“Niente sciopero, per ora”: Cgil-Cisl-Uil prendono tempo

Mario Draghi l’aveva detto presentando la manovra: “Mi sembrerebbe strano uno sciopero vista la disponibilità del governo a discutere”. Dev’essere sembrato strano anche ai segretari di Cgil, Cisl e Uil – Maurizio Landini, Luigi Sbarra e Pierpaolo Bombardieri – che ieri in un vertice hanno deciso che per ora non si sciopera: parte una “mobilitazione” con assemblee e altri happening in attesa che la legge di Bilancio arrivi in Parlamento. E d’altronde, dall’altro lato del tavolo, forse lo stesso del premier, anche il presidente di Confindustria Carlo Bonomi avrebbe trovato strano un conflitto aperto: “Penso che proclamare uno sciopero in questo momento in Italia è una strada sbagliata. Gli italiani ci chiedono altro, di stare insieme in questo momento difficile per il Paese”. Il risultato – notevole a livello tanto politico che sindacale – è che la Fiom, i metalmeccanici della Cgil, come spesso capita resta sola, avendo già proclamato otto ore di astensione dal lavoro tra le critiche anche delle “alleate” Fim e Uilm.

Ha funzionato, in buona sostanza, la strategia “troncare, sopire” offerta dal Pd a Draghi per evitare una guerra aperta dopo il pessimo incontro tra premier e confederali di inizio settimana, andato a ramengo soprattutto su pensioni e fisco. Non vi piace il ritorno diretto alla Fornero? Per quest’anno vi beccate Quota 102 (si può lasciare con 64 anni di età e 38 di contributi), ma intanto apriamo un bel tavolo di confronto su una riforma complessiva della previdenza in vista del 2023. Ovviamente nessuno si aspetta che il presidente del Consiglio del “graduale ritorno alla normalità” sulle pensioni, ammesso che sia ancora a Palazzo Chigi l’anno prossimo, lavorerà davvero per una riforma che abbassi l’età di pensionamento, ma per il momento bisognava evitare il conflitto esplicito: il governo sta più tranquillo, il Pd può rivendicare il risultato col suo elettorato, i sindacati fingersi uniti (Cisl e Uil erano contrarie allo sciopero) e non impegnarsi in uno scontro che non possono comunque vincere e su cui non sono sicuri che iscritti e lavoratori li seguirebbero in massa.

E così si è arrivati alla nota di ieri successiva al vertice tra Cgil, Cisl e Uil: “Per sostenere le proposte e le piattaforme presentate al Governo in questi mesi e nell’incontro del 26 ottobre alla Presidenza del Consiglio (investimenti, lavoro pubblico e privato, creazione di nuova occupazione, protezioni sociali, fisco, pensioni, etc), e modificare il tal senso la misure previste in legge di Bilancio, Cgil, Cisl e Uil avviano un percorso di mobilitazione con assemblee sui posti di lavoro, iniziative e manifestazioni regionali, con tutte le modalità e gli strumenti per garantire la più ampia partecipazione”. In sostanza, i confederali proveranno a fare un po’ di lobbying in Parlamento e vedranno cosa riescono a portare a casa: “Le iniziative avranno momenti di verifica entro il mese di novembre per rafforzare e ricalibrare se necessario le iniziative di mobilitazione, non escludendo iniziative nazionali”. Tradotto: la mobilitazione parte morbida, morbidissima, ma lo sciopero generale formalmente resta ancora un’opzione praticabile più in là.

Cosa possono realisticamente ottenere? Stabilito che sulle pensioni si resta più o meno così, l’altra grande partita sono gli 8 miliardi destinati al taglio delle tasse: a stare alle posizioni espresse dai partiti in Parlamento – a cui è stata devoluta la scelta – a oggi potrebbero finire in tasca ai redditi medio-alti e alle imprese. Questo ovviamente non piace ai sindacati. Hanno un mese di tempo per strappare qualcosa per le fasce di reddito più basse: non è detto che ci riescano.

E da domani si può licenziare anche in settori in crisi e Pmi

Una miriade di piccolissime crisi, invisibili e per questo incontrollabili, che messe però tutte insieme potranno comportare una (nuova) grossa perdita di posti di lavoro. Ecco il rischio concreto che si prospetta in Italia a partire da domani. Lunedì cade infatti quel che restava del blocco dei licenziamenti economici: da ora in poi anche le imprese che ancora non potevano – tutto il settore dei servizi, le piccole ditte oltre all’industria tessile e dell’abbigliamento – potranno mettere alla porta i dipendenti e ristrutturare gli organici. Come previsto dal decreto Fiscale approvato due settimane fa, solo chi vorrà usare ancora la cassa integrazione “Covid” si auto-obbligherà a mantenere il personale al suo posto durante il periodo di fruizione, le altre avranno mano libera. Lo sblocco riguarda circa 13 milioni di lavoratori italiani, perlopiù concentrati nelle piccole aziende, che di solito sono anche le meno sindacalizzate.

