Scrivere un libro è una cosa, ma parlarne dopo la sua pubblicazione è tutta un’altra cosa. Lo scrittore deve ridurre l’intero libro a sintesi o citazioni seducenti e prepararsi ai commenti o alle domande irrilevanti. I nostri tempi non permettono il balbettio del pensiero genuino né i silenzi della conversazione intellettuale.
Inoltre, se siete come me, se venite da un Paese dove tutto è rappresentazione, raramente vi è permesso di parlare di idee universali, perché il pubblico si aspetta che continuiate a parlare dello spettacolo politico del vostro Paese. Dopo tutto, il fascismo è uno spettacolo di cui non ci si stanca mai di stupirsi. E poi c’è il fatto che, se sei una donna, ci si aspetta che parli del tuo vittimismo e di come sei riuscita a scappare dai barbari per gettarti tra le braccia del mondo civilizzato, vale a dire essere un’esule.
Se uccidi questi mostri del post-pubblicazione, alla fine ti trovi davanti alla domanda: perché hai scritto questo libro? Vorrei avere il narcisismo di un uomo bianco affermato per dire: “Per spiegarvi il perché, dovrei scrivere un altro libro”. Purtroppo non sono né così nonchalante né così affermata, quindi eccovi una catena di eventi per raccontare il perché.
Era l’autunno del 2016, ed ero in coda per il controllo passaporti a Istanbul, di ritorno da Londra. Ero reduce dal tour di presentazioni di Turchia folle e malinconica, un libro che avevo scritto per raccontare come la Turchia avesse fatto la fine che aveva fatto. C’era appena stato il colpo di Stato militare ed era il momento ideale per l’uscita di un libro del genere, ma un momento orribile per le conseguenze che potevo subirne. Era in atto un’epurazione di massa dei critici del regime, e io ero una di loro. All’epoca la moda del governo era confiscare i passaporti. Così mi sono messa in coda e, dato che la giovane funzionaria procedeva con lentezza, ho cominciato a pensare: “È finita. Mi requisiscono il passaporto o mi arrestano”. Dopo lunghissimi minuti la donna ha gridato: “Ece Temelkuran! Possiamo farci un selfieee?”. Non mi sono curata, in seguito, di guardare la foto, ma sono abbastanza certa che metà della mia faccia stesse piangendo e l’altra metà ridendo. Credo che fu quello il giorno in cui, senza nemmeno dirlo a me stessa, decisi di lasciare il mio Paese. La paura distorceva non solo il mio viso, ma anche i miei pensieri. Quando vai a letto pensando che potrebbero venire a bussare alla porta alle quattro del mattino, la tua mente non può essere lucida.
Per farla breve, sono finita a Zagabria. Perché Zagabria? Come è scritto nel suo aeroporto internazionale, “Perché no!”. La città si trova in un punto ottimale della mappa, abbastanza lontano dalla Turchia e abbastanza vicino all’Europa. Mi sento a casa nei posti che stanno nel mezzo. Così a Zagabria, da sola, con appena due amici all’epoca, seguivo le vicende mio Paese che viveva in anticipo ciò che l’Europa stava iniziando a sperimentare politicamente e socialmente. Cominciavo a vedere gli schemi globali del fascismo emergente. Come se la mia vita non fosse abbastanza complicata, decisi di scrivere non nella mia lingua madre ma in inglese. Come sfasciare un Paese in sette mosse è nato durante la solitudine assoluta del 2018 ed è stato pubblicato nel 2019 in diverse lingue. Era un libro arrabbiato, per questo iniziava con la domanda fattami da una donna inglese, “Cosa possiamo fare per voi?” e la mia riposta: “Cosa posso fare io per voi?”.
La domanda mi era stata posta durante una presentazione del libro precedente, nel 2016, e all’epoca l’Europa non aveva la minima idea di ciò che sarebbe successo. Tutti pensavano ancora che queste cose accadessero in Turchia perché era un “Paese musulmano”, e in Italia per via della follia mediterranea. E davano ancora per scontato di poterci aiutare, mentre ero io che cominciavo a pensare di aiutare loro raccontando come il populismo di destra sarebbe arrivato ovunque e come avrebbero iniziato a chiamarlo fascismo, con il suo vero nome.
Via via che il libro veniva pubblicato in diversi Paesi, andavo in giro per il mondo a parlare a diverse platee e ad ascoltare le loro reazioni. Improvvisamente la domanda “Cosa possiamo fare per voi?” si è trasformata in “Ma allora c’è qualche speranza?”. Erano ormai convinti che l’ascesa della destra era globale e che nessuna democrazia era immune dai pericoli del nostro tempo. La domanda si ripresentava così spesso che ho cominciato a pensare alla parola speranza. E soprattutto mi chiedevo cosa sarebbe cambiato nelle loro azioni se avessi detto che c’era speranza. Oppure, una domanda ancora migliore: cosa farebbero di diverso se dicessi che non c’è speranza? Dato che questa parola ha scarsa rilevanza nella vita reale, cosa stavano davvero chiedendo? In realtà, chiedevano un motivo per agire. E non hanno agito non perché ci sia speranza, ma perché non avevano fede né in se stessi né negli altri esseri umani. Fede è una parola problematica quando si parla di politica.
Tuttavia ho iniziato a domandarmi perché i movimenti progressisti di oggi non usino più questa parola quando il bisogno di credere è piuttosto evidente. Partendo dalla parola fede, ho pensato ad altre nove grandi parole, come amore umano, orgoglio, dignità, rabbia. In un mondo in cui la politica delle emozioni è monopolizzata dall’estrema destra, i progressisti devono avere qualcosa da dire, sono giunta a credere. In un mondo dove i fatti non contano, anche se non possiamo arrenderci a questa pandemia politica e sociale, non possiamo nemmeno ignorare il fatto che una tale pandemia esista. Sappiamo che questo è un mondo spietato. Allora perché non mettere un po’ di sentimento nel pensiero progressista? Questa è stata la domanda che ha dato inizio a La fiducia e la dignità. In fin dei conti, a partire dal primo Forum Sociale Mondiale del 2001, abbiamo tutti parlato di una nuova narrativa progressista, un linguaggio fresco che avrebbe rinvigorito e chiamato a raccolta il malcontento globale, ma abbiamo perlopiù evitato la politica delle emozioni, che è la questione centrale della politica globale di oggi. Finché rimarremo bloccati nel nostro vocabolario politico non c’è possibilità di toccare il cuore di molti. (…) Vi sembra ingenuo? Allora non siete i soli. Ad alcuni lettori di Come sfasciare un Paese in sette mosse non è piaciuto quel che hanno letto in La fiducia e la dignità. Presumo si aspettassero un libro che incitasse all’azione. Come via d’uscita da questa follia politica globale avrei dovuto dire qualcosa del tipo: “Unitevi!”. Ma unirsi intorno a cosa? E perché? E come? Finché negheremo il fatto che nei movimenti progressisti di oggi c’è un pezzo mancante, continueremo a ritrovarci sempre con le stesse persone. Se non abbiamo il coraggio di parlare dell’amore umano senza un sorrisetto sarcastico, non riusciremo a convincere la gente che siamo al suo fianco. E già che ci siamo, cos’è quel sorrisetto? È il nostro deliberato atteggiamento di distacco oppure è segno che siamo contaminati dalla descrizione neoliberista dell’umanità? Lo stupido, lo sporco, il male. (…) Nessun altro Paese come l’Italia può capirmi altrettanto bene quando dico che il fascismo non è solo un regime politico bensì la sconfitta assoluta dei valori umani. Si insinua nelle nostre relazioni più intime per trasformarci nelle versioni più deleterie di noi stessi. La scrittrice austriaca Ingeborg Bachmann ha detto: “Il fascismo inizia nelle relazioni tra le persone”. E io dico: anche la rivoluzione. Comincia con il credere nella solidarietà e nella sua bellezza. Comincia con il cercare di mettere il cuore in questo mondo senza cuore. E questo è ciò che posso fare per voi. Almeno voglio credere che sia così.
Traduzione di Giuliana Olivero