“È il momento più buio per noi toghe. E la legge Cartabia vìola la Carta”

Consigliere Antonino Di Matteo il titolo del suo nuovo libro è ‘I nemici della giustizia’. Chi sono?

Sono tanti. Non solo mafiosi corrotti e criminali. Si annidano nelle pieghe delle istituzioni e della politica e anche della magistratura. Non possiamo far finta che questo momento non sia uno dei più bui della storia della magistratura. I mali diffusi come metastasi nel corpo della giustizia sono il correntismo, la corsa sfrenata alla carriera, la gerarchizzazione degli uffici di procura e il collateralismo con la politica.

Perché ha scritto con Saverio Lodato questo libro in questo momento così poco felice della magistratura?

Non possiamo far finta di stupirci. Dobbiamo indignarci e non nascondere la verità. Sono tanti quelli che vogliono approfittare di questo momento difficile per regolare i conti con i magistrati che hanno saputo esercitare il controllo di legalità anche sul potere finanziario e politico. C’è una logica di rappresaglia ma anche di prevenzione per il futuro. Vogliono vendicarsi ed evitare che la magistratura possa essere troppo incisiva. Ecco perché ho ritenuto di far sentire la mia voce. Non mi piace questo andazzo. La magistratura sembra rassegnata a subire l’attacco frontale di chi vuole trasformare le procure in organi collaterali e serventi rispetto al potere esecutivo.

C’è un intero capitolo nel libro dedicato alla riforma Cartabia. Quali sono i rischi maggiori?

La ritengo una delle peggiori riforme degli ultimi 30 anni. L’Europa chiedeva di accelerare i processi ma se fosse stata in vigore la riforma Cartabia, processi importanti come quello per il crack Parmalat, la strage di Viareggio o per le violenze nella scuola Diaz di Genova nel 2001, si sarebbero conclusi nel nulla. Questa normativa presenta per me aspetti di evidente incostituzionalità. Va nella stessa direzione del processo breve voluto dal premier Berlusconi e dal ministro Alfano nel 2009. Allora però ci fu una forte reazione. Gli organismi rappresentativi della magistratura, i movimenti e partiti che allora insorsero oggi sono silenti o addirittura favorevoli alla riforma Cartabia.

Poi c’è il tema dei criteri di priorità stabiliti dal legislatore. Quali sono i pericoli?

Questo punto mi preoccupa ancor più dell’improcedibilità. Le maggioranze parlamentari del momento dovranno individuare le priorità dell’azione penale. La maggioranza di turno potrà ad esempio in futuro stabilire che bisogna perseguire prima la criminalità da strada e poi, solo se resta tempo, i reati di corruzione o tipici dell’abuso di autorità. Così si mina l’obbligatorietà dell’azione penale e l’autonomia e indipendenza della magistratura. Non è solo un problema della casta della magistratura. Intravedo un grave pericolo per i cittadini e le minoranze che si oppongono alla maggioranza di turno.

Nel libro dedica un capitolo intero ai referendum sulla giustizia. Ci spiega perché è contrario?

Premetto che la Costituzione prevede lo strumento referendario anche per cambiare le norme della giustizia. Nulla da dire quindi sul metodo. Nel merito invece sono contrario a cinque dei sei quesiti. Il sesto, quello sulle firme necessarie per presentare le candidature al CSM, per me è inutile perché non serve a evitare lo strapotere delle correnti.

Lei è contrario soprattutto alla separazione delle carriere. Perché?

Il primo piano in tal senso era quello di Rinascita Democratica di gelliana memoria. Poi è diventata una bandiera di Forza Italia e del centrodestra nella seconda repubblica. L’appiattimento dei giudici sui pm è un falso storico. Basta vedere le statistiche: i giudici disattendono spesso le richieste dei pm. Inoltre sul passaggio da una funzione all’altra i paletti sono già alti. Negli ultimi 15 anni poco più del 2 per cento dei pm è diventato poi giudice e meno dello 0,5 dei giudici ha compiuto il passaggio inverso. La separazione delle carriere porterebbe, se non immediatamente in maniera inevitabile, alla sottoposizione del pm all’esecutivo e comunque consacrerebbe una figura del pm estranea alla cultura della giurisdizione.

Perché non sarebbe giusta la riforma della responsabilità civile?

Si dice che i magistrati che sbagliano devono pagare. Messaggio suggestivo ma che si basa su presupposti sbagliati. Esiste già la responsabilità penale con decine di magistrati sotto processo. Poi c’è la responsabilità disciplinare che viene fatta valere più frequentemente per noi magistrati che per altre categorie. Anche la responsabilità civile già c’è. Anche se solo per dolo e colpa grave. La normativa attuale prevede l’azione del cittadino che si ritiene leso contro il Governo per chiedere i danni. In caso di accertamento del dolo o della colpa grave, è il Governo a potersi rivalere sul magistrato. Con il sì al referendum si consentirebbe al cittadino l’azione diretta contro il magistrato. Vedo alcuni rischi: innanzitutto si determinerebbe un’incompatibilità in capo al magistrato chiamato in causa. Inoltre i magistrati che devono giudicare una controversia, civile o penale potrebbero essere indotti a favorire la parte più forte, che ha i mezzi per rivalersi sul magistrato. Tra una multinazionale e un lavoratore il giudice sarà sereno nel giudizio?

Nel libro c’è un riferimento alla sentenza Trattativa. L’appello ha ribaltato il primo grado assolvendo Marcello Dell’Utri e i Carabinieri. Cosa ha pensato?

Bisognerà attendere le motivazioni. Però alcune cose si possono già dire. Intanto non siamo stati solo noi pm a valutare certe condotte. Il giudice dell’udienza preliminare ha ritenuto giuridicamente corretta l’impostazione accusatoria. E poi la Corte di Assise – dopo 5 anni di processo e centinaia di udienze – ha scritto 5.500 pagine per motivare la condanna. Non voglio scendere nel merito delle responsabilità penali degli imputati. Però una cosa voglio dirla: sono a posto con la coscienza e sono orgoglioso di aver contribuito con i miei colleghi, pm e giudici, a far emergere fatti oggi incontestabili che solo la nostra tenacia ha fatto riemergere da archivi nascosti e polverosi. L’opinione pubblica aveva il diritto e forse anche il dovere di sapere che nel periodo delle stragi Cosa Nostra ha agito nell’ottica di un dialogo a suon di bombe con lo Stato. Nessuna sentenza potrà mai cancellare i fatti storici emersi in quel processo.

“Acchiappare i voti con il proporzionale: 10 regole infallibili”

Nel caso si dovesse tornare al proporzionale, e l’eventualità sembra più di una ipotesi di scuola, abbiamo preparato, con l’ausilio di Aldo Patriciello, eurodeputato di Forza Italia e tra i più formidabili acchiappavoti in circolazione, un testo base comportamentale per i futuri candidati che dovessero ambire a una poltrona in Parlamento.

