“Vince il peggiore”. Il concorso sospeso dal Tar

C’è un primo stop del Tar dell’Abruzzo che ha ordinato la sospensiva e il 1° dicembre discuterà del concorso di Cardiologia dell’università de L’Aquila, di cui il Fatto ha scritto lo scorso 4 settembre (“Cardiologia: ‘Vince il peggiore’. I ‘baroni’ litigano: ‘Una pazzia’”). È un concorso per un posto da professore associato, vinto da Luigi Sciarra del Policlinico Casilino di Roma che ha superato diversi candidati apparentemente più titolati di lui, tanto per gli indici bibliometrici (h-index) quanto per l’esperienza di insegnamento universitario e coordinamento clinico. I giudici hanno accolto le istanze di sospensiva dei legali di Leonarda Galiuto del Gemelli di Roma e di Giuseppe De Luca dell’Università del Piemonte orientale. L’eventuale annullamento metterebbe a rischio la Scuola di specializzazione in Cardiologia de L’Aquila. Sono infatti necessari almeno due docenti di ruolo e ne rimarrà solo uno quando a giorni la professoressa Maria Penco, peraltro presidente della commissione che ha scelto Sciarra, andrà in pensione.

Ddl Zan, proteste in oltre 44 piazze: “Renzi colpevole”

Non si fermano le proteste per l’affossamento al Senato del Ddl Zan contro l’omotransfobia. Da Torino a Firenze, da Bologna a Palermo a Cagliari per un totale di oltre 44 città in migliaia sono scesi in piazza per affermare i diritti della comunità Lgbtiqa. Lo ha fatto anche il promotore del ddl, Alessandro Zan, che a Cagliari ha gridato in sardo “bregungia!” ovvero “vergogna!”.

A Firenze alcune centinaia di persone hanno partecipato al sit-in davanti alla sede di Italia Viva: “La misura è colma – ha detto il presidente di “Love my way” Marco Filippini –. Gli applausi che hanno seguito l’affossamento del Ddl Zan hanno declassato il Senato a un salottino degno di un talk show di infimo livello”. Inoltre “Italia Viva non è l’unica responsabile, ma è quella che più ha contribuito, tra i partiti non di destra, al fallimento”. A Torino Alessandro Battaglia, coordinatore del “Pride”, ha aperto la manifestazione in piazza Carignano, mentre a Palermo è sceso in piazza il sindaco Leoluca Orlando: “La bocciatura del ddl Zan è un atto eversivo che viola i principi della Costituzione”.

I costi in bolletta sono raddoppiati in 10 anni

Un aumento del 54,4 per cento. Di tanto è cresciuto il costo medio della bolletta dell’acqua in Italia negli ultimi dieci anni, con punte che arrivano fino al 97,4 per cento registrato nel Lazio, in assoluto la regione dove l’incremento è stato più rilevante. Tradotto, una famiglia italiana di tre persone, con un consumo annuo di 192 metri cubi di acqua, nel 2011 spendeva mediamente 290 euro all’anno, mentre nel 2020 ha dovuto sborsare 448 euro.

I dati forniti al Fatto da Cittadinanzattiva, organizzazione no profit fondata nel 1978, si basano sulle tariffe applicate dai vari capoluoghi di provincia italiani, e indicano che in tutta la Penisola i costi dell’acqua del rubinetto sono cresciuti a doppia cifra nell’ultimo decennio, cioè a partire dall’anno del cosiddetto referendum sull’acqua pubblica.

L’incremento più contenuto delle tariffe è stato registrato nel Nord, dove i prezzi sono aumentati in media del 46,3 per cento, con il minimo fatto registrare in Trentino Alto Adige (+ 21 per cento) e il massimo in Friuli Venezia Giulia (+ 77 per cento). Al Sud la crescita dei prezzi è stata in media del 57,5 per cento: si va dal Molise (+ 31,2 per cento) fino all’Abruzzo (+ 90,2 per cento). L’aumento maggiore riguarda però il Centro Italia, dove negli ultimi dieci anni i prezzi hanno fatto segnare in media un + 62,4 per cento. L’incremento minore è toccato agli abitanti delle Marche (+ 42,4 per cento), mentre i più sfortunati sono stati appunto i residenti del Lazio (+ 97,4 per cento), dove la spesa di una famiglia di tre persone è passata da 265 euro a 523 euro all’anno, praticamente il doppio.