Ecco un altro tassello che ricompone quello che il presidente del Consiglio Mario Draghi chiama “ritorno alla normalità”. Cgil, Cisl e Uil, oltre ai partiti di centrosinistra, non hanno avuto in questi giorni la forza di ottenere un’ulteriore proroga del blocco, imposto la prima volta il 17 marzo 2020 dal governo Conte 2.

L’esecutivo non ci ha ripensato nonostante diversi dati lascino presagire un autunno complicato. Il primo riguarda l’uso ancora elevato degli ammortizzatori sociali: l’osservatorio Inps di settembre 2021 dice che proprio il settore tessile e abbigliamento è al primo posto per numero di ore di Cig ordinaria richieste, pari a 8,1 milioni, seguito dal comparto “pelli, cuoio e calzature” con 4,9 milioni. Quanto alla cassa in deroga, al primo posto c’è il commercio con 9,8 milioni di ore, poi gli alberghi e i ristoranti con 4,2 milioni. Il turismo, peraltro, guida anche la classifica dei fondi di solidarietà, con 15,1 milioni di ore richieste. Sono le attività che, a partire dalla primavera del 2020, sono state maggiormente colpite dal Covid, e anche quelle che stanno ripartendo con maggiore lentezza. Ora avranno un’altra via per gestire le perdite: licenziare.

Il blocco dei licenziamenti, come detto, è partito nella primavera del 2020. Tra aprile 2020 e giugno 2021 – periodo tutto coperto dal divieto – in Italia abbiamo comunque avuto oltre 360 mila licenziamenti economici. Inoltre, a partire dalla fine del lockdown, sono aumentati i licenziamenti disciplinari, mai vietati e probabilmente (visto il loro boom) usati come scappatoia. La via maestra per liberarsi di lavoratori, però, finora è stato il mancato rinnovo dei precari. Il 30 giugno il blocco è stato rimosso per tutta l’industria a eccezione del tessile e per l’edilizia e subito si sono aperte diverse vertenze: dalla Gkn a Firenze alla Gianetti Ruote in Brianza, dalla Timken a Brescia alla riapertura di quella della Whirlpool di Napoli. Ancora non si può valutare l’effetto complessivo: l’unica cosa che sappiamo è che a luglio 2021 le cessazioni totali di contratti (che però possono essere avvenute anche per dimissioni) sono state 141 mila, in crescita del 22% rispetto a luglio 2020 e in linea con il dato di luglio 2019. In pratica, in un mese in cui i licenziamenti sono stati permessi solo per i 4,5 milioni di addetti di industria e costruzioni, i rapporti di lavoro cessati sono tornati al livello di due anni prima, quando era concesso allontanare lavoratori in tutti i settori.

I timori maggiori, comunque, rimangono quelli per questa seconda rimozione del divieto. Anche qui torna utile qualche numero: nel secondo trimestre 2021 le ore lavorate totali nei servizi si sono fermate a 7 miliardi e 175 milioni, scontando un ritardo di 600 milioni di ore lavorate rispetto al pre-Covid. Il commercio, il turismo e la moda sono quelli che più hanno pagato per la pandemia. Per loro il divieto di licenziare è durato tre mesi in più anche perché sono settori sprovvisti di cassa integrazione ordinaria e composti da aziende molto piccole che in genere non beneficiano di alcun ammortizzatore sociale (cosa che ha costretto a una riforma della materia, di cui si parla nel pezzo sotto). Spesso non hanno nemmeno delegati sindacali all’interno, motivo per cui tanti licenziamenti rischiano ora di passare inosservati. Oltre 7,5 milioni di persone in Italia lavorano in imprese sotto i dieci dipendenti: molti di loro da domani dovranno lottare, spesso da soli, per tenersi il posto.

Ai tiggì parlano solo i 5 vice di Conte

Un tempo, quando il Movimento muoveva i primi passi in politica, c’era il divieto di andare in tv. Poi gli esponenti 5S sono diventati presenze fisse nei servizi dei tg e negli studi televisivi. Ora arriva il “nuovo corso” anche per quanto riguarda la gestione del rapporto con l’informazione: varata la segreteria, Giuseppe Conte ha deciso che solo i 5 membri titolari dell’incarico di vicepresidente potranno parlare ai telegiornali. Una scelta che, come prevedibile, sta irritando tutti gli esclusi. L’obiettivo, spiegano all’AdnKronos, ”è armonizzare la linea comunicativa, anche in vista dei prossimi delicati appuntamenti politici come l’approvazione della legge di bilancio ma soprattutto la partita per l’elezione del presidente della Repubblica”. Nell’attesa, anche al Senato – come già alla Camera – si complica la partita per la scelta del nuovo capogruppo. Oltre al favorito Ettore Licheri, che era in pole per la riconferma, ieri ha annunciato la sua candidatura Maria Domenica Castellone.

