Renzi Senatore d’arabia: ma in europa è vietato

George Osborne e Peer Steinbrück oggi non se li ricorda più nessuno. Per anni sono stati, in Gran Bretagna il primo e in Germania il secondo, due politici sulla cresta dell’onda. Considerati i possibili successori di Theresa May a Londra e di Angela Merkel a Berlino. Oggi si sono ritirati a vita privata e sono finiti nel dimenticatoio. Perché? Entrambi hanno lasciato la politica dopo gli scandali che riguardavano i finanziamenti privati incassati mentre ricoprivano la carica parlamentare. Travolti dal peso dell’opinione pubblica che chiedeva loro di “scegliere un lavoro”: o il rappresentante del popolo o il rappresentante di interessi privati. Delle due l’una, tertium non datur.

Quella scelta che invece continua a non fare Matteo Renzi in Italia. Tutte attività e finanziamenti, quelli del leader di Italia Viva, legittimi anche se provenienti da Stati esteri come l’Arabia Saudita. In Italia l’assenza di una legge e di un codice di condotta al Senato gli permette di fare il doppio lavoro, nonostante l’Ue e il Greco (il gruppo di Stati contro la corruzione del Consiglio d’Europa) ci chiedano di approvare da tempo una normativa sul tema. Negli altri grandi Paesi europei non sarebbe possibile. Renzi dovrebbe scegliere. Ché anche là dove, come in Gran Bretagna, culla della cultura liberale, non c’è un’incompatibilità tra la carica di parlamentare e gli affari privati, è l’opinione pubblica a non accettare i conflitti d’interessi. E alla fine l’eletto è costretto a dimettersi da parlamentare o a rinunciare ai propri interessi (leggere l’articolo a fianco). Vediamo come funziona la legislazione negli altri Paesi europei.

 

Francia L’amico macron dice no gli affari privati

Il caso più recente riguarda la Francia dove è stata presentata una proposta di legge in senso più restrittivo per evitare conflitti d’interessi dei componenti dell’Assemblea Nazionale e del Senato. Ironia della sorte, a volere una stretta sugli interessi privati dei parlamentari è stato proprio Emmanuel Macron, amico di Renzi e fonte di ispirazione del leader di Italia Viva. “Faremo al Pd ciò che Macron ha fatto ai socialisti” era il mantra dell’ex premier quando, nel settembre 2019, fondò Iv uscendo dal Pd. Non solo non è andata così, ma il presidente della Repubblica francese si muove in direzione opposta rispetto alla concezione della politica di Renzi. Prima, tra il 2014 e il 2016, l’Assemblea Nazionale e il Senato francesi si sono dotati di codici di condotta che impongono ai parlamentari di agire “solo nell’interesse pubblico dei cittadini senza perseguire alcun interesse privato” e di non trovarsi “in situazioni di dipendenza da persone fisiche o giuridiche”. A vigilare sul rispetto di questi principi è un “deontologo” che resta in carica 5 anni. Ma per Macron non era sufficiente e ha voluto una legge che vada oltre il codice di autoregolamentazione. La nuova norma introduce l’incompatibilità tra il mandato parlamentare e le attività di consulenza. E dunque in Francia un eletto non potrà più “iniziare a esercitare un’attività di consulenza che non era sua prima dell’inizio del suo mandato, anche se si tratta di una libera professione regolamentata come quella di avvocato”. Esattamente il caso di Renzi. Per le consulenze e le attività precedenti al mandato parlamentare, invece, deputati e senatori francesi dovranno far valutare la documentazione all’Ufficio di Presidenza e all’Altà Autorità per la trasparenza, e saranno i due organi a stabilire se le entrate costituiscano o meno un potenziale conflitto d’interessi.

 

Spagna L’eletto sceglie: la carica o il business

Gli spagnoli sono i più restrittivi in materia di conflitto d’interessi dei parlamentari. Talmente tanto da aver inserito l’incompatibilità tra la funzione di membro del governo e quella privata direttamente in Costituzione: lo prevede l’articolo 98, comma 3, della Carta del 1978. Ma la legge estende anche ai parlamentari il divieto di esercitare una professione privata, come quella dell’avvocato. Ogni eletto deve dichiarare i propri redditi e tutte le proprie entrate. Nel caso in cui il deputato avesse interessi prima del mandato, dovrebbe ricorrere a un blind trust che curerà i suoi affari.

 

Uk Si può “richiamare” un parlamentare

Più liberale invece la Gran Bretagna dove i conflitti d’interessi vengono stigmatizzati socialmente. Insomma, non servono leggi per regolare una pratica che dovrebbe essere vietata dal buon senso. Bastano quindi i codici di condotta, il primo risale al 1995, che individuano tre principi basilari: Selflessness (decidere in base all’interesse pubblico), Integrity (trasparenza nelle decisioni) e Honesty (rendere pubblici i possibili conflitti d’interessi). Oltre all’obbligo di dichiarare i propri affari (disclosure of interests) – e chi non lo fa rischia pene salate – nel 2015 con il Mp Recall Act è stata inserita la possibilità per gli elettori del recall, e della decadenza, nei confronti di un parlamentare che sia stato condannato penalmente, sia stato sospeso dalla Camera dei Comuni o abbia violato il Parliamentary Standards Act del 2009 che impone la totale trasparenza agli eletti. Il caso di George Osborne, ex cancelliere dello Scacchiere conservatore nel governo di Theresa May, è emblematico. Dopo essere stato allontanato dall’esecutivo, nel 2017 Osborne era rimasto parlamentare ma aveva accettato altri incarichi che gli avrebbero portato nelle tasche ben due milioni di sterline di cui 600 mila per fare il conferenziere, il consulente della società di investimento BlackRock e addirittura il direttore del quotidiano Evening Standard. Il caso fece molto scalpore e in soli tre giorni 155 mila inglesi firmarono una petizione per chiedere a Osborne di dimettersi dalla Camera dei Comuni: “Pick a job”. Scegli un lavoro. Eletto nel 2010, Osborne non si è ricandidato alle elezioni del 2017. Oggi non fa più politica e si è buttato nel privato: è il direttore del British Museum di Londra.