I prezzi dell’acqua pubblica sono cresciuti molto più dell’inflazione generale. Il motivo lo spiega un’altra associazione dei consumatori, il Codacons: l’anno scorso ha realizzato uno studio simile a quello di Cittadinanzattiva, arrivando a risultati quasi identici. Basandosi sui dati forniti da Arera (l’Autorità che svolge attività di regolazione e controllo in vari settori tra cui quello dei servizi idrici), il Codacons ha calcolato infatti che tra il 2010 e il 2020 (quindi prendendo in considerazione un anno in più rispetto a Cittadinanzattiva) il prezzo medio dell’acqua del rubinetto è cresciuto del 60 per cento in Italia. Le cause? “Soprattutto il fenomeno della dispersione idrica, che in Italia raggiunge in media il 42 per cento del prelievo totale, contro la media europea del 15 per cento”, ha spiegato l’associazione.

Insomma, i prezzi non sono schizzati verso l’alto a causa del parallelo aumento dei consumi d’acqua del rubinetto, ma più probabilmente perché sono cresciute le perdite negli acquedotti. Non solo. Nella composizione del costo della bolletta, oltre ai consumi e al costo dell’acquedotto ci sono altre voci importanti: si paga ad esempio il canone di fognatura e quello di depurazione. Fattori che aiutano a spiegare le differenze tra le bollette nel confronto tra regioni e città. Altrimenti non si spiegherebbe come, tanto per fare un esempio, per consumare 192 metri cubi di acqua all’anno una famiglia possa spendere 845 euro a Frosinone e 156 euro a Milano.

C’è poi un altro aspetto che aiuta a comprendere gli aumenti di prezzo e rimanda direttamente al referendum di dieci anni fa, quello con cui la maggioranza dei votanti si schierò contro la “adeguata remunerazione del capitale investito” dalle società che gestiscono i servizi idrici. Niente più margini di guadagno garantiti, stabilì il referendum. Secondo il Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua, però, questi profitti assicurati sono usciti dalla porta per rientrare dalla finestra: ora si chiamano oneri finanziari del gestore. “Non sono costi effettivi e, di fatto, sostituiscono la remunerazione del capitale investito abrogata dal referendum”, si legge in uno studio pubblicato dal Forum due anni fa.

Umbria, guerra per l’acqua: la sorgente contesa

“Giù le mani dalla nostra acqua. A noi non la date a bere”. Da due mesi e mezzo la valle del Fonno, a Gualdo Tadino (Perugia), è presidiata. Qui dagli anni 90 Rocchetta spa preleva la famosa “acqua della salute”. I pozzi e la sorgente – da cui la società prende il nome –, insistono in un’area di 208 ettari, che rientra nella più ampia proprietà collettiva della Comunanza agraria dell’Appennino gualdese. Sono circa 500 le famiglie che hanno ereditato questo territorio, riconosciuto peraltro come Sito di interesse comunitario (Sic). Sono loro i proprietari sin dal 1893. Lo stabilisce il commissario per la liquidazione degli usi civici, Antonio Perinelli, nella sentenza dello scorso anno che Rocchetta ha impugnato dinanzi alla Corte d’appello di Roma. Sono beni collettivi – si legge nella decisione – “non sono alienabili, né usucapibili e neppure possono essere oggetto di espropriazione forzata. La titolarità, di natura privatistica, esclude qualsiasi potere del Comune e della Regione Umbria sugli stessi”.

