilizzo di software sofisticati e costosi come Voyager e Tracx, forniti da società israeliane. In vista delle (auspicate) elezioni nel 2018, Renzi (email del 31 dicembre 2017) vuole “una presenza televisiva molto più organizzata e massiccia”. Punta su La7 e il suo direttore: “Dobbiamo pretendere una figura dedicata di raccordo tra noi e Andrea Salerno”. Vuole “conoscere le scalette”. Con uno “sguardo particolare su Gruber, Floris, Formigli, Giletti, Minoli”. Per Mediaset, “accordo con Brachino/Confalonieri. Monitorare costantemente Berlusconi”. Per la Rai, “Accordo Agnoletti/Orfeo. Vanno, però, verificate anche le virgole. Montare polemiche sempre”. “Avere interviste fisse, ma soprattutto far uscire qualche commento e notizia da riprendere sui social”. Risultati? Scarsi, visti i sondaggi. Aridateci Pio Pompa.

 

“Stanza degli schiavi” a Pompei, la rarità della vita quotidiana

Pompei è un luogo eccezionale e ci stupisce ancora con nuove scoperte, ma non tutti la vedono così. L’altro giorno il Fatto, a proposito della “stanza degli schiavi” scoperta a Civita Giuliana, una grande villa a nord della città antica, ha parlato di “una colata di gesso, usata per riempire i vuoti lasciati nella cenere dai materiali deperibili scomparsi (…) e tanto bastava per far parlare di scoperta eccezionale”. Certo, l’eccezionale ha sempre qualcosa di soggettivo. Quando facevo ricognizione nell’hinterland della Costa Ionica in Basilicata alla ricerca di tracce di fattorie e villaggi rurali, mi emozionavo per concentrazioni di minuscoli frammenti ceramici nei campi, che ci consentivano di aggiungere un altro sito alla carta archeologica del territorio. In questo caso, anche qualche collega addetto ai lavori aveva difficoltà a condividere il mio entusiasmo.

Lo stesso interesse scientifico per la vita quotidiana, più che per il recupero di nuovi “capolavori”, rende la stanza degli scavi una scoperta eccezionale, poiché getta luce su un mondo che ci è poco noto: quello dei ceti non elitari, degli schiavi, dei subalterni. Ricostruire la loro realtà è difficilissimo perché nelle fonti ufficiali appaiono raramente e solo dalla prospettiva dell’élite. Per questo l’archeologia è spesso l’unico modo per risalire alla loro realtà quotidiana. Ma persino le indagini di grandi ville “schiavistiche” in Italia e altrove non sono arrivate al grado di dettaglio che ora ci viene offerto dai letti e mobili della stanza scoperta a Pompei, grazie al metodo dei calchi. Oltre ad alcune anfore (la stanza serviva anche come ripostiglio) e pochi vasi posizionati sotto i letti, la materia antica è quasi del tutto scomparsa: materiali deperibili hanno lasciato un vuoto nella cinerite che il gesso ha riempito, restituendo straordinari dettagli di tessuti, corde e briglie di cuoio. Nessun “tesoro” di preziosi oggetti, per intenderci, ma uno spaccato di un mondo precario, lontano nel tempo, che è il vero tesoro che l’archeologia può regalarci.

Come tutti gli scavi promossi dal Parco archeologico di Pompei, anche quello di Civita Giuliana corrisponde a una visione integrata di tutela, conoscenza e fruizione. Nato sulla base di un protocollo d’intesa con la Procura della Repubblica di Torre Annunziata, stipulato dal ex direttore e attuale direttore generale dei Musei, Massimo Osanna, lo scavo, finanziato con fondi ordinari del Parco, ha recuperato un complesso importante, che per anni è stato oggetto di un saccheggio sistematico da parte di scavatori clandestini. Lo stesso modello, del resto, è stato applicato durante gli scavi nell’ambito del Grande Progetto Pompei sotto la direzione di Osanna: anche qui tutti gli interventi di scavo furono parte di un percorso di miglioramento della conservazione. E ciò impegnando per le indagini stratigrafiche – che portarono, tra l’altro, alla scoperta del termopolio e della “Casa di Orione” – appena il 2,7% dei 105 milioni che Stato italiano e Ue avevano stanziato per il Grande Progetto. Scrivere che i fondi siano stati “utilizzati anche per scavare, molto”, facendo in tal modo intuire che si trattasse di una deviazione arbitraria rispetto alle finalità del progetto, è semplicemente fuorviante. Anche perché la stessa Corte dei Conti ha confermato la correttezza della spesa del Grande Progetto, nonostante i tempi stretti e la complessità degli interventi di restauro e messa in sicurezza: un altro risultato, che mi sentirei di definire eccezionale. Ma di fronte al dato, scientifico o economico che sia, ciascuno giudichi secondo la propria conoscenza e coscienza.