 

Germania Al Bundestag trasparenza totale

Il caso tedesco è simile a quello britannico e si basa sulla trasparenza totale di qualunque interesse in capo ai parlamentari in base al principio della “indipendenza del deputato”. I membri del Bundestag devono dichiarare entrate, uscite e consulenze che possano influenzare la loro azione pubblica. Con una restrizione in più rispetto alla Gran Bretagna: ogni cittadino può fare appello di fronte a un conflitto d’interessi di un eletto dopo un voto su una legge. Se un giudice gli dà ragione, quel voto viene considerato illegittimo. Nel 2012, a pochi mesi dalle elezioni politiche, scoppiò lo scandalo di Peer Steinbrück, ex ministro delle Finanze e candidato del partito socialdemocratico contro il terzo mandato di Angela Merkel. La Bild pubblicò le entrate di Steinbrück dal 2009 al 2012 quando, da parlamentare, incassò 1,25 milioni di euro per discorsi pubblici e conferenze per le più grandi banche e società finanziarie del mondo. Dopo le polemiche, il candidato socialdemocratico perse le elezioni e alla fine della legislatura, nel 2017, decise di non ricandidarsi al Bundestag.

L’ultima e-news ora attacca pure bankitalia

Oltre alle solite querele per i giornalisti, ora Matteo Renzi va all’attacco di Bankitalia. Nella sua enews ha annunciato una “formale richiesta a Banca d’Italia” per comprendere “chi ha violato la Costituzione e la Legge acquisendo senza titolo e poi pubblicando il mio conto corrente”. L’attuale capo di Bankitalia è Ignazio Visco, lo stesso che di certo deve esser piaciuto poco all’allora segretario del Pd quando nel dicembre 2017 riferì in commissione parlamentare d’inchiesta sulle banche che “durante il nostro terzo incontro (Renzi, ndr) mi chiese perché la Popolare di Vicenza si voleva comprare Banca Etruria. Non risposi, gli dissi ‘caro presidente, io delle banche in difficoltà parlo col ministro’” e “lui mi espresse preoccupazione sul settore dell’oro dell’Aretino. Pensavo fosse una battuta”. Renzi già a ottobre 2017 era contrario alla riconferma di Visco. Ma nella tabella di marcia dell’ex premier non c’è solo la Banca d’Italia. Addirittura proprio per la pubblicazione – in esclusiva sul Fatto Quotidiano – dei pagamenti ricevuti per alcuni speech (come dal ministero delle Finanze dell’Arabia Saudita o da una società di Alessandro Benetton), Renzi annuncia anche una “formale richiesta all’Autorità della Privacy sulle pubblicazioni di queste settimane”. E poi le solite querele: contro Il Fatto, Corriere della Sera e La Stampa.

Chirico opinionista a gettone: “Oggi è in tv, la manda Matteo”

“Siamo tutti puttane è un libro di Annalisa Chirico del 2014. Un’opera preziosa in cui si declina un femminismo particolare: “pro sesso”, naturalmente e anche “pro prostituzione”. La donna non ha mai fatto mistero di essere spregiudicata: “Per uno scoop – ha detto – sono una che si dà”.

Le carte dell’inchiesta di Firenze, in effetti, raccontano una giornalista a gettone, serenamente incline a rispondere alle sollecitazioni degli amici in politica. Tra i renziani ne ha diversi: “Matteo”, ovviamente, per cominciare. Ma Chirico mantiene un rapporto stretto anche con Alberto Bianchi, l’avvocato al vertice della fondazione renziana. Quando negli ultimi giorni del 2016 (grazie agli scoop del Fatto) scoppia lo scandalo Consip, Chirico – si legge nelle chat – è a disposizione delle tesi difensive. Bianchi ne rende partecipe Luca Lotti (che è tra gli indagati) su Whatsapp: “La Chirico scrive domani sul Foglio sulla vicenda Consip. L’ha sollecitata M. (Matteo Renzi, ndr)”. L’ex premier chiede, la giornalista scrive. Ma prima vorrebbe farsi dare una mano sui contenuti: “Mi chiede – continua Bianchi – se hai qualche elemento da darle della tua difesa, dati di fatto che ti scagionano, tipo Romeo non ha poi vinto nessun appalto, tu non lo hai mai incontrato ecc. Se ti va puoi darli direttamente a lei o se preferisci glieli giro io”. Lotti è perplesso: “Che c’entra l’appalto con me”. Bianchi insiste: “Appunto spiegaglielo. Se vuoi”. Chirico magari non aveva le idee chiare, ma Bianchi garantisce per lei: “È amica e scrive bene”.

Il 9 marzo 2017, Bianchi aggiorna ancora Lotti: “La Chirico stasera va dalla Gruber, glielo ha chiesto Matteo. Vorrebbe sapere se dell’inchiesta su di te lo hai appreso dai giornali o da un avviso di garanzia”. Stesso schema: Renzi domanda, Chirico esegue.

Quando scrive di Consip, la giornalista si consulta col Giglio Magico: ad agosto è di nuovo Bianchi che sottopone a Lotti il testo di un post che Chirico ha “messo su facebook con ok di Matteo”. “Meglio abbiate rapporto diretto – spiega Bianchi all’amico – visto l’argomento di cui scrive”. Il rapporto tra Chirico e Bianchi diventa pure oggetto di pettegolezzi nell’inner circle renziano. Lui non apprezza affatto e si sfoga: “Luca mi sono rotto i coglioni di questo gossip che gira su una storia che avrei con la Chirico” (Bianchi accusa Lotti di averla spifferata a Francesco Bonifazi). “Una volta per tutte: io non ho né intendo avere NESSUNA storia con la Chirico, e altre stronzate del genere. Né sono amico, ha delle qualità. Se la Chirico ha ambizioni – giuste – che vanno oltre il suo essere giornalista, ve la gestite voi”.

