Rai, Usigrai: “Il governo controllerà i talk. È a rischio l’indipendenza dei giornalisti”

L’idea del super direttore che dovrà supervisionare gli approfondimenti Rai previsto dal piano industriale dell’ad Carlo Fuortes e raccontato ieri dal Fatto preoccupa non poco l’Usigrai, il sindacato dei giornalisti di Viale Mazzini. Il progetto è quello di nominare un unico responsabile, scelto dall’amministratore delegato, che dia la linea editoriale e faccia da unico regista a tutti i programmi di approfondimento, da Porta a Porta a Cartabianca fino a Report, che a lui dovrebbero rispondere. Un’idea che si inserisce nelle nomine dei nuovi direttori di “genere”, già presente nel piano dell’ex ad Rai, Fabrizio Salini. E che allarma l’Usigrai: “Siamo molto preoccupati perché questo piano mette a rischio la libertà e l’autonomia di questi programmi – spiega Vittorio Di Trapani, segretario nazionale del sindacato dei giornalisti del servizio pubblico – Il problema non è tanto la soluzione in sé ma di sistema”. Ovvero? “Il problema è il combinato disposto tra la governance Rai e il nuovo piano – continua Di Trapani – se i vertici sono nominati dai governi, come prevede la riforma Renzi, e poi sono questi a nominare il super direttore, il risultato è presto detto: tutto l’approfondimento Rai rischia di finire sotto il controllo di una maggioranza politica e del governo. Finché i meccanismi di nomina sono questi, questo progetto ci preoccuperà molto”.

Il problema, è la denuncia del sindacato dei giornalisti, dunque è la potenziale ingerenza dei partiti e dei governi che potranno controllare i talk e i programmi di inchiesta: “L’impressione – dice il segretario dell’Usigrai – è che si stiano disegnando architetture pensando che oggi la Rai sia il migliore dei mondi possibili e che non subisca condizionamenti per i governi. Se io avessi la certezza che la Rai fosse libera dai partiti, con nomine libere e basate solo ed esclusivamente su scelte editoriali, non sarei preoccupato. Peccato che non sia così e finché non si mette mano alla riforma della governance per togliere l’azienda dalle mani dei partiti il problema non sarà risolto”. Tutto il contrario dunque di quello che ha detto enfaticamente ieri Fuortes a Repubblica, secondo cui adesso “i partiti non vengono più a bussare” a Viale Mazzini. Di Trapani anche su questo è netto: “Se i partiti vanno a bussare lo capiremo dalle prossime nomine dei direttori di testata. Dopodiché a noi non interessa se i governi e i partiti condizionino effettivamente i vertici, ma anche solo che possano farlo”.

Scambiati per ladri 20enni incensurati freddati a Ercolano

Giovedì sera due giovani sono stati uccisi mentre stavano nella propria auto a Ercolano, nel napoletano, perché scambiati per dei ladri. Giuseppe Fusella (26 anni) e Tullio Pagliaro (27 anni), originari di Portici ed entrambi incensurati, stavano chiacchierando in macchina dopo aver guardato la partita del Napoli in un bar nelle vicinanze in compagnia di alcuni amici, quando sono stati colpiti da alcuni proiettili sparati da una villetta nelle vicinanze.

I due ragazzi avevano infatti parcheggiato la macchina fuori dalla casa di Vincenzo Palumbo, autotrasportatore di 53 anni che, temendo si trattasse di alcuni ladri, ha sparato sei colpi in direzione dei giovani uccidendoli sul colpo. A chiamare i carabinieri è stato lo stesso Palumbo, la cui arma era deteneva legalmente, dicendo di aver colpito “due ladri”. L’uomo, anche lui incensurato, è stato interrogato nella caserma di Torre del Greco dal pm Filipelli; qui ha raccontato di essere rimasto traumatizzato dal furto della propria auto, subìto lo scorso settembre mentre era insieme alla moglie e la figlia. Il 53enne ha inoltre spiegato che nella zona dove abitava c’erano state diverse rapine negli ultimi mesi. Ed è per questo che avrebbe aperto il fuoco contro i due, avendoli scambiati per malviventi.

Il sindaco di Portici ha espresso il suo “sgomento e dolore, e quello della nostra intera comunità, per la morte di Giuseppe e Tullio, due figli della nostra terra, certo di interpretare i sentimenti di tutta la città”.

