A noi progressisti manca il “cuore”

Scrivere un libro è una cosa, ma parlarne dopo la sua pubblicazione è tutta un’altra cosa. Lo scrittore deve ridurre l’intero libro a sintesi o citazioni seducenti e prepararsi ai commenti o alle domande irrilevanti. I nostri tempi non permettono il balbettio del pensiero genuino né i silenzi della conversazione intellettuale.

Inoltre, se siete come me, se venite da un Paese dove tutto è rappresentazione, raramente vi è permesso di parlare di idee universali, perché il pubblico si aspetta che continuiate a parlare dello spettacolo politico del vostro Paese. Dopo tutto, il fascismo è uno spettacolo di cui non ci si stanca mai di stupirsi. E poi c’è il fatto che, se sei una donna, ci si aspetta che parli del tuo vittimismo e di come sei riuscita a scappare dai barbari per gettarti tra le braccia del mondo civilizzato, vale a dire essere un’esule.

Se uccidi questi mostri del post-pubblicazione, alla fine ti trovi davanti alla domanda: perché hai scritto questo libro? Vorrei avere il narcisismo di un uomo bianco affermato per dire: “Per spiegarvi il perché, dovrei scrivere un altro libro”. Purtroppo non sono né così nonchalante né così affermata, quindi eccovi una catena di eventi per raccontare il perché.

Era l’autunno del 2016, ed ero in coda per il controllo passaporti a Istanbul, di ritorno da Londra. Ero reduce dal tour di presentazioni di Turchia folle e malinconica, un libro che avevo scritto per raccontare come la Turchia avesse fatto la fine che aveva fatto. C’era appena stato il colpo di Stato militare ed era il momento ideale per l’uscita di un libro del genere, ma un momento orribile per le conseguenze che potevo subirne. Era in atto un’epurazione di massa dei critici del regime, e io ero una di loro. All’epoca la moda del governo era confiscare i passaporti. Così mi sono messa in coda e, dato che la giovane funzionaria procedeva con lentezza, ho cominciato a pensare: “È finita. Mi requisiscono il passaporto o mi arrestano”. Dopo lunghissimi minuti la donna ha gridato: “Ece Temelkuran! Possiamo farci un selfieee?”. Non mi sono curata, in seguito, di guardare la foto, ma sono abbastanza certa che metà della mia faccia stesse piangendo e l’altra metà ridendo. Credo che fu quello il giorno in cui, senza nemmeno dirlo a me stessa, decisi di lasciare il mio Paese. La paura distorceva non solo il mio viso, ma anche i miei pensieri. Quando vai a letto pensando che potrebbero venire a bussare alla porta alle quattro del mattino, la tua mente non può essere lucida.

Per farla breve, sono finita a Zagabria. Perché Zagabria? Come è scritto nel suo aeroporto internazionale, “Perché no!”. La città si trova in un punto ottimale della mappa, abbastanza lontano dalla Turchia e abbastanza vicino all’Europa. Mi sento a casa nei posti che stanno nel mezzo. Così a Zagabria, da sola, con appena due amici all’epoca, seguivo le vicende mio Paese che viveva in anticipo ciò che l’Europa stava iniziando a sperimentare politicamente e socialmente. Cominciavo a vedere gli schemi globali del fascismo emergente. Come se la mia vita non fosse abbastanza complicata, decisi di scrivere non nella mia lingua madre ma in inglese. Come sfasciare un Paese in sette mosse è nato durante la solitudine assoluta del 2018 ed è stato pubblicato nel 2019 in diverse lingue. Era un libro arrabbiato, per questo iniziava con la domanda fattami da una donna inglese, “Cosa possiamo fare per voi?” e la mia riposta: “Cosa posso fare io per voi?”.

La domanda mi era stata posta durante una presentazione del libro precedente, nel 2016, e all’epoca l’Europa non aveva la minima idea di ciò che sarebbe successo. Tutti pensavano ancora che queste cose accadessero in Turchia perché era un “Paese musulmano”, e in Italia per via della follia mediterranea. E davano ancora per scontato di poterci aiutare, mentre ero io che cominciavo a pensare di aiutare loro raccontando come il populismo di destra sarebbe arrivato ovunque e come avrebbero iniziato a chiamarlo fascismo, con il suo vero nome.

Via via che il libro veniva pubblicato in diversi Paesi, andavo in giro per il mondo a parlare a diverse platee e ad ascoltare le loro reazioni. Improvvisamente la domanda “Cosa possiamo fare per voi?” si è trasformata in “Ma allora c’è qualche speranza?”. Erano ormai convinti che l’ascesa della destra era globale e che nessuna democrazia era immune dai pericoli del nostro tempo. La domanda si ripresentava così spesso che ho cominciato a pensare alla parola speranza. E soprattutto mi chiedevo cosa sarebbe cambiato nelle loro azioni se avessi detto che c’era speranza. Oppure, una domanda ancora migliore: cosa farebbero di diverso se dicessi che non c’è speranza? Dato che questa parola ha scarsa rilevanza nella vita reale, cosa stavano davvero chiedendo? In realtà, chiedevano un motivo per agire. E non hanno agito non perché ci sia speranza, ma perché non avevano fede né in se stessi né negli altri esseri umani. Fede è una parola problematica quando si parla di politica.

Tuttavia ho iniziato a domandarmi perché i movimenti progressisti di oggi non usino più questa parola quando il bisogno di credere è piuttosto evidente. Partendo dalla parola fede, ho pensato ad altre nove grandi parole, come amore umano, orgoglio, dignità, rabbia. In un mondo in cui la politica delle emozioni è monopolizzata dall’estrema destra, i progressisti devono avere qualcosa da dire, sono giunta a credere. In un mondo dove i fatti non contano, anche se non possiamo arrenderci a questa pandemia politica e sociale, non possiamo nemmeno ignorare il fatto che una tale pandemia esista. Sappiamo che questo è un mondo spietato. Allora perché non mettere un po’ di sentimento nel pensiero progressista? Questa è stata la domanda che ha dato inizio a La fiducia e la dignità. In fin dei conti, a partire dal primo Forum Sociale Mondiale del 2001, abbiamo tutti parlato di una nuova narrativa progressista, un linguaggio fresco che avrebbe rinvigorito e chiamato a raccolta il malcontento globale, ma abbiamo perlopiù evitato la politica delle emozioni, che è la questione centrale della politica globale di oggi. Finché rimarremo bloccati nel nostro vocabolario politico non c’è possibilità di toccare il cuore di molti. (…) Vi sembra ingenuo? Allora non siete i soli. Ad alcuni lettori di Come sfasciare un Paese in sette mosse non è piaciuto quel che hanno letto in La fiducia e la dignità. Presumo si aspettassero un libro che incitasse all’azione. Come via d’uscita da questa follia politica globale avrei dovuto dire qualcosa del tipo: “Unitevi!”. Ma unirsi intorno a cosa? E perché? E come? Finché negheremo il fatto che nei movimenti progressisti di oggi c’è un pezzo mancante, continueremo a ritrovarci sempre con le stesse persone. Se non abbiamo il coraggio di parlare dell’amore umano senza un sorrisetto sarcastico, non riusciremo a convincere la gente che siamo al suo fianco. E già che ci siamo, cos’è quel sorrisetto? È il nostro deliberato atteggiamento di distacco oppure è segno che siamo contaminati dalla descrizione neoliberista dell’umanità? Lo stupido, lo sporco, il male. (…) Nessun altro Paese come l’Italia può capirmi altrettanto bene quando dico che il fascismo non è solo un regime politico bensì la sconfitta assoluta dei valori umani. Si insinua nelle nostre relazioni più intime per trasformarci nelle versioni più deleterie di noi stessi. La scrittrice austriaca Ingeborg Bachmann ha detto: “Il fascismo inizia nelle relazioni tra le persone”. E io dico: anche la rivoluzione. Comincia con il credere nella solidarietà e nella sua bellezza. Comincia con il cercare di mettere il cuore in questo mondo senza cuore. E questo è ciò che posso fare per voi. Almeno voglio credere che sia così.

Traduzione di Giuliana Olivero

 

Burhan punisce la marcia contro il golpe: 5 morti e 170 feriti

Khartoum brucia mentre si urla “rivoluzione”. In Sudan i cittadini sono scesi per strada per protestare contro il golpe che ha rimosso il governo transitorio: è la “marcia del milione” per dire no alle divise che hanno deposto lunedì scorso il primo ministro Abdalla Hamdok, rilasciato ieri dopo il sequestro, ma ancora sotto stretta sorveglianza. Indetta dal Comitato resistenza e dall’Associazione professionisti sudanesi, la protesta è costata la vita a due persone a Omdurman, nella periferia della capitale, e altre tre persone in altre aree. Diversi i manifestanti arrestati. Almeno 170 persone sono rimaste ferite negli scontri contro l’esercito e le temibili truppe paramilitari e di intervento rapido dispiegate dai generali. A riferirlo sono le unità mediche del Comitato dei dottori sudanesi, perché le informazioni arrivano a singhiozzo e in ritardo. Bloccata – proprio come nel 2019, quando fu deposto l’ex presidente Omar al-Bashir che regnava sul Paese dal 1989 –, la rete internet e delle telecomunicazioni. A Kharthoum anche la rete stradale è serrata: i militari presidiano i punti d’accesso alla capitale, tutte le vie percorribili sono chiuse, a eccezione dei due ponti Halfaya e Soba, sospesi sul Nilo. “Questo è il nostro Paese e il suo governo è di civili”. “Non va lodato il governo dei militari”: questi solo alcuni degli slogan che decine di migliaia di persone, appoggiate dal gabinetto politico deposto, hanno intonato da un lato all’altro della nazione per richiedere il ripristino della squadra dell’esecutivo esautorata dagli ufficiali di Burhan.

Volker Perthes, inviato speciale dell’Onu per il Sudan, ha incontrato ieri i due militari che hanno architettato e compiuto il golpe: Mohammed Hamdan Dagalo, e Abdel-Fattah Burhan, che ora detiene il potere supremo. Burhan ha fatto carriera sotto la dittatura di Bashir e sembra essere tornato al passato dichiarando lo stato d’emergenza. Difficile che resti impressionato dall’appello per mettere fine alle tensioni e alle violenze arrivato dall’amministrazione americana. Al-Burhan ha assicurato ai reporter dell’agenzia russa Ria Novosti che presto in Sudan ci sarà un nuovo premier: non esiste ancora una lista di candidati tra cui scegliere, ma è chiaro il profilo che verrà privilegiato. Il Paese necessita di un “tecnocrate” alla sua guida e lo riceverà entro la prossima settimana.

Epstein, la “verità” di Andrew. Discredito sull’accusatrice

La versione ‘figliol prodigo’ è che il principe Andrea, terzogenito della regina Elisabetta, non vuole causare altri crucci all’augusta Madre: sulla soglia dei 70 anni di regno, e oltre i 95 di età, Elisabetta accusa una stanchezza aggravata da figli e nipoti scavezzacollo. In realtà, il duca di York, 61 anni, cerca di scrollarsi di dosso i guai giudiziari derivanti dalla sua vicinanza a Jeffrey Epstein, imprenditore pedofilo e molestatore sessuale seriale, morto suicida – così concluse il medico legale – nella sua cella di New York nel 2019. Epstein scontava una condanna definitiva.

La Bbc rivela e la Cnn conferma che il principe Andrea ha chiesto a un tribunale di New York d’archiviare l’azione legale intentata contro di lui da Virginia Giuffre Roberts, una delle accusatrici del miliardario Epstein, responsabile, fra l’altro, dello sfruttamento di ragazze messe a disposizione di amici ricchi e potenti di mezzo mondo.

Il team legale del Duca di York sostiene che la causa è “infondata” e che dovrebbe essere respinta perché la Giuffre non è riuscita a precisare a sufficienza le sue accuse. La donna, oggi 38 anni, sostiene che il principe la aggredì sessualmente quando aveva 17 anni in tre occasioni: a Londra, nella casa di Ghislaine Maxwell, sodale di Epstein; in casa del miliardario a Manhattan; e nella villa nelle Isole Vergini Usa, a Little Saint James. Il terzogenito della regina Elisabetta ha sempre negato le affermazioni della Giuffre, che gli sarebbe stata “messa a disposizione”. Un’udienza preliminare dovrebbe svolgersi in settimana, mercoledì 3: l’obiettivo è cassare il ricorso, che sarebbe illegittimo dopo una transazione tra il duca e la Giuffre conclusa nel 2009. Nel documento depositato venerdì, gli avvocati del principe Andrea sostengono che la macchia sulla sua reputazione “è l’ultimo danno collaterale dello scandalo Epstein”: gli abusi sulla Giuffre compiuti dal miliardario “non giustificano la sua campagna pubblica contro il duca di York”, che sarebbe finalizzata a trarne un vantaggio finanziario. La donna, è scritto nel ricorso di 36 pagine, “vuole fare soldi” inventando “storie sempre più luride” quanto inconsistenti: “cerca pubblicità”, ma non riesce a rendere credibili i suoi racconti. La mossa dei legali segue la decisione di un giudice di fissare al 14 luglio la scadenza per presentare la deposizione giurata del principe sulle accuse della Giuffre. I media britannici hanno già rilevato che la deposizione di Andrea potrebbe causare un certo imbarazzo alla famiglia reale, se fosse concomitante con le celebrazioni in programma a giugno del giubileo di platino di Elisabetta II.

La procedura prevede che Andrea risponda alle domande sotto giuramento in un’udienza privata, non di fronte a una corte. Trattandosi di una causa civile, le domande sono poste dalla controparte, quindi dagli avvocati che rappresentano la Giuffre; e il duca di York ha diritto a essere assistito e anche di avvalersi della facoltà di non rispondere. Il principe Andrea ha sempre negato le accuse e ha fin dall’inizio tentato di non venire coinvolto nella vicenda; e ha già saputo con sollievo che la polizia britannica non indagherà sui suoi rapporti con Epstein: Scotland Yard ha deciso di non riaprire il caso nei suoi confronti – archiviato anni fa –, in funzione della denuncia della Giuffre. La vicenda continua tuttavia a imbarazzare la casa reale. Sul Times di Londra, giorni fa, trapelò un’indiscrezione venuta da Buckingham Palace: si diceva che il principe William, secondo in linea di successione al trono, pensa che il duca di York rappresenti ormai una minaccia per la reputazione della Corona. Convinzione condivisa dall’erede al trono Carlo, padre di William e fratello maggiore di Andrea, e anche dalla sorella Anne e dal fratello minore Edward: tutti concorderebbero sul fatto che Andrea non debba tornare a rappresentare la Corona in pubblico, rendendone definitivo l’allontanamento (in atto dall’anno scorso) da ogni ruolo ufficiale dinastico. Le fonti del Times cercavano pure di sfumare la predilezione della regina per il suo terzogenito, lasciando intendere che Elisabetta se ne sarebbe distaccata negli ultimi tempi. Fonti di stampa ipotizzano che la condotta di Andrea avrebbe contribuito all’affaticamento accusato da Elisabetta, che ha alleggerito la sua agenda.

Mail box

 

Abolire il voto segreto non è una buona idea

Il signor Afro Serafini scrive giustamente che come elettore vorrebbe sapere come vota in Parlamento il deputato che ha contribuito a eleggere con il suo voto, per decidere in futuro se confermargli o no la sua fiducia, auspicando in tal modo l’eliminazione del voto segreto nel Parlamento. È peraltro vero che la nostra Costituzione prevede il divieto del “mandato imperativo” (art. 67) per cui un parlamentare non è tenuto ad adeguarsi alle decisioni del suo partito. Il voto segreto, che consente al parlamentare di non adeguarsi alle indicazioni di voto volute dal suo partito, è lo strumento con cui si attua l’articolo 67 della Costituzione. È evidente infatti che, se non ci fosse il voto segreto un parlamentare che non si adeguasse alle indicazioni di partito, non potrebbe votare liberamente secondo quello che lui ritiene giusto, e magari in modo opposto da quanto deciso dal suo partito, per il timore di future ritorsioni. Se si vuole abolire il voto segreto in Parlamento, bisogna abolire prima l’art. 67 della Costituzione. Se poi l’eventuale abolizione del voto segreto sia un bene o un male, è tutto da verificare. Di certo con l’abolizione del voto segreto i parlamentari diventerebbero dei semplici burattini che, a comando del burattinaio che controlla il partito, alzerebbero o abbasserebbero la manina per votare come il burattinaio ha deciso.

Pietro Volpi

Caro Volpi, in certi casi il voto segreto deve restare, almeno finché i parlamentari saranno quasi tutti nominati dai loro segretari.

M. Trav.

 

B. al Quirinale: un’ipotesi che mi fa ribrezzo

Il tempo scorre inesorabile e il giorno dell’elezione del nuovo presidente della Repubblica si avvicina. Voci sempre più insistenti insinuano una probabile candidatura di Silvio Berlusconi e una quasi certezza che diventi il prossimo inquilino del Qurinale. C’è chi smentisce, c’è chi conferma e c’è chi sostiene che sia un gioco delle parti, le tv e i giornaloni ne parlano senza rammentare a noi comuni mortali che B. è un pregiudicato. A volte penso che la sua elezione al Colle sarebbe un toccasana, per risvegliare le coscienze di molti italiani, come si dice dalle mie parti che a certa gente è più facile metterlo nel cu’ che nel cò (chiedo scusa per il francesismo). Detto ciò, vivendo con ribrezzo questa eventualità, mi sento di suggerirvi una piccola iniziativa: pubblicare in prima pagina un promemoria del vissuto, delle sentenze, delle prescrizioni del nostro Silvietto, quotidianamente, fino al giorno delle votazioni. Una verità ripetuta più volte potrebbe diventare una Verità maiuscola, in modo tale da costringere i giornaloni e le tv a prendere una posizione chiara.

Guido Merli

Ottima idea! Lo faremo!

M. Trav.

 

Chi scegliere fra partiti e uomo solo al comando

Alla domanda, fatta dalla Gruber a Travaglio, “che fai? difendi i partiti?” effettivamente era impossibile rispondere. O la padella (i partiti eletti fanno schifo) o la brace (Draghi non eletto che fa quello che vuole). Esiste una terza via? Mah. Bisognerebbe trovarla, o finiamo fritti e/o abbrustoliti!

Valentino Bellabio

Caro Valentino, ho risposto che, con tutti i loro difetti, almeno i partiti rappresentano gli elettori: Draghi rappresenta se stesso e chi l’ha messo lì.

M. Trav.

 

Perché i giornali danno retta all’Innominabile?

Al momento una larga fascia di popolazione è fortemente arrabbiata con Renzi e Italia Viva, visto che hanno contribuito ad affossare il ddl Zan. Ieri Repubblica ha messo in prima pagina una lettera di Renzi (che se n’era andato in Arabia) che appare come una ulteriore, beffarda provocazione. Allora, ci si chiede: John Elkann, che ha la proprietà del quotidiano, è così sprovveduto da esacerbare ancora gli animi, oppure è stata una alzata d’ingegno del direttore Molinari, per fare ancora più male al suo giornale?

Diego Tummarello

Caro Diego, l’Innominabile è stato il piede di porco dei padroni del vapore per portare al potere il loro governo preferito: un po’ di riconoscenza gliela devono, specialmente ora che ha più interviste che elettori.

M. Trav.

 

Adesso manca soltanto il “bacio di Giuda”

A questo punto, dopo le esercitazioni di mercoledì, potrebbe persino capitare che a decidere il presidente della Repubblica possa essere una pattuglia di parlamentari di un partito che non ha mai raccolto neppure un voto, ma che è artificialmente nato da un nugolo di voltagabbana eletti nelle liste di partiti che hanno abbandonato tradendo il voto dei cittadini che diedero loro fiducia. Ma in politica ideali, etica e morale non sono più, da tempo, una virtù, soppiantati dalla più antica professione del mondo. Resta triste doverne prenderne atto e sapere che la prossima massima autorità della nostra Repubblica potrebbe essere l’esito di un reiterato bacio di Giuda e dei miserevoli trenta denari.

Melquiades

G20, solito “blablabla” da summit

 

“Dai leader solo bla, bla, bla”.

Greta Thunberg

 

Non sappiamo se dal G20 di Roma uscirà una qualche novità positiva in grado di smentire quanti sostengono che questi megaraduni, nei quali i leader dell’universo si complimentano a vicenda (oltre a paralizzare il traffico), nella realtà dei fatti servono a poco o nulla. Temiamo fortemente che sia così, per esempio sul tema della lotta al riscaldamento climatico che stando a ciò che leggiamo non farà mai alcun decisivo progresso senza il contributo del maggiore inquinatore globale: la Cina (il cui governo non a caso presenzierà da molto lontano).

Il rischio di un ennesimo e irritante “blabbling”, sul non piccolo aspetto della sopravvivenza della specie umana sulla Terra, ripropone un problema di fondo: quello della non credibilità, pressoché assodata, delle promesse della politica. Che ha come diretta conseguenza la progressiva desertificazione dei seggi elettorali.

Chi amministra la cosa pubblica, infatti, dovrebbe annettere alla liturgia della parola la sacralità che essa merita assumendo su ciò che si dice un rigoroso impegno personale. Poiché non è lecito scherzare sulla fiducia degli altri. Sappiamo tutti come, purtroppo, le parole dei governanti siano state consumate da un uso truffaldino e fastidioso e che oggi immesse nel frullatore televisivo (oppure spalmate sulle paginate di giornali che nessuno legge più) provochino tuttalpiù una soporifera indifferenza.

Senza farla tanto lunga possiamo già registrare, numeri alla mano, che accanto alla sempre più prosciugata democrazia del voto cresce e tende a prendere il sopravvento una democrazia del non voto dagli sviluppi imprevedibili. Non è azzardato prevedere che la prima continuerà a governare l’esistente (soprattutto nelle “élite Ztl”) e in forme sempre più autocratiche. Mentre la seconda, che si organizza preferibilmente nel sottosuolo sociale della emarginazione e della protesta, quando esce allo scoperto oggi si limita a intralciare i cortei dei Suv neri coi vetri schermati. Poi si vedrà.

 

“Apollo”, il ciclone tropicale fatto in casa. E non è che il primo

In Italia – Un vigoroso ciclone mediterraneo tra la Sicilia e la Libia ha dominato la cronaca meteorologica dell’ultima settimana. Una prima ondata di violenti rovesci, correttamente anticipati con allerta rossa dalla Protezione Civile, ha investito l’isola e la Calabria tra domenica 24 e martedì 26 ottobre, scaricando 268 mm d’acqua a Catania, 452 mm a Fabrizia (Vibo Valentia) e ben 603 mm sui versanti dell’Etna sopra Linguaglossa. Il peggio è toccato proprio al Catanese: domenica fiumi d’acqua e fango hanno investito il paese di Scordia facendo due vittime, lunedì il Simeto ha allagato la zona industriale di Catania e martedì una grave alluvione urbana originatasi dai pendii collinari (con un altro morto, a Gravina) ha colpito il centro città evidenziando ancora una volta l’inadeguatezza delle reti di drenaggio durante nubifragi che da quelle parti in autunno sono ricorrenti. A Catania e dintorni le stesse scene si erano già viste il 9 settembre 2015 e il 3-4, 12 e 19 ottobre 2018. Pausa mercoledì, poi il vortice ha ripreso forza assumendo caratteristiche almeno da tempesta subtropicale (battezzata “Apollo” dall’Aeronautica militare), diversa dalle depressioni della fascia temperata e più simile a un ciclone tropicale atlantico in miniatura. Sono vortici anche detti “Medicanes” (da Mediterranean hurricanes), ma in questo caso non è chiaro se in mare aperto il vento abbia davvero raggiunto velocità da “uragano” di categoria 1, ovvero 119 km/h. Intorno all’Italia eventi analoghi o più intensi si osservano quasi ogni anno, di recente nello Jonio si ebbero “Numa” (novembre 2017), “Zorbas” (settembre 2018) e “Ianos” (settembre 2020), non sappiamo ancora se stiano aumentando o no con il riscaldamento globale, ma di certo il mare più caldo del solito contribuisce ad aggiungere energia e vapore acqueo alle tempeste. Stavolta il Siracusano è stata la zona più colpita da inondazioni e interruzioni di viabilità, 296 mm di pioggia sono caduti a Siracusa tra giovedì e ieri, più di metà della media annua! Forti piogge anche in Sardegna orientale giovedì, mentre il resto d’Italia è rimasto al sereno e solo adesso, al termine di un ottobre molto soleggiato, piogge atlantiche sono arrivate al Nord.

Nel mondo – Lo stesso vortice responsabile dei diluvi al Sud Italia domenica scorsa ha causato alluvioni e 4 vittime anche in Algeria e Tunisia. Brusco passaggio da siccità estrema e incendi alle alluvioni in California, lunedì 25 Sacramento ha ricevuto la pioggia giornaliera più intensa dall’inizio delle misure nel 1877 (138 mm), dopo aver appena vissuto una sequenza inedita di ben sette mesi senza precipitazioni, dallo scorso 19 marzo! A scaricare improvvisamente tanta acqua è stato un “fiume atmosferico” di aria umida (atmospheric river) pilotato dalla più profonda depressione mai registrata nel Pacifico nord-occidentale, pari a 942 ettopascal. Eccezionale ondata di calore nella primavera australe di Argentina, Uruguay, Perù e Brasile, numerosi record di temperatura massima per ottobre tra cui i 36,3 °C di Buenos Aires. In Svezia, invece, con i -24 °C registrati in Lapponia, non faceva tanto freddo in ottobre dal 2006, ma non si tratta dunque di un primato di lungo periodo come nel caso del caldo sudamericano. Il Greenhouse Gas Bulletin dell’Organizzazione meteorologica mondiale segnala un nuovo record di concentrazione media annua globale di CO2 nel 2020 (413 parti per milione), e secondo l’Emissions Gap Report del programma ambientale Onu l’insieme degli attuali piani climatici nazionali è ancora inadeguato e ci porterebbe a un riscaldamento di 2,7 °C a fine secolo con effetti rovinosi a lungo termine. Speranze di arrivare a più incisive riduzioni dei gas serra sono riposte nella Cop26 che comincia oggi a Glasgow, ma il timore di un fallimento è concreto.

 

I comandamenti. La “legge” dell’amore a Dio e al prossimo viene prima dei riti

Uno scriba si avvicina a Gesù. Lo scriba è un esperto dei testi sacri. Aveva il compito di custodire la Legge di Dio racchiusa nelle Scritture, leggendola, traducendola e interpretandola per il popolo. È l’uomo delle parole. Lo scriba ha bisogno di un contatto diretto perché deve porgli una domanda: “Qual è il primo di tutti i comandamenti?”.

Questa domanda, proprio perché posta da uno scriba, può suonare come una ricerca di comprensione oppure come una prova, quasi una domanda da esame di catechismo. Non sappiamo adesso da Marco quale sia il tono con il quale lo scriba ha posto la domanda. Sappiamo solamente che fino a questo momento Gesù ha interloquito con avversari che hanno posto questioni capziose. Qui la domanda sembra richiedere una risposta ovvia, ma in realtà non è così perché tra gli scribi si discuteva intorno alla gerarchia dei precetti elencati dalla Legge mosaica.

Gesù rispose: “Il primo è: Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l’unico Signore; amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza”. La risposta di Gesù davanti a quest’uomo è lunga, articolata, pienamente biblica. C’è un ritmo sonoro nella sua risposta. Il rintocco del metronomo è segnato: tutto… tutta… tutta… tutta. Il ritornello batte in testa: tutto cuore tutta anima tutta mente tutta forza… L’amore è così: prende tutto, richiede tutto. Non si ama solamente col cuore, come non basta un tassello isolato per fare un puzzle. E il Signore è l’unico. Lo si può non amare, ma non lo si può amare come secondo. Gesù è radicale, pieno, rotondo nella sua risposta. Lo scriba aveva chiesto il primo comandamento. Gesù però supera la richiesta e crea un dittico. E parla di un secondo, che fa tutt’uno col primo, e che è questo: “Amerai il tuo prossimo come te stesso. Non c’è altro comandamento più grande di questi”. Per amare Dio non basta dunque amare Dio. Bisogna amare il prossimo. Ma non si può amare l’essere umano in modo assoluto perché non è Dio. Immaginare di farlo significa caricarlo di un peso enorme, eccessivo per la sua finitezza, distruttivo. L’altro essere umano va amato accettando la sua finitezza, il suo limite, che è poi anche il mio: questo significa prendersene cura. E questo è pienamente amare Dio.

Il dialogo ravvicinato tra Gesù e lo scriba è tutto di parole. Marco non ci fornisce alcun dettaglio visivo. E questo perché lo scriba è il maestro delle parole sacre. Il racconto – persino il modo di raccontare – viene plasmato sull’indole dell’interlocutore di Gesù. Lo scriba ha ascoltato. Gli dice allora: “Hai detto bene, Maestro, e secondo verità”. E così ripete le sue parole: “Egli è unico e non vi è altri all’infuori di lui; amarlo con tutto il cuore, con tutta l’intelligenza e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici”. Lo scriba riconosce chiaramente che non sono i precetti del culto, per quanto importanti, ad avere il primato, ma la legge dell’amore a Dio e al prossimo. È il senso del rapporto con Dio a contare veramente, non altro. Gesù gli dice che aveva risposto saggiamente. Le parti si sono invertite. Lo scriba aveva posto la domanda, ma alla fine è lo stesso scriba che risponde. E allora si rivela il senso dell’avvicinamento iniziale. Era, infatti, lo scriba a essersi avvicinato a Gesù, e adesso Gesù certifica: “Non sei lontano dal regno di Dio”. Comprendiamo che la saggezza di quest’uomo lo localizza spiritualmente non lontano ma vicino al Regno, così come adesso si è fisicamente avvicinato a Gesù.

 

 

L’Italia è sempre ostaggio dei pericolosi fan di Silvio

Ai tempi (recenti e lunghissimi) dei governi Berlusconi, i fedeli del leader, in piazza, sulle reti Mediaset e in Parlamento, erano soliti intonare il grido del clan: “Menomale che Silvio c’è”. Era il tempo in cui il nostro Paese scendeva rapidamente la scaletta dei Paesi secondari e, dai ranghi della serie B del mondo, il capo poteva anche permettersi (e vantare) “pranzetti eleganti” con le ragazze che poi, a pagamento, in tribunale dovevano ritrattare se volevano sposarsi con buoni regali.

Ma per molti italiani quel grido resta ed è importante. Perché ci dice che quei tempi li abbiamo vissuti davvero. E ci serve per declamare adesso: menomale che Berlusconi è li, in mezzo alla scena, un po’ stordito, circondato dalle giuste persone, per indurci a ricordare e a ripetere che ci serve come unità di misura. Rappresenta in modo chiaro e drammatico chi non deve governare, chi non deve avvicinarsi alle istituzioni. Soprattutto a quella più alta. Infatti il suo clan, anche coloro che sono passati per la prigione, e lui stesso che ha meritato l’attenzione penale fino alla Corte di Cassazione, ed è stato a suo tempo espulso da tutto, gli si stringe intorno e annuncia, anche a chi non vuole saperlo, ciò che è al tempo stesso un gravissimo pericolo e una farsa: il ritorno.

Non è il caso di dimenticarsi, proprio ora, che tutto cominciò con l’abbattimento (con esplosivo) di antenne televisive rivali, con rapporti finanziari mafia-Milano (il messaggero era in casa), con la strage dei Georgofili, con la collaborazione stretta di “emissari” del leader che i presidenti della Repubblica del tempo hanno giudicato pericolosi, sospetti o colpevoli, che un mare di volgarità si rovesciava sull’Italia, mentre prendevano piede il potere anti-Stato di Salvini, le ronde della Lega, le mascalzonate di Borghezio e Gentilini e dei sindaci che vietavano la mensa scolastica ai bambini neri, la cacciata in mare dei profughi.

Ma non siamo soli in Italia. L’Europa è squilibrata a causa dei colpi violenti e scriteriati del sovranismo. Ungheria, Polonia, Slovacchia ci offrono il tremendo spettacolo dei bambini morti di fame e di freddo, davanti al filo spinato della Polonia, i corpi dei morti in mare tra gommoni sgonfiati che nessuno ha soccorso. Anche a causa dei vicini dell’Europa, come Putin, che tiene chiusa la Bielorussia, e come Erdogan, che espelle dieci ambasciatori dell’Ue per avere scritto una lettera di sostegno a un difensore dei diritti civili incarcerato. Se pensate al discorso del ritorno in campo di Trump e alle riflessioni ad alta voce di Salvini e Meloni, vi rendete conto di un disegno che include la vasta truppa dei no-vax, dei no-pass e dei militanti contro la “dittatura sanitaria” (sarebbero i governi che vogliono salvare a tutti i costi i cittadini da un brutto contagio).

Vi domanderete come sia possibile che una malattia contagiosa abbia un così vasto sostegno politico. La ragione è che la destra ha bisogno di un controllo e di un potere che non può avere in modo normale. Danneggiare, inquinare, rompere e corrompere sono strade pericolose e possibili. È gente che ha molto bisogno di ricatto e di propaganda, e decine di cortei di migliaia di persone, stordite da leggende e fake news per le strade di Milano e di Roma (e le adunate nella piazza di Trieste), fanno comodo perché creano ansia e disordine.

Ecco perché, con un sentimento a metà di autodifesa e a metà di amor di patria, alcuni di noi, in questo giornale, hanno voluto indicare Liliana Segre come un punto, forse l’unico, di salvezza per il Quirinale. Lei, Liliana Segre, sa perché ha visto, e conosce il modo impazzito dei regimi folli. Riunirsi intorno a Berlusconi e spingerlo avanti come una statua di cera, in una sinistra processione, è folle, e questo sta già accadendo, come se la superiore qualità di statista di Berlusconi, l’uomo che si teneva il portavoce della Mafia in casa, fosse una cosa ovvia, e fosse inevitabile riconoscerla. Lo statista di Previti e Dell’Utri dovrebbe essere il riferimento e la guida della Repubblica che ha spinto il fascismo fuori dalla storia. Noi abbiamo pensato che era necessario che si vedesse bene la dimensione storica e morale, una figura accanto all’altra, della persona che ha detto, mentre governava, che “il fascismo è stata ben poca cosa” e Liliana Segre, liberata ad Auschwitz, impegnata per tutta la vita a passare ai più giovani la memoria della Shoah, degna di rappresentare la Repubblica dell’antifascismo.

 

La figlia del mercante, Billo e le ciambelle che piovono dal tetto

Dai racconti apocrifi di Pietro Aretino. Per avere successo nella vita bisogna avere l’aria di essere onesto e stupido, e non essere né l’uno né l’altro; ma un giovane pastore di Lucca, un ragazzo così maschio che le donne si voltavano al suo passaggio, era entrambe le cose. Benché la sua stupidità desse l’idea dell’infinito, alla gente stava simpatico perché era così onesto che non faceva finta di essere intelligente, come invece molti cretini che conosciamo tutti. Lo chiamavano Billo e solo l’astuzia di sua madre lo teneva fuori dai guai. Un giorno Luisa, la figlia di un ricco, influente mercante di seta, vide Billo con le sue pecore in un campo, e lo trovò così bello che decise di insegnargli qualche regolina del gioco chiamato amore. Si può fare sesso, infatti, per cinque motivi: primo, per fare festa; poi per calmare la voglia; poi per evitare d’aver voglia dopo; poi per fare onore a una bella donna o a un bell’uomo; e infine per ogni altro motivo. Comunque, nonostante non fosse sveglio, Billo imparò quel gioco gustoso rapidamente e bene, tanto che verso sera stava vincendo ogni alloro. La figlia del mercante, in estasi, lo lasciò a malincuore, e solo perché s’era fatta sera. Quando Billo disse a sua madre cosa era successo, lei impallidì, e cambiò subito argomento. Il giorno dopo, a colazione, gli preparò un bicchiere di limonata e, mentre il figlio la stava bevendo, salì sul tetto, da dove gettò delle ciambelle davanti alla finestra. “Mamma! Mamma!” urlò Billo, sbalordito. “Piovono ciambelle!” “Ringrazia il Signore. Mangiale, finisci la limonata, e poi porta le pecore al pascolo”, disse sua madre dalla soffitta. Appena Billo si fu allontanato con il gregge, sua madre si recò nella stalla, sistemò un tavolo di fronte all’asino, ci mise sopra delle candele accese, rientrò in casa; e quando Billo fece ritorno, lo mandò a mungere la mucca. Dopo neanche un minuto, Billo usciva di corsa, fuori di sé dall’eccitazione. “Mamma! Mamma! L’asino sta dicendo messa nella stalla! L’asino sta dicendo messa nella stalla! Buon Dio, che giornata! Quanti miracoli!” “È proprio vero”, disse sua madre. Le sfuggì un sorriso. Qualche giorno dopo, il mercante di seta si presentò alla fattoria accompagnato da due gendarmi. “Se ho ben capito, ragazzo,” disse il mercante, fissandolo senza alcuna cordialità, “mia figlia ha passato con te un pomeriggio interessante, là al pascolo.” Billo, che era l’ingenuità fatta persona, e non vedeva la malizia negli uomini, disse con orgoglio: “È proprio così, signore: sua figlia mi ha insegnato un gioco molto piacevole. Stavo vincendo, quando se n’è dovuta andare.” “Silenzio!” ruggì il mercante di seta, imbarazzato che i gendarmi sentissero i dettagli. “Cosa fate lì impalati? Arrestate quest’uomo!” Al processo, il giudice rivolse a Billo e a sua madre una serie di domande. “Signora, ha saputo quello che è successo al pascolo la settimana scorsa?” “Il mio povero figlio è tornato a casa una sera con una storia incredibile, Vostro Onore. Ma me ne racconta così tante, e la sua mente vaga così raminga, che non gli ho dato peso” disse lei. “Se anche mi avesse detto qualcosa di particolare, l’ho dimenticato, e non ricordo neppure il giorno in cui me lo ha detto.” “Come puoi non ricordare che giorno era, mamma?” la interruppe Billo. “Il giorno dopo, sono piovute ciambelle dal cielo, e l’asino diceva messa nella stalla!” Il giudice diede alla donna uno sguardo di compassione: “Vada pure a casa con suo figlio, signora. Non ci sarà alcuna sanzione, ha già abbastanza da sopportare.” Da quella volta, nessuno prestò più fede ai pettegolezzi su Billo e sulla figlia del mercante di seta; e i due giovani continuarono a giocare in santa pace fra le pecore, fino al matrimonio di Luisa con il figlio del notaio, e anche dopo.

 

Spread ai massimi: e l’effetto Draghi?

Non essendo seguaci di religioni animiste come i fedeli dello spread che affollano le redazioni non avremmo voluto occuparcene, ma visto che la cosa rimane sottotraccia… Alla chiusura di venerdì il benedetto differenziale tra i Btp decennali italiani e l’omologo bund tedesco faceva segnare 127,5 punti, record quest’anno, con rendimenti all’1,18%, quasi il doppio rispetto a gennaio. La vita, si sa, è complicata, però ci domandiamo dove siano finiti quelli che a febbraio titolavano “Effetto Draghi” per movimenti impercettibili su spread e interessi. Certo, animisti a parte, nessuno crede che le persone siano in grado di influenzare il mercato con la loro sola presenza, ma notiamo che quei pochi che ora si esercitano sullo spread lo fanno per dare la colpa all’inflazione. Spiegazione che ha certo un suo fondamento e che tradurremo così per i molti colleghi che praticano culti primitivi: l’inflazione è divinità più potente di San Mario da Francoforte (e forse potremmo nominarla premier).