Eppure sinora a gestire l’area sono stati solo gli enti locali. “L’acqua minerale è un bene demaniale – chiosa Roberto Morroni, vicepresidente della giunta regionale con delega alla tutela ambientale – il potere concessorio è in mano alla Regione”. La battaglia giudiziaria dura da anni. Ma la tensione è cresciuta ad agosto, quando la presidente della Comunanza agraria, Nadia Monacelli, ha annunciato le dimissioni: “L’ho fatto per il clima che si era creato in città, sono stata minacciata – dice – hanno cercato di estorcere il mio silenzio. È tutto in mano al mio avvocato”. Gli attivisti e i proprietari dei terreni da quel momento si sono accampati nel bosco, a poche centinaia di metri dai pozzi di Rocchetta. A causa dell’elevato rischio di frana, con un’ordinanza dell’allora sindaco Morroni, nel 2012 l’accesso alla sorgente è stato interdetto a tutti, tranne che alla società. La decisione è stata poi rinnovata dopo l’alluvione del novembre 2013, quando la valle venne travolta da un fiume di detriti. Per quel disastro idrogeologico, ancora da risanare, in Procura a Perugia vennero presentati vari esposti per presunte irregolarità dell’azienda nella realizzazione delle opere e per il mancato ripristino dello stato dei luoghi. Dagli atti depositati dall’unità forestale dei Carabinieri di Gualdo Tadino emerge che alla società venne anche contestato l’abusivismo edilizio per i perfori di sondaggio temporanei poi trasformati in pozzi permanenti. Ma tutto è stato prescritto e il procedimento per omessa bonifica è stato archiviato. Rocchetta ha beneficiato di varie sanatorie, fino alla sentenza di giugno del Consiglio di Stato che ha confermato il reato di abusivismo esclusivamente per i cabinotti costruiti sopra ai pozzi. Il Consiglio di Stato, ribaltando la sentenza del Tar Perugia, si è anche espresso in merito alla concessione ritenendola legittima. La Comunanza pochi giorni fa ha presentato ricorso in Cassazione.

Lo sfruttamento della sorgente a scopo industriale è iniziato nel 1952. Negli anni 90 è arrivata Rocchetta spa, di proprietà ­– assieme alla Uliveto – del gruppo Cogedi International, che controlla la spagnola Industrias Reunidas. Il patron è l’ereditiere Luigi de Simone Niquesa, proprietario anche di una catena di alberghi di lusso. La concessione mineraria di Gualdo Tadino sarebbe scaduta nel 2022, ma è stata prorogata nel 2015, con un ampliamento e un aumento della capacità estrattiva per 25 anni fino al 2040. Il tutto è avvenuto – secondo l’Antitrust – “senza avere previamente dato corso a una procedura competitiva ad evidenza pubblica per la scelta del concessionario”. Chiara Bigioni, legale di Rocchetta, fa sapere invece che “è stata regolarmente effettuata ma nessuna istanza concorrente è stata presentata”. A seguito dell’intervento dell’Autorità garante, la legge regionale 22/2008 – promossa proprio dal vicepresidente Roberto Morroni – è stata modificata. Ma non ha subito variazioni la delibera con cui è stata concessa la proroga.

Poche settimane fa è partito un secondo esposto all’Antitrust e alla Polizia di Stato: secondo i senatori 5S Sergio Romagnoli ed Emma Pavanelli la registrazione del marchio con lo stesso nome del toponimo dove insiste la sorgente rappresenterebbe un impedimento “al subentro di eventuali altre aziende a seguito di eventuale gara pubblica”.

I comitati e la Comunanza chiedono lo stop degli emungimenti e il ripristino dei luoghi di modo da renderli accessibili alla comunità. Regione, Comune e Rocchetta, invece, hanno un’altra priorità: la valle deve produrre. Quanta acqua ancora sia disponibile non si sa.

Umbra Acque, il gestore che si occupa del Servizio idrico integrato e che preleva l’acqua dalla vicina sorgente di Santo Marzio, nel 2017 ha riferito alla Camera di varie crisi idriche. “I nostri prelievi sono infinitamente piccoli rispetto a quelli dell’acquedotto pubblico”, si difende la società, che conta meno di 30 assunti, per un totale di 150 lavoratori tra diretti e indiretti. Stando alla proroga, Rocchetta investirà 30 milioni e 500 mila euro, di cui 6 milioni e 500 mila euro per la salvaguardia dell’area in concessione. Il progetto esecutivo ancora non c’è e gli attivisti temono che si confondano i finanziamenti pubblici (tra cui i 750 mila euro dell’Ue per il ripristino del costone roccioso) con quelli privati col rischio che a rimetterci siano i cittadini. I legittimi proprietari dell’area a oggi non hanno ricevuto nulla né possono accedere ai terreni. Si era tentata una conciliazione, ma l’azienda l’ha rifiutata: “È un sovracanone – sostiene – L’unico soggetto a cui la società deve dare conto è la Regione, l’attività estrattiva è di pubblica utilità come le autostrade”. Al pubblico però va ben poco: con una produzione annua di 160 milioni di bottiglie, Rocchetta paga alla Regione un canone concessorio di un euro al metro cubo, per un totale di 400/450 mila euro l’anno, di cui il 40% va al Comune, a fronte di un fatturato di circa 60 milioni di euro.