Immobili di stato, ben 292 miliardi di buone ragioni

Impianti industriali, siti militari, linee e stazioni ferroviarie, chiese e conventi, miniere, cave, edifici monumentali e quant’altro. Ecco un tesoro nascosto da utilizzare per ricostruire le nostre città. “In Italia esiste un enorme patrimonio dismesso, quasi del tutto sconosciuto e abbandonato”, come denunciano Alessandro Bianchi e Bruno Placidi in un saggio ricco di dati e intitolato Rigenerare il Bel Paese (Rubettino). E proprio all’insegna di questo verbo, gli autori invitano “a pensare la città in modo nuovo, non più legato all’espansione urbana, all’ulteriore consumo di suolo e all’edificazione aggiuntiva, ma rivolto alla città esistente e, in particolare, alla rimessa in gioco del patrimonio di aree e manufatti che sono stati progressivamente dismessi”.

Già ministro dei Trasporti nel secondo governo Prodi, urbanista e docente universitario, Bianchi dirige oggi LaFeniceUrbana, scuola di Rigenerazione Urbana Sostenibile. Nel libro scritto a quattro mani con Placidi, mette in campo la propria competenza accademica e professionale per dare un contributo alla rigenerazione delle città e del loro patrimonio immobiliare, in modo da farlo “diventare in parte o del tutto qualcosa di diverso da quello che era prima: un’attività, una funzione, una fruizione originale rispetto al preesistente”.

Si tratta di un deposito di risorse e opportunità, un asset pubblico che al momento risulta dismesso e quindi sprecato. “In estrema sintesi – si legge a pagina 73 del volume – 100mila unità di fabbricati inutilizzati per circa 23 milioni di metri quadri”. E il paradosso è che la proprietà di questi immobili coincide con il soggetto – l’amministrazione pubblica – che ha il potere di decidere possibili trasformazioni d’uso. Un patrimonio che, una volta riqualificato, potrebbe essere il perno di una rigenerazione urbana su scala nazionale, ospitando funzioni pubbliche e private che introducano nuove attività culturali e sociali.

Sono 66.800 le unità residenziali inutilizzate, per poco più di 3,5 milioni di metri quadri. Rispetto a questo dato complessivo, le abitazioni abbandonate risultano circa 33.500. Cantine, soffitte, rimesse, box, garage, posti auto coperti e scoperti costituiscono altre 33mila unità stimate. Intorno a 34mila sono quelle delle altre tipologie di beni inutilizzati, per quasi 20 milioni di metri quadri. Vanno aggiunte poi 969 strutture ricettive (alberghi, pensioni e simili) e 5.725 fabbricati civili di varie tipologie: cioè scuole e università; biblioteche, pinacoteche, musei e gallerie; laboratori scientifici e impianti sportivi; ospedali, cliniche e case di cura; castelli e palazzo storici; case cantoniere; teatri e cinema; stabilimenti balneari e termali; mercati coperti.

A quanto ammonta, dunque, questo patrimonio pubblico? Sono diverse le variabili in base a cui definire il suo valore di mercato. Scrivono i due autori del saggio: “Il valore patrimoniale complessivo del 97,6% dei soli fabbricati censiti è stimato in 292 miliardi di euro” (elaborazione su dati del ministero dell’Economia e delle Finanze). Il 72% è riconducibile a immobili di amministrazioni locali, per la maggior parte Comuni (circa il 47%), mentre il resto è suddiviso fra le amministrazioni centrali (17%) e altri enti pubblici (11%). Il valore di quelli non utilizzati ammonta a circa 12,2 miliardi di euro, mentre altre stime arrivano a 12,58 o a 15,53 miliardi.

Ma è soprattutto l’effetto-volano delle ristrutturazioni che può innescare una spirale virtuosa nella rigenerazione delle città, migliorando la qualità della vita per gli abitanti. Un po’ come sta accadendo per il patrimonio immobiliare privato, in seguito al superbonus 110% introdotto dal decreto Rilancio del governo Conte 2 per favorire la riqualificazione energetica degli edifici e la ripresa dell’occupazione nell’edilizia.