Funivia, operaio denunciò: “Poca sicurezza”. Il titolare: “Non lavorerai più entro 300 km”

“Mi rifiuto di prendere in carico la vettura numero tre, poiché a mio avviso non ci sono i requisiti di sicurezza necessari. Chiedo intervento del direttore di esercizio per discutere della situazione odierna”. Fra il 27 e il 28 maggio 2019 – due anni prima che proprio la cabina 3 della funivia del Mottarone si schiantasse a terra, provocando la morte di 14 persone – un ex dipendente, Stefano Gandini, si rifiutò di lavorare, per via di un guasto identico a quello poi verificatosi poco prima della strage: una perdita di olio del sistema frenante, che provocava il continuo innesco del freno d’emergenza dell’impianto. Invece di risolvere il problema, già allora, il capo-tecnico, Gabriele Tadini, disattivò il blocco salvavita, inserendo gli ormai famigerati forchettoni, pratica vietata dalla legge durante il trasporto di passeggeri.

La nota scritta è stata sequestrata dai carabinieri di Verbania nel telefonino di Luigi Nerini, l’amministratore della società Funivie del Mottarone, concessionaria dell’impianto, e a oggi è una delle prove che secondo gli inquirenti mostra la “consapevolezza” dei superiori di Tadini sull’uso dei forchettoni e le carenze nella manutenzione. “Io per 1.200 euro €al mese non rischio la vita né quella delle 40 persone che trasporto – insiste Gandini – Se viene fuori il direttore di esercizio (l’ing. Enrico Perocchio, ndr) e certifica che è a posto, allora lui prende in carico la cabina”. E come reagisce la società a quella denuncia? Nerini convoca l’operaio ribelle nel suo ufficio, il quale per cautelarsi lo registra di nascosto: “Cos’è questa storia? – domanda Nerini – c’è un caposervizio che si prende la responsabilità e un amministratore che decide. Se non ti va bene lì c’è la porta”. Gandini “non desiste”. E Nerini a quel punto lo invita a dimettersi: “Se pianti rogne andiamo in causa, non c’è problema, non mi spaventa niente. Ma tu non troverai più un lavoro nel raggio di 300 chilometri”. Alla fine andrà così: Gandini se ne va “spontaneamente”. Ma quegli audio sono fra gli elementi principali che hanno convinto il Tribunale del Riesame di Torino ad annullare le scarcerazioni di Perocchio e Tadini (difesi dagli avvocati Andrea Da Prato, Andrea Bozzetto e Pasquale Pantano), decise ormai quasi 5 mesi fa. Il provvedimento, che ripristina per loro i domiciliari, è sospeso in attesa del pronunciamento della Corte di Cassazione.

Mancini deve restituire 20 mila euro al “Fatto”

Marco Mancini non è stato diffamato dal Fatto Quotidiano. Per questo il giudice della Corte d’appello civile di Bologna ha condannato l’ex dirigente del Sismi a restituire i 20 mila euro ottenuti dopo una sentenza di primo grado a lui favorevole, e a pagare 7 mila euro di spese legali complessive. Lo ha deciso il giudice Maria Cristina Salvadori, che ha ribaltato così la decisione presa dal tribunale civile in primo grado. L’articolo al centro della causa – intentata contro il giornalista del Fatto Fabrizio d’Esposito e l’ex direttore Antonio Padellaro (assistiti da Caterina Malavenda e Mariachiara Giampaolo) – riguardava la “riabilitazione” dell’ex agente segreto, coinvolto nel rapimento dell’imam Abu Omar, durante il mandato dell’ex sottosegretario Marco Minniti. Nello stesso articolo si citava l’intervento dello stesso Mancini in Calabria, terra di cui è originario Minniti, in occasione di un allarme bomba ai danni dell’ex governatore Giuseppe Scopelliti. L’accostamento di questi fatti “non ha leso l’immagine di Mancini”.

Gli gridano: “Duce”. E il preside replica col saluto romano

Hanno salutato il discorso del preside Giuseppe Di Giminiani ai maturandi gridando “Duce! Duce! Duce!”. E il dirigente dell’Istituto aeronautico navale “Antonio Locatelli” di Bergamo, dall’alto della scala d’ingresso della scuola, ha risposto ai ragazzi con quello che sembra un saluto romano. L’episodio è stato filmato e il video è stato pubblicato da Wired ed è diventato noto dopo che mercoledì sera il collettivo “Bergamo Antifascista” aveva organizzato una protesta.