Lei è tecnicamente un ras, principe della rete clientelare, sismologo delle preferenze. Aiutiamo chi con buoni consigli chi si deve far largo in questo mare di pescecani.

Punto primo: il telefono. Mai cambiare il numero, mai spegnere il cellulare. Offrire la testimonianza della disponibilità all’ascolto.

Chiamerebbero a tutte le ore.

E così vuoi fare il deputato? Certo che chiamano e chiedono.

Chiedono pure cose strane.

Chiedono. Al politico spetta di distinguere il grano buono e quello cattivo.

E arriviamo al punto secondo.

Conservare lo stesso staff. I collaboratori devono essere gratificati economicamente cosicché non si formi in segreteria un turn over che manderebbe a monte la memoria politica. Ho sei collaboratori. Gli stessi di vent’anni fa.

Spieghiamo meglio la questione della memoria politica.

Memoria e interferenza territoriale. Esempio: entro in un bar e incontro lei. Accetto il caffè e anche la foto. Il mio collaboratore, se è valido, dovrà avvertirmi se sul suo conto spuntano brutte cose e l’amicizia con lei potrebbe nuocermi. Se lei è un malandrino, cassare il numero, rompere i ponti.

Cosa fare alla richiesta di un aiutino? Piccola raccomandazione, breve segnalazione, eccetera.

Prima si utilizzava il sistema dell’appunto scritto. Adesso è assolutamente vietato. Si rischia, per una banale segnalazione, di essere perfino coinvolti in storiacce. Non è più il tempo.

E allora come conservare il famoso legame? Come tenersi strette le preferenze?

Qui siamo al punto tre. Assoluta equidistanza con le simpatie locali o le ideologie storiche del nostro potenziale elettore. Se è di sinistra voti a sinistra al comune alla regione e anche al Parlamento nazionale. Io sono deputato europeo, non so se mi spiego. Limitare alla propria personale avventura la dazione del consenso altrui. In questo modo si liberano le energie dell’elettore e lo scambio diviene possibile.

Punto quarto.

Non fare comizi accompagnato da esponenti, anche del proprio partito, che in taluni territori potrebbero indispettire altri tuoi elettori di partito avverso al tuo. Meglio visite private, colloqui riservati.

E siamo all’elettore: chi è il trainante e chi il trainato.

Punto quinto: se fino a dieci anni fa il papà decideva il voto di tutta la famiglia adesso è il figlio/a a traghettare sulla tua sponda l’intero nucleo. Quindi sono decisivi i social. Avere un collaboratore che sappia gestire i social è rilevantissimo. Sono i giovani che fanno votare i vecchi, non so se mi spiego.

Battesimo, cresima, matrimonio. Nel Sud sono eventi sociali rilevanti.

Punto sesto ma valido solo nel Mezzogiorno. Essere presenti ogni volta che è possibile alle feste, ai compleanni, alle nozze d’oro, anche al compimento del diciottesimo. Un piccolo presente in argento è la forma tipo della colleganza. Nei casi più intimi (pochi per fortuna) una significativa dazione in danaro per sostenerli nell’avventura della vita.

Punto settimo.

Avere sott’occhio tutte le problematiche e continuamente inoltrare bandi di gara, concorsi, appalti eccetera.

Ottavo punto: quanto costa farsi eleggere?

Almeno 150mila euro per Strasburgo. Non meno di centomila per la Camera e il Senato. E guardi che mi tengo stretto.

Il santino è ancora necessario?

Assolutamente sì. Il santino è l’unico corredo tipografico (ora che sono svaniti i manifesti murali) indispensabile. L’elettore non ricorda bene e dunque devi agevolarlo nella rievocazione del tuo nome, cognome e simbolo del partito.

Punto dieci.

Sei stato eletto? Bene, ricordati che il telefono non lo devi spegnere più (confrontare il punto primo). Si risponde sempre, e con garbo e con umiltà. E si cerca dove è possibile un contatto fisico.

Al telefono si chiedono e si dicono cose anche sconvenienti.

Si potrebbe essere male interpretati. Meglio chiarire de visu.

Conte fa la mossa: “Draghi al Colle? Io non lo escludo”

Questa volta l’avvocato lo ha detto in chiaro. “Mario Draghi al Quirinale? Non possiamo escluderlo” ammette Giuseppe Conte durante Mezz’ora in più, facendo capire che sì, anche per lui spostare di palazzo l’attuale premier potrebbe essere la soluzione più semplice. Ma come ha raccontato in questi giorni il Fatto, Conte pone un paletto per il via libera a Draghi: “Se ci fossero tutte le condizioni, non dobbiamo pensare che solo per questo si vada alle elezioni”. Far convergere tutti i parlamentari a 5Stelle sull’ex presidente della Bce sarebbe già non facile. Ma far fiutare loro il voto anticipato in caso di sua elezione al Colle sarebbe quasi un suicidio. Per questo l’ex premier assicura a Lucia Annunziata che lui non spinge per le urne, anzi: “Non abbiamo nessuna fretta di andare al voto, prima bisogna mettere il Paese in sicurezza, e attuare il Pnrr”. Non solo: “Avendo un nuovo corso del M5S, noi 5Stelle abbiamo bisogno di tempo. Andare al voto che ci attribuiscono non sarebbe neanche nostro interesse”. Ed è sincero, l’ex premier, ripetendo anche in questo caso concetti già filtrati dai piani alti: “Conte ha bisogno di assestarsi come nuovo leader del nuovo Movimento, un voto da qui a qualche mese lo penalizzerebbe”.

