Lo fanno per i gggiovani

Basta contare le 50 (cinquanta!) auto blindate sputazzanti del corteo di Biden che da giorni sfrecciano per Roma, senza calcolare quelle degli altri 19 presunti “grandi”, delle loro first lady, più tutte le vetture e gli elicotteri delle forze dell’ordine, per capire che né questo G20 né gli altri summit faranno mai nulla contro i cambiamenti climatici. Perché chi dovrebbe risolvere il problema è esso stesso il problema. Eppure, se c’è un tema che potrebbe avvicinare i giovani alla politica, è proprio l’ambiente, vedi il successo dei Fridays For Future. Ma la postura di “quelli che contano” verso quei giovani è plasticamente effigiata dall’ultima intervista del ciarliero e inconcludente ministro della Transizione Ecologica, Roberto Cingolani, secondo cui “Greta dovrà evolvere”, perché “lei fa ‘bla bla bla’”, mentre lui e il governo han “voglia di accelerare”. Sul nucleare, sull’idrogeno blu, sul gas e su tutte le energie sporche e non rinnovabili. E ovviamente sulla plastica, visto che la Plastic Tax è stata rinviata un’altra volta: un altro bel messaggio ai giovani, come se non bastassero quelli di Draghi e della sua consulente Fornero sulle pensioni (“pensiamo ai giovani, ai lavoratori di domani”).

Farà piacere, ai giovani, scoprire di essere un’arma di distrazione di massa e un oggetto contundente contro i loro padri, madri e nonni. E figurarsi la loro soddisfazione nell’apprendere che chi vuole riallungare l’età pensionabile e tornare al contributivo secco lo fa per loro. Soprattutto se a dirglielo sono i partiti di destra e di sinistra, che da 25 anni sfornano precarietà a piene mani (dalla legge Treu alla Biagi-Maroni), e i Migliori che hanno svuotato il dl Dignità, cancellato dal Pnrr il salario minimo, smantellato il cashback e il Bonus 110% (fondamentali contro l’evasione e il lavoro nero) e trasformato il Reddito di cittadinanza da incentivo ad assumere a tempo indeterminato in istigazione al precariato (d’ora in poi le 5 mensilità di Rdc per ogni assunto non andranno più solo a chi assume con contratti stabili, ma anche a chi lo fa per pochi giorni). Questo cocktail micidiale di lavori saltuari e spesso al nero, salari da fame senza tetti minimi e sistema contributivo senza deroghe per i periodi di inattività involontaria avrà un solo risultato: “il 60% di chi è entrato nel mondo del lavoro negli anni 90 avrà una pensione inferiore alla soglia di povertà” (Felice Pizzuti, docente alla Sapienza), mentre chi ci è entrato dopo ha ottime probabilità di non vederla proprio. Il tutto grazie a chi ha usato e continua a usare “la previdenza come un bancomat” (ancora Pizzuti) e i giovani come manganelli per menare gli anziani. Se chi li nomina invano dovesse pagare ogni volta una tassa, saremmo tutti miliardari.

Il mercato si può ristrutturare: come se ristrutturassimo “Downton Abbey”

Prende a prestito L’avvenire di un’illusione di Sigmund Freud, Fred L. Block nel suo approccio al capitalismo. Nel caso del fondatore della psicanalisi l’illusione era rappresentata dalle religioni che “raccontano storie inventate che fanno perno su alcuni dei conflitti psicologici più dirimenti dell’esistenza umana”. E di storie inventate ce ne sono tante nel capitalismo odierno capace di edificare un castello di illusioni tra cui, la più ampiamente diffusa è che si viva in una società priva di alternative.