Di Giminiani, 66 anni, che è anche il fondatore dell’istituto intitolato all’aviere del Regio Esercito che partì volontario in Etiopia dove morì nel 1936, ha replicato alle accuse tramite il suo legale, l’avvocato Emiliano D’Andrea, che ha invitato a “evitare strumentalizzazioni”. A suo dire, infatti, la qualifica di “duce” si riferirebbe alla sua radice latina, “dux”, e sarebbe stata usata “per indicare il direttore scolastico quale condottiero degli alunni”. “Lo studio del fascismo a scuola – ha aggiunto D’Andrea – avrà portato gli studenti a utilizzare tale appellativo in maniera improvvisata e senza intenzioni reattive”.

MailBox

 

Quel Senato che proprio Renzi voleva eliminare

A proposito del ddl Zan affossato al Senato col contributo pare di Italia Viva: non vedete anche un disegno da parte dell’Innominabile e dei suoi seguaci di far cadere le leggi (non è la prima volta) proprio in quel Senato che la sua riforma voleva abolire? Così può dire che con la sua riforma la legge sarebbe passata alla Camera dove aveva avuto ampio consenso. È un subdolo disegno strategico portato avanti passo dopo passo. Il personaggio purtroppo è aduso a simili trovate. Dispiace che Letta pensi di imbarcarlo nel suo strano progetto di un nuovo Ulivo.

Elena Monarca

 

Cara Elena, credo che Letta – con i suoi tempi – stia finalmente guarendo dalla sindrome di Stoccolma. Ma attenzione: Renzi non voleva abolire il Senato, “soltanto” le elezioni per il Senato.

M. Trav.

 

L’abolizione della lettura dei quotidiani a scuola

Girando nella piattaforma Loft, mi sono imbattuto in una puntata di Lofter, programma in cui era ospite Travaglio. Ebbene, durante la puntata, ha ricordato che ai suoi tempi il ministero dell’Istruzione forniva alle scuole tre giornali differenti in base alle richieste degli studenti. Osservando i dati sull’astensionismo e sul disinteresse giovanile per la politica, non sarebbe ora di ritornare a quel sistema dando così l’opportunità agli stessi studenti di analizzare l’attualità attraverso la carta stampata, magari istituendo due/tre ore settimanali dedicate a questo? Se la classe politica tiene davvero alla formazione dei giovani, lo dimostri pure. I soldi si trovano, se si vuole.

Andrea Campanelli

 

Sì, credo sarebbe una buona idea.

M. Trav.

 

Il mio incubo antifascista e pure antiberlusconiano

Vi voglio raccontare un sogno, anzi un vero e proprio incubo, che ho avuto poche notti fa verso l’alba, il momento più propizio. Dunque, ho sognato la scena in cui Vittorio Emanuele II conferisce a Benito Mussolini l’incarico di primo ministro dopo la marcia su Roma, nell’autunno del 1922 (siamo nei giorni dell’anniversario e sicuramente qualcuno che lo starà festeggiando). Solo che al posto del viso baffuto di Sciaboletta c’era il faccione glabro del Caimano, cioè di Silvio Berlusconi, e il duce aveva addirittura il volto corrucciato di Giorgia Meloni! Gran bella condensazione, avrebbe osservato Freud. Spero non si tratti di una premonizione. Ma forse è solo colpa mia: sono antiberlusconiano e antifascista fin nel subconscio. Devo ricordarmi di mangiare meno pesante la sera.

Marco De Marinis

 

Il solito gioco fra destra e sinistra per favorire B.

Mi viene un brutto presentimento: e se la candidatura impossibile di B. fosse il solito giochetto destra-sinistra per farci accettare qualunque cosa, pur di scongiurare una prospettiva disastrosa? In questo caso B. avrebbe sicuramente una lauta ricompensa per aver aiutato il “sistema” a fregare il popolo per l’ennesima volta. Sono sempre più convinto che la candidatura e l’auspicata elezione della senatrice Segre al Quirinale costituisca la soluzione da perseguire per troppe ragioni.

Angelo Testa

 

Le tante firme per Segre sono indice democratico

La sensibilità istituzionale di Liliana Segre (nominata da Mattarella senatrice a vita) è umana, storica e femminile. La vostra, anzi la nostra risposta, che rimarrà indelebile, dimostra che la democrazia in Italia esiste ancora e le 100mila firme ne sono una testimonianza.