Draghi al Colle quindi è un’ipotesi percorribile, ma a patto di mettere al suo posto a palazzo Chigi qualcuno che traghetti la legislatura fino al 2023, e il primo nome per il M5S resta quello del ministro dell’Economia, Daniele Franco. “Siete passati dal proporre per il Quirinale Stefano Rodotà a un’altra fase, ha materializzato una distanza…” lo stuzzica Annunziata. E Conte si copre: “Se oggi Rodotà fosse vivo sarebbe oggetto di discussione con le altre forze politiche”. Sarebbe stato perfetto, per cementare i giallorosa. Ma in assenza del giurista, bisogna trovare qualcun altro, ossia “una figura di garanzia, di alto profilo morale” teorizza Conte. E per riuscirci “va avviato un confronto anche con le forze politiche di centrodestra, perché parliamo del garante dell’unità nazionale”. Però ciò che colpisce tutti è il passaggio su Draghi, “verso cui non ci sono veti”. Così il Pd fa trapelare la sua soddisfazione per le parole dell’avvocato. Perché la linea concordata con Enrico Letta anche nel pranzo di qualche giorno fa quella è: partire da Draghi, ma senza voto anticipato, opzione che neanche il segretario dem potrebbe reggere con i suoi. Ma anche la Lega nota l’apertura contiana. Così Matteo Salvini fa i complimenti via Twitter al premier “per la gestione del G20”. E a proposito dell’evento, Conte ne parla, parecchio: “Ci sono stati dei segnali positivi su alcuni aspetti, ma non possiamo dirci soddisfatti del compromesso sul clima”. Poi respinge l’accusa di essere troppo filo-cinese: “Sciocchezze, se favoriamo il nostro export non significa essere filo-cinesi, ma fa solo bene all’Italia, mantenendo la saldezza del quadro transatlantico”. Ma Draghi è l’erede della Merkel, gli chiedono? E qui precisa: “Me lo auguro, ma prima di dire che l’Italia si sostituisce alla Germania aspetterei’”. Nella sua domenica televisiva, Conte presenta anche i suoi 5 vice, gli unici che d’ora in poi la comunicazione vorrebbe mandare nei tg (ma l’ordine dovrebbe valere anche per gli altri programmi).

L’avvocato li presenta, e quando è il turno del deputato Michele Gubitosa, il sottopancia in tv lo descrive come il responsabile economico del M5S. “Dobbiamo ancora dare le deleghe ai vicepresidenti” ricorda Conte. Ma il ruolo delineato per Gubitosa accende le chat interne, già agitate per la disposizione sulle presenze in tv. Fonti del Movimento però ribadiscono: “Conte ora è anche il capo della comunicazione, i vicepresidenti avranno più spazio perché daranno la linea del partito”. Tradotto, indietro non si torna.

Mantra-bis di Mario: “Whatever it takes”. Ma non è un bel clima

Mario Draghi, insiste sulla parola “successo”, senza mai smettere di sorridere durante la conferenza stampa finale del G20 alla Nuovola di Roma, perché sul fatto che le “parole sono importanti” (cit. Nanni Moretti) ci ha costruito una strategia (vedi l’ormai sempre vivo “Wathever it takes”) e sa che “è facile suggerire cose difficili”, ma “è molto, molto difficile eseguirle”. È in versione testimonial, allo stesso modo in cui sfrutta Roma. Mentre gli sherpa ieri mattina lavoravano forsennatamente a quello che risulta poi essere più un compromesso sul clima tutto da verificare nel tempo che un accordo, i “Grandi” si lasciavano immortalare nel più classico dei gesti turistici, il lancio delle monetine a Fontana di Trevi. Il fascino della Dolce vita contribuisce ad ammorbidire gli spigoli, anche quelli cinesi “e non era scontato” ha riconosciuto Draghi. Joe Biden e Ursula Von Der Leyen, presidente della Commissione Ue festeggiano insieme davanti alla stampa la fine della guerra dei dazi Usa-Ue. L’accordo per l’allentamento dei dazi americani sull’import di alluminio e acciaio varati da Trump nel 2018 e la sospensione dei contro dazi europei su varie merci Usa. Più che il rilancio del multilateralismo, caldeggiato dal premier italiano, pare una sorta di bilateralismo Usa-Ue. Il presidente degli States a saldare i rapporti con l’Europa si è impegnato. E si presenta anche per la conferenza stampa finale in dubbio per tutto il giorno: decreta il successo del vertice e ringrazia Draghi. Segnali forse non casuali delle distanze generali con la Cina (mentre il segretario di Stato Usa, Antony Blinken e il ministro degli Esteri cinesi Wang Yi si incontravano in un acceso bilaterale, i caccia di Pechino si avvicinavano a Tapei) e con la Turchia (il bilaterale di Biden con Erdogan non è riuscito a far dimenticare agli States l’acquisto di missili russi da parte di Ankara).

Show must go on. E se dal vertice arriva il riconoscimento che l’obiettivo dell’1,5% per il riscaldamento globale è “stato riconosciuto come scientificamente valido da tutti” (per dirla con Draghi), non c’è nessuna data per il raggiungimento della neutralità carbonica. Intorno a metà secolo, si legge nelle conclusioni. “L’obiettivo è un pochino più verso il 2050”, assicura il premier. “Queste cose cominciano con un aggiustamento in un comunicato stampa e poi nella migliore delle ipotesi finiscono con i fatti”.

Fedele alla linea del bicchiere mezzo pieno, il premier enuncia i successi del vertice: oltre alla neutralità carbonica, la riforma della tassazione internazionale, l’impegno per più vaccini ai Paesi poveri e poi l’intenzione, in qualche modo condivisa pure da India e Cina, per lo stop alle centrali a carbone. Ancora, annuncia che i paesi poveri per fronteggiare i cambiamenti climatici beneficeranno sia di 100 miliardi l’anno da parte del G20 e di uno stanziamento da parte dell’Italia di 7 miliardi di dollari in 4 anni. Anche lui ha visto Wang. Bilaterale chiesto dai cinesi, pureper insistere su Taiwan.

Le parole sono “strette” tra quelle del segretario generale Onu, Antonio Guterres (“Mentre accolgo con favore l’impegno del G20 verso soluzioni globali, lascio Roma con le mie speranze insoddisfatte, ma almeno non sepolte per sempre”) e l’inglese Boris Johnson (non ci può esser alcuna “scusa per andare” oltre il 2050 sul contenimento del climate change), che oggi deve riprendere il filo alla Cop26 di Glasgow. A non farsi mancare un podio finale è Erdogan, con tanto di ringraziamento a Draghi. Lontani i tempi in cui il premier lo definiva “dittatore”. D’altra parte, annuncia la cooperazione con Italia e Francia per la difesa e assicura che non aprirà le porte ai rifugiati afghani. Mentre l’ex governatore della Bce regala i fiori ad Angela Merkel, ormai davvero all’addio, il “Grazie Mario” collettivo pare un ritornello. Tanto che alla fine della conferenza stampa scatta l’applauso: tifo batte giornalismo.

Ma mi faccia il piacere

Sovranità limitata. “Il pressing Usa su Giorgetti: ‘Draghi rimanga a Palazzo Chigi’” (Stampa, 25.10). Hanno già deciso anche chi mandare al Quirinale o ci lasciano ancora nell’incertezza?

Autopompe. “Draghi e Biden: la democrazia funziona” (Stampa, 30.10). Oste, è buono il vino?

I soliti sospetti/1. “Miccichè: ‘A cena con Renzi, sarà presto nel centrodestra’” (Repubblica-cronaca Palermo, 19.10). Presto?