Israele: contagi tanti, morti pochi

Israele è considerato il paese chiave per comprendere in anticipo quello che potrebbe avvenire in Europa. Stando agli ultimi dati pubblicati dal ministero, sono 618 i nuovi casi positivi al Covid, su 77 mila tamponi (0,80%). Si è registrato un decesso in 48 ore, di un over 60, con doppia vaccinazione. Sono invece 218 i pazienti ricoverati in condizioni critiche, per la maggior parte over 60, di questi 178 non sono vaccinati, 14 vaccinati con due dosi, e 26 con tre dosi.

Per avere una comparazione, il 30 ottobre dell’anno scorso, si erano registrati 680 positivi e 11 decessi. La strategia israeliana passa dalle parole dello “zar del Covid” Salman Zarka, la voce più ascoltata dal primo ministro Naftali Bennett, che ha anticipato la strategia del Ministero della Salute: si discuterà la possibilità di porre fine ai test gratuiti del virus per i bambini che non sono stati vaccinati contro il Covid-19, tenendo conto che tra due settimane dovrebbe iniziare la campagna vaccinale per i piccoli di età compresa tra 5 e 11 anni; “vogliamo davvero che i bambini siano vaccinati e ottengano un Green pass permanente”, ha detto Zarka a Channel 12.

Uno dei più autorevoli immunologi del paese, Cyrille Cohen, membro del board sui vaccini del Ministero della Salute, spiega al Fatto: “Penso che ne usciremo sia con i vaccini che con l’esposizione naturale al Covid. I vaccini forniranno un modo per ridurre il numero di casi gravi, ma credo che a un certo punto molti di noi, vaccinati o no, saranno esposti al Covid e guadagneranno un’immunità, e allora, il virus potrebbe diventare endemico”.

La questione centrale adesso è capire la strategia alla base della vaccinazione pediatrica, quindi abbiamo chiesto a Cohen se il vaccino nella fascia d’età tra i 5 e gli 11 anni, dove sono rare le criticità, potrà servire a bloccare i contagi: “Il vaccino non sembra fornire un’immunità sterilizzante (non blocca i potenziali contagi, ndr). Di nuovo, è una scelta difficile in questo momento e abbiamo bisogno di ottenere più dati per calcolare il bilancio beneficio/rischio: da inizio pandemia sono deceduti undici bambini”. Il direttore generale del Ministero della Salute, Nachman Ash, ha definito le linee generali: “Il principio è che quando ci sono vaccini disponibili, devi essere vaccinato. Questa è la soluzione alla pandemia“, secondo quanto riportato dal quotidiano di Gerusalemme The Time of Israel.

E vaccini disponibili ci sono, perché Israele è primo tra i Paesi occidentali per terze dosi già somministrate (3.943.120 al 29 ottobre): oltre il 42% della popolazione vaccinabile. Mentre sono 5,7 milioni gli israeliani che hanno ricevuto due dosi, e 6,2 milioni con una dose. Nella fascia più suscettibile al Covid-19, dai 50/60 anni in su, i vaccinati in Israele si attestano al 90%.

A rischio giallo. Ora l’epidemia corre nel Nord-Est

Il Sudtirol (provincia autonoma di Bolzano), con un valore di 101,7 contro l’85,6 della settimana prima, il Friuli-Venezia Giulia, a 96,5 con un valore quasi doppio rispetto alla settimana precedente, e il Veneto, a 61,4 contro il 48,3, sono le tre regioni con il valore maggiore dell’incidenza dei casi di Covid-19 ogni 100 mila abitanti, con un valore nazione di 46. I dati dell’Istituto superiore di Sanità sono riferiti alla settimana del 22-28 ottobre. Fra le regioni con l’incidenza più alta seguono Campania a 56,9, Lazio 56,1 e Trentino a 55,4. I valori più bassi sono quelli di Sardegna con 11,2 (da 7,9), Molise 20,6 (che però segna un dato quasi raddoppiato rispetto a 11,5 della settimana prima), e Basilicata 21,4 (da 18,4).

Dati epidemiologici ai limiti della zona gialla per Trieste, dove il sindaco Roberto Dipiazza si sfoga: “Siamo al limite del giallo: è il risultato delle manifestazioni. Un aumento simile dei casi nella mia città non c’era mai stato quindi è stato causato da quelle manifestazioni“ no Green pass. “Ho il terrore di ritornare in una piazza dell’Unità deserta, dove è tutto chiuso, abbiamo rubato un anno e mezzo ai giovani. Sto studiando ordinanze anti-assembramenti”.