Da termine negativo, almeno fino a tutti gli anni 60 e in parte i ’70, il capitalismo ha cominciato ad assumere un profilo positivo, ineluttabile, condiviso da tutte le forze politiche, di destra e di sinistra, al punto da non immaginare più spazi di manovra per le loro politiche. È il prodotto di quella che Block – sociologo statunitense di lungo corso in questo libro presentato dall’economista Emanuele Felice che è stato responsabile economico del Pd durante la segreteria Zingaretti – definisce “cattura cognitiva”, cioè l’assunzione integrale delle ipotesi che si mettono sotto osservazione. Anche il populismo à la Trump è catturato cognitivamente dal capitalismo sulla base di tre dogmi immutabili: il controllo del debito, la riduzione dei controlli all’attività privata e il potere assoluto alle Banche centrali.

Block dipana il suo lavoro in una decostruzione di questa illusione sostenendo invece che l’economia di mercato sia piuttosto “un edificio”, un po’ come Downton Abbey, la cui ristrutturazione può assumere molte forme. Muovendo dalle idee di Karl Polanyi, Albert Hirschman, Robert Hale, Margaret Somers, propone una razionalizzazione attorno a due pilastri: il credito all’economia controllato da istituzioni pubbliche e un “reddito garantito globale” come possibilità di vita dignitosa. Ipotesi già in circolazione, ma inserita in una stimolante dissezione del moderno capitalismo.

 

Capitalismo. Il futuro di un’illusione Fred L. Block – Pagine: 288 – Prezzo: 16 – Editore: Il Mulino

 

“Conosco appena una regola: tocca essere buoni, c…”

Se volessimo narrare la parabola di Kurt Vonnegut, guardando il bicchiere mezzo vuoto, diremmo che è stato sfortunato. Morire, infatti, dopo essere inciampati nel guinzaglio del proprio cane è pura fatalità e supera per fantasia il desiderio di andarsene, potendo scegliere, in un disastro aereo sul Kilimangiaro.

Morte e sofferenza ne hanno segnato la strada fin dall’infanzia. Classe 1922, origini tedesche, trasferitosi a sette anni a New York, vive il dramma della Grande Depressione, il suicidio della madre, la prigionia a Dresda. Da simili esperienze si esce a pezzi – si sentirà per sempre un superstite – e le opzioni sono due: o si implode o le si trasforma in qualcosa che migliori noi stessi e gli altri. Ci provò, a farla finita, ma la verità, vedendo invece il bicchiere mezzo pieno, è che scelse di esorcizzare i propri demoni con la scrittura, dissacrante, ironica, tagliente, con sfumature fantastico-fantascientifiche, lente per raccontare la realtà con occhio tanto critico quanto umano.

Affermazioni come “Il compito dell’artista è far piacere di più la vita alla gente”; “Quando le cose vanno bene fermatevi un attimo e dite a voce alta: cosa c’è di più bello di questo?”; “Risata e lacrime sono risposte a frustrazione ed esaurimento. Io preferisco ridere, dato che c’è meno da pulire dopo” simboleggiano il suo approccio, come testimoniano anche i commencement speeches per laureandi universitari di Quando siete felici, fateci caso, gioielli di humour e amore per il tempo che ci è concesso.

Se un guinzaglio gli è costato la pelle a 84 anni, un mattatoio gliel’ha salvata. Il titolo che lo ha reso celebre, e anche il più autobiografico, Mattatoio n. 5, uscito nel ’69, in piena guerra del Vietnam, fa riferimento a una grotta sotto un mattatoio adibita a deposito di carne, in cui trovò rifugio mentre Dresda veniva polverizzata. Protagonista il caporale Pilgrim, suo alter ego, in viaggio nel tempo: un momento è a casa sul divano, poi è nel mezzo della battaglia delle Ardenne e ancora rapito dagli alieni. Alieni con una visione precisa: “Tutto il tempo è tutto il tempo. Non cambia. Non si presta ad avvertimenti o spiegazioni. È, e basta”, dicono. Insomma il libero arbitrio per Vonnegut non esiste, le cose vanno come devono andare. Ma come diventò scrittore? Fortuna o destino vollero che un fotografo con cui lavorava alla General Electric a New York, impiego che detestava, gli suggerisse di spedire alcuni racconti a un commilitone suo amico, fiction editor a Collier’s. Gli andò bene. Nell’epistolario Tieniti stretto il cappello, appena uscito per Bompiani, a coprire un arco di 60 anni, Vonnegut è matto di gioia quando nel ’50 vende il suo primo racconto per 750 dollari. “Credo di essere sulla buona strada” scrive al padre. Entusiasmo a parte (aveva giurato che sarebbe diventato scrittore) a casa ci sono una moglie e sette figli, tre della sorella morta di cancro, da gestire, quindi bando alle illusioni. Aveva bisogno di lavorare e che fosse come agente immobiliare o in una concessionaria di auto poco importava. Molti giovani avevano sogni letterari, ma Kurt aveva anche disciplina e umiltà. Sapeva che era giusto che, agli inizi, nessuno toccasse la sua “roba nemmeno coi guanti di gomma”.