Ambizioni ne ha a iosa, Annalisa Chirico. Imprenditrice presso se stessa – dirige il sito lachirico.it – in equilibrio precario tra giornalismo e lobbismo. La sua associazione “Fino a prova contraria” ha riunito sotto la bandiera garantista pezzi di politica e di vario potere (cementando una profonda amicizia, dopo Renzi, anche con Matteo Salvini). Da un anno, scrive l’Espresso, ha fondato la società Ac Advocacy e Communication, sul suo sito personale “affitta” spazi a boiardi e aziende di Stato. L’affare frutta alla grande: in cinque mesi ha fatturato mezzo milione di euro. “Siamo tutti puttane”. Chi più, chi meno.

Rondo&Ercolani. Love story dal Pci ai troll contro i grillini

Ci sono le loro impronte a ogni curva tragica nella storia della sinistra italiana. Fabrizio Rondolino e Simona Ercolani sono i Sandra&Raimondo del post comunismo. Sempre insieme, dal Pci fino a Renzi: la svolta di Occhetto, il risotto di D’Alema, i leopardi di Bersani, le Leopolde di Matteo. E alla fine la “Bestia” renziana, la task force che ha provato a raddrizzare una popolarità catastrofica a colpi di like e profili finti. In una email, Rondolino illustra all’ex premier la “struttura di propaganda antigrillina che ho preparato con Simona in questi giorni”. Roba da microspionaggio: “È necessario creare una piccola, combattiva redazione ad hoc, che lavori (…) con la massima riservatezza: almeno due giornalisti d’inchiesta e un investigatore privato di provata fiducia e professionalità (a costo medio-alto)”. Tra gli obiettivi, Rondolino cita la character assassination degli avversari: “Notizie, indiscrezioni, rivelazioni mirate a distruggere la reputazione e l’immagine pubblica di Grillo, Di Maio, Di Battista, Fico, Taverna, Lombardi, Raggi, Appendino, Davide Casaleggio (e la sua società), Travaglio e Scanzi”.

I nomi di Sandra&Raimondo ritornano a più riprese nelle carte di Firenze sulla “Bestia” foraggiata dalla Fondazione Open. Che storia, la loro. Al tramonto del Pci erano poco più che ragazzi: lei a Rimini nel 1991 fece lo scoop della vita con il video della batosta di Occhetto, tradito dai compagni nel voto che doveva consacrarlo al comando del Pds. Rondolino ne scriveva sull’Unità, non stavano ancora insieme (“ma Rondolo mi batteva già i pezzi”, dirà la futura moglie). Da quel momento, per entrambi, carriere vorticose e idealismo in soffitta: Rondolino è tra i “lothar”, i consiglieri calvi di D’Alema; si accredita come guru e para-guru politico, scrive un po’ ovunque, lavora pure al Grande Fratello, finisce a fare il corsivista di “regime” negli ultimi spasmi dell’Unità renziana. Ora s’è ritirato e si occupa di cani e gatti in una rubrica sul Corriere della Sera.

Sua moglie intanto fa un percorso sontuoso in Rai: s’inventa Sfide e mille altri format, messi a profitto con una casa di produzione privata (la Stand by me). Lavora per Bersani nel 2012, ma poi cavalca l’onda renziana e diventa scenografa di Leopolde e Lingotti, consulente di Palazzo Chigi, ideatrice di campagne “per il Sì”.

Chissà come si fa a passare dall’idealismo comunista alla character assassination dei grillini con gli algoritmi dei software israeliani. Sarà che Sandra&Raimondo hanno una casa pure nel deserto del Nevada. Non si paga mica da sola.

Il piano della “Bestia” di Renzi: “Distruggere 5s, Casaleggio e Fatto”

017: l’allora leader Pd gira a Carrai progetto per diffamare con fake M5s, Travaglio e Scanzi. Il ruolo della Ercolani, zarina degli appalti Rai Il titolo è a metà tra il criptico e l’ironico: “Tu scendi dalle stelle”. Sono due pagine di “appunti sulla contropropaganda antigrillina”, quelle inviate da Fabrizio Rondolino a Matteo Renzi il 7 gennaio 2017. L’ex Lothar di Massimo D’Alema scrive da un account di posta criptato, l’oggetto è “antiGrillo”: due minuti dopo, l’ex premier inoltra l’email a Marco Carrai, senza aggiungere alcun commento. Dentro quel messaggio agli atti dell’inchiesta della Procura di Firenze sulla fondazione Open, c’è un piano di propaganda che mira a colpire avversari politici e giornalisti. Come? Con una “piccola, combattiva redazione ad hoc” che lavori “nella massima riservatezza”, composta da due giornalisti d’inchiesta e un investigatore privato. Il costo? “Medio-alto”. L’obiettivo? “Character assassination”, cioè diffondere notizie, indiscrezioni, “rivelazioni mirate a distruggere la reputazione e l’immagine pubblica” degli avversari. Chi sono gli avversari? “Grillo, Di Maio, Di Battista, Fico, Taverna, Lombardi, Raggi, Appendino, Davide Casaleggio (e la sua società), Travaglio e Scanzi”. Come si dovevano colpire? Attraverso materiale pubblicato su un sito specifico, “non riconducibile al Pd né a Renzi”, da costruire su “un server estero non sottoposto alla legislazione italiana” e con contenuti rilanciati da “una rete di fake”. Sono previsti due tipi di produzioni: da una parte meme, vignette e card per i social con messaggi ironici e strafottenti che “ridicolizzano questa o quella proposta, dichiarazione, personaggio”. Dall’altra “inchieste giornalistiche documentate ovvero, secondo lo stile del Fatto, ‘allusive’ e intrinsecamente diffamanti”. Per l’ex dalemiano, quindi, un’inchiesta giornalistica documentata è diffamante. Nell’email Rondolino suggerisce anche di “coinvolgere (…) gli ex grillini fuoriusciti o espulsi” e “sulla base di un rapporto personale e fiduciario due giornalisti che seguono il M5S e che non sempre possono pubblicare ciò che scoprono”.

