La democrazia radicale, laica e libertaria di Flores D’Arcais

Da pochi giorni sono in libreria due testi di Paolo Flores d’Arcais, Controversia sull’essere (Rosenberg & Sellier), scritto con Maurizio Ferraris, e Contro Habermas (Aragno). Due libri diversi, con un dato comune: l’illuminismo coerente e combattivo di Flores d’Arcais. Il primo è un carteggio tra filosofi, anche se “ceci n’est pas un dialogue”, precisano gli autori. Vi si tratta di scienza, etica, politica, religione, senza diplomazia: “Confronto non significa accomodante accordo bensì scontro argomentativo, polemos (guerra!) a sostegno di tesi opposte o diverse”. Il carteggio spinge Ferraris a risolvere due problemi: collegare il nuovo realismo con la ricerca filosofica di ontologia sociale. Per Flores, invece, gli anni del carteggio mostrano che la sua filosofia radicalizza il primato della prassi sulla teoria, mentre lavora a un sistema di filosofia del finito, e a testi di etica.

Ma quali argomenti troverà il lettore nelle dieci lettere/saggi che compongono Controversia sull’essere? In verità, tutti i temi cruciali della filosofia: a) Il ruolo della scienza (“Caro Maurizio… il tuo realismo indulge nell’accusa infamante di ‘scientismo’, poiché stigmatizza come reprobo chi vede nella scienza l’unica sfera legittima dell’oggettività”); b) la possibilità di fondare un’etica (Caro Paolo… la dicotomia fatto/valore è contraddittoria… chi ha detto ‘non ci sono fatti, solo interpretazioni’ ha anche sostenuto che i veri filosofi creano nuovi valori”); c) il rischio del nichilismo; d) l’“esplosione” della biologia darwiniana; e) la rivoluzione del web… Un confronto avvincente che costringerà il lettore a dubitare delle sue convinzioni.

L’illuminismo rigoroso ed esigente è presente anche nel testo su Habermas: il suo errore – scrive Flores – è credere che la democrazia debba rinunciare “al muro di separazione tra politica e fede”; che si debba “mandare in soffitta la laicità”. Secondo il filosofo tedesco, infatti, è un bene che le religioni ritrovino un ruolo pubblico, “pena l’incapacità della democrazia di affrontare la sfida di convivenze pluraliste”. In verità Flores aveva già scritto libri, espliciti fin dal titolo, contro questa tesi – La democrazia ha bisogno di Dio? Falso! (Laterza) e Controversia su Dio (Ponte alle Grazie) –, ma nel testo odierno, con pagine del filosofo francofortese indirizzate al Nostro. Il direttore di MicroMega ritiene che l’autore di Etica del discorso abbia rinunciato alla democrazia radicale, e vede la radice di questo cedimento alle “tentazioni della fede” nell’illusione del suo cognitivismo morale.

La verità è che Flores, sia quando scrive di filosofia morale (L’individuo libertario, Einaudi), sia quando si occupa di politica (spesso le due cose sono tenute insieme in una prospettiva etica; cfr. Questione di vita e di morte, Einaudi), ha una coerenza logica e una lucidità che svelano le fallacie di molti intellettuali: si vedano l’attacco, puntuale, contro Agamben sul Coronavirus e tutti i saggi pubblicati nella sua rivista e ai testi politici apparsi sul Fatto Quotidiano. Posizioni radicali e mai scontate. Mai subalterne a nessun potere.

Due numeri monografici di MicroMega mettevano a nudo il Caimano per la sua familiarità con corruzione e illegalità. Oggi Flores non cambia idea, e non abbraccia la follia di B. al Quirinale, come fanno tanti “progressisti” senza vergogna. È un testimone coerente, alla Camus, del nostro tempo. Difensore di libertà, giustizia, democrazia radicale. Un filosofo dai grandi ideali intrisi di etica e materialismo esistenziale. Come mostrano i libri di cui sopra. Ogni persona di cultura dovrebbe leggerli.

 

Ddl Zan affossato? colpa di Pd-5s che l’han votato

In questi giorni è diventata mainstream un’opinione che prima viaggiava solo in qualche canale criptato del dark web o in certi consessi alcolici della Garfagnana, dopo il nocino: se una legge approvata alla Camera non passa al Senato, la colpa non azzoppa la legge al Senato, ma di chi l’ha proposta, sostenuta e votata in entrambe le Camere esattamente come aveva detto di fare. A sostenere la bislacca tesi non è solo Renzi (non ci sarebbe da scriverci un editoriale, non essendo una notizia lo stato in cui versa), insieme a tutta l’amorfa pletora dei “renziani”, buoni solo a copiaincollare i tweet a pappagallo del capo; ma fior di analisti e commentatori, secondo cui la colpa del leggicidio Zan è di Pd e 5Stelle, e niente affatto dei renziani, che la stessa legge volevano modificarla.

Così accade che gente studiata imiti il vocabolario primitivo dei complici della destra in fondi di un certo spessore analitico: Se Renzi – che non ha votato in Senato, anche se sarebbe pagato per quello, perché momentaneamente impossibilitato causa impiego concomitante in Arabia Saudita – e i suoi emissari dicono che Pd e 5Stelle portano la “responsabilità morale e politica” di aver voluto “forzare” e “mettere le bandierine” con “arroganza”, Stefano Folli su Repubblica dice che il Pd ha voluto fare una “prova di forza” e un “braccio di ferro” rifiutandosi di modificare la legge secondo i desiderata di Renzi. Anzi, fa di più: invita a chiedersi quale fosse “la strategia del Pd”, e a dirla tutta “non è del tutto chiaro” nemmeno “l’obiettivo di Enrico Letta”, il quale forse non voleva che passasse la legge scritta dal deputato del suo partito Alessandro Zan, ma voleva perdere “per coprire problemi interni sia al Pd sia all’alleato 5Stelle”, e magari “rilanciare una battaglia più generale contro i renziani (accusati di boicottaggio)”. Poverini, è inspiegabile che alcuni abbiano pensato a loro come ai principali tra i 16 franchi tiratori che a scrutinio segreto hanno votato con la destra: un partito fondato da un politico di così preclara lealtà! Il Pd avrebbe dovuto fare un “compromesso” e una “trattativa”: una trattativa Pd-Renzi-La Russa-Pillon ed erano tutti contenti.

L’ipotesi che a Renzi del ddl Zan non fregasse niente dall’inizio ma si sia avventato su un suo punto, quello sull’identità di genere, per avere come al solito qualcosa su cui esercitare la sua volontà di prepotenza e dimostrare quanto il suo partitello valga in Parlamento a dispetto di quanto poco valga fuori, oltre che per godere della disfatta del Pd, non sfiora i commentatori.

L’opinione corrente è corroborata da interviste a personaggi come il senatore Marcucci, che parla di “gestione fallimentare” da parte del Pd, che sarebbe il suo partito; cioè, il Pd per non essere fallimentare deve ascoltare Renzi, che l’aveva portato al 18% e in proprio viaggia sotto il 2.

Letta intanto sta per fare sui giornali la stessa fine di Zingaretti. Come tutti sanno, Zingaretti si è dimesso dopo essere stato insultato per mesi perché sosteneva il governo di cui faceva parte, invece di dar retta ai capricci di Renzi come tutti i giornali auspicavano. Così è nato l’attuale governo: il sistema confindustrial-editoriale sperava che gli elettori si sarebbero sorbiti il beverone di una maggioranza con tutti dentro, con Renzi salvatore della Patria per “aver mandato a casa gli incompetenti e aver portato Draghi” (così dice ancora lui), solo che le cose non stanno andando secondo i piani. Conte è ancora il leader di partito più gradito e Renzi il meno gradito dagli italiani, che piuttosto che dire di votare per lui si tranciano la lingua coi denti come Zenone di Elea.

Nel coro di biasimo del perdente Letta, Folli offre un paio di idee: se Letta “intendeva vincere attraverso una prova di forza, forse non ha reso un buon servizio alla minoranza che voleva tutelare”. Ecco con chi deve prendersela la comunità Lgbtqia+, con Letta. E se proprio vogliamo andare a fondo della questione, “non si ricorda alcun gesto convinto di Conte a favore della legge” (non è chiaro che tipo di gesto, oltre a quello di esprimersi a favore di una legge “di civiltà contro ogni discriminazione”: forse avrebbe dovuto sfilare al Gay Pride inguainato in una bandiera arcobaleno). Ecco chi è stato: Conte, che non era in Senato (e non per presenziare a gettone ai trastulli megalomaniaci del principe che si fa ritrarre in cielo coi droni, ma perché non è in Parlamento).

Da ultimo, due curiosità irresistibili: Renzi, che il Senato lo voleva abolire come seconda Camera per infilarci dentro amministratori locali dotati di immunità e non eletti dai cittadini, scopre d’un tratto che il Senato gli serve eccome per fare i suoi giochini in vista dell’elezione per il Quirinale. Letta si è accorto che Renzi è un po’ di destra; gli manca solo accorgersi che Marcucci è renziano e che Venezia è cara e poi è a cavallo.

 

Le gag di dave Chappelle, il nudo di Caitlyn Jenner e le persone transgender

L’ultimo show Netflix di Dave Chappelle, The Closer, ha suscitato le proteste della comunità LGBTQIA+ e delle associazioni per i diritti civili a causa delle sue gag transfobiche e omofobiche. Era già successo dopo ciascuno dei cinque special precedenti, per lo stesso motivo. Stiamo dunque passando in rassegna quelle gag. Poi ci dedicheremo all’esegesi. La cosa ci interessa da vicino: guardate le destre al Senato che esultano per la bocciatura del Ddl Zan: bit.ly/3mjnNfQ.

CHAPPELLE: “Non so perché, o come, siano diventati tutti così sensibili. Sapete chi mi odia di più? La comunità transgender. Questi figli di puttana sono davvero arrabbiati per l’ultimo speciale di Netflix. Non so cosa fare al riguardo perché mi piacciono. Da sempre. Mai avuto problemi con loro. Sto solo cazzeggiando. Penso di prendere in giro tutti. Come gruppo di persone, devono ammettere che… Non ho mai visto nessuno, in una situazione così esilarante, non avere il senso dell’umorismo. Sono nati con la sensazione di essere qualcosa di diverso da come sono nati, e questo è piuttosto divertente. Voglio dire, è divertente se non sta succedendo a te… Nemmeno io li capisco, ma so che prendono sul serio quello che dicono. Si tagliano via i cazzi. Non mi servono altre prove”.

“Avevo letto sul giornale che Caitlyn Jenner stava pensando di posare nuda in un prossimo numero di Sports Illustrated. E so che non è politicamente corretto dire queste cose, quindi ho pensato: ‘Fanculo, lo dirò io per tutti gli altri: bleah.’ A volte voglio solo leggere delle statistiche. Non capisco perché stipare una passera maschile in mezzo alle pagine sportive. Pensavo solo che quello non fosse il posto adatto. Ma non stavo dicendo che Caitlyn Jenner è una cattiva persona. Non sono arrabbiato con lei. Non sono nemmeno arrabbiato con Sports Illustrated. Se sono arrabbiato con qualcuno, forse sono solo arrabbiato con me stesso. Perché in fondo so di non essere abbastanza forte per non guardare quelle foto. E non credo di essere pronto a vedere cosa sta cercando di mostrare. Quindi Caitlyn, cazzo, se vai avanti con questa cosa, stronza, è meglio che ti impegni o vai a casa. Voglio che tu vada fino in fondo. Stile Hustler. Sa cosa significa stile Hustler, signorina? Significa allargare le labbra. Spero che allarghi le labbra e dentro ci sia un piccolo cazzo. Lo spettacolo è dietro le quinte”.

“Non ho problemi con le persone transgender. Il mio problema è il discorso sulle persone transgender. Sento che queste cose non dovrebbero essere discusse davanti ai neri. È offensivo, tutto questo parlare di come queste persone si sentono dentro. Da quando all’America frega un cazzo di come si sente dentro qualcuno di noi? E non riesco a togliermi di dosso il terribile sospetto che l’unico motivo per cui tutti parlano delle trans è perché degli uomini bianchi vogliono esserlo. Ecco, l’ho detto. Se fossero solo le donne a sentirsi in quel modo, oppure se i neri e i messicani dicessero: ‘Ehi, ci sentiamo ragazze dentro’, gli direbbero: ‘Stai zitto, negro. Nessuno ti ha chiesto come ti senti. Forza ragazzi, abbiamo delle fragole da raccogliere’. Puzza di privilegio bianco. Vi siete mai chiesti perché per Bruce Jenner è stato più facile cambiare sesso di quanto non sia stato per Cassius Clay cambiare il suo nome?”.

“Quindi se sono sul palco e dico una battuta che ti fa venir voglia di picchiare una trans, allora probabilmente sei un pezzo di merda e non venire più a vedermi”. (4. Continua)

 

Cottarelli sgomita: baby-pensione presente!

Ed ecco che avanza Cottarelli. In un’epoca in cui è importante farsi notare, anche il nostro fondomonetarista di riferimento, il sempiterno commissario alla spending review, che non ha mai revisionato alcunché, l’inviato per conto di Renzi nel board esecutivo del Fmi, poi mister-Prezzemolo nel programma di Fabio Fazio su Rai3, l’uomo del trolley che scala il Quirinale per strappare fugacemente l’incarico di presidente del Consiglio, subito riconsegnato, insomma lui, Carlo Cottarelli, si esibisce con un’intervista a La Stampa in cui si erge a paladino dei compromessi e alfiere del rigore dei conti, ma con moderazione. Chissà, dicono le malelingue (cioè, noi) che in un Paese in cui un uomo, che è andato in pensione a 59 anni, da Palazzo Chigi spiega agli italiani che devono lavorare fino a 70, chissà, dicevamo, che anche lui, che in pensione ci è andato a 59 anni, non possa ambire a fare agli italiani gli auguri in diretta tv la sera di Capodanno.

Supermario, l’applauso e l’udito selettivo

Breve storia triste dell’amato premier e del suo udito selettivo. Giovedì, Mario Draghi ha raccontato in conferenza stampa, con sorriso modesto ma compiaciuto, del clima di grande armonia respirato in Consiglio dei ministri sulla manovra: “Siamo davvero soddisfatti del provvedimento, alla fine della riunione c’è stato un applauso e credo fosse per i due ministri che sono qui con me stasera, Orlando e Franco, ma indubbiamente c’era una sensazione di condivisione del lavoro fatto”. Ecco, i racconti ovviamente anonimi del Cdm sono sensibilmente meno allegri. Più che un momento di “condivisione” il bilancio è stato “una trincea” (parola di Giuseppe Conte). E anche l’applauso era assai meno partecipato di come l’ha raccontato il premier. Il Cdm è stato chiuso con la lettura da parte di Draghi di un messaggio di (auto)congratulazioni inviatogli da Enrico Giovannini (del genere “dobbiamo essere orgogliosi di questa manovra”). Hanno applaudito in tre: lo stesso Giovannini, Renato Brunetta e Vittorio Colao. Gli altri assistevano in silenzio.

Santo Giubileo: piovono miliardi

È come Re Mida, il nostro Bob Aggiustatutto: quel che tocca diventa d’oro. Da quando Roberto Gualtieri è sindaco di Roma i soldi gli piovono in testa. L’altro giorno era la “mancetta” da 5 milioni di euro per chiudere (di nuovo) le famigerate buche di Roma. Un’iniezione di risorse e di fiducia concessa tramite apposito sub-emendamento, grazie ai buoni uffici del governo Draghi. Ora si fa sul serio, l’esecutivo ha messo sul piatto una super cifra per il Giubileo: un miliardo e mezzo di euro sull’unghia, con uno schiocco di dita. Improvvisamente, la sensibilità dell’esecutivo nei confronti dei destini della Capitale d’Italia pare cambiata. Lo stanziamento è “per completare la dotazione di infrastrutture della città”, come ha spiegato il ministro dell’economia Luigi Franco al termine del consiglio di giovedì. E poi c’è un altro mezzo miliardo, nella sezione turismo e cultura del Pnrr, confermato dal ministro Massimo Garavaglia, sempre “in vista del Giubileo del 2025, per renderla più attrattiva e distribuire meglio i flussi turistici”.

Bob Aggiustatutto ringrazia commosso: nemmeno si è seduto in Campidoglio che gli cadono miliardi in testa.

Zan, i cecchini e il pd senza pallottoliere

Al tempo dei governi Andreotti c’era un democristiano assai navigato, Franco Evangelisti, che era capace di prevedere i risultati degli scrutini segreti senza sbagliare un colpo. Lo stesso avveniva tra i banchi del Pci quando la tecnica parlamentare era l’indispensabile strumento ferrigno delle trattative sottobanco, e guai a sgarrare. Ce ne siamo ricordati nell’apprendere che la capogruppo del Pd al Senato, Simona Malpezzi, era convinta che il no alla “tagliola” per decapitare il ddl Zan alla fine avrebbe prevalso, sia pure per un paio di voti. È finita come sappiamo e subito l’attenzione si è concentrata sull’’“arroganza” di Enrico Letta, sul “traditore” Matteo Renzi d’Arabia, sulla festosa gazzarra inscenata dalla destra oscurantista e omofobica.

Qualcuno, a sinistra, si è detto convinto che la sinistra non poteva più fare altre concessioni sul testo già ampiamente emendato. Come se nessuna legge sui diritti delle persone fosse meglio di una legge che alcuni diritti li tutelava e altri invece no. Tra gli sconfitti, poi, quasi tutti hanno espresso la giusta riprovazione riguardo all’uso del voto segreto su materie così sensibili (e c’è pure chi, sottovoce, ha tessuto le lodi della sapienza volpina del senatore leghista Roberto Calderoli, autore del trappolone). Pesanti dubbi, infine, sono stati espressi sulla non equidistanza della presidente Casellati (ma dov’è la notizia?) che si sarebbe trincerata dietro fumose argomentazioni per ammettere il voto su tagliola e tagliolini. A questo punto, nel medioevo della Prima Repubblica, un leader piuttosto incazzato avrebbe chiesto: per quale motivo invece di due voti a favore ne sono usciti 20 contro? Domanda cui la senatrice Malpezzi ha risposto quanto segue: “I conti in Senato non erano sbagliati, ma i renziani hanno cambiato idea”. Ah, be’, un evento davvero inspiegabile.

Cina, India e pure gli Usa: la Cop ha gli alibi perfetti

I punti di partenza dei leader che si incontreranno alla Conferenza sul clima di Glasgow (da domani fino al 12 novembre) sono talmente distanti che, a meno che il G20 di questi giorni a Roma non detti una linea nuova e inaspettata, su cui procedere per inerzia, alla fine ci si potrebbe trovare di fronte all’ennesimo fallimento.

D’altronde è dal G7 di giugno che si prova a portare a casa un risultato che metta d’accordo le potenze del pianeta sul raggiungimento delle soglie indicate dall’Accordo di Parigi del 2015, ovvero tenere l’aumento delle temperature sotto i due gradi a fine secolo per evitare l’inasprimento di fenomeni come desertificazione, alluvioni e scioglimento dei ghiacciai. L’ideale sarebbe addirittura limitarlo a un massimo di 1,5 gradi centigradi. Il G20 dell’Ambiente di Napoli a luglio non c’era riuscito, rimandando l’opera di convincimento dei grandi inquinatori al G20 di Roma. Ma è molto probabile che anche da questo consesso non si ottenga molto. Resta l’ultima spiaggia, la Cop26, per trovare un punto d’incontro.

Queste le tappe auspicabili: arrivare nel 2050 a emissioni nocive zero, al 55 per cento entro il 2030. Questo il campo da gioco: convincere tutti i Paesi che hanno stabilito il 2060 come termine ultimo a uno sconto di dieci anni sulla tabella di marcia. Questa la realtà: India, Cina e Russia sono le più restie, il piano degli Stati Uniti si è progressivamente ridotto nelle ambizioni, l’auspicio del nostro ministro per la Transizione ambientale, Roberto Cingolani, di riuscire semplicemente a trascinare tutti dalla parte dei “buoni” sembra un’illusione, tanto più a fronte delle prospettive di ripresa economica post Covid, che continuano a impiegare principalmente fonti fossili. Il rischio è che questa situazione possa essere utilizzata come alibi. Le frasi sono già risuonate spesso, anche a Napoli: se non si impegnano i maggiori inquinatori mondiali, cosa mai potremmo fare noi?

Oltre a non essere presente fisicamente né al G20 né alla Cop26 (al suo posto, collegamenti in videoconferenza e il ministro degli Esteri, Wang Yi) il presidente cinese Xi Jinping qualche giorno fa ha anche reso noto il proprio piano per la riduzione delle emissioni inquinanti. O meglio, Pechino ha promesso di raggiungere il picco dell’inquinamento da carbonio prima del 2030 e poi di puntare alla neutralità per il 2060, riducendo l’intensità delle emissioni – quindi la quantità di emissioni per unità di produzione economica – del 65%. Nessuna novità: la Cina è di fatto rimasta sulle sue posizioni, nonostante, sempre gli accordi di Parigi, prevedano che ogni cinque anni vengano presentati piani di riduzione più ambiziosi. Ha dichiarato che aumenterà la sua quota di combustibili non fossili nel consumo di energia primaria al 25%, rispetto al 20% e che le foreste cresceranno di sei miliardi di metri cubi rispetto al 2005. Niente però su come ridurrà le emissioni nette nel prossimo decennio.

Al ribasso anche le ambizioni degli Stati Uniti: nei giorni scorsi il presidente Joe Biden ha dichiarato che l’accordo quadro trovato con i parlamentari democratici da 1.750 miliardi di dollari per le spese sociali e ambientali “prevede il più significativo investimento della nostra storia per affrontare la crisi climatica” e potrebbe permettere agli Stati Uniti di tagliare fino al 52% le emissioni entro il 2030. Un compromesso al ribasso se si tiene conto che inizialmente ne erano previsti almeno 4mila di miliardi e che gli Usa sono tra i più attivi negoziatori al momento.

L’India arriva invece a Glasgow senza un piano per il taglio delle emissioni, nonostante sia confermata la presenza del premier Narendra Modi che, si spera, possa cogliere l’occasione per un grosso annuncio. Lo stesso vale per il Brasile (che nei giorni scorsi sembra aver aperto all’ipotesi di scendere al 2050 – dal 2060 – come termine per la neutralità). Anche perché Brasile, Cina, India e Stati Uniti rappresentano quasi l’80 per cento del Prodotto interno lordo mondiale e anche la stessa percentuale di emissioni inquinanti.

Sarà assente anche Vladimir Putin, che però ha da un lato assicurato (in una telefonata al premier inglese Boris Johnson) di inviare per la Russia “una delegazione di livello”, dall’altro ha confermato nei giorni scorsi la data del 2060 per le emissioni zero.

Infine, l’Australia, tra i principali Paesi esportatori di carbone, che ha deciso di fissare al 2050 l’obiettivo di zero emissioni nette senza però obiettivi di riduzione entro il 2030.

Crisi climatica oltre i +2,7C° il pianeta non regge. Riscaldamento, inquinamento e disuguaglianze

Ancor prima che inizi, preoccupazione e un certo pessimismo aleggiano intorno alla Cop26 che inaugurerà domenica a Glasgow. Anche se la novità, dopo quattro anni di negazionismo trumpiano, è il ritorno degli Stati Uniti di Biden all’interno dei negoziati climatici, si giocherà comunque una partita difficile, insidiata dal ruolo incerto della Cina, probabilmente dal solito ostruzionismo dei Paesi produttori di petrolio e carbone, ma anche dalle inerzie di un sistema socio-economico globale imperniato da due secoli sui combustibili fossili.

Parallelamente cresce l’ansia di fronte all’imminente chiusura della finestra utile per poter agire con efficacia contro i cambiamenti climatici, che gli scienziati si sgolano a definire la più grave minaccia per il nostro futuro.

I traguardi raggiunti e il cambio di paradigma

Intanto, si tratterà della ventiseiesima puntata di una serie di eventi annuali cominciata a Berlino nel 1995 e che – a eccezione dello stop imposto nel 2020 dal Covid – prosegue nel difficile compito di tracciare un percorso condiviso di riduzione delle emissioni serra e sostenibilità a lungo termine sotto la guida della Convenzione Quadro Onu