Roma, Michetti molla (l’ha voluto Meloni)

La parabolapolitica di Enrico Michetti è durata solo quattro mesi: ieri l’ex candidato gaffeur del centrodestra a Roma si è dimesso dal Consiglio capitolino. Non farà dunque il capo dell’opposizione alla nuova giunta Gualtieri. Una scelta che è arrivata a poche ore da un’altra umiliazione pubblica: secondo il rendiconto delle spese della sua campagna elettorale, Lega e Forza Italia non hanno speso un euro per sostenere Michetti contro i 150 mila euro di FdI.

La decisione di dimettersi era nell’aria da giorni e a chiedere il passo indietro di Michetti sono stati i vertici di FdI perché l’ex candidato sindaco avrebbe tolto il posto in Consiglio comunale a Federico Rocca, fedelissimo di Giorgia Meloni, che non sarebbe stato eletto nonostante le quasi 5 mila preferenze. A volere le dimissioni di Michetti è stata soprattutto la coppia Meloni-Lollobrigida, mentre l’altro big di FdI a Roma Fabio Rampelli era contrario. Rocca è espressione dell’ala romana vicina a Lollobrigida, marito di Arianna Meloni (sorella di Giorgia), mentre gli eletti in Consiglio fanno riferimento a Rampelli. Tant’è che, dopo l’annuncio delle dimissioni, il capogruppo di FdI alla Camera ha elogiato Michetti per la “generosità” delle dimissioni. Dopo giorni di riflessione, la scelta di Michetti è arrivata mercoledì dopo un colloquio con Lollobrigida allo stadio Olimpico durante Lazio-Fiorentina. Tornerà a presiedere la Fondazione Gazzetta Amministrativa e forse anche a fare radio: “Voglio continuare ad assicurare in via prioritaria la formazione, l’aggiornamento e l’assistenza agli amministratori” ha detto Michetti pur rendendosi disponibile gratuitamente per il Campidoglio. Ora sta scrivendo un libro. Le dimissioni però hanno spaccato il centrodestra romano: se FdI difende la sua scelta, FI e Lega criticano aspramente l’ex candidato. “È poco credibile” attacca Barbara Saltamartini mentre Maurizio Gasparri parla di “scelta irrispettosa per gli elettori”.

Un’altra conferenza: Renzi parte per Baku

È appena tornato dall’Arabia Saudita, ma Matteo Renzi ha già pronto il prossimo viaggio. Tra pochi giorni volerà infatti a Baku, in Azerbaigian, dove lo aspettano per l’ennesima conferenza. Titolo: “Future of EU in the Global Stage”. Il futuro dell’Unione europea, insomma, in un panel che oltre alla presenza del senatore prevede anche la partecipazione di alcuni ex primi ministri, come il bulgaro Rosen Plevneliev e il belga Yves Leterme.

Baku è quindi la prossima tappa di un tour mondiale in cui Renzi è impegnato da qualche anno, anche grazie ad alcune agenzie (Leo Speakers Boureau e Csa Speakers, per dirne due) che gli procurano eventi a gettone con guadagni da decine di migliaia di euro per volta.

In Azerbaigian Renzi parlerà sabato 6 novembre durante il Global Baku Forum, una quattro giorni organizzata dal Nizami Ganjavi International Center, un’importante associazione creata nel 2012 per decreto del presidente azero Ilham Aliyev, al potere dal 2003 dopo essere succeduto al padre.

A garantire per Renzi ai vertici dell’associazione ci sono nomi importanti. Su tutti, l’ex ministro degli Esteri berlusconiano Franco Frattini, egregio collezionista di incarichi che compare tra i “members” dell’ente, lui che lo scorso aprile è stato nominato presidente aggiunto del Consiglio di Stato. Altro italiano attivo nel Nizami Ganjavi International Center è il diplomatico Antonio Zanardi Landi, da una vita al servizio dello Stato in giro per consolati e ambasciate: Ottawa, Teheran, Belgrado, Mosca. Con lui c’è poi Linda Lanzillotta, già vicepresidente del Senato con Scelta Civica (prima) e Pd (poi), folgorata sulla via del renzismo. Se onorerà i lavori della “sua” associazione, sabato potrà riabbracciare l’ex premier, questa volta negli abiti del conferenziere non pentito: ancora ieri, con una lettera a Repubblica, Renzi incolpava “i populisti” di Pd e M5S dell’affossamento del ddl Zan in Senato. Avvenuto mentre lui era in viaggio per l’Arabia.