I soliti sospetti/2. “Letta rompe di nuovo con Renzi: ‘Ormai quanto vale la sua parola?’” (Domani, 29.10). “Che parabola, Renzi: ormai ammicca alla destra” (Francesco Boccia, deputato Pd, Repubblica, 31.10). Ormai?

I soliti sospetti/3. “Ddl Zan, Letta: ‘Con Renzi ora è rottura’” (Repubblica, 29.10). Ora?

Centralità. “Renzi si gode la sua centralità” (Foglio, 28.10). Quella del dito medio.

Quisquilie. “L’infinita caccia al Cav. La procura di Firenze cerca (ancora) il legame tra Berlusconi e la stagione degli attentati” (Foglio, 28.10). Paura, eh?

Amici. “Colle, pranzo per lanciare Berlusconi. Salvini: ‘Puntiamo su un amico…’” (Repubblica, 29.10). Degli amici.

L’uomo-calcolatrice. “In 112 giorni di campagna elettorale ho subìto 93 attacchi: uno al giorno!” (Enrico Michetti, candidato sindaco di Roma per il centrodestra, 15.10). Le notti non contano.

Inattaccabile. “Berlusconi mesi fa mi disse che aveva contato e ricontato i voti ed era l’unico che poteva farcela a fare il presidente della Repubblica… perché su una cosa Berlusconi è inattaccabile: il fatto di essere uno statista” (Alessandro Sallusti, direttore di Libero, Dimartedì, La7, 26.10). Figurarsi sulle altre cose.

Slurp. “I complimenti e le strette di mano. Così Draghi ‘accorcia le distanze’. Lo stile del premier che incontra i ragazzi in Puglia” (Corriere della sera, 27.10). Quindi possiamo stringere mani anche noi, o vale solo per lui e per il suo stile?

La mosca cocchiera. “Il ‘partito’ di Draghi vale più del 20%, per Conte non c’è posto” (Ettore Rosato, coordinatore nazionale Iv, Riformista, 26.10). Il solito culo di Conte.

Ora si può dire. “Roma, la ripartenza del turismo. Impennata di prenotazioni: per ottobre camere e hotel romani riempiti al 100%. Nel settore il trend è in costante crescita a partire dall’inizio dell’estate” (Messaggero-cronaca Roma, 26.10). È già merito di Gualtieri o è ancora colpa della Raggi?

Dubbi. “Letta e Conte, prima mossa sul Colle. I dubbi del M5S su Gentiloni” (Repubblica, 26.10). Strano, una personcina così leale e affidabile.

Truppe marcenarie. “Tre milioni e mezzo di euri da Maduro. E mancherebbero i soldi per procurare a Travaglio una svedese?” (Andrea Marcenaro, Foglio, 28.10). E niente, nessuno che gli levi il fiasco.

La vera sinistra. “La sinistra guarisca dalla pensionite” (Irene Tinagli, vicesegretaria Pd, Foglio, 30.10). Giusto: i pensionati sono tutti di destra.

Senti chi parla/1. “I dubbi di Cottarelli su Quota 102: ‘Un compromesso’” (Stampa, 29.10). Infatti lui è andato in pensione a 59 anni.

Senti chi parla/2. “Paghiamo il fallimento del Pd” (Maria Elena Boschi, deputata Iv, Giornale, 29.10). Vuoi mettere l’1% contro il 20%?

Riconoscenze. “Il mio pensiero in questo triste anniversario va a Stefano Cucchi, a sua sorella e alla sua famiglia. E a tutti coloro che nelle forze dell’ordine hanno aiutato ad arrivare alla verità. Perché non succeda mai più” (Enrico Letta, segretario Pd, Twitter, 22.10). E grazie anche a tutti coloro che in Egitto stanno aiutando ad arrivare alla verità sull’omicidio Regeni.

Vasto programma. “Richetti: ‘Un partito riformista da Gori a Mara Carfagna’” (Riformista, 27.10). Gnammm!

Il titolo della settimana/1. “L’Unione deve evitare di perdere la Polonia” (Corriere della sera, 29.10). Sennò tocca invadere di nuovo la Polonia.

Il titolo della settimana/2. “Il Reddito non crea lavoro” (Messaggero, 25.10). Ma va? Se il Reddito creasse lavoro, nessuno avrebbe bisogno del Reddito.

Il titolo della settimana/3. “Gualtieri: basta coi soliti rattoppi. Buche, nuovi fondi per rifarle” (Messaggero-cronaca Roma, 25.10). Perchè, non bastavano quelle vecchie?

Il titolo della settimana/4. “Remuzzi: ‘La svolta alla pandemia l’ha data Figliuolo’” (Libero, 25.10). Che sia un untore in alta uniforme?

Il titolo della settimana/5. “Le città del Pd hanno il record di reati” (Libero, 26.10). In effetti, il Pd governa anche ad Arcore.

Amendola boss smemorato e Sandrelli regina del liscio

Dopo il trionfale La favorita, Emma Stone viene di nuovo diretta da Yorgos Lanthimos in Poor Things, un film ambientato nella Glasgow tardo-vittoriana interpretato anche da Willem Dafoe, Mark Ruffalo e Christopher Abbott e sceneggiato da Tony McNamara dall’omonimo romanzo di Alasdair Gray. L’eccentrico e brillante scienziato Godwin Baxter (Dafoe) realizza la sua ambizione scientifica di creare in laboratorio la compagna perfetta quando trova il corpo annegato della giovane Bella Bater (Stone). Riesce a riportarla in vita in un’impresa in stile Frankenstein ma il suo sogno è frustrato dall’amore geloso del dottor Archibald McCandless per la sua creazione.

Claudio Amendola sarà il regista e il protagonista de Il Patriarca, una serie Mediaset in 6 puntate girata da novembre tra la Puglia (Bari e Monopoli) e Roma, interpretata tra gli altri da Antonia Liskova e prodotta da Camilla Nesbitt per CamFilm. Al centro della vicenda un boss mafioso malato di Alzheimer che non ricorda i delitti commessi.

Stefania Sandrelli recita a Comacchio con Silvia D’Amico sul set di Acqua e anice, un film di Corrado Ceron incentrato su una leggenda del liscio e delle balere che a 70 anni torna, insieme a una giovane accompagnatrice, dalle persone che l’hanno amata e nei luoghi che l’hanno resa una star.

Si sono concluse a Torino le riprese di Assassin club, un action movie di Camille Delamarre con Noomi Rapace, Sam Neill e Henry Goldinga, ambientato nel mondo delle spie internazionali e dei sicari d’élite, che racconta le vicende di alcuni killer assoldati per uccidersi a vicenda.