Renzi gira lo scritto a Carrai, senza aggiungere nulla. Oggi, fonti vicine all’ex premier spiegano al Fatto che niente di quanto suggerito da Rondolino è stato realizzato. Di certo però il giorno dopo l’arrivo dell’email dell’ex Lothar, a scrivere è Carrai: si rivolge all’ex sindaco di Firenze, allo stesso Rondolino, alla moglie Simona Ercolani, al docente universitario Fabio Pammolli e ad Andrea Stroppa, altro collaboratore di Open. L’imprenditore non fa alcun cenno a “Tu scendi dalle stelle”. Il suo allegato si chiama “Progetto ricostruire Italia” e prevede una serie di mosse, meno aggressive di quelle suggerite dall’ex giornalista de L’Unità. Tra le “azioni da intraprendere a tempo zero”, però, Carrai inserisce pure la “realizzazione della nostra Dagospia”, la “trasformazione dell’Unità in un grande giornale di inchiesta” e la creazione “di siti civetta dove si copia il modello M5S nel metodico sputtanamento dell’avversario”. Mentre Renzi accusava leghisti e grillini di colpirlo con fake news e troll, i suoi progettavano di copiare un presunto “modello 5Stelle”. Che passava anche da insulti e attacchi a chi osava criticare la gestione renziana del potere. Dai messaggi agli atti della Procura di Firenze, infatti, si evince una certa ossessione per questo giornale. Nella chat del “gruppo post”, una dei partecipanti attacca il direttore del Fatto: “L’unico guadagno sarebbe vedere Travaglio a fare il barbone per la strada”. Il numero fa riferimento a tale “Simo”, la cui esternazione scatena Carlo. “Travaglio è un essere pregevole”, scrive, per poi correggersi: “Spregevole”. E ancora: “Falso”, “Non è un uomo e indescrivibile quello che può essere”.

Il 19 maggio 2017 Alberto Bianchi, presidente di Open, scrive a Luca Lotti. Parla di Marco Lillo. “Oggi lo querelo. Guarda Il Fatto”. “Che dice?” replica l’ex ministro. “Che ho fatto pressioni per le casette ai terremotati”. Lillo è molto temuto.

Il 12 marzo 2016 l’imprenditore Patrizio Donnini scrive ad Andrea Conticini, cognato di Renzi. “Mi ha chiamato Marco Lillo, mi sa che tra poco esce qualcosa su di me… (…) Mi ha chiesto se ero io quello incaricato per fare fundraising da parte di Renzi. Io ho detto che non è assolutamente vero”. E la risposta: “Il Fatto Quotidiano è una cosa allucinante”. Il 19 aprile 2017 Bianchi inoltra a Lotti un messaggio di Valeria Pacelli che gli chiedeva “alcuni chiarimenti sulla donazione della Golden production alla fondazione Open”. “Non ho intenzione di parlarci”, dice Bianchi, “scriva quel che vuole”, “poi querela”, “è una stronza notoria”. Il 14 aprile 2016, Valentina Maurizi commenta la trasmissione tv Virus, che vede tra gli ospiti Alessandra Moretti e Peter Gomez. “Stanno asfaltando la Moretti a Virus – scrive in chat – Gomez le ha detto pure: non conosci il codice penale. Stanno parlando dell’inchiesta di Potenza”. “Ora guardo”, risponde Donnini, che aggiunge: “Massacrata? Ma sul petrolio?”. “E sulle intercettazioni”, “non ha risposto?”. “Ha provato, ma con Gomez… non è per lei”. Ancora la Maurizi: “Sei avvocato e Gomez ti percula sul codice penale. Ma perché la mandano in tv”. A proposito di persone da mandare in tv, ci sono anche quelle che al Giglio magico piacciono. Il 9 marzo 2017 Bianchi scrive a Lotti: “La Chirico stasera va dalla Gruber, glielo ha chiesto Matteo…”. Il 2 marzo sempre Bianchi a Lotti: “La Chirico scrive domani sul Foglio sulla vicenda Consip. L’ha sollecitata M. Mi chiede se hai qualche elemento da darle della tua difesa”.

Non ci fanno paura

Alle 19.36 del 7 gennaio 2017, un mese dopo aver perso referendum e governo e 13 mesi prima delle elezioni politiche, il segretario del Pd Matteo Renzi inoltra all’amico Marco Carrai un’email che gli ha inviato Fabrizio Rondolino, giornalista prima dalemiano poi berlusconiano infine renziano, nonché marito della produttrice tv Simona Ercolani, che mentre vince a man bassa appalti Rai, lavora pure lei alla sua campagna elettorale. Nel messaggio d’accompagnamento, Rondolino scrive a Renzi: “Eccoti un primo appunto sulla struttura di propaganda antigrillina che ho preparato con Simona in questi giorni… Ps. Se già non lo usi, ti consiglio questo sistema di posta criptata…”. Ed ecco il suo appunto che Renzi gira a Carrai, facendolo proprio senza prenderne minimamente le distanze: “Non dobbiamo controargomentare sulle loro proposte, dobbiamo distruggere chi le ha avanzate” con campagne “‘allusive’ e intrinsecamente diffamanti: a) i disastri delle amministrazioni grilline, da Roma al più piccolo dei comuni amministrati: scandali, dimissioni, inchieste giudiziarie”; “b) character assassination: notizie, indiscrezioni, rivelazioni mirate a distruggere la reputazione e l’immagine pubblica di Grillo, Di Maio, Di Battista, Fico, Taverna, Lombardi, Raggi, Appendino, Davide Casaleggio (e la sua società), Travaglio e Scanzi”.