Giuseppe Trippanera

 

La manovra finanziaria e i soliti titoloni

Complimenti al Fatto perché è l’unico quotidiano che non titola con trionfalistici “Tagli alle tasse”! Questa Finanziaria dei “migliori”, che dà solo le briciole a chi ha bisogno, anzi ridimensiona il Reddito di cittadinanza, non dà ai lavoratori e pensionati (la riduzione Irpef è solo abbozzata), mentre dà solo a Confindustria e ai sindaci (ma perché?). Altro che taglio delle tasse. Ma i giornalisti di altri quotidiani hanno le fette di salame sugli occhi?

Stefano Tacchini

 

Torna in mente Gaber e quella sua canzone

Sono molto confuso: la Lega (di destra) e i sindacati (di sinistra) si dichiarano contrari alle proposte del governo sulle pensioni, ma il Pd (di sinistra) sembra che sia… a favore? Forse il grande Gaber aveva ragione quando cantava: “Ma io dico che la colpa è nostra/ È evidente che la gente è poco seria/ Quando parla di sinistra o destra/ Ma cos’è la destra, cos’è la sinistra?”.

Claudio Trevisan

 

L’orrenda “tagliola” dello scrutinio segreto

Sono rimasto disgustato dall’affossamento del dl Zan, anche perché sono contrario al voto segreto. Io voglio sapere come ha votato il deputato e il senatore a cui ho dato il voto per decidere alle prossime elezioni se confermargliele o no. Gli eletti devono avere il coraggio di far vedere come votano.

Afro Serafini

News. La pubblicità serve, ma farsi condizionare non è giornalismo

 

Gentile redazione, desidero condividere una mia considerazione: l’obbligo della pubblicità per la vita dei quotidiani. Fino a pochi giorni fa leggevo ben tre giornali online: il Fatto, un concorrente e un giornale locale di area cattolica. Mantengo attivo il blocco della pubblicità, durante la navigazione in Internet, per evitare invasioni fuori luogo. Ho riscontrato che importanti giornali quali il Corriere della Sera, La Stampa e Repubblica obbligano i lettori, in Internet, a liberare l’accesso dei messaggi pubblicitari disattivando l’app che blocca tali messaggi. Forse hanno l’obbligo a tale comportamento? Hanno necessità che la pubblicità, dalle loro pagine, venga letta? Non la faranno certamente a titolo gratuito? Non ricavano dalle vendite dei quotidiani quanto necessario per vivere? Come possono essere imparziali se vivono grazie all’apporto economico degli inserzionisti pubblicitari? Questi inserzionisti non condizionano la linea editoriale del quotidiano? Segnalo, anche, che nelle news di Google prevalgono le notizie scelte tra quelle di Libero : è la stessa logica di cui sopra? Mi aiutate a capire? Grazie.

Gianni Negri

 

Buongiorno signor Negri, i giornali sono il frutto del lavoro comune di giornalisti, grafici, poligrafici, dipendenti amministrativi e il lavoro va equamente retribuito, come il “Fatto” ha sempre detto. Sino a qualche anno fa, quando le edizioni online non esistevano, vendite cartacee e pubblicità erano gli unici ricavi, a parte i contributi pubblici – per chi li prende, il “Fatto” no –. Oggi con il web molte testate passano a forme di lettura “chiusa” solo tramite abbonamento. Il “Fatto” no. Per consentire di tenere “aperte” le edizioni online, la pubblicità è una via, un’altra sono abbonamenti e contributi volontari. Ciascuna testata è autonoma: c’è chi si fa influenzare dagli inserzionisti e accetta tutto, sino a obbligare i lettori online a disattivare il blocco della pubblicità, chi no. Il “Fatto” è tra questi ultimi: notizie e inchieste che pubblichiamo non sono influenzate in alcun modo dalla pubblicità. Capita spesso che il “Fatto” sveli ciò che qualche inserzionista non vorrebbe. È una scelta che preclude maggiori ricavi pubblicitari, ma tutela l’indipendenza e la libertà del giornale. Due valori che non hanno prezzo, come riconoscono i lettori che ci premiano leggendo il “Fatto”.