“Tutti a bordo” è il titolo di una commedia surreale on the road di Luca Miniero con Stefano Fresi, Carlo Buccirosso e Giovanni Storti realizzata da Indiana Production e Medusa e interpretato anche da Giulia Michelini.

Riesumati i Pink Floyd di 35 anni fa

Riprendere le tracce di A Momentary Lapse Of Reason ed elevare l’impatto sonoro attraverso la nuova esperienza 360 Reality Audio (un campo sonoro omnidirezionale usato per le performance live, ndr), con David Gilmour in cabina di regia a suggellarne l’autorevolezza.

L’album del 1987 è stato riesumato nel 2019 a seguito del progetto The Later Years e ha usufruito di nuove registrazioni di Nick Mason alla batteria e alcune variazioni delle tastiere di Richard Wright. “Siamo arrivati alla conclusione che avremmo dovuto aggiornarlo per renderlo più eterno”, commenta Gilmour, “aggiungendo più strumenti tradizionali che ci piacevano e che non eravamo più abituati a suonare; intuivamo che ne avrebbero giovato le canzoni. Abbiamo inoltre cercato e trovato parti di tastiera di Rick non utilizzate che ci hanno aiutato a ottenere una nuova vibrazione. Bob Ezrin (co-produttore, ndr) ha lavorato su The Wall con noi nel 1979 e in alcuni dei miei album da solista: ho imparato molto da lui, è una persona preziosa da avere a bordo”.

Anche Nick Mason ha dichiarato il suo stupore nel rielaborare le versioni originali: “Inizialmente è sembrato un po’ strano cominciare a rimettere insieme un album dopo 35 anni, ma l’appetito del pubblico per le versioni alternative è cresciuto nel tempo. Ci sono pochi dubbi sui vantaggi di essere capaci di trovare nuovi elementi dentro la musica, scoprendo dettagli spesso sommersi dalla nuova scienza delle tecnologie digitali. L’aspetto positivo è quello di riportare l’album nel tempo originale e cogliere l’opportunità di creare un suono leggermente più aperto, utilizzando alcune delle esperienze accumulate dal suonare così tanto l’album live in due tour enormi. Mi sono divertito a registrare di nuovo la batteria con un tempo in studio illimitato. Momentary Lapse era stato originariamente registrato sotto stress, con forti limiti di tempo: infatti una parte del mixing finale è stato realizzato contemporaneamente alle prove per il tour in partenza. Inoltre è stato piacevole avere l’opportunità di potenziare il lavoro di Rick riprendendo i take originali. L’onda positiva di tecnologia può aver consegnato troppe opportunità digitali, ma non ha sommerso il sentimento della band. È uno dei benefici di questa riedizione”.

“Faustina è l’unica donna spirituale e colta d’Italia”

“Ho incontrato Balzac. Certo non è bello. Ma il suo sguardo ha qualcosa che affascina. Abbiamo parlato dell’amore”. Torino, 6 agosto 1836. Ad annotare sul suo diario l’incontro con il grande narratore francese è la marchesa Faustina Roero di Cortanze (1798-1872), nobildonna piemontese che 19 anni prima, nell’ottobre del 1817, aveva debuttato alla Corte di Torino come dama d’onore della giovane principessa Maria Teresa di Toscana, moglie del futuro re Carlo Alberto di Savoia-Carignano.

Honoré de Balzac è arrivato a Torino, rammenta il critico Raffaele de Cesare nel saggio Balzac nell’agosto 1836, per “sorvegliare gli interessi, alquanto trascurati dalla lontananza, di alcuni amici franco-italiani, i Guidoboni-Visconti”. Accolto con gentilezza nei salotti e nei palazzi di esponenti di rilievo dell’aristocrazia e della cultura della capitale, come Federico Sclopis, l’autore di Eugénie Grandet è presentato anche a Faustina. Sposatasi nel 1815 con il marchese Vittorio Alessandro Roero di Cortanze, la marchesa, figlia del conte Giovanni Cesare Frichignono di Castellengo e di Maria Luisa Teresa Arborio Gattinara dei marchesi di Breme, è bella, intelligente, colta, spiritosa. Una giovane donna, insomma, che qualche anno addietro, nel 1830, era diventata amica del poeta Alphonse de Lamartine. A quest’ultimo, che le aveva detto di vedere in Ugo Foscolo solo “un imitatore di Goethe”, però non aveva avuto timore di ribattere: “Non sono del suo parere. Jacopo Ortis mi sembra mille volte meglio”.

Grazie alla pubblicazione in questi giorni del diario inedito di Faustina, si può aggiungere qualche elemento alla decifrazione del rapporto che intercorse fra lei e Balzac. Secondo Reineri e Corlando, curatrici di A vent’anni ero bella. Diario di una Dama di corte 17 ottobre 1817-16 ottobre 1871 , “l’incontro con lo scrittore francese non sembrerebbe averla impressionata particolarmente”. Per Honoré, invece, il ricordo sopravvisse a lungo. Il 24 maggio del 1838, scrivendo alla sua amica, e poi moglie, la contessa Hanska, lo scrittore sostenne che “la sola donna spirituale e istruita che ho incontrato in Italia è la Cortanze di Torino”. La lettera, osservava nel 1936 Giovanni Scaglietto nell’articolo Una dama piemontese in un giudizio di Balzac, “è una documentazione della stima che il grande scrittore francese ebbe per una dama di alto lignaggio della quale egli aveva frequentato a Torino il salotto ospitale”. Era la lode della “sola donna italiana che ebbe la ‘ventura’ di essere esclusa nel poco lusinghiero, e ingiusto, giudizio dello scrittore sulle donne italiane da lui conosciute”. De Cesare, in ogni caso, nel suo saggio del 1968 ipotizza che “fra la marchesa di Cortanze e lo scrittore francese, a quello che sembra, i rapporti non si arrestarono a una fredda conoscenza mondana avvenuta in un salotto e poi dimenticata; e dovettero colorarsi, invece, di una mutua simpatia”.

Il diario della marchesa Roero di Cortanze, peraltro affascinante, non scioglie il mistero di quella “mutua simpatia”. Faustina si limitò ad appuntare che lei e Honoré parlarono dell’amore, e che Balzac le disse: “Nella prima giovinezza assomiglia ai giocattoli dei bambini che li rompono per sapere come sono fatti. È solo più tardi che si ama fortemente perché allora l’amore riposa sulla debolezza e l’impotenza di ogni genere fortifica i sentimenti”. E aggiunse: “La sensualità è una prova di distinzione. La bellezza ha perso il suo imperio dal giorno in cui ha cessato di essere sensuale”.

“Il mio silenzio con Faber, l’invidia per Battiato e la lezione di Guccini”

Giacchetta di pelle e maglia nera a girocollo. Anelli d’argento alle mani, d’argento sono i capelli. Quando risponde resta sempre con il petto in fuori, come a dire sono qui, a sessanta e passa anni so chi sono, o almeno so chi sono diventato e perché.