Covid, nella quinta ondata gli infetti sono più giovani

Poche settimane fa l’immunologo americano Anthony Fauci ha paventato il rischio di una quinta ondata pandemica a causa soprattutto degli irriducibili del no al vaccino. Quel che è certo, per quanto riguarda l’Italia, è che in poco meno di due settimane si è assistito a un innalzamento della curva dei contagi, più che triplicati dal 18 ottobre, negli ultimi giorni stabili sui 5 mila nuovi casi ogni 24 ore. Ma chi sono i contagiati di questa quinta ondata? L’età media, dall’inizio della pandemia, si è abbassata: era di 45 anni, negli ultimi trenta giorni è scesa a 41. E che oggi ad ammalarsi sono più le femmine (52,3%) dei maschi.

La vaccinazione, che resta l’arma principale per combattere l’epidemia, in base all’ultimo rapporto aggiornato dell’Istituto superiore di sanità continua ad avere un’alta efficacia nel contrastare le forme più gravi dell’infezione anche nella fase caratterizzata dalla prevalenza della variante Delta del virus, più aggressiva e contagiosa della Alfa. La capacità di prevenire l’ospedalizzazione è infatti del 92%, il ricovero in un reparto di terapia intensiva del 95%. E il vaccino previene il decesso nel 91% dei casi. Con la diffusione della variante Delta si è però abbassata l’efficacia contro la contrazione del virus, sia in forma sintomatica che asintomatica. Quando era prevalente la variante Alfa era all’89%, poi è scesa al 76%. Questo contribuisce a spiegare perché tra i nuovi casi ci siano anche persone che hanno completato il ciclo vaccinale, anche se in misura decisamente inferiore rispetto a chi non ha fatto nemmeno una dose.

Oggi i nuovi contagi – rileva sempre l’Iss – si registrano soprattutto tra i ragazzi e i giovani di età compresa tra i 12 e i 39 anni, vale a dire la fascia per la quale la campagna di vaccinazione è cominciata più tardi rispetto alle altre classi di età. In questo caso abbiamo 589 casi ogni mille abitanti, dei quali però solo 63 tra i vaccinati e 12 tra quelli che hanno ricevuto almeno una somministrazione. Mentre tutti i restanti – 514 casi – si rilevano tra i non vaccinati. Il fatto che i parzialmente vaccinati siano in numero molto più basso rispetto a chi ha completato il ciclo non deve affatto stupire. “Semplicemente – spiegano dall’Istituto superiore di sanità –, la platea di chi ha fatto solo una dose è ormai decisamente marginale. Tanto che questa voce, nei prossimi report, potrebbe anche essere cancellata”. C’è poi la fascia di popolazione compresa tra i 40 e 59 anni, che conta 529 casi sempre ogni mille abitanti. Non cambia il fatto che i non vaccinati, anche in questo caso, siano molti di più: 436 contro 85 protetti dal vaccino e 8 con una sola dose. Il discorso non cambia neppure se prendiamo in considerazione la fascia tra i 60 e i 79 anni. In questa classe di età i casi sono 418 (il riferimento è sempre ogni 100 mila abitanti), dei quali 339 non vaccinati e 76 vaccinati. Infine ci sono gli over 80, con 528 casi, dei quali 431 senza nessuna protezione e 95 protetti dal siero. Diversa la questione quando prendiamo in esame i ricoveri in ospedale e quindi le forme più gravi della malattia. Gli over 80 sono ancora una volta quelli che rischiano di più: 197 ogni milione di abitanti, dei quali la stragrande maggioranza, 175, non coperti dal vaccino. I ricoveri tra i giovani sono molto meno frequenti (17 ogni milione di abitanti, solo un caso non vaccinato), al contrario della fascia 60-79: le ospedalizzazioni sono 77 e 72 riguardano persone senza alcuna protezione. Andamento che si ripete osservando i dati sui ricoveri in terapia intensiva. Sono 9 tra i ragazzi e i giovani (tutti non vaccinati), 39 nella classe 40-59 (un solo vaccinato), 140 nella fascia 60 -79 (quasi tutti, 134, non vaccinati), e infine oltre 100 tra gli over 80, dei quali solo 11 vaccinati. In questo caso, quindi, a correre il rischio maggiore è la fascia di età tra i 60 e i 79.