Influenzato da Orwell e Huxley, da Swift e Twain, raccontava quello che altri tacevano, in primis l’orrore per la guerra. In Ghiaccio nove accusa l’indifferenza degli scienziati rispetto alle scoperte che hanno portato all’atomica di Hiroshima e Nagasaki, in Perle ai porci l’ultimo erede di una ricca casata, traumatizzato dall’esperienza del secondo conflitto, comincia a prestare servizio come pompiere (anche Vonnegut lo fece!) e a dispensare soldi ai bisognosi. Tutti credono sia impazzito! La norma è che nessuno faccia niente per niente, la generosità è così sintomo di follia.

Nulla fu facile per lui, niente lo scoraggiò. Non i redattori ed editori che lo cassarono, non la facoltà di Antropologia di Chicago che gli bocciò due tesi, non la zia libraia che considerava le sue opere immorali, non i consigli d’istituto che ne mettevano al bando i libri senza averli mai letti, non i critici invidiosi del suo crescente successo. Non si abbatté né si fece intaccare dal livore. Del resto era solito dire: “Di regole io ne conosco una sola: bisogna essere buoni, cazzo”.

“Solo l’idea del suicidio rende la vita degna”

Fernando Aramburu, scrittore basco consacrato dal successo di Patria – romanzo corale su due famiglie lacerate dalla parabola terroristica dell’Eta – torna in libreria con settecento pagine che, lungo le strade di Madrid, sublimano in un taglio narrativo il celebre assunto di Camus: “C’è soltanto un problema filosofico davvero serio, il suicidio”.

I rondoni, che esce per Guanda con la traduzione di Bruno Arpaia, ha al centro del palcoscenico Toni, professore di Filosofia in un liceo. Una tribù di familiari amici conoscenti, ignara del suo proposito di togliersi la vita, entra via via in scena a scandire una cronaca personale che comincia nel mese di agosto e che ha la sua fine programmata il 31 luglio successivo. Dodici mesi per prepararsi a un commiato che lo galvanizza: “Adesso sì che ritengo davvero che la vita meriti di essere vissuta. La certezza del suicidio me la rende appetibile”.

A 54 anni Toni è un disilluso, recita come preghiere le poesie di Lorca e Machado, adora “le giornate insulse, di deliziosa monotonia” e spesso alza gli occhi al cielo per seguire i rondoni che, passando la maggior parte del tempo in volo, sono un modello a cui aspirare: “Non toccare il suolo, non sfiorare nessuno”. Vessato dalla preside e appena tollerato da “quelle bestie comunemente chiamate alunni”, per Toni le lezioni sono un inferno da amministrare con il minimo sforzo. La filosofia sopravvive nella sua Moleskine, fitta di citazioni trascritte, e nei volumi della sua biblioteca che dissemina sulle panchine nel corso delle sue peregrinazioni. Prigioniero di risentimenti ferocissimi, questo professore con un padre comunista morto in giovane età e una madre malata di Alzheimer che si spegne in un ospizio, coltiva un rapporto di perenne ostilità con il fratello Raulito. Il suo privato è letteralmente in frantumi. Divorziato da Amalia, conduttrice radiofonica e ora lesbica tormentata, Toni convive con Tina, una bambola sessuale che non lo delude mai “con la sua lingerie seducente e il suo sguardo immobile”. Sopporta la paternità “come si sopporta una gobba” e non ha granché stima del figlio Nikita, sguattero di cucina in un bar, che vive in una casa occupata da giovani estremisti. Un microcosmo in bilico tra dramma e farsa, con tanto di bigliettini anonimi che lo perseguitano, prostitute che tentano di imbrogliarlo e una donna di nome Águeda che, respinta a suo tempo, ritorna a molestarlo.