Così la serie a lui dedicata s’intitola È andata così (su RaiPlay, bravissimo Duccio Forzano alla regia), in cui Ligabue non bluffa, in cui la botte della sua esistenza non viene camuffata dal sentore barrique per nascondere le imperfezioni. “La serie ha un pregio: è realizzata con il sorriso; parla della mia storia, della mia vita, quindi affronta temi seri ma con il sorriso. E sono contento”.

In questi anni per molti le è mancato…

Spesso mi hanno accusato di prendermi troppo sul serio, ma un po’ dipende dal carattere: chi non mi conosce vede la maschera, quella che da sempre indosso per la timidezza e che di conseguenza può creare distacco. Ma non è così.

Nella serie racconta pure le sue origini.

Vengo da una famiglia di comunisti, in cui non si festeggiava il Natale, quindi niente albero e niente regali; i regali arrivavano alla Befana.

È battezzato?

(Sorride) Ho tutti i sacramenti, per il resto c’era una certa rigidità.

Don Camillo e Peppone.

Sì, però allora tutti avevano una sorta di targhetta ben visibile: o di qua o di là e credo fosse il bisogno di mantenere un po’ di chiarezza dopo la guerra; comunque in casa mia non si parlava spesso di comunismo, ma era un parametro per capire chi frequentare, chi era buono o cattivo, con nonno che era stato una figura importante tra i partigiani di Correggio.

I partigiani emiliani erano molto tosti…

Nonno neanche bestemmiava, non usava il nome di Dio invano e non l’ho mai sentito attaccare l’altra parte: per me questa è stata una lezione importante; detto questo, se ai miei avessero chiesto “dovete vivere come in Unione Sovietica”, allora non sarebbero più stati comunisti.

E la Festa dell’Unità?

È stata una chiave di volta: negli anni Settanta rappresentava una grande possibilità d’incontro, con concerti gratis, dibattiti interessanti quando non esageravano e diventavano da orchite; poi per me è stata una delle poche occasioni per salire su un palco. La mia gavetta.

Nella gavetta ha affrontato concerti con 8 spettatori.

A Ravenna nel 1990, mentre il mio primo album stava per uscire; (ride) per noi quella data rappresentava un piccolo evento, Ravenna era una trasferta rispetto al nostro normale circuito, qualcosa di esotico.

Il primo album inizialmente è stato rifiutato da tutte le etichette. Ha scoperto il perché?

Passo indietro: alla fine degli anni Ottanta imperava il synth-pop con un’idea di canzone che avesse suoni scoppiettanti, un po’ chiassosa e aiutata dall’elettronica; mentre non erano tempi buoni per le chitarre. (Sorride) Il mio produttore del tempo, Angelo Carrara, era scoraggiato e ripeteva: “O non lo ascoltano o chi lo ascolta non è interessato”. Fino a quando arriviamo all’ultima possibilità: la Polygram. E Angelo decide di giocarsi la carta della presenza: “Vieni pure tu”.

E…

Arriviamo e il direttore generale era scocciatissimo, non aveva voglia di incontrarci. Mette su la cassetta. Ascolta Balliamo sul mondo. Dopo il primo ritornello spegne e sentenzia: “C’è troppo Guccini”. Lì ho capito che non ce l’avrei mai fatta; (pausa e sorride) in realtà nella vita serve culo.

Nello specifico?

Quella cassettina poi finì nelle mani di alcuni ragazzi della Polygram, a loro piaceva, lo dissero in giro fino a quando la Warner cambiò la dirigenza e mi chiamarono.

Lei amava molto Guccini.

L’avvelenata è uscita quando avevo 15 anni, età per me cruciale perché coincideva con la liberalizzazione delle radio e poco dopo ho iniziato con l’Fm. I cantautori erano al loro massimo. Mio padre mi aveva regalato una chitarra, cercavo di suonare proprio L’avvelenata e a forza di studiarla ho messo a fuoco il testo, forse il più punk della musica italiana. Quel testo mi creò qualche confusione. Non capivo.

Cosa?

Mi domandavo perché Francesco Guccini che, come si diceva nel mio paese, cantava invece di lavorare, portava a casa tutti gli annessi e connessi, quindi ragazze, un po’ di soldi, l’approvazione e le riverenze, fosse così incazzato con alcuni aspetti di questo mestiere; e invece, tanti anni dopo, in una notte un po’ alcolica, mi è uscito uno sfogo simile al suo e ho pensato: “Adesso l’ho capita”. E ho scritto Caro il mio Francesco. Tempo dopo con lui e a quattro mani è nata Ho ancora la forza.

Guccini per lei.

Oltre alle doti di cantautore è una persona alla quale non si può non voler bene.

Torniamo a prima: quale aspetto non comprende il pubblico di lei?

Ognuno di noi non può capire fino in fondo l’interlocutore e questo non ci permette la migliore delle comunicazioni. Se poi fai il mio mestiere, questa storia viene decuplicata e c’è ancor più bisogno da parte di chi hai di fronte di farsi un’idea di te: vuol dire che convivi con quattro o cinque aggettivi che ti riguardano e questi quattro o cinque diventano uno schema che non smonti.

La conseguenza?

Nasce un isolamento che crea problemi.

Il suo è un mestiere di rinunce?

Assolutamente no. Intanto fatico a definirlo mestiere, è l’esercizio di una passione; (cambia tono) forse perché prima di iniziare mi sono dedicato ad alcune professioni vere, quelle per cui porti a casa la pagnotta; (pausa). Nella serie c’è una puntata intitolata Crisi, quale crisi e racconta i miei tre momenti bui sul piano professionale: uno di questi è stato durante la registrazione di Miss mondo, l’album che mi ha aiutato a non smettere.

Davvero ci pensava?

Nel 1999 avevo deciso l’addio tanto da comunicarlo ai miei musicisti; poi hanno vinto due aspetti: la domanda se potessi rinunciare ai concerti; secondo: raccontare che il successo non è solo quello che appare. E Elvis lo aveva già ampiamente dimostrato morendo da Re sulla tazza del cesso: lui aveva troppo, troppo successo, troppa noia, troppi fantasmi; scrivere un album su questi problemi ha esorcizzato il problema stesso.

Dopo il primo concerto a Campovolo con decine e decine di migliaia di presenti, non ha pensato “e adesso che m’invento”?

Non ho fatto in tempo, subito dopo è arrivato il mio assistente: “I ladri sono entrati a casa tua”; comunque “e adesso” me lo sono posto diverse volte.

All’ipotesi addio come reagirono i suoi musicisti?