Dibba scende (quasi) in campo: “Non posso darla vinta ai 5Stelle”

Se non è una discesa in campo, poco ci manca. Alessandro Di Battista riparte da Siena, dai guai del sistema bancario e dall’agonia senza fine del Monte dei Paschi. Una scelta che richiama le incursioni corsare di Beppe Grillo negli anni d’oro dei Cinque Stelle, 2013 e 2014, quando ogni assemblea di Palazzo Salimbeni diventava uno show. Quel Movimento non c’è più e Di Battista non ne nasconde la nostalgia, né l’ambizione di contenderne l’eredità: “Sono e sarò per sempre grillino”, dice. A Siena lancia il suo tour “Su la testa”: per adesso è una campagna di “opposizione extraparlamentare” visto che l’opposizione al governo Draghi “in Italia non esiste, pure la Meloni lo vuole portare al Quirinale”. Che forma prenderà l’inquietudine dell’ex deputato grillino, non lo sa ancora nemmeno lui, ma c’è più di una mezza idea. Un partito? “Sono consapevole che c’è uno spazio politico, lasciato sguarnito dal Movimento Cinque Stelle attuale, che ha bisogno di essere rappresentato. Vedremo. Dipende anche dall’entusiasmo che troverò durante questi incontri”.

A Siena la risposta è positiva, anche se Di Battista è stato prudente: per il suo primo evento ha scelto una sala da 150 posti, che sono andati rapidamente esauriti (la selezione degli accrediti è stata affidata alla “vecchia” piattaforma Rousseau). Più di qualcuno è rimasto fuori, ma per prendere le misure del reale interesse attorno alla sua iniziativa bisognerà vedere se saprà riempire palcoscenici più grandi: “Questa è la data zero – dice –. Presto torneremo in piazza”.

Con lui c’è l’ex sottosegretario Alessio Villarosa, altro esule del M5S (“Di loro stasera non voglio parlare”). Il primo intervento è dell’avvocato Paolo Emilio Falaschi, piccolo azionista di Mps. Insieme a Villarosa ricostruisce la storia dei disastri della finanza pubblica e privata che hanno massacrato la terza banca italiana. Interviene da remoto anche Tomaso Montanari, che a Siena è rettore dell’Università per Stranieri: “Ho un ruolo istituzionale e non posso prendere posizioni di parte, ma da cittadino sono molto contento di partecipare a un’iniziativa in cui si parla di beni pubblici e beni comuni”.

Nel pubblico c’è Carolina Orlandi, figlia di David Rossi, il dirigente di Mps morto suicida (secondo la contestata versione ufficiale uscita dai tribunali). Di Battista esordisce leggendo un cartellone mostrato da una persona in platea: “Ciao David”. Ringrazia i familiari presenti: “Sono profondamente convinto che non si sia suicidato”.

Poi spiega ancora le prospettive del suo impegno. La direzione sembra chiara: “A me non manca il palazzo, mi manca la politica. Non potevo non lasciare il Movimento Cinque Stelle”. Scatta l’applauso più convinto. “Mi è costato molto anche sul piano personale, mi ha fatto perdere degli amici, che all’improvviso mi hanno ritrovato oltre la linea del nemico. Ma il Movimento non esiste più e non voglio dargliela vinta. Vediamo cosa riusciamo a fare, come va questo tour. Vediamo la partecipazione”. Segue la chiamata alle armi: “Vi chiedo una mano e un supporto per organizzarci, se questa iniziativa dovesse davvero crescere, immaginate che genere di attacchi potranno arrivare. Ma ora ho le spalle più larghe”.

Nei confronti di Giuseppe Conte mantiene parole gentili: “È stato sostituito con Draghi per la debolezza della politica e per la forza dei poteri antidemocratici. Ad anticiparmi questa operazione fu un attuale ministro di Draghi nell’estate del 2020. L’esecutivo di Conte aveva dei limiti, sapete che non ero un grande fan, ma almeno era un governo politico e aveva una sensibilità sociale”. Con lui – garantisce – “il rapporto è sempre buono”. Ma la sfida è lanciata. Quella di Di Battista non è un’“opa ostile”, per restare in tema finanziario: è un’opa e basta. Quante “azioni” grilline sia in grado di contendere, lo diranno i prossimi mesi.