Fq

I poveri restano senza Vaccino

Come si può leggere sul sito dell’Aifa, l’Agenzia italiana del farmaco, i vaccini attualmente autorizzati e utilizzati in Italia nella campagna di vaccinazione per Covid-19 sono quattro: Comirnaty (Pfizer/BioNTech), vaccino a mRNA autorizzato dal 22.12.2020 e utilizzato dal 27.12.2020; Spikevax (Moderna), vaccino a mRNA autorizzato dal 07.01.2021 e utilizzato dal 14.01.2021; Vaxzevria (AstraZeneca), vaccino a vettore virale ricombinante autorizzato dal 29.01.2021 e utilizzato dal 01.02.2021; Covid-19 Vaccino Janssen (Janssen Cilag), vaccino a vettore virale autorizzato dal 12.03.2021 e utilizzato dal 22.04.2021. Mentre ancora gran parte dei contratti stilati dalla Commissione europea con le aziende produttrici restano segretati, continua a delinearsi, a livello internazionale, una situazione a dir poco preoccupante. Benché per lo sviluppo dei vaccini le stesse aziende abbiano ricevuto oltre 8,25 miliardi di finanziamenti pubblici, hanno imposto un prezzo fino a 24 volte il costo stimato di produzione oltre ad aver ottenuto la protezione brevettuale. Il gruppo americano Pfizer ha chiuso il primo trimestre del 2021 con ricavi pari a 14.582 miliardi di dollari, in aumento del 45% rispetto allo stesso periodo del 2020. Solo dal vaccino per il Covid-19 sono pervenute entrate per 3,5 miliardi di dollari. Moderna ha fatturato 1,7 miliardi; assai distanziate AstraZeneca con 275 milioni e Johnson&Johnson, il cui vaccino è l’ultimo approvato in ordine di tempo, e ha fatturato 100 milioni. Ciò è pesato per miliardi di maggiore spesa per ogni Paese europeo. È un peso economico che è impossibile possa essere affrontato dai Paesi poveri che infatti sono vaccinati solo per l’1% della popolazione. La pandemia di Covid “si trascinerà anche nel 2022” perché i Paesi più poveri non ricevono i vaccini di cui hanno bisogno. Lo ha dichiarato Bruce Aylward, ricercatore dell’Oms, rinnovando l’invito a donare le dosi di vaccino anti-Covid a chi ne ha bisogno. Fino a oggi la fornitura dei vaccini al Terzo mondo è stata intesa come un atto di carità. E Pfizer, intanto, sta assumendo il monopolio dell’antivirus.

 

Il marchettone climatico a Eni & C.

C’è una cosache va lodata dell’esecutivo Draghi: la sua sincerità. Non è colpa del premier se il dibattito pubblico è così incasinato che non riusciamo più a dare un significato condiviso a parole, opere e omissioni: secondo le categorie del vituperato Novecento, Draghi sta infatti conducendo una politica schiettamente conservatrice, diciamo di destra-centro per quelli che non possono uscire dal bipolarismo. Questo vale per lavoro, fisco, welfare, infrastrutture e tutto il resto, ma mai era giunto alle vette declaratorie implicite nell’art. 128 della manovra approvata giovedì con cui si istituisce, sulle ceneri dell’ex Fondo Kyoto, il Fondo italiano per il Clima di cui ieri si compiaceva Il Sole 24 Ore (840 milioni l’anno dal 2022 al 2026). Si tratta di uno stanziamento – a cui possono essere affiancati soldi reperiti sul mercato o aggiunti da partner privati – destinati alla cooperazione in materia ambientale con i Paesi in via di sviluppo. Ottimo, dirà il lettore: problema globale, risposta globale. Certo, però ci sarebbe il problema che la vera novità è il passaggio della gestione dal ministero di Cingolani a Cassa Depositi e Prestiti e la destinazione anche a progetti privati. Ricapitoliamo: gli aiuti pubblici ai progetti contro il climate change in Africa, ad esempio, li deciderà Cdp – azionista rilevante di Eni, Snam, WeBuild, Fincantieri, eccetera, aziende che operano in settori non proprio green e che hanno parecchi interessi all’estero – e li deciderà senza passare da bandi, avvisi e altre fastidiose procedure ministeriali. Il tutto in ossequio a una politica ambientale che, nella pratica, è solo un nuovo mercato finanziario: pianto un albero in Tanzania per poterti far ammalare ai polmoni in Baviera, costruisco un po’ di e-car ma faccio soldi vendendo quote di emissione e via così. L’art. 128 del ddl Bilancio, al di là del merito, serve a spiegare a tutti che la transizione ecologica oggi è in realtà un grande piano di ristrutturazione del settore industriale supportato dallo Stato, i cui benefici ambientali sono dubbi e quelli sociali inesistenti. È insomma un’operazione di trasparenza di cui ci complimentiamo col governo. Certo, questa è un’interpretazione: qualcuno potrebbe anche chiamarlo, senza sbagliare, un marchettone.