Non a caso, in una recente ricerca di Nomisma si prospetta un’applicazione del Green New Deal al patrimonio immobiliare pubblico, con l’obiettivo di puntare alla riqualificazione termica, energetica e sismica. Per 39 miliardi di investimenti, si potrebbero ottenere 91,7 miliardi di effetti diretti e indiretti; 50 miliardi di indotto; 141,8 complessivi di capitali pubblici e privati. Gli immobili verrebbero rivalutati del 30% e si risparmierebbero fino a 450 milioni all’anno nella manutenzione e nel consumo energetico. Le ricadute sull’ambiente sono stimate in 934mila tonnellate di CO₂ in meno.

Si tratta, insomma, concludono Bianchi e Placidi nel loro studio, di “un investimento pubblico sulla qualità urbana e ambientale per attivare quello privato a cui garantire un’utile remunerazione fiscale e gestionale”. Sarebbe l’avvio di un nuovo boom edilizio. E soprattutto, senza consumare altro suolo.

 

Tirato per la giacca a destra e a manca

 

 

• “A Palazzo Chigi c’è un uomo che è il meglio che l’Italia possa esprimere in credibilità, cose fatte e reputazione. Togliere questo tipo di prospettiva al nostro Paese lo considero un fattore che indebolirebbe di molto il nostro Paese. Ritengo che il presidente del Consiglio, rimanendo al suo posto, possa fare il bene del nostro Paese”

 

• “Tra i partiti politici la fibrillazione è già alta, di fronte alla notizia che Mario Draghi potrebbe abbandonare il suo ruolo di premier all’inizio del 2022”.

 

• “Draghi non è come fu Conte un uomo per tutte le stagioni e siccome presumiamo che non sia disponibile a diventare in anticipo portabandiera di uno dei due poli sarà di necessità escluso dalla gestione del Pnrr”.

 

• “Al non-governo va contrapposto il coraggio delle riforme economiche e sociali. Un’azione paziente ma decisa, che eviti gli sterili drammi degli scontri ideologici, per dare all’Italia una prospettiva di sviluppo, coesione, convergenza. Mario Draghi cita Ugo La Malfa per dare una scossa ai partiti”.

Dopo la manovra, il dl Delocalizzazioni

Ora ci riprovano, pare, ma va ricordato che in estate sembrava cosa fatta, tanto che – si diceva – le norme più dure e divisive per la maggioranza erano state tolte per fare più in fretta possibile e ad agosto Carlo Bonomi si dava fuoco al meeting di Rimini contro il decreto “punitivo” e dirigista che dovrebbe, nelle intenzioni, rendere meno selvaggio il Far West delle delocalizzazioni.

Eravamo nell’onda non troppo lunga del caso della fiorentina Gkn, settore automotive, i cui 422 dipendenti a luglio furono avvisati via email del prossimo licenziamento: l’azienda porterà la produzione all’estero. Si scoprì poi, quando già si chiudevano gli ombrelloni, che il ministro dello Sviluppo, Giancarlo Giorgetti (Lega), aveva bloccato il testo: non era convinto del lavoro della sua vice Alessandra Todde (M5S) e del collega Andrea Orlando del Lavoro.

Adesso, come detto, si dovrebbe ripartire: “Dopo l’arrivo della manovra in Parlamento”, dicono fonti governative e, al proposito, c’è da dire che ieri sera il ddl Bilancio – che andava presentato entro il 20 ottobre ed era stato approvato il 28 in Cdm – ancora non era uscito dalla fucina normativa (illegittima) del Tesoro.

In attesa di sapere quando inizierà il “dopo la manovra”, va ricordato che anche stavolta a spingere il dl anti-delocalizzazioni è un caso di cronaca: la chiusura, con licenziamento di 220 lavoratori, dello stabilimento della SaGa Coffee nel Bolognese e relativo spostamento della produzione. La cosa, a questo giro, ha svegliato tutto il Pd. Prima il presidente della Regione Stefano Bonaccini e il neo-sindaco di Bologna Matteo Lepore, poi anche il segretario Enrico Letta hanno chiesto un decreto contro le delocalizzazioni predatorie.

La palla torna dunque al perplesso Giorgetti: è lui che deve decidere se bloccare o no il testo, a cui pure si dice favorevole. La situazione, però, adesso è diversa: oltre alla vecchia maggioranza giallorosa, anche Meloni & C. lo chiedono. Alla Camera esiste già una proposta di legge, quella elaborata insieme ai lavoratori Gkn, altre ne arriveranno a Montecitorio e in Senato grazie a M5S e sinistra. Se il ministro terrà fermo il decreto, rischia di trovarsi quelle pdl presentate come emendamento al Bilancio e di avere un testo più duro di quello che produrrebbe il governo.