A fare da vero controcanto è un amico caustico e irriverente, che conosce il suo segreto di aspirante suicida tanto da consegnargli in pegno un sacchettino di cianuro. Bellagamba, questo il soprannome che Toni a sua insaputa gli ha attribuito, ha perso un piede negli attentati dell’11 marzo 2004 alla stazione ferroviaria di Atocha. Se è vero che “l’odio che ha nutrito nella sua vita non è stato di buona qualità”, Toni si consola con il cane Pepa, affettuosa testimone della sua quotidianità stralunata. “Sono venuto al mondo senza domande, me ne andrò senza risposte” medita a volte con il sorriso mite di un Platone, a volte con il broncio di uno Schopenhauer. I rondoni non tornano forse ogni primavera? Assaporare un addio non è forse un modo di restare?

I rondoni Fernando Aramburu – Pagine: 720 – Prezzo: 22 – Editore: Guanda

Thilliez, l’ingegnere del thriller francese “costruisce” un altro rompicapo perfetto

Julie Moscato è stata inghiottita dal bosco in un giorno del marzo 2008. Il papà Gabriel era un gendarme di Sagas, paesino della Savoia. Gabriel ritorna qui dal nord, da Lille, nel novembre del 2020. Va a dormire in un cupo albergo sovrastato da rocce enormi, dove la figlia lavorava. Si risveglia alle due di notte. Dal cielo nero piovono storni che si sfracellano ovunque. Spaventati da qualcosa, gli uccelli sono impazziti e si scontrano tra loro. Gabriel si riaddormenta. Al mattino ha perso la memoria. Allo specchio non si riconosce più. È convinto che sia l’aprile del 2008, non l’autunno del 2020. Una forma rara di amnesia, definita psicogena atipica. L’uomo è imprigionato nel passato, fermo alla scomparsa della figlia senza più ricordi.

Da questo momento in poi deve soprattutto cercare se stesso. Che cosa ha fatto negli ultimi dodici anni? Ad aiutarlo è il suo ex migliore amico, Paul, tuttora gendarme. Da Paul, Gabriel viene a sapere che non è più poliziotto e che la sua presenza non è gradita. Moscato ora vive tra Lille e Bruxelles e indaga ancora sulla figlia Julie. Con C’era due volte, Franck Thilliez, ingegnere informatico, si conferma il mago del thriller francese. Come già Il manoscritto, anche questo romanzo è un labirinto che rasenta la perfezione. Il lettore rimane sbalordito dai colpi di scena che irrompono pagina dopo pagina, lasciando senza fiato. Così l’ansia di sapere, di conoscere, tipica di chi ama la letteratura del mistero, diventa ossessiva. Lo stile di Thilliez è nero e chiaro, con un’inclinazione vincente al macabro. E tante sono le citazioni dei maestri del genere, dalla nostra amata Agatha Christie ad Alfred Hitchcock. E se due anni fa parlammo del Manoscritto come di 500 pagine formidabili senza il finale (come il sesso senza l’orgasmo) stavolta il problema è risolto, ché i due gialli si fondono – Il manoscritto e C’era due volte – in una trama esemplare.

 

C’era due volte Franck Thilliez – Pagine: 491 – Prezzo: 18,50 – Editore: Fazi

Kubrick “Through a different lens”: il fotografo nato prima del regista

Chi ha diviso il set con Stanley Kubrick (1928-99) racconta che era un regista capace di passare ore a studiare un’inquadratura, a curare i particolari dell’immagine: la prospettiva, l’illuminazione, la posizione degli attori e degli oggetti. Se dunque ogni suo film può essere ammirato come un album di inquadrature è perché prima di Shining e Arancia meccanica, di Lolita e Paura e desiderio, il giovane Stan fu un promettente fotografo. E al Magazzino delle idee di Trieste, una mostra (fino al 30.01) dal titolo emblematico Through a different lens (© Museum of the City of New York and Stanley Kubrick Film Archives) ci racconta “da una prospettiva diversa” la primavera del regista.

Ebreo cresciuto nel Bronx, la prima macchina fotografica gliela regala il padre a 13 anni, quando era ancora appassionato di scacchi e batteria, e subito impara i rudimenti tecnici per mettere a fuoco e sviluppare. Ha 17 anni quando tra i banchi della Taft High School fotografa il suo professore mentre si atteggia a recitare in classe l’Amleto. Con la sua Rolleiflex al collo, porta quegli scatti alla rivista Look – avversaria meno patinata di Life – e incuriosisce l’allora photoeditor. La sua prima foto pubblicata, che possiamo ammirare esposta, risale al 1945 e ha come soggetto un edicolante disperato per la notizia della morte del presidente Roosevelt. Asciutto e ironico insieme, Kubrick ha successo perché cattura il sentimento di un istante: l’erotico desiderio di due amanti che si baciano nei corridoi della metro (Life and Love on the New York City Subway, 1946); l’imperturbabilità dell’uomo-attrazione di un circo (Circus Man, 1948); la ricerca di pace del pugile Walter Cartier prima di un match (Prizefighter, 1948). Ed è proprio con Cartier che cambierà prospettiva. Decide di filmare la sua giornata prima di un incontro e ne sgorga il suo primo corto: The Day of the Fight. Lasciata la macchina fotografica per la cinepresa, l’immagine in movimento lo conquista: dalle ceneri del fotoreporter ecco che nasce il Kubrick regista.

Danza in cameretta con “Ginger e Fred”

La sensibilità è sopravvalutata, in teatro poi… Eppure, c’è ancora chi osa dire: “Che fatica essere sensibili, che ostacolo l’intelligenza”. Figuriamoci la stupidità. Questi sono i risultati se si tratta “il camerino come la propria cameretta”: l’ultimo lavoro di Daria Deflorian e Antonio Tagliarini è autoreferenziale ai limiti dell’ininfluenza; cosa importano, infatti, allo spettatore le paturnie dell’attore, in pandemia o no?

Nata proprio come “ballata dedicata agli artisti”, la pièce è la seconda di un dittico ispirato a Ginger e Fred di Federico Fellini: dopo Sovrimpressioni_ROMA, ecco dunque Avremo ancora l’occasione di ballare insieme, che ribalta la celebre frase del film per dare vita – scrivono i due autori-registi – “al desiderio (degli interpreti, ndr) di essere un altro, alla loro determinazione a giocare”. La drammaturgia è collettiva, firmata da Deflorian e Tagliarini insieme con gli altri quattro compagni di scena: Francesco Alberici, Martina Badiluzzi, Monica Demuru, Emanuele Valenti. Appaiati in tre coppie di età differente – una di 60enni, una di 45enni e una di 30enni –, gli attori fanno il loro ingresso come sei sparuti personaggi in cerca d’autore: la sala, abbandonata da tempo, è adibita a museo della fu compagnia Deflorian-Tagliarini, attiva poco prima che una “grande catastrofe” chiudesse per sempre i teatri. Da qui, parte l’amarcord, o qualcosa che gli somiglia perché la trama è inesistente e la comprensibilità evanescente: si assiste, infatti, a una specie di autobiografia individuale e, a tratti, collettiva, tra ricordi e balletti (il tip tap come il Tanztheater di Pina Bausch); racconti di un passato da cameriere; vecchi provini – in cui “l’intelligenza non era richiesta; anzi era un ostacolo” –; spettacoli dei mastri (ancora Pina Bausch); rimpianti e paure della vecchiaia o dell’invisibilità; sipari alle spalle; tempeste simil-shakespeariane…

“Che respiro, che futuro, il teatro”: sarà, ma anche la consueta ironia della compagnia qui scolora in un’atmosfera polverosa, genericamente surreale, ricreata da chi – ammette – vive sempre “fuori dalla realtà… Vivo solo per riportare la vita in sala prove”. Ossessioni d’artista, nevrosi di coppia, fissazioni da adulti che si sentono invecchiare: sentimenti comuni, quanto universali, che però non riescono a suggestionare né emozionare né far pensare lo spettatore per più di un quarto d’ora.

Avremo ancora l’occasione di ballare insieme è uno spettacolo riuscito a metà: esteticamente pulito, musicalmente gradevole (la scena più felice è l’interpretazione di Let’s Face the Music and Dance di Astaire), ma sfilacciato e sconclusionato nella scrittura, ombelicale ai limiti della vanità, lo si evince dai tanti inutili cambi di costume della coppia Deflorian-Tagliarini. Come interpreti, bravi tutti, specialmente Emanuele Valenti che regala un finale straordinario, al di là di Fellini, Ginger, Fred, Pina Bausch e la sacra mania degli artisti in pandemia.

 

In tour fino al 13 febbraio 2022 a Besançon; Lugano; Ginevra; Parigi; Tolosa; Amburgo; Bologna; Prato

Avremo ancora l’occasione di ballare insieme di Deflorian e Tagliarini

“Maid”, tutto su sua madre in fuga dalla violenza

Quanta fatica comporta far riconoscere la violenza emotiva come violenza effettiva. Negato dai tribunali americani, il delicato passaggio è il cuore tematico di Maid, la serie Netflix che sta spopolando di consensi e, contestualmente, diventando una vera e propria guida di accompagnamento e sostegno per madri single vittime di abusi domestici da parte del partner.

Al centro è Alex, la giovane mamma della treenne Maddy che, dopo l’ennesima minaccia verbale con comportamento aggressivo del compagno Sean, se ne va da casa su due piedi. Nessun preavviso o bagaglio: solo la bambina e lo stretto occorrente a bordo di un’auto senza precisa destinazione nella provincia boschiva dello stato di Washington. La madre artista svitata, il padre con una nuova famiglia, amici troppo bohémien per garantire sicurezze, Alex è sola, senza un dollaro e fragile padrona di un destino ingiusto che la trasforma in domestica precaria e sottopagata.

Seppur sulla carta la trama inneggi al romanzo pauperista alternato al decalogo di emancipazione femminile, la visione di Maid propone una narrazione ben più sofisticata rispetto alle ovvietà di cui sopra. Perché Alex è una donna già (troppo) emancipata, e perché dietro di sé trova un’America sempre più refrattaria al cambiamento. E ciò si avvalora ancor più trattandosi di una storia vera. Alla base, infatti, vi è il memoriale Maid: Hard Work, Low Pay, and a Mother’s Will to Survive (2019) di Stephanie Land, divenuta produttrice esecutiva della serie (con nomi vip come Margot Robbie) la cui showrunner risponde invece a Molly Smith Metzler. Ma la punta diamantina di Maid è la sua interprete, quella Margaret Qualley che Tarantino ci aveva mostrato fanciulla audace e sgambettante invaghita di Brad Pitt in C’era una volta a… Hollywood: nella serie la 27enne attrice è come trasfigurata nel corpo di Alex, incredula testimone e attonita cittadina di un Paese moralmente degradato, eroina suo malgrado nel regno degli emarginati che, fino ad allora, conosceva solo dai libri dei “grandi” autori suoi connazionali di cui era insaziabile lettrice. Ed è bello trovare come sua mater in fabula la sua vera, l’ancora splendida e fascinosa Andie McDonald. Un bingo di emozionante qualità da non perdere.

“La scelta di Anne”. Titolo sbagliato, ma opera “giusta”

Prendete Robert Bresson, per esempio Mouchette – Tutta la vita in una notte (1967), sostituite a George Bernanos Annie Ernaux, quindi levate la Grazia e metteteci l’aborto. Ecco, forse di Bresson non rimane poi molto, ma quello stile austero, quella intenzionale rinuncia agli psicologismi e agli accessi melodrammatici, dunque, il residuo minimalista, piano e fattuale ritorna ne La scelta di Anne, titolo italiano del Leone d’Oro dell’ultima Mostra di Venezia, L’événement di Audrey Diwan.

Per la corsa all’Oscar la Francia ha preferito puntare su Titane, Palma d’Oro di Julia Doucornau: due film diversissimi, ma se vogliamo parlare di cinema tout court e non di clamore mediatico né di adesione allo Zeitgeist non v’è dubbio alcuno che questo sia superiore.

La regista e sceneggiatrice – per il marito Cédric Jimenez ha firmato, tra gli altri, gli script di French Connection (2014) e BAC Nord che trovate su Netflix – ha scelto di adattare il libro omonimo, da noi L’evento, della connazionale Ernaux (Il posto, Gli anni, Una donna). Un precipitato secco e implacabile dell’esperienza biografica della scrittrice, allorché nel 1963 da studentessa universitaria ventitreenne si risolse a interrompere la gravidanza in un’epoca in cui l’aborto era illegale in Francia, sicché chi l’avesse subito, praticato o adiuvato sarebbe finito in carcere.

Dopo il buon esordio Mais vous êtes fous del 2019, la cineasta di origini libanesi fa dell’opera tradizionalmente più difficile, la seconda, una coltellata portata a segno: ideologica senza essere programmatica, sintetica senza essere a tesi. All’ottima Annamaria Vartolomei assegna un one woman show che invero non conosce spettacolarizzazione, che rifugge l’intrattenimento per rimanere fedele ad Anne, al compito – più che missione – che s’è data: abortire. Tale intendimento non è mai dialettizzato, discusso o anche solo meditato, come da titolo originale – il nostro è assai fuorviante – il film non inquadra una decisione bensì un’esecuzione, peraltro largamente contrastata dalla società coeva, ovvero un evento.

In fondo, malgrado l’istanza abortiva, quello di Anne è un percorso di sopravvivenza: del corso di studi, dell’affaccio sul futuro, dell’autodeterminazione di una ragazza seria, volenterosa e volitiva. E come survival movie, eterodosso e inflessibile, è girato, dritto per dritto, tra le amiche che si scansano, i coetanei che si sottraggono colpevoli o ci provano infingardi, i ginecologi che se ne lavano le mani o prescrivono farmaci antiabortivi, la famiglia che non sa, i professori pure. Laddove si negano i diritti, dicono all’unisono Ernaux, Diwan e Vartolomei, esistono i doveri, cui il film offre la propria prassi senza dubbi né rovelli, caparbio, perfino stolido, fino alla carne. Una prova fisica, un traguardo dolentemente, e dolorosamente, raggiunto. Dal 4 novembre in sala: da vedere.

 

Ora sono un attore sconosciuto

Silvio Orlando, ne Il bambino nascosto di Roberto Andò, dal 3 novembre in sala, prosegue il suo voto all’invisibilità. Strano per un attore.

È iniziato a teatro, con

Si nota all’imbrunire di Lucia Calamaro: in un paese disabitato incarnavo la solitudine sociale, che è un’emergenza reale. Senza contatti, senza dialettica, il cervello deperisce: non è la bella solitudine, ma una patologia.

Nella vita si fa accompagnare dai personaggi?

Spesso coincidono. Voglio esserci solo quando è necessario, non sgomito. È una piccola rivoluzione individuale, non so fino a che punto politica: porta con sé l’autolesionismo, sebbene alla punizione fisica non sia ancora arrivato.

La perdita di ideologie?

Direi il clima di competizione, non lo reggiamo più. L’insofferenza è grande, vogliono spacciarci il cottimo per novità ma è una cosa antica: incattivisce, ha effetti devastanti sui lavoratori, anche nello spettacolo.

Rimangono le amicizie.

Ora gli altri sono un ostacolo alla nostra felicità, al primo intoppo rompiamo il rapporto.

Il Covid ha qualche responsabilità?

Sembra che ce lo siamo andati a cercare, che sia fatto apposta. Chi a stare a casa, almeno per le prime due settimane, non ha provato sollievo? Chiusi in un mondo piccolo ma sotto controllo, ci siamo rassicurati, lieti di non poter essere feriti: un sentimento perverso. Hanno paragonato la pandemia a una guerra, ma poi non siamo scesi in piazza ad abbracciarci, o sbaglio?

Il bambino nascosto è quello che il suo professore di pianoforte si tiene in casa perché non cada vittima della camorra. Un’adozione?

Non credo sia un’indicazione per il legislatore, il bambino ha dieci anni, io sessanta: sarebbe orfano due volte.

Qualcuno potrebbe intendere lo spettro della pedofilia.

Un incubo, mi ha ossessionato. Nel privato: trovare una complicità col bambino, Giuseppe Pirozzi, mi metteva ansia. La pedofilia ha avuto effetti devastanti: oggi adulti e piccoli sono separati, i rapporti si sono irrigiditi. Del resto, basta una mezza accusa e la tua vita è distrutta. Ho pregato in ginocchio Roberto (Andò, ndr) di levare ogni elemento morboso dalla relazione tra il mio Gabriele e Ciro, che ci fosse solo candore.

Il film si accolla un altro tema ultrasensibile, l’allontanamento dei minori dalle famiglie malavitose.

Se l’unica eredità che possono trarre è il modo violento di stare al mondo… ma legge e giustizia non sempre coincidono. Anche il padre magistrato di Gabriele tra legge e amore infine sceglie l’amore.

Il proprio amore omosessuale Gabriele lo cela.

Nella cultura camorristica che lo circonda, l’omosessualità è vissuta come l’estrema debolezza di un uomo, una fragilità da espellere dalla vista.

Chi è Gabriele Santoro?

Un indifferente che intende il mondo come un acquario: pesci piccoli, pesci grandi. Finché Ciro non gli rompe la scorza: salverà il bambino e se stesso.

Napoli aiuta.

Nello stesso palazzo trovi il vecchio maestro, l’architetto, il camorrista. A differenza del resto del mondo, la devianza è di prossimità, e credo sia la vera attrattiva turistica: si va a Napoli per rivivere il proprio passato, per ritrovare gli antenati.

Nel suo passato c’è Moretti: Tre piani l’ha visto?

Sì.

Le è piaciuto?

Mi avvalgo della facoltà di non rispondere. Sarebbe come dire per chi ho votato.

Quindici anni fa portavate in sala Il Caimano, ma la realtà è andata in un’altra direzione: oggi Berlusconi sogna il Quirinale.

Le pulsioni reazionarie di massa non sono state gestite politicamente, M5S e Lega hanno provato a incanalarle, non c’è nulla di peggio del vuoto di potere. Odo echi di guerra civile: Capitol Hill non è solo un evento americano, può succedere in tutto il mondo. L’assalto alla Cgil è la nostra Capitol Hill, ma non credo sia finita: non troveranno pace finché non potranno farsi una foto a Montecitorio o al Quirinale.

E Berlusconi?

Li ha tenuti a bada. I processi sono andati a marcire, oggi Berlusconi è un usato sicuro.

Anche lei, quale attore.

Al cinema mancavo dal 2016: non se n’è accorto nessuno. Il bambino nascosto è il mio ritorno, l’ho fatto prima di Ariaferma: rileva la mia maturità artistica, il mio stato dell’arte.

E il Cardinal Voiello del dittico papalino di Sorrentino?

Mi ha travolto, non ero lucido: un sogno di cui non ero artefice, tra handicap e inciampi una materia non dominata.

Orlando furioso, quando?

Quando mi sento sull’uscio, né dentro né fuori le cose.

E innamorato?

Come dice Claudio Magris: l’amore è quello che non si ha, e si vorrebbe.

(Dopo dieci minuti richiama: “Divento furioso anche quando vengo messo di fronte al fatto compiuto, può aggiungerlo?”)