La Rai “orizzontale” aumenta le poltrone e liquida i telegiornali

“La televisione parla sempre meno un suo linguaggio nazionale e sembra sempre più competente nell’imitazione di un’internazionale dei valori e dei modelli espressivi”

(da Un fare italiano nella televisione di Gianfranco Bettetini in “Televisione: la provvisoria identità italiana” – Fondazione Giovanni Agnelli, 1985 – pag. 21).

 

A parte l’infelice coincidenza che ha fatto varare al nuovo vertice della Rai una “riforma di genere”, proprio nel giorno in cui i “franchi traditori” (o “vili tiratori”) del centrosinistra e di Forza Italia Viva affossavano il ddl Zan contro l’omofobia, si può anche ironizzare sul passaggio della televisione pubblica da un modello “verticale” a uno cosiddetto “orizzontale”, tipo tappetino. Cioè da un’organizzazione interna articolata in tre reti generaliste a una struttura scomposta in dieci direzioni: intrattenimento prime time, intrattenimento day time, cultura ed educational, documentari, fiction, sport, cinema, approfondimento, kids e contenuti RaiPlay. Un’evoluzione transgender, insomma, attraverso la quale il servizio pubblico dovrebbe superare il sistema feudale partitocratico per trasformarsi in un produttore di contenuti, da distribuire poi sulle varie reti.

Approvata all’unanimità dal nuovo Consiglio di amministrazione, sotto la presidenza di Marinella Soldi, la riforma è affidata per la sua attuazione all’ad Carlo Fuortes, nominato d’imperio dal governo Draghi in forza della “riformicchia” di Matteo Renzi. E s’ispira, come la stessa Rai s’è subito preoccupata di comunicare, a un modello “già adottato dai principali broadcaster pubblici europei”. Si dà il caso, però, che i principali broadcaster pubblici europei – a cominciare dalla mitica Bbc inglese – non hanno adottato il modello lottizzatorio della Rai né quello di finanziamento misto (canone e pubblicità). C’è da temere, perciò, che l’azienda radiotelevisiva diventi un maxi-carrozzone, più grande di quanto non sia stato finora, aumentando il numero delle direzioni, delle poltrone e degli stipendi.

Allo stato attuale, in mancanza di una riforma organica sulla governance e sulle risorse che neppure il governo extralarge è stato capace di introdurre, nessuno può assicurare che nei nuovi dieci dipartimenti non si riproduca il virus della partitocrazia, con tutte le varianti del caso. Il rischio che si risolva tutto in un maquillage, dunque, è reale. Con in più l’aggravante che la produzione “per generi” accresca la tendenza della tv pubblica a omologarsi a quella commerciale, nella rincorsa degli ascolti, degli spot e delle telepromozioni, perdendo ulteriormente qualità e identità. Ma la Rai è già troppo “orizzontale” per appiattirsi ancor più sulla concorrenza.

Nella riforma transgender, non si parla né dei telegiornali né della news room che avrebbe dovuto accorpare l’informazione televisiva in una redazione centrale. A quanto pare, i tg saranno smantellati nei prossimi mesi per essere assorbiti da una super-direzione editoriale (o magari “artistica”) dell’approfondimento. Ma l’informazione – come si sa – è la mission istituzionale, la ragion d’essere del servizio pubblico. E questo rinvio a data da destinarsi, prefigura l’istituzione di un Tg Unico dominante con tanti saluti al pluralismo politico e culturale. Il vertice dell’azienda non ha affrontato neppure il nodo di Rai News 24 che, in termini di audience, conta meno di Italia Viva nei sondaggi. Mentre un canale all news meriterebbe invece di essere valorizzato sul piano della funzione, dell’autorevolezza e della visibilità, attraverso un’iniezione di risorse professionali ed economiche. Evidentemente, per la Rai di Fuortes, l’informazione non è un “genere” e basta che sia tutto “orizzontale”.