Il trucchetto del referendum leghista passato “senza” firme

“Ame piacciono le sfide, l’obiettivo non sono 500 mila firme ma ne raccoglieremo un milione. Che per sei quesiti fa sei milioni”. Matteo Salvini a inizio giugno non poneva limiti alla campagna referendaria promossa da Lega e Radicali sulla giustizia: sei quesiti iper-garantisti che, tra le altre cose, riguardano la responsabilità civile dei magistrati, la separazione delle carriere, lo svuotamento della custodia cautelare e l’abolizione della legge Severino. Tre mesi dopo la Cassazione ha accolto la richiesta di referendum: non sulla base delle firme raccolte ma sulla richiesta di otto Consigli regionali tutti a trazione centrodestra (Lombardia, Veneto, Friuli-Venezia Giulia, Umbria, Sicilia, Basilicata, Liguria, Piemonte). Tre mesi di banchetti, firme, volantini e pubblicità in tv buttati alle ortiche. Le firme raccolte in via Bellerio non saranno depositate in Cassazione. Con un’incognita: il vaglio della Corte Costituzionale che entro il 20 gennaio deciderà se ammettere o meno ogni quesito. E non è scontato che ciò avvenga.

La Costituzione infatti impedisce espressamente solo i referendum abrogativi sulle leggi tributarie, di bilancio, amnistia, indulto e ratifica di trattati internazionali ma negli ultimi decenni la giurisprudenza costituzionale ha individuato altri limiti impliciti. Incerto, per fare un esempio, è il vaglio del quesito sull’abolizione della legge anti-corruzione Severino che è vincolata da accordi internazionali che l’Italia ha sottoscritto. Se la Consulta decidesse di dare il via ai quesiti, il referendum si terrà tra il 15 aprile e il 15 giugno 2022 a meno che nel frattempo non vengano sciolte le Camere: in quel caso tutto sarà rimandato a dopo le elezioni.

La notizia del via libera della Cassazione ai sei quesiti è stata data dalla Lega nella serata di venerdì. In totale, a quanto si apprende da via Bellerio, le firme raccolte sono state tante: 4.275.000 e tra le 770mila e le 775mila a seconda del quesito. Non solo: a queste ne vanno aggiunte 18 mila elettroniche. Di queste il partito Radicale ne ha raccolte solo 25 mila, una cifra che evidenzia la difficoltà del partito che fu di Marco Pannella a mobilitarsi e anche il ruolo fondamentale della Lega per raccogliere le sottoscrizioni. Che, stando alle veline di via Bellerio, sono tante. Numeri paragonabili alle 630 mila firme depositate per il referendum sulla liberalizzazione della cannabis e alle 1,2 milioni sull’eutanasia.

E allora perché non depositarle dopo una estenuante campagna di tre mesi allungata al 30 ottobre proprio grazie a un emendamento ad hoc fatto approvare dalla Lega nel decreto Semplificazioni? Perché non dare ancora più legittimazione politica a un referendum su cui Salvini ha puntato molto facendosi forza delle oltre 4 milioni di firme raccolte? Tutte domande che resteranno senza risposta. Facendo crescere i sospetti che questi numeri in realtà siano più bassi e che ci siano problemi di certificazione delle firme. Dalla Lega però fanno sapere che i moduli con le firme sono stati distribuiti “in ben 368 scatoloni che hanno riempito tre furgoni” e che “ci sono anche sei hard disk che contengono le firme digitali e i certificati elettorali”. I sospetti però rimangono perché rinunciare a depositare le sottoscrizioni farà perdere a Lega e Radicali il potere di essere un “comitato promotore” del referendum che quindi passerà in mano ai Consigli regionali: i due partiti quindi perderanno la possibilità di avere spazi pubblicitari e anche di poter accedere a un rimborso di 500 mila euro massimo (uno per ogni firma). Un bel malloppo considerando il periodo di vacche magre che stanno vivendo i partiti politici.

Il via libera dei 5 Consigli regionali inoltre non è in contrasto con la presentazione delle 500 mila firme per ogni quesito. Si può fare l’una e l’altra cosa per dare più legittimazione ai referendum. E la Cassazione avrebbe vagliato entrambe le richieste. Ma, fanno sapere fonti di via Bellerio, questo “avrebbe significato perdere tempo e soldi in più”. E quindi perché perdere anche tre mesi a raccogliere le sottoscrizioni? Non è dato saperlo.

La decisione di non presentare le firme però ha fatto infuriare molti dirigenti e miltanti leghisti che hanno criticato il capo sui social e nelle chat interne al partito. “Ma come? – si chiede Annamaria – Abbiamo perso tre mesi di tempo per organizzare i banchetti con qualunque condizione meteo e poi non consegniamo le firme?”. Anche Maurizio Turco, segretario dei Radicali, è imbarazzato: “Dopo la decisione della Cassazione aveva ben poco senso depositare le firme – ha detto al congresso a cui ha partecipato Salvini– L’iniziativa era comune e si decide insieme nella buona e nella cattiva sorte”. Poi ha annunciato un “piano B”: una proposta di legge popolare sugli stessi argomenti per cui bastano 50 mila firme. Nei referendum leghisti ci crede poco anche lui.

La tassa globale premia i furbi e penalizza i Paesi più poveri

Storico, inadeguato, al di sotto delle aspettative: l’accordo sulle nuove regole di tassazione delle multinazionali su cui i leader del G20 ieri hanno aggiunto il loro sigillo al summit di Roma ha suscitato reazioni contrastanti. Le finalità del processo di riforma che ha visto 140 Paesi coinvolti in un lungo ed estenuante negoziato in sede Ocse erano più che condivisibili.

Il primo obiettivo era minimizzare le pratiche di elusione fiscale delle corporation. Oggi una multinazionale può trasferire gli utili realizzati in un paese a fiscalità medio-alta, come l’Italia, verso paradisi che non assoggettano a tassazione i redditi d’impresa, come le Bermuda, o con regimi fiscali preferenziali, come l’Irlanda. Il risultato? Un vantaggio competitivo indebito dei colossi e gravi ammanchi erariali per i paesi: il costo dell’elusione fiscale internazionale è stato stimato dagli economisti Tørsløv, Wier e Zucman in oltre 200 miliardi di dollari nel 2018, con un ammanco di 7,6 miliardi per il nostro Paese.

Il secondo obiettivo era quello di trovare risposte adeguate alle sfide poste al fisco dalla digitalizzazione dell’economia. La commercializzazione “da remoto” di prodotti o servizi digitali (come le inserzioni pubblicitarie di Facebook e Google) non prefigura, spesso, una “presenza fiscale” in un paese e il suo diritto a tassare gli utili lì generati.

Per disincentivare le strategie elusive la riforma prevede l’assoggettamento delle multinazionali a un livello minimo di tassazione effettiva (15%) in ciascun paese in cui operano. Semplificando, se gli utili registrati in Irlanda da una società di un gruppo multinazionale italiano risultassero tassati meno del minimo concordato, l’Italia avrebbe diritto di tassarli ulteriormente, fino al 15%, ricavandone extra-gettito. La misura è apprezzabile, restringe la concorrenza fiscale dannosa e sposta la competizione tra paesi su altri fattori come la qualità delle infrastrutture, gli investimenti nel capitale umano ecc.

Il livello di ambizione è però modesto. Fissando l’aliquota al 15% vengono “normalizzate” le aliquote esistenti in alcune giurisdizioni “paradisiache” come Irlanda e Singapore e si corre il rischio di vedere trasformata l’attuale corsa al ribasso in una corsa verso il nuovo minimo. Il livello di tassazione minima effettiva sarà poi comunque inferiore al 15% grazie alla previsione di generose deduzioni, decrescenti nel primo decennio di applicazione fino a una soglia concordata, legate al valore delle immobilizzazioni materiali (beni tangibili) e i costi del personale.

L’extra-gettito della misura sarà poi appannaggio dei paesi di residenza delle multinazionali. La parte da leone, secondo una recente nota dello European Tax Observatory, spetterà agli Usa (+51,2 miliardi di euro nel primo anno e +53,4 a regime dopo i primi 10 anni, caratterizzati da una graduale riduzione delle deduzioni) e all’Ue (+63,9 miliardi in avvio e +71,5 miliardi a regime). Appena 600 milioni la quota di introiti extra per i paesi a medio-basso reddito. Per l’Italia l’extra-gettito sarà tra 2,3 miliardi di euro iniziali e 2,6 a regime. Senza le deduzioni raccoglieremmo 3,1 miliardi con l’aliquota minima al 15%. Con l’aliquota fissata al 21% (come inizialmente auspicato dagli Usa) o al 25% (come perorato da Oxfam e dalla Commissione Icrict) avremmo avuto rispettivamente 8,3 e 12 miliardi.

La riforma prevede poi la redistribuzione di una quota di utili globali delle multinazionali più grandi e redditizie a favore dei paesi in cui commercializzano beni e servizi, proporzionalmente alle vendite lì realizzate. Si può finalmente considerare una multinazionale come un unicum (e non un insieme di entità separate) ai fini fiscali e parlare di un imponibile globale da frazionare tra diversi paesi? Si può, dice l’accordo, trasgredendo un tabù di lungo corso. Purtroppo però le nuove regole varranno per appena 70-100 multinazionali, l’entità degli utili distribuiti è limitata e per di più subordinata a una forte condizionalità: l’impegno a eliminare e non introdurre in futuro alcuna forma di imposta sui servizi digitali (come la web tax italiana) che molti paesi hanno implementato per intercettare i profitti “eterei” delle multinazionali. Per l’Italia l’accordo potrà probabilmente compensare il gettito della web tax, destinata all’abrogazione, anche se i suoi pagamenti nel periodo transitorio potranno essere detratti dalla futura imposta sulla porzione di utili globali allocati all’Italia. Lo ha sancito il recente accordo tra Italia e Usa che il nostro paese ha firmato sotto la spada di Damocle delle sanzioni commerciali.

Ancora più certo è che i paesi emergenti riceveranno poche briciole. Secondo stime di Oxfam e Oxford Economics per 52 Paesi più poveri, parliamo in media di 10 milioni di euro annui di extra entrate. L’accordo, pur con ambizioni ridimensionate, è sicuramente un passo in avanti, ma la strada per una riforma più equa e inclusiva è ancora lunga.

 

I “migliori” omaggi: donne, dittatori e test gratis per tutti

L’Italia si è risvegliata Caput Mundi. E questo lo abbiamo capito, constatando l’enfasi – e la poca fantasia – che contagia i principali giornali italiani durante i giorni del G20 a Roma. Quel che non ci aspettavamo era di ricevere alcune illuminazioni solo in apparenza secondarie: dittatori che non lo erano, first lady che pur controvoglia tengono alto l’onore del Paese e soprattutto un Mario Draghi tre stelle Michelin (“Tutti pazzi per la carbonara di Draghi”, titola Repubblica).

Il tutto con una certa opulenza, ostentata da corposi buffet a disposizione di ospiti e giornalisti. Di più: la presidenza italiana omaggia le delegazioni straniere con una magnum di Amarone o in alternativa, con delicatezza per i partecipanti musulmani, di Olio extravergine ligure assieme a un pacco di caffè. Coldiretti, di solito molto severa, approva: “La scelta non è solo un’importante azione di promozione del Made in Italy agroalimentare all’estero, ma anche un preciso segnale politico a difesa della dieta mediterranea”. Buono a sapersi.

La battaglia culinaria non deve però far dimenticare un altro grande successo del G20: “L’Italia ha messo l’empowerment femminile al centro del G20”, sentenzia Draghi. Un po’ come l’anno scorso o due anni fa, quando il summit tenuto in Giappone aveva “l’obiettivo di accelerare la leadership e l’empowerment delle donne”.

Basta una foto di gruppo dei leader per capire la portata di quell’accelerazione: ancora oggi tra i grandi della Terra ci sono solo due donne. Una è la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, l’altra, Angela Merkel, è al suo ultimo vertice prima del cambio di governo. Le altre donne presenti aspettano l’empowerment servendo il proprio Paese come first lady. E non lo diciamo certo sottovalutandone il ruolo, come insegna La Stampa: “Tailleur austero e abbraccio a Jill, gli onori di casa di Lady Draghi”. Repubblica va ancor più nello specifico, onorando le gesta di Donna Serena: “Questo debutto se lo sarebbe volentieri risparmiato. E tuttavia quando il dovere chiama, beh, l’imperativo, la coscienza, lo stile e comunque la scelta di famiglia è di prendere un bel respiro e di mettersi a disposizione”.

Per il bene del Paese (“Draghi e Biden: la democrazia funziona”, ci tranquillizza La Stampa), questo e altro. Anche se, a proposito di democrazia, il G20 deve fare i conti con un paio di ospiti spigolosi. Ad aprile Draghi definì il premier turco Erdogan “un dittatore”, spronando i presenti a “chiamare queste persone per quello che sono”, senza più ipocrisie. Di ieri la stretta di mano tra i due a favore di telecamera, ché di incidenti diplomatici ne è già pieno il mondo. Molte scuse e un po’ di pazienza. Tra l’altro a Roma è arrivato pure il sultano del Brunei Hassanal Bolkiah, con la fortuna di poter risiedere nel lussuosissimo Hotel Eden di sua proprietà. Due anni fa si parlò molto di Bolkiah perché il sultano inviò una lettera al Parlamento europeo spiegando di dover introdurre la pena di morte per lapidazione nei confronti dei gay, con l’obiettivo di “salvaguardare la sacralità della discendenza familiare”. Mosso da compassione, un paio di settimane più tardi Bolkiah revocò la legge. Oggi i grandi del mondo lo ringraziano per tanta bontà.

Dirà Draghi invece se condivide l’appellativo di “dittatore buono” spesso accostato a Paul Kagame, leader del Rwanda dal 2000 e considerato dall’Occidente un prezioso pacificatore di quell’area. Nel dubbio, Kagame da anni ha avviato ricche sponsorizzazioni in Europa. Per accorgersene basta dare un’occhiata alla scritta in maiuscolo sulla maglia da riscaldamento del fortissimo Paris St. Germain: “Visit Rwanda”. Anche in pieno Covid, se i tamponi funzionano come nell’area del G20: gratuiti per tutti. In omaggio insieme all’Amarone.

Il G20 delle banalità: clima senza accordo, chiacchiere sul Covid

Il premier indiano Narendra Modi arriva alla Nuvola dell’Eur e abbraccia Mario Draghi, dopo essere stato dal Papa e prima del bilaterale con il francese Macron. È una delle immagini che raccontano di più del G20 di Roma. Perché la bozza sul clima alla quale gli sherpa hanno lavorato anche questa notte sarà sufficientemente generica da non contemplare impegni stringenti. E dunque Modi diventa una specie di guest star, colui che dovrebbe rompere il muro costruito a Oriente contro il tentativo di Usa e Ue di limitare il riscaldamento globale a 1,5 gradi. Anche se nelle conclusioni che giravano ieri sarebbe sparita la deadline del 2050 per arrivare ad azzerare le emissioni, il che lascerebbe liberi di arrivare al 2060 come richiesto proprio da India e Cina.

D’altra parte Boris Johnson per sottolineare che se non si salva il clima “finiremo come l’antica Roma” si fa fotografare tra le rovine più illustri, quelle del Colosseo. E a Draghi lo ribadisce in bilaterale: la Cop26 che inizia stasera a Glasgow non ha alcuna possibilità di concludersi con successo, senza un accordo significativo a Roma.

I Grandi si riuniscono in una sala ovale. Draghi, con alle spalle Daniele Franco e Luigi Di Maio, apre il summit con la celebrazione di un “multilateralismo” che mostra le corde. Se Italia e Usa ci tengono a esibire un’intesa di ferro, il russo Putin e il cinese Xi Jinping in presenza non ci sono. In compenso, il ministro degli Esteri cinese Wang Yi si fa precedere da un comunicato in cui avverte Usa e i suoi alleati di non “interferire” negli affari di Taiwan. Tutto il resto sono chiacchiere. E mentre il premier italiano – nonostante gli enormi limiti del programma Covax – annuncia l’obiettivo di raggiungere entro il 2022 il 70% dei vaccinati nel mondo, Xi invita la comunità a smettere di insistere sull’origine del virus. Con buona pace di chi spera di sottrarre l’Oms dall’influenza cinese. Come Ursula von der Leyen, presidente della Commissione Ue, che incontra a lungo il direttore generale Todros.

La stessa Ursula viene immortalata mentre stringe la mano a Erdogan. Tutto è perdonato, Sofagate compreso, quando lui, durante un incontro ufficiale Ue-Turchia, la lasciò senza sedia. La riabilitazione del Sultano è suggellata da un bilaterale con Draghi inseguito per mesi dalla diplomazia italiana (con gli americani in pressing), dopo che l’ex banchiere gli aveva dato del “dittatore”. Del caso i due non parlano, ma della necessità di rafforzare le relazioni bilaterali sì. Così come di Afghanistan e di stabilità del Mediterraneo, Libia in testa. Tra ricatto sui migranti e presenza nella Nato ce n’è abbastanza per far parlare a Palazzo Chigi di “incontro costruttivo”. L’Europa cerca una difesa comune, l’Italia guida la linea della sua complementarietà all’Alleanza atlantica. Il Sultano è necessario.

Dato il contesto, i toni sulla minimum tax sono trionfali. “I leader che rappresentano l’80% del Pil mondiale hanno dato il loro chiaro sostegno ad una forte global minimum tax”, twitta Biden in persona. Peccato che la decisione fosse di luglio. A margine si lavora per far entrare gli Usa in un nuovo accordo nucleare con l’Iran (lo aveva fatto Obama, l’ha smontato Trump). Si incontrano Biden, Johnson, Macron e Angela Merkel. Mancano gli altri membri del formato 5+1 (Russia e Cina). Il desiderio di Biden in tal senso è meglio di niente. A proposito di verità nascoste, Draghi chiede conto al presidente del Congo delle indagini sulla morte dell’ambasciatore, Luca Attanasio. Bolsonaro, viceversa, sproloquia sulle presunte montature mediatiche dello stato della pandemia in Brasile. Poi, tutti (tranne Biden) alle terme di Diocleziano dove li aspetta Mattarella. Prima dell’ora solare, è l’ultima occasione di vedere Roma al tramonto. Priorità.