Rimasero sotto choc; uno di loro nella serie racconta: “Mi dispiace perché non avevamo capito il suo malessere”.

A giugno c’è un nuovo Campovolo.

Da quando sono salito la prima volta su un palco non ho mai vissuto un periodo così lungo di astinenza da concerti: ora sono due anni e mezzo. È come se mi venisse chiesto di esercitare una forma di resistenza, come a un tossico davanti alla sua dipendenza, e non ho capito se questo periodo mi stia rivelando che posso vivere anche senza. Forse mi sarà chiaro solo quando sarò di nuovo davanti al pubblico.

Sogna il palco?

Mai a occhi chiusi, sì a occhi aperti.

Sono passati 40 anni da La voce del padrone di Franco Battiato. Tempo fa ha dichiarato di aver deciso di diventare musicista proprio a un suo live.

Era l’estate della Battiato-mania e da queste parti non si erano mai viste scene di delirio come per lui, con le forze dell’ordine impegnate per respingere i portoghesi (chi tenta di entrare senza biglietto); insomma, ero sulle panchine insieme alla mia ragazza dell’epoca, quando accanto si siedono due gnocche; (pausa) avevo pure finito il militare da poco e il mio ormone era agitato.

Quindi…

Inizia il concerto e Battiato viene sepolto da una pioggia di reggiseni e mutandine. Io allucinato. Anche perché a lui già riconoscevo tantissimi pregi, il suo Patriots è stato fondamentale durante la naja, ma non lo immaginavo come sex symbol. Nel frattempo le due accanto a me commentano: “Com’è bono”. E l’altra: “Me lo farei qui davanti a tutti”. A quel punto ho pensato: “Voglio diventare un cantante”.

Lo ha rivelato a Battiato?

No, però gli ho raccontato che Patriots e Dalla di Lucio Dalla mi hanno salvato da depressione ed esaurimento nervoso.

E a Dalla?

Sì, con tutte le mie solite resistenze da vincere e lui mi ha risposto: “Ogni cosa è frutto di un’energia speciale, e quell’album è così”.

Lei spesso cita Fabrizio De André.

L’unica volta in cui ci ho parlato è stata dopo il mio primo concerto a San Siro. Alla fine ero un po’ perso e vederlo è stato uno choc: non lo immaginavo lì e quando ci siamo trovati l’uno di fronte all’altro non ho reagito; (abbassa la voce) tempo dopo ho acquistato e utilizzato lo stesso mixer con il quale aveva realizzato gli ultimi album.

Cosa rappresenta De André?

La solidità del pensiero. E questa solidità passava dalla sua voce, per me è un aspetto cruciale: in pochissimi scandivano le parole come lui; le sue canzoni cantate da lui sono diversissime se interpretate da altri.

Lo ha omaggiato a Sanremo.

Premesso: non sono mai voluto andare al Festival per via della troppa tensione. Poi Fazio mi frega perché lancia una sfida. E non riesco mai a resistere alle sfide: “Ti do l’apertura e la chiusura”. Vado. Dovevo cantare Creuza de ma, pezzo difficilissimo perché in genovese, e prima di entrare non si apre il sipario. Poi due persone minacciano di lanciarsi dalla galleria per denunciare la loro disoccupazione.

E lei?

Appena è finita l’esibizione sono andato al primo ristorante a bermi una bottiglia di vino.

È concittadino di Tondelli.

Ecco, se usciamo dall’ambito musicale, lui è un grosso rimpianto: non gli ho mai espresso cosa ha rappresentato per me. E qui la colpa è di una timidezza reciproca, anche perché ci siamo incontrati: abitavo nello stesso palazzo dei suoi genitori. E ricordo le sue condizioni fisiche non facili quando, con l’Aids ormai conclamata, non riusciva a salire le scale; la notte in cui è morto ero in casa, avevo la febbre e fui costretto a saltare il concerto. Sentii uno strano trambusto dentro casa sua. Altri libertini lo metto insieme a Patriots e Dalla in quell’anno da artigliere di montagna a Belluno.

Quanto le è servito un passato da operaio prima del successo?

In una fase ho lavorato a una macchina per stampi di plastica: non volevo starci, era troppo robotico, la testa annullata, quasi da Tempi moderni , ogni 23 secondi dovevo eseguire lo stesso gesto. Davanti a me c’era un collega che stava lì da 25 anni e fischiettava. Lo odiavo, volevo scuoterlo e dirgli: “Che hai nella testa”. Anni dopo ho capito la sua forza.

Sempre nella serie c’è lei all’Arena da Verona, giovanissimo e molto deciso.

Questa serie, insieme al libro, ha avuto il pregio di farmi rivedere. Non mi era mai successo. Prima sono sempre andato a palla. E nel guardarmi provo una certa tenerezza: in quella scena lì parlo ma non apro la bocca, cerco di apparire sicuro, ma non lo ero. Eppure le persone mi catalogavano come tale, e dentro di me pensavo “guarda come li sto fregando”. Questo ha funzionato pure con le donne, passavo da tenebroso.

Del suo lavoro cosa ama maggiormente?

La sensazione di aver tenuto compagnia, che qualcuno si sia sentito meno solo, nel dolore quanto nel ballo.

Chi è lei?

(Per la prima volta chiude le braccia, rallenta, ripete più volte la domanda) Come chiunque ho tante identità… sono uno che non lesina a dichiararsi fortunato, e questo potrebbe limitare le proprie qualità, ma non importa. Perché vivere questo mestiere con tutte le libertà che mi sono state concesse è stato un privilegio che mi rende molto grato.

(Francesco Guccini ne “L’avvelenata”: “Ma s’io avessi previsto tutto questo, dati causa e pretesto, forse farei lo stesso. Mi piace far canzoni e bere vino, mi piace far casino, poi sono nato fesso. E quindi tiro avanti e non mi svesto dei panni che son solito portare. Ho tante cose ancora da raccontare per chi vuole ascoltare e a culo tutto il resto”).