Perciò “è necessario creare una piccola, combattiva redazione ad hoc, che lavori esclusivamente sul progetto nella massima riservatezza: vanno individuati almeno 2 giornalisti d’inchiesta e un investigatore privato di provata fiducia e professionalità (a costo medio-alto)” e “vanno coinvolti… gli ex grillini fuoriusciti o espulsi”. Raccolta la merda, per spararla nel ventilatore “va creato un sito specifico, non riconducibile al Pd né tantomeno a MR, da costruire su un server estero non sottoposto alla legislazione italiana, che raccoglie e pubblica tutto il materiale… da rilanciare poi sui social network (attraverso una rete di fake che agiscono su cluster specifici)” e far “riprendere dai media tradizionali” grazie a “una serie di interlocutori, nei giornali e nelle tv, con cui costruire un rapporto personale e fiduciario”. Interlocutori che non mancano: in altre email agli atti dell’inchiesta Open Renzi vanta un “accordo Agnoletti- Orfeo”, il primo suo portavoce e il secondo Ad e Dg della Rai (ora direttore del Tg3 in procinto di guidare con Fuortes la nuova Direzione Approfondimenti e talk), un “accordo con Brachino-Confalonieri” per Mediaset e vuole avvicinare il direttore di La7 Salerno. Il tutto per “conoscere le scalette” e dare “uno sguardo particolare su Gruber, Floris, Formigli, Giletti, Minoli”.

Sulle tv, il progetto collima con la Struttura Delta di B. in Rai; sui social, il sistema è la fotocopia della “Bestia” leghista, oggetto di strali anche dai renziani almeno fino al Patto dei 2 Matteo; sui quotidiani, a parte i pluricitati globetrotter Annalisa Chirico e Jacopo Iacoboni, c’era l’imbarazzo della scelta, visti i battaglioni di penne scatenate nella campagna elettorale pro Renzi e anti M5S senza bisogno di ordini. Nei mesi seguenti furono colpiti via via Grillo Fico, Raggi, Appendino, Taverna, Casaleggio, Di Maio, Di Battista.
Ora immaginate che accadrebbe se questo piano per “distruggere” e “diffamare” gli avversari politici con la “character assassination”, i “fake”, i dossieraggi di “investigatori privati” da “un server estero non sottoposto alla legislazione italiana”, usando vertici e appaltatori Rai e giornalisti da riporto, fosse uscito da un’email di Casaleggio o Casalino per ordine di Grillo o Conte: le piazze si riempirebbero di politici e supporter che invocano dimissioni e strillano al golpe populista, alla macchina del fango grillina; e rotolerebbero teste ovunque, dalla Rai all’Ordine dei giornalisti. Invece tutto tace. Anche fra i cacciatori di fake news russo-grilline che accusavano falsamente il M5S e la Casaleggio di fare ciò che invece fanno i loro amici renziani. Anche alla Rai, dove tutti sanno cosa facevano (e fanno) i renziani, occupando tutto l’occupabile e cacciando le poche voci stonate dal coro (Gabanelli, Giannini, Giletti).
Quanto a noi, pubblichiamo le carte di quest’indagine come di tutte le altre (su B., Salvini, Pd, Raggi ecc.). E siamo abituati a subire dossieraggi. Nel 2006, interrogato sullo scandalo della Security Telecom, il giornalista Guglielmo Sasinini confessò di aver redatto per il suo capo Luciano Tavaroli almeno 61 dossier su altrettanti personaggi ostili, incluso il sottoscritto. Nello stesso anno fu trovato l’archivio segreto del Sismi di Niccolò Pollari, con migliaia di schede compilate dal suo fido analista Pio Pompa, e anche lì, accanto a quelle di pm, politici e altri presunti nemici di B. da “disarticolare” con “azioni traumatiche”, ne saltò fuori una a mio nome. Figurarsi se oggi ci lasciamo impressionare o intimidire dai traffici dei renziani che volevano “distruggere” noi e han distrutto solo se stessi. Ci limitiamo a notare la perfetta continuità fra berlusconismo e renzismo, le due peggiori jatture che abbiano infestato la vita pubblica negli ultimi 30 anni. E ad augurarci che si estinguano al più presto, senza che nessuno osi più avvicinarli per accordarsi su governo, Quirinale e Rai. Continueranno a colpirci con i dossier? Finiranno come i Sasinini, i Pompa e i Rondolini: con un pugno di mosche. Non abbiamo nulla da nascondere, noi.

“Tu la conosci Claudia?”. I romanzi a fumetti di Zuzu continuano a vivere “Giorni felici”

C’è un film che si intitola Tu la conosci Claudia? del trio comico Aldo, Giovanni e Giacomo. È un film comico e ruota intorno a una certa Claudia e agli equivoci che nascono quando le identità si confondono.

Leggendo le avventure sentimentali di Claudia in Giorni Felici – l’ultimo romanzo a fumetti di Zuzu (nome d’arte di Giulia Spagnulo, salernitana classe 1996) edito da Coconino-Fandango – quella domanda, “Tu la conosci, Claudia?”, risuona in testa come il rintocco di una campana. Regolare, a ogni pagina. Ma l’identità confusa non genera equivoci divertenti come al cinema: la storia di Claudia è una storia affilata e puntuta come i personaggi che disegna Zuzu, che si arricciano in mille rivoli come quelli di Altan.

Giorni felici è il racconto di una ragazza di cui sappiamo solo che ha tra i 25 e i 30 anni e che si sta preparando per un provino teatrale (la celebre opera di Samuel Beckett che dà il titolo al libro: Giorni felici). Non è una creatura definita, Claudia, ma si trasforma continuamente: è una sfinge e poi una bestia zannuta, si ferisce con i suoi stessi artigli, si accarezza la coda, fa sesso, beve, sanguina, vomita e poi le spuntano le ali e vola via con un bacio. E i personaggi che le ruotano intorno, amori vecchi e nuovi, restano a guardarla senza capire: “Tu la capisci Claudia?”.