A morire sono invece ancora una volta soprattutto gli anziani over 80: 1.060 ogni milione di abitanti. È però alto il numero delle vittime anche tra sessantenni e settantenni: 175, dei quali 165 non vaccinati. Mentre tra i ragazzi e i giovani si rileva un solo decesso (sempre ogni milione di abitanti). Quanto alla popolazione che non ha ancora ricevuto nemmeno una dose, la percentuale più alta si riscontra, al netto dei ragazzi fino ai 19 anni, nella fascia 30-39 e 40-49, con un tasso del 17,1%. La quota di popolazione che ancora non si è vaccinata oggi si attesta sul 13,7%. Con ben 12 regioni – a partire da Sicilia, Calabria, provincia di Bolzano, Valle d’Aosta e Campania – al di sopra della media nazionale.

Assalto alla Cgil, altre 6 misure cautelari

Assalti con spranghe, sassi alla polizia, accuse di devastazione. E una rabbia “senza alcuna regressione”, sfogata negli uffici del più grande sindacato italiano. Alcuni dei soggetti sono stati definiti dal giudice “molto violenti”. Uno di loro, addirittura, avrebbe rotto il braccio a un’operatrice a bordo di un’ambulanza che lo stava portando in ospedale. Ci sono almeno tre ultras, appartenenti a tre curve diverse (Lazio, Inter e Verona), fra le sei persone fermate ieri mattina dalla Digos di Roma, nell’ambito delle indagini che la Questura sta conducendo sull’assalto alla sede nazionale della Cgil del 9 ottobre, al termine della manifestazione No-Vax in piazza del Popolo. Dovranno rispondere dei reati di devastazione e resistenza a pubblico ufficiale aggravata. In carcere – misura confermata dal Riesame, i legali ricorreranno in Cassazione – c’erano già, fra gli altri, i due leader di Forza Nuova, Stefano Fiore e Giuliano Castellino e l’ex Nar Luigi Aronica, accusati di istigazione a delinquere.

Con la misura richiesta dalla pm di Roma Gianfederica Dito e firmata dalla gip Annalisa Marzano, arrivano nuove accuse per Fabio Corradetti, 20 anni, figlio della convivente di Castellino, già in carcere dopo il primo giro di arresti. Nel dispositivo, gli inquirenti spiegano che “nonostante la giovane età ha mostrato di essere avvezzo ai disordini, capace di esserne un concreto istigatore e provocatore”. Per la Procura, Corradetti “era tra i principali artefici dei violenti scontri avvenuti a piazza del Brasile” dove “utilizzando una spranga a mo’ di asta della bandiera italiana, o sassi, colpiva violentemente gli agenti (…)”. Successivamente “entra nei locali del sindacato tra i primi e, con un bastone, danneggiava (…) tutti gli arredi che incontrava lungo il suo percorso”. Il giudice ha disposto la misura in carcere anche per Massimiliano Petri. Quest’ultimo, 31 anni, è un noto ultrà della Lazio con “pregresse esperienze giudiziarie” che, per chi indaga, “non sono riuscite a contenere le pulsioni aggressive e violente di cui è capace”. Nel dispositivo viene definito “un soggetto molto violento”: feritosi alla mano nella devastazione della Cgil, è stato caricato in ambulanza, ma a bordo – si legge – “scagliava la propria rabbia non solo prendendo a calci l’attrezzatura sanitaria del mezzo di soccorso (…) ma cagionava lesioni all’operatrice provocandole una infrazione del radio destro”.

Gli altri due ultras destinatari di misura cautelare sono Roberto Borra (domiciliari) e Luca Castellini (obbligo di dimora a Verona, dove risiede). Borra, romano di 57 anni, è militante di Forza Nuova e Avanguardia Nazionale e “appartenente agli ultras dell’Inter” anche se, annotano gli inquirenti, partecipa anche alle iniziative degli ex Irriducibili della Lazio (i due gruppi sono legati): per lui, il primo affidamento in prova risale al 1993, gli ultimi Daspo al 2016 e al 2018. Castellini invece è molto attivo sui social: dirigente locale di Fn, fu protagonista di uno scontro virtuale con Mario Balotelli, avendo affermato che il calciatore “anche con la cittadinanza non sarà mai del tutto italiano”: chi indaga ne sottolinea “il ruolo (…) di membro apicale del movimento” essendo “alla guida del corteo e sventolando bandiere poi divenute strumenti di aggressione contro le forze dell’ordine”. Gli altri due destinatari di obbligo di dimora sono Francesco Bellavista, 45 anni di Roma, e Federico Trocino, 33 anni di Cuorgnè (Torino).