Teoria “pulisci-culo” alla Sorbona e tutti i trucchi di Rabelais

 

ELEMENTI DI STILISTICA COMICA

Un tratto stilistico fra i più divertenti è l’uso di parole bizzarre, specie in sequenza. Nella sua tesi di laurea, finalmente pubblicata in italiano da Quodlibet un mese fa, Leo Spitzer (1910) catalogò quelle inventate da Rabelais per Gargantua e Pantagruele, il capolavoro comico del 1500 che narra la vita e le avventure di due esseri giganteschi, padre e figlio. Il linguaggio del testo è parimenti esagerato, all’insegna dell’accumulo di parole, a loro volta aumentate di dimensioni attraverso molteplici, spassosi procedimenti di aggiunzione, sostituzione e permutazione. L’ipertrofia verbale “ha contro di sé la nostra risata di superiorità”, dice Spitzer. La parola mostruosa come capro espiatorio (Qc #1); il lettore, leggendola, ritrova il piacere infantile dello scioglilingua (Qc #17, #35 e #76). L’effetto divertente delle parole neo-formate da Rabelais è a sua volta amplificato dal contesto (nota giustamente Spitzer: “Humanitarisme, che in un romanzo ci aveva spinto alla risata, non ci sarebbe apparso affatto comico in un’opera sociopsicologica”): Gargantua e Pantagruele è una colossale enciclopedia di esercizi di stile nei generi dimostrativo (lode o biasimo di persone, cose, azioni), deliberativo (persuasione e dissuasione) e giudiziario (dibattiti con accusa e difesa): a farne le spese è il sapere dell’epoca (religioso, politico, giuridico, scientifico, letterario), che finisce parodiato a sangue da Rabelais. Sull’esempio di Schneegans (1894), Spitzer classifica gli stilemi ridicoli di Rabelais in farseschi, burleschi e grotteschi. Il farsesco è comico: “Ciascuno se ne andò nella sua ciascuniera”. Il burlesco è spiritoso: infanga il sublime procedendo per antitesi. Nel brano seguente, per esempio, la parodia dei sillogismi della Scolastica è ottenuta col contrasto fra forma alta e contenuto basso, schema che troviamo anche fra le due parti del neologismo finale (radice sublime, terminazione bassa): “‘Non ci sarà mai bisogno’ riprese Gargantua ‘di nettarsi il culo, a meno che sia sporco; e sporco non può essere se uno non ha cacato; ergo se ne deduce che sempre bisognerà cacare prima di nettarsi il sedere.’ ‘Oh!’ esclamò Grangola ‘come sei fino, ragazzo mio! Uno di questi giorni ti farò laureare alla Sorbona, perdio, perché hai proprio più cervello che anni. Ma continua un po’ sul discorso nettaculativo’”. Il grottesco, infine, è comico, spiritoso e umoristico insieme: fa ridere spaventando con le sue gargolle stilistiche (Qc #2 e #13). Poiché si deve curare lo stile se vogliamo che la teoria, cioè il compendio delle osservazioni altrui, si trasformi in abito mentale e automatismo pratico, diamo un’occhiata agli esemplari rabelaisiani catalogati da Spitzer: possono tornare utilissimissimi. Il mezzo espressivo tipico dello stile grottesco è l’elenco: quando c’è da scegliere se introdurre elementi accomunati dal significato oppure dal suono, nota Spitzer, Rabelais preferisce la somiglianza fonetica.

Liste di parole: “Bacchettoni, beghine, stivalatori, portatori di reliquie, abbreviatori, scrittori, copisti, bollisti, datari, cavillatori, monaci, eremiti, ipocriti, rugiadosi, santocchi, sepolcri imbiancati, collitorti, imbrattatori di carte, prelinguanti, sparrucchinati, chierici di curia, dominusdeisti, avemariisti, padrenostristi, legulei, scribacchiatori di pergamene, notai, portacolli, promotori”. Frequente la lista attributiva (“Coglione d’alidada, d’amalgama, d’algebra, coglione magistrale, claustrale, monacale, coglione matricolato, rilevato, di stucco, coglione fulminante, tonante, scintillante, coglione insuperabile, caritatevole, piacevole, temibile, spaventevole, affabile, favorevole, memorabile, notabile, palpabile, coglione incarnativo, branditivo, positivo, gerundivo, genitivo, attivo, coglione grottesco, arabesco, laminato, conciato alla lepresca, mascolinante, coglione ronzinante.”). Se la lista è di sinonimi (“Direste che è diarrea, sterco, cacca, merda, feci, deiezione, materia fecale, escrementi, caccole di lepre, di cinghiale, evacuazione, letame, stronzi, scibalo o spirato?”), Rabelais a volte li coordina ripetendo un avverbio (“sempre verdeggiante, sempre lussureggiante, sempre fortificante”) o un aggettivo (“pittoreschi intrecci d’oreficeria ornati di fini diamanti, fini rubini, fini turchesi, fini smeraldi, e grosse perle persiche”: la chiusa finale con un elemento irrelato è fra le preferite da Rabelais, il quale, da briccone, a volte inserisce di soppiatto nell’elenco un insulto o una sconcezza: “Sergenti, uscieri, apparitori, attaccabrighe, procuratori, commissari, avvocati, inquisitori, tabelloni, notai, cancellieri, e giudici pedanei”; “gialli, blu, bruni, azzurrini, bianchi, verdi, neri, violetti, striati, variegati, lunghi, rotondi, triangolo, quadrati, coglionati, coronati, barbuti, cappucci, erbuti.”).

Liste di parole con lo stesso suffisso: “Questi eretici bruciateli, tagliateli, sforbiciateli, annegateli, impiccateli, impalateli, slombateli, smembrateli, strippateli, spezzettateli, fracassateli, arrostiteli, affettateli, crocefiggeteli, bolliteli, strabolliteli, squartateli, sbriciolateli, sciancateli, graticolateli.”

Lista di parole con lo stesso prefisso: “indicibile, incredibile e inestimabile” (“It’s delightful, it’s delicious, it’s de-lovely” scriverà Cole Porter coniando un neologismo per scherzare con questo stilema.)

Parallelismi sintattici: “Cacavano nei cacatoi, pisciavano nei pisciatoi, sputavano negli sputatoi, tossivano nei tossitoi melodiosamente, sognavano nei sognatoi”.

Rime interne nelle liste: La necessità di formare delle rime guida la scelta delle parole. “Centocinquantamila puttane belle come dee, delle quali alcune sono amazzoni, altre lionesi, altre parigine, turennesi, angioine, poitouvine, normanne, alemanne.”

Figure etimologiche (parole con radici identiche): “campane a scampanamento doppio di coglioni” “È una favola troppo favolosa” “tempo nuvolo e stranuvolo”. Sono figure etimologiche anche i nomi parlanti (“Arraffasalsicce arraffava salsicce: Tagliabudino tagliava budini.”, “Annusapeti”); le professioni bizzarre (“Sarti di corte, ciabattini di corte, annientatrici di pidocchi di corte”, “compositori di scoregge”, “asciugamarmitte””); e le reiterazioni assurde di una stessa radice (“Omnia campana campanabilis, in campanerio campanando, campanas campanativo campanare facit campaniter campanantes.” “Un buon smoscatore che, smoschettando continuamente, smoschi col suo moschetto, non sarà mai smoscato dalle mosche.” “Ma cosa siete, dei pugilatori, dei pugilisti o dei pugilanti?”)

(79. Continua)