Zuzu prende i sentimenti – quelli in purezza, assoluti dei venti-trent’anni (“È più facile amare alla tua età”, dice uno dei personaggi secondari alla protagonista) – e ce li racconta in presa diretta usando pastelli e matite per 500 pagine, con vignette quadrate e regolari, quasi tutte delle stesse dimensioni, come la scansione di un metronomo che cambia solo in alcune pagine, quando il cuore di Claudia si espande troppo o quando si contrae all’estremo diventando tutto nero. Qual è il confine tra Claudia e Zuzu? Seguendo l’autrice sui social (su Instagram è @sono.zuzu) la vedrete ridere, ballare, disegnare, truccarsi, colorarsi i capelli con nuance simili a quelle di Claudia nel fumetto. Zuzu è uguale a Claudia, e infatti cambia continuamente.

Dopo Cheese (Coconino-Fandango, 2019), il suo romanzo d’esordio che ha fatto incetta di qualsiasi premio il mondo del fumetto abbia in vetrina, non era facile riuscire a stupire ancora i lettori. Ma Zuzu lo ha fatto e lo farà di nuovo, spalancando le ali e librandosi in aria dopo un bacio troppo forte.

Stop in translation: ora la sala ama i film in lingua originale

La coppia che scoppia all’ingresso del cinema: film doppiato o in versione originale coi sottotitoli? Perché lui è pigro, lei integralista. Tra i due litiganti a goderne è il ristorante, e a farne le spese resta il cinema in sala nel suo impavido tentativo di sopravvivere a virus, piattaforme e pirati: escludendo il pandemico 2020, ottobre 2021 segna al botteghino -47 per cento sul 2019 e -33 per cento sul 2018.

Ma è forse proprio grazie all’esplosione dello streaming legale e non che, paradossalmente, nel Belpaese di santi, poeti e doppiatori sta intensificandosi il dibattito tra “doppiaggisti” e “sottotitolisti”, auspicabile preludio a un vero cambio di direzione: siamo dunque sulla via di emancipazione del cine-pubblico verso la fruizione del sacro testo originale? E nel caso, a che punto siamo di tale percorso?

Invitato a intervenire sul tema come “spettatore”, da quando è tornato dagli States Gabriele Muccino non vede neppure più un trailer doppiato. Per il regista romano si tratta di un “processo irreversibile. Lavorando negli Usa ho compreso quanta puntualità vi sia in ogni fase realizzativa di un film, inevitabilmente stravolto nella sua genesi anche dalla miglior versione doppiata. Per fortuna anche l’Italia si sta aprendo al mondo grazie alle serie tv. Gli under 30 sentono la nuova libertà, per questo la versione originale è insostituibile”.

I gestori delle sale, che grazie alle copie digitali possono ricevere i film dai distributori automaticamente nelle versioni originali e doppiate (con la pizza di pellicola era impossibile), misurano le oscillazioni nelle scelte degli spettatori. “La richiesta riguarda soprattutto il cinema d’autore. Ma anche per altri film si inizia a percepire un cambiamento promosso in gran parte dagli spettatori abituati alle piattaforme” spiega il presidente dell’Anec (Associazione nazionale esercenti cinematografici) Mario Lorini, impegnato a incoraggiare i suoi colleghi esercenti a “pensarsi come operatori culturali, facendo capire al proprio pubblico che la versione originale è la chiave di riscoperta del valore stesso del film”. Ma è egli stesso a sottolineare che, “seppur in crescita, si tratta ancora di un fenomeno di nicchia, in ogni caso da monitorare”.

Cinefilia, nativi digitali e altre “orecchie” catturate dalla curiosità. A condizione che ci si trovi nelle principali città. Come a Milano, il cui pubblico “negli ultimi 7-8 anni ha radicalmente modificato il suo modo di andare al cinema con un incremento esponenziale di richiesta della versione originale” annuncia Sergio Oliva, responsabile della programmazione di Anteo Spazio Cinema (40 schermi in Lombardia di cui 18 nel capoluogo). “No Time To Die e Dune da noi hanno avuto più spettatori in lingua originale che doppiati”, segnala Oliva, lanciando una proposta suggestiva, seppur per ora solo teorica: “La possibilità per tutti i film stranieri di essere fruiti in lingue diverse contemporaneamente, offrendo la doppia, se non tripla versione in cuffia, e creando nelle sale aree di non-disturbo”.

Ma fuori dalle metropoli o dalle città a vocazione internazionale, sognare in multilingue resta un miraggio. In provincia è già tanto se arrivano i film nelle poche sale sopravvissute. “Qui il discorso è complesso. La richiesta delle copie sottotitolate è ancora irrisoria” denuncia Andrea Occhipinti, che osserva il dibattito sia come distributore (fondatore e presidente di Lucky Red) sia come esercente (Ad di Circuito cinema di cui cura la programmazione su 120 schermi su base nazionale). “Certo, esiste una nuova tendenza, ma in provincia l’edizione doppiata prevale nettamente. Credo, inoltre, che ci siano tipi di film che difficilmente rinunceranno al doppiaggio, penso ai family per bambini”.

È anche vero che i piccoli saranno i futuri spettatori ancor più digitali e multilingue degli attuali teenager. Spetterà a loro sradicare l’abitudine al doppiaggio che “altro non è che un’abitudine culturale, e come tale è profondamente radicata, difficilissima da modificare” accusa Eddie Bertozzi, responsabile acquisizioni di Academy Two, distributore di cinema di qualità, che sottolinea quanto il doppiaggio sia (peraltro) assai più costoso: “Sottotitolare costa fra i 1.000-2.000 euro, doppiare può superare i 40 mila euro”. Ma per quanto non convenga ai distributori, il doppiaggio ancora “resta fondamentale per raggiungere un pubblico più ampio, anche all’interno del circuito di qualità”, spiega Stefano Finesi, presidente di Teodora Film, anch’essa marchio d’autore, da sempre attenta a valorizzare i film in lingua originale “con scelte anche molto estreme come il recente film russo Dau Natasha, uscito solo coi sottotitoli”.