A Londra la società che collega l’uomo di Fiore a 2 dirigenti Ugl

C’è una società inglese che unisce l’Ugl a Forza Nuova. Si chiama J&W International Ltd, è stata fondata il 19 luglio a Londra e ha sede al civico 48 di Saint George’s Road, nel centro della capitale britannica. I nomi dei suoi azionisti collegano il sindacato guidato da Francesco Paolo Capone con il partito fondato da Roberto Fiore, l’ex europarlamentare arrestato insieme ad altri esponenti del movimento neofascista dopo l’assalto alla sede nazionale della Cgil del 9 ottobre. A fondarla sono stati tre italiani, due dei quali si presentano attualmente come dirigenti dell’Ugl, mentre l’altro è stato per anni un manager di fiducia di Fiore. Il capitale della società è diviso in 200 azioni: 70 sono intestate a Davide Olla, il resto è diviso in parti uguali tra Gian Luigi Ferretti e Stefano Andrini. Partiamo proprio da questi ultimi.

Gian Luigi Ferretti, classe 1945, residente in Danimarca, si descrive come responsabile delle relazioni internazionali dell’Ugl a partire dall’ottobre del 2017. In passato dice di essere stato segretario dell’ex ministro per gli Italiani nel mondo Mirko Tremaglia, diplomatico all’Onu, consigliere del ministero della Salute e degli Esteri. Sul sito dell’Ugl compare ancora oggi un articolo in cui Ferretti dà conto di un viaggio in Russia durante il quale, come responsabile delle relazioni estere del sindacato, ha accompagnato il segretario generale Capone. “Siamo stati ricevuti dalla Commissione lavoro della Duma di Stato al gran completo, presieduta da quel giovane Yaroslav Nilov che a Mosca è considerato la punta di diamante del cambio generazionale che si sta programmando e preparando nell’alveo della continuità post putiniana”, scrive Ferretti. Che conclude così il resoconto della missione: “Abbiamo registrato un unanime apprezzamento per Matteo Salvini, popolarissimo in Russia”. Era il novembre del 2018, un mese dopo l’incontro all’Hotel Metropol, quello in cui l’ex portavoce di Salvini, Gianluca Savoini, trattava con alcuni uomini russi un finanziamento da 65 milioni di dollari destinato al partito, dicevano i presenti alla negoziazione.

Tra le innumerevoli attività svolte negli anni da Ferretti c’è anche la fondazione del giornale L’Italiano. Ed è qui che la storia del 76enne con residenza danese s’incontra per la prima volta ufficialmente con quella di Stefano Andrini, l’altro dirigente dell’Ugl che da pochi mesi ha fondato a Londra la J&W International. Cinquantuno anni, descritto sul sito del sindacato come “segretario nazionale dell’Ugl Aziende Partecipate Servizi Ambientali”, Andrini è un ex ultrà di estrema destra della Lazio condannato per concorso in lesioni ai danni di due ragazzi a Roma nel 1989 (“Quella notte ci sono saltati addosso a sangue freddo, e uno di loro mi ha colpito da dietro con una spranga di ferro”, ha raccontato a La Repubblica Andrea Sesti, una delle due vittime del pestaggio). Scontata la pena e totalmente riabilitato, nel 2009 l’allora sindaco di Roma, Gianni Alemanno, lo nomina amministratore delegato della Ama Servizi Ambientali, una società controllata dal Comune. A distanza di pochi mesi, in seguito alle polemiche sul suo passato, Andrini si dimette. Qualche anno dopo finisce ai vertici del sindacato Ugl. “Una sigla di destra, che fa riferimento ai partiti di quell’area”, ha dichiarato lui a Fq Millenium, citando come partiti di riferimento la Lega di Salvini e Fratelli d’Italia.