L’articolato di agosto, ad esempio, era una cosa all’acqua di rose, in sostanza la previsione di un percorso condiviso con le istituzioni di fronte alla scelta di delocalizzare e sanzioni per chi non lo avesse rispettato: niente multe, né restituzione dei soldi pubblici ricevuti negli anni precedenti. Basterà a Giorgetti e Bonomi?

C’è il primo sì al (mezzo) salario minimo europeo

Per la direttiva europea sul salario minimo, ieri è stato un passaggio cruciale e – viste le premesse – ne è uscita bene: la commissione Occupazione e Affari sociali dell’Europarlamento ha approvato un testo che rende più stringente e incisivo quello proposto un anno fa dall’esecutivo di Bruxelles. Ha introdotto il concetto di paghe “eque” accanto a quello di “adeguate”, eliminato il riferimento alla produttività e stabilito il criterio di contrasto alla povertà, soprattutto lavorativa, per la definizione delle retribuzioni. Hanno votato a favore 37 europarlamentari, contrari 10 e 7 astenuti. Ora si aspetta il via libera del Parlamento Ue, che darà il mandato di negoziare con il Consiglio dell’Ue.

Strada ancora lunga, insomma, ma intanto è stato superato uno scoglio complicato. Negli scorsi mesi le resistenze dei Paesi dell’Est e di quelli del Nord sembravano in grado di affossare il progetto. Ieri però questi blocchi sono usciti sconfitti. Con questa direttiva, l’Ue si occupa per la prima volta del problema dei bassi stipendi dei lavoratori e della concorrenza sleale da parte degli Stati dell’Est, uno dei fattori che hanno scatenato le delocalizzazioni industriali subite anche dall’Italia. “Una rottura con il passato”, l’ha definita la deputata socialista olandese, Agnes Jongerius.

Il provvedimento non impone agli Stati membri di individuare una cifra di salario minimo per legge – non ricadrebbe nelle sue competenze – ma li spinge a scegliere la strada migliore per far salire le retribuzioni. Ogni Paese sarà libero di scegliere se stabilire la soglia minima o favorire la contrattazione collettiva: in questo caso, la direttiva dice che l’80% dei lavoratori deve essere coperto dai contratti nazionali. È un altro dei punti migliorati, visto che la Commissione Ue aveva fissato la percentuale al 70%. Oggi l’Italia risulta comunque sopra l’80%, ma non in tutti i settori, specialmente nei servizi a basso valore aggiunto dove si annida il lavoro povero con tassi di copertura anche inferiori al 70%.

Sui salari minimi il testo indica tre parametri di riferimento: il 50% del salario medio lordo, il 60% di quello mediano (ossia il valore intermedio tra il minimo e il massimo) e soprattutto la capacità del salario di garantire il potere d’acquisto basandosi su un paniere di beni e servizi a prezzi reali comprensivi di Iva e imposte. La notizia meno buona per l’Italia è la bocciatura dell’emendamento del Pd – negli scorsi mesi proposto anche da M5S – che avrebbe imposto la certificazione dei contratti nazionali firmati dai sindacati maggiormente rappresentativi. In Italia ci sono quasi mille accordi, molti dei quali “pirata”; una norma del genere a livello Ue avrebbe aiutato a combatterli.

“La direttiva approvata rappresenta un grande passo in avanti verso l’introduzione del salario minimo in Italia e uno straordinario strumento di lotta al dumping salariale”, ha commentato l’eurodeputata M5S Daniela Rondinelli. Ora il terreno è favorevole: a gennaio la presidenza di turno del Consiglio Ue va alla Francia, un Paese sostenitore della direttiva. Da luglio, però, toccherà alla Repubblica Ceca e poi alla Svezia. Bisogna fare in fretta. Una volta portato a casa, il risultato sarà soprattutto politico. L’Italia dovrà recepire la direttiva e solo l’input Ue potrà imporre l’argomento nell’agenda del governo. Lo sa anche il ministro del Lavoro, Andrea Orlando, che per non scontentare industriali e sindacati ha accettato di stralciare il salario minimo dal Piano di ripresa e resilienza confidando proprio nella direttiva europea.

De Mauro, esame Dna su alcuni resti umani

La Procuradi Catania ha disposto un esame del Dna per sciogliere i dubbi sull’identità di un corpo trovato lo scorso settembre in una grotta alle pendici dell’Etna. Tutto nasce dalla segnalazione fatta dalla figlia del giornalista Mauro De Mauro, scomparso il 16 settembre 1970 a Palermo. La donna, dopo aver scoperto che il cadavere risalirebbe agli anni Settanta, ha chiesto una verifica scientifica che dia risposte certe sull’appartenenza dei resti. Inizialmente si ipotizzò che dietro la sparizione di De Mauro ci fosse Totò Riina, che successivamente venne assolto. I giudici, nella sentenza che scagionò Riina, ipotizzarono che dietro la scomparsa di De Mauro fosse invece collegata alla morte di Enrico Mattei.

Aggredita a sprangate: rilasciata la compagna

È stata rilasciata ieri Aminata Diallo, calciatrice della squadra femminile del Psg fermata dalla polizia di Versailles mercoledì e interrogata riguardo all’aggressione subita giovedì scorso da una sua compagna di squadra, Kheira Hamraoui. Diallo, dopo essere stata ascoltata dagli investigatori, è stata lasciata libera per mancanza di prove. Secondo il quotidiano sportivo L’Equipe, che ha ricostruito la vicenda, il 4 novembre Diallo aveva accompagnato a casa Hamraoui dopo una serata insieme alla squadra. Vicine a destinazione (nei pressi di Versailles), due sconosciuti si sarebbero avvicinati a quest’ultima colpendola con una spranga di ferro. Diallo è stata interrogata perché potrebbe essere coinvolta nell’accaduto.

Fondi da Venezuela a M5s: pm potranno sentire “El Pollo”

Ora è arrivato l’ok di Madrid. Le autorità spagnole hanno dato il via libera alla richiesta della Procura di Milano che si è mossa con un ordine di investigazione europeo per ascoltare l’ex capo dell’intelligence venezuelana Hugo Armando Carvajal, detto “El Pollo”, nell’indagine sui presunti fondi arrivati da Caracas al M5s scaturita da un’inchiesta del quotidiano spagnolo Abc del giugno 2020 e basata su un presunto documento dei servizi segreti venezuelani. Testo in cui si parlava di una valigetta con 3,5 milioni in contanti consegnata a Gianroberto Casaleggio, morto nel 2016.

È possibile, quindi, che nelle prossime settimane i magistrati milanesi possano recarsi in Spagna per sentire a verbale “El Pollo”, arrestato e in attesa di estradizione verso gli Usa e che ha rilasciato già ai giudici spagnoli dichiarazioni su presunti finanziamenti da parte del Venezuela a movimenti in vari Paesi, tra cui i 5 stelle e Podemos. Nell’inchiesta milanese, condotta dalla Finanza e coordinata dall’aggiunto Maurizio Romanelli e dal pm Cristiana Roveda, per riciclaggio e finanziamento illecito è indagato Gian Carlo Di Martino, console venezuelano a Milano, che, secondo Abc, avrebbe dato la valigetta a Casaleggio.

In un altro fascicolo è indagato, perché querelato per diffamazione da Davide Casaleggio, figlio di Gianroberto, il giornalista Marcos Garcia Rey, che ha rivendicato la validità del suo lavoro. Il presunto episodio, risalente al 2010, sarebbe già prescritto, ma i pm puntano a verificare se ci siano stati altri passaggi sospetti di fondi.

“Progettavano attacco allo Stato” Presi sei anarchici

All’alba di ieri i Ros hanno dato esecuzione a un mandato di custodia cautelare emesso a carico di sei anarchici, accusati di minacciare di compiere attentati. L’operazione nasce da un’inchiesta coordinata dalle Procure di Milano e di Perugia e riguarda Vetriolo, una rivista clandestina anarco-insurrezionalista fondata dai sei arrestati nel 2017. Secondo le indagini il gruppo non era soddisfatto della rivista con la quale avevano collaborato in precedenza, Croce nera anarchica, perché non inneggiava alle rivolte e alle azioni violente (come attentati contro i giornalisti, forze dell’ordine, istituzione e magistrati). “Contro lo Stato e senza eccezioni: colpire le persone o colpire le cose?”, si domandavano in Vetriolo del febbraio 2017, il primo dei cinque numeri pubblicati nei quattro anni di vita della rivista clandestina, nata a Milano e poi spostata a Perugia. “Noi scegliamo la strada, non certo la più semplice, della distruzione totale di ogni forma e struttura di dominio esistente, in una prospettiva e in una pratica rivoluzionaria e antiautoritaria”, scrivevano.