È vietato perculare lo Zar

Ha pochi denti, pochi capelli, un tricolore russo che gli luccica sul petto e uno sguardo colmo di infinita sicumera. Il deputato Vitaly Nalivkin è uomo d’azione e di parola. Ovunque si verifichi un incidente, si manifesti un problema, arriva per risolvere le cose con cinismo, arroganza e furbizia, virtù diffuse tra i politici della provincia russa. Rozzo, sgraziato e onnipotente, Vitaly lancia granate per spostare le cose, dà fuoco ai tubi dell’acqua per salvare dall’ibernazione gli elettori che adora umiliare, seppellisce immondizia per frenare l’emergenza rifiuti.

Rapisce blogger che diffondono “feik nius” sulla Federazione, sempre accompagnato dai suoi altissimi spetnaz, forze speciali russe in passamontagna, pronte a picchiare, torturare, neutralizzare qualsiasi ostacolo si opponga all’ascesa del successo di Vitaly.

Contrabbanda carta igienica che manca nei supermercati e la distribuisce con sopra la sua faccia, perché ogni superficie è buona per la propaganda. Oppure attacca enormi distributori di profumo ai pali invece di spurgare le fogne che intossicano gli abitanti. Vitaly Nalivkin non esiste, ma milioni di russi lo guardano ogni giorno: la serie geniale è opera del gruppo umoristico Barakuda. Il deputato immaginario che si agita per le strade (reali) di Ussuriysk, siderale città al confine russo-cinese, sintetizza l’impunità dei governatori della Federazione, che, in filigrana, si possono osservare tutti nei tic del personaggio.

Se un poliziotto tenta di opporsi all’apertura di una scuola senza muri – dove le porte sono di carta e per termosifoni si usano i bidoni dei senzatetto –, arriva lui per ricordare che “le future generazioni sono priorità di ogni governo”. In ogni episodio c’è un villaggio Potemkin e qualcuno che sparisce: quasi sempre è quello che tentava di frenare l’ingiustizia. Sullo sfondo sfila la Russia rurale con i bagagliai pieni di pannocchie e verza, ma che intanto sogna quei leggendari cessi d’oro che possono permettersi solo i politicanti corrotti. Ci sono i patrioti, le scorie nucleari e le patate. C’è quel Paese di Puskin e Gogol che sa specchiarsi nello schermo e ridere di se stesso, adesso perfino in pubblico.

Poiché i filmati di Vitaly sono spesso accompagnati da una lenta voce monocorde fuoricampo che ne esplica le gesta, qualcuno li ha scambiati per telegiornali veri. Durante i mesi più duri della pandemia, un video del gruppo è stato diffuso da alcuni media, anche occidentali, come una notizia reale. L’agenzia Afp si è vista costretta a smentire con un lungo report quelle testate che avevano pubblicato informazioni su presunte “truppe speciali sanitarie” che, a volto coperto, fanno irruzione nelle abitazioni dei russi per legarli e infilargli aghi dello Sputnik nel braccio.

Nella Federazione, dove la realtà sfida spesso l’assurdo e quasi sempre lo supera, è finito nel mirino delle autorità l’ultimo episodio della serie, intitolato Vitaly risolve un attentato terroristico.

Il goffo deputato spara con un lanciagranate, ma invece di centrare l’obiettivo colpisce un cartellone elettorale di Edinaya Rossya, Russia Unita, il partito di Putin. Qui finisce la satira e inizia una cronaca spaventosamente reale, sebbene degna di un’idea dei Barakuda. Accusati in base all’articolo 213 del codice penale russo che condanna “la violazione dell’ordine pubblico con ordigni esplosivi”, Andrey Klochov, Aleksandr Animov e Semen Vavilov, produttore, autore e operatore dei Barakuda, hanno visto le loro case invase dai raid della polizia. Larisa Krivonosova, attrice di strada che impersonava la portavoce del ministero dell’Interno nell’episodio della discordia, è stata condannata dalla Corte cittadina per aver indossato in maniera illegittima una divisa della polizia.

L’attore della serie – che ha ormai dimenticato di chiamarsi Andrey Neretin e si gira per strada solo se qualche fan lo chiama “Vitaly Andreevic” – è finito in galera cinque giorni per “hooliganismo”, un termine piovra che le autorità russe usano per chiamare chiunque considerino, a tempo debito, un teppista.

In Russia, dove intere cittadine possono andare a fuoco, si può studiare in scuole fatte di buchi, dove i ricchi possono defecare su tazze dorate o i poveri baciare le mani di chi elargisce carta igienica, tutto è permesso, ma vietato è ridere: il Cremlino sa che chi lo fa smette di avere paura.

Trottolone “Micci”: seconda fila Mediaset e demiurgo renziano

Raccontava Marcello Dell’Utri ai tempi suoi: “Per costruire il partito di Forza Italia usammo gli uomini di Publitalia. Non i più bravi, quelli ce li siamo tenuti per il fatturato. Ma quelli un po’ meno svegli. Le seconde file, diciamo”. Gianfranco Miccichè, viene da lì. “Micci chi?” direte voi, come capitò al regista Luca Ronconi, quando Micci pretendeva di censurargli uno spettacolo a Siracusa, Le rane di Aristofane, anno 2002, che conteneva la caricatura di Berlusconi in scenografia. “Visto che il signor Ronconi prende soldi pubblici, non può pigghiare po ’u culu il capo del governo”, disse il meschino, spolverando 2,4 millenni di satira in un solo starnuto.

Miccichè non è un refuso, ma un uomo stupefacente per tante ragioni. Palermitano, classe 1954, appassionato di signorine, barche, aragoste, ma sempre pensando al bene pubblico. Cioè alla Sicilia, la regione più povera d’Italia, con la classe politica più ricca d’Europa. Iracondo e insieme cardiopatico, capace di strillare e poi scusarsi. Di inveire sotto gli stucchi di Palazzo dei Normanni, lui presidente dell’Assemblea regionale, battere i pugni sul tavolo, pretendere priorità di vaccinazione per i suoi deputati, “noi qui rischiamo la vita!”, e gridare: “Oggi sono talmente incazzato che vorrei ammazzare a qualcuno! La seduta è tolta!”. Per poi piagnucolare pentimento: “Brutte parole usai”.