Non aveva menzionato Forza Nuova, Andrini, ma è proprio al movimento neofascista che si collega il terzo azionista della J&W International: Davide Olla, 56 anni, italiano con passaporto britannico, un passato da amministratore in sei società inglesi oggi chiuse. È in particolare in una di queste che il nome di Olla incrocia quello di Fiore. La società si chiama Euro Agency Uk Ltd. È stata creata nel 2002 da Fiore e da Claudia Morsello, moglie di Massimo, cofondatore (morto nel 2001) di Terza Posizione con Fiore, con cui ha condiviso una condanna per banda armata e una latitanza a Londra di quasi 20 anni. Olla ne è stato il segretario dal 2004 al 2008. Oggi la società non esiste più, ma Olla rimane attivo sul Tamigi. Oltre alla J&W International, nel 2018 ha fondato in solitaria la Dazlondon Ltd.

I nuovi “ammortizzatori”: più cari e non universali

Quella che per mesi è stata annunciata come la nascitura “riforma universale degli ammortizzatori sociali” si è rivelata, al momento del parto, molto meno universale del previsto – visto che lascia ancora fuori gli autonomi – e sarà pagata anche dai lavoratori stessi con un aumento dei contributi. In ogni caso, le grandi imprese continueranno a contare su tutele ben più solide delle piccole.

L’esigenza di una riscrittura totale degli attuali ammortizzatori sociali si è resa palese quando la crisi Covid ha costretto lo Stato a una massiccia iniezione di cassa in deroga per salvare le piccole aziende dei servizi. La legge di bilancio, approvata giovedì, alla fine ha però messo sul tavolo 4,6 miliardi, solo tre dei quali dovuti a indebitamento, risorse ben lontane dagli 8-10 miliardi ipotizzati prima dell’estate.

La principale novità riguarda le imprese dei servizi con meno di 5 dipendenti, finora sprovviste di ogni ammortizzatore. Queste da gennaio in poi inizieranno a beneficiare del fondo di integrazione salariale per un massimo di tredici mesi ogni biennio mobile. Alle aziende che invece contano un numero tra i sei e i quindici addetti saranno riconosciute 26 settimane. Le prime dovranno finanziare il trattamento con un’aliquota dello 0,50%, che sale allo 0,80% per le seconde. La stessa legge di Bilancio prevede degli sconti per il solo 2022.

Una volta entrate a regime, che cosa cambierà in concreto per aziende e lavoratori? L’ufficio studi della Uil ha fatto i conti: in un’impresa con più di 5 dipendenti, l’aumento sarà di 73 euro all’anno (47,80 euro a carico del datore e 25,20 euro a carico del lavoratore). Un po’ più corposo l’aggravio per le aziende con oltre 15 addetti: 147 euro in più per il datore e 73,50 euro per il lavoratore. Si tratta di calcoli calibrati su una busta paga media del settore privato, all’ingrosso 21 mila euro lordi. “Pur condividendo la necessità di una revisione del sistema degli ammortizzatori sociali – ha detto la segretaria nazionale Uil Ivana Veronese – non possiamo accettare che ci sia un aggravio sulle buste paga di lavoratrici e lavoratori”. A partire dal 2025, le aliquote subiranno uno sconto per chi ha fatto uso degli ammortizzatori.

L’altro intervento è sui sussidi di disoccupazione. E anche qui i dipendenti continueranno ad avere maggiore protezione rispetto a collaboratori e autonomi. Viene aumentata la durata massima della dis-coll, assegno che va a vantaggio dei co.co.co. e che coprirà un periodo pari al numero di mesi lavorati, ma comunque non superiore a un anno. Resterà quindi inferiore alla Naspi, l’assegno riservato ai subordinati, che può durare fino a due anni. Restando alla Naspi, sarà eliminato il minimo di 30 giornate lavorative, e sarà posticipato il cosiddetto décalage. Oggi, infatti, il sussidio si riduce gradualmente dal quarto mese di fruizione: da gennaio il taglio scatterà dal sesto mese.

Non ci sono strumenti di sostegno al reddito per i lavoratori autonomi puri. La commissione per la riforma degli ammortizzatori sociali nominata dall’ex ministra Nunzia Catalfo aveva proposto un impianto molto più corposo. Suggeriva di ammettere alla cassa integrazione ordinaria e straordinaria tutte le imprese a prescindere dal settore e dalle dimensioni. Per le partite Iva ipotizzava un sistema di contributi pubblici per i periodi di inattività forzata, qualcosa di simile ai sussidi di disoccupazione esistenti per i dipendenti. Ciò che ne è venuto fuori, soprattutto a causa delle scarse risorse, è un parente molto lontano di quel testo.