È la trottola trottante della politica siciliana, in circolazione dal lontano 1994, elezioni del 61 a zero nei collegi elettorali dell’isola, contro la gioiosa macchina di Achille Occhetto. Tre volte deputato, una volta addirittura a Bruxelles. Tre volte sottosegretario, una addirittura ministro, 2005-2006, dicastero dello Sviluppo e la Coesione territoriale. Infinite scissioni al suo attivo, partiti inventati e sciolti, Rivoluzione Sicilia, Sicilia Futura, Forza Sud, litigi furenti (con i giornalisti, con Tremonti, con gli ex presidenti di Regione: Crocetta, Lombardo, Musumeci) riappacificazioni con quasi tutti, salvo che con l’ex ministro Angelino Alfano (“mi deve tutto, l’ho inventato io, ma piuttosto che ringraziarmi si ammazza”) e con se stesso.

Fu tra i pupilli del primissimo Berlusconi, davanti al quale stava sull’attenti. E oggi lo è dell’ultimissimo Matteo Renzi, accanto al quale lo scorso ottobre divorava l’agnello delle Dolomiti lucane al burro d’arancia, attovagliato all’Enoteca Pinchiorri, Firenze, 250 euro a coperto, vini esclusi, sognando di cucinare con lui il prossimo “partito moderato”. Ideona che definisce “qualcosa di nuovo da concepire nell’Isola e poi esportare alle elezioni politiche nazionali”. Non l’eterna Democrazia cristiana siciliana, ci mancherebbe, prosperata multiforme nel Dopoguerra con i rimasugli dei latifondisti fascio/monarchici che assoldavano lo schioppo dell’onorata società. Né quella sopravvissuta alle bancarotte amare dei bilanci regionali, o ai dolci cannoli di Totò Cuffaro, detto Vasa Vasa, per via dei baci che imbraccia con lo schiocco anche ora, dopo 7 anni di condanna per mafia, 5 a Rebibbia, scontati con encomiabile realismo: “Ho fatto errori e ho pagato”. Rendiconto che il nostro Miccichè, ai tempi degli arresti e del processo, neanche ammetteva: “Cuffaro paga per tutti, perché è siciliano”. Cosa che a ben guardare non voleva dire niente allora, né oggi, a imminente rinascita politica comune. L’ennesima. Con un intero allevamento di gattopardi al seguito che si chiameranno Forza Italia Viva o qualcosa del genere.

Gianfranco nasce benestante, ma pigro. Padre alto dirigente del Banco di Sicilia. Lui studente da ultimo banco, il quotidiano Lotta continua in tasca, i riccioli al vento di Mondello, bar, ristoranti, serate fino all’alba. Risultato: due volte bocciato. Università interrotta. Compiuti i vent’anni, il babbo si scoccia, lo ripulisce, gli infila una grisaglia con cravatta e lo piazza all’Irfis, agenzia finanziaria per il mediocredito siciliano. La penombra dura qualche autunno, fino a quando sarà Marcello Dell’Utri, nel luminoso anno 1984, a indicargli la via, quella dei fatturati di Publitalia, la concessionaria di pubblicità delle reti Fininvest che hanno piazzato i famosi ripetitori in tutta la Sicilia. Gianfranco porta in dote un ricco contratto pubblicitario con l’amaro Averna. Dell’Utri ringrazia, nominandolo responsabile dell’intera regione. Lui fa e un po’ anche si strafà. Nella Palermo dei ruggenti anni Ottanta il suo vizio è cosa nota. L’Italia lo scopre nel 2002, quando un suo collaboratore, tale Alessandro Martello, viene fermato dai carabinieri mentre alle dieci di sera sta entrando al ministero delle Finanze con 20 grammi di cocaina. Per gli investigatori che lo intercettano, li sta portando “verosimilmente” a “Miccichè Gianfranco, sottosegretario di Stato”. Martello nega. Miccichè nega. Parla di indagini deviate e complotti a suo danno. L’inchiesta si inabissa. E quando Gianfranco si sente al sicuro, va a confessarsi in tv da Giuliano Ferrara: “In un periodo difficile della mia vita ho sniffato”. E ora? “Ora dico ai ragazzi di stare lontani dalla droga”.

Nel frattempo le intemperanze del carattere lo fanno parlare prima di pensare. Si attribuisce una docenza universitaria nel curriculum, poi si scusa. Dice che intitolare l’aeroporto di Palermo a Falcone e Borsellino “trasmette una immagine negativa a chi arriva in Sicilia”. Poi si scusa. Dice che il generale Dalla Chiesa “merita un supplemento di rispetto perché è l’unico non siciliano tra le vittime di mafia”. Quando gliene rammentano una dozzina – tra le quali Anna Setti Carraro, Mauro Rostagno, Lenin Mancuso, Antonio Montinaro, eccetera – si scusa. Se la prende con i cinesi che “si portano via il tonno rosso con gli ultrasuoni”. E con i Cinquestelle che chiedono il taglio dei vitalizi ai faraoni della Regione Siciliana: “Non è una proposta, è una vendetta. A me chi mi mantiene?”. A Gian Antonio Stella che sul Corriere gli chiede conto dei mille corsi di formazione finanziati dalla Regione, replica: “Ammortizzatori sociali sono. Al Nord c’è la cassa integrazione per le fabbriche che chiudono? Qui, senza fabbriche, l’ammortizzatore è questo”. Il suo ce l’ha da gran tempo incorporato. Oggi prova a perfezionarlo con lo specialista di Rignano per il gran teatro delle prossime elezioni siciliane: tutti i fantasmi convocati, quello di Dell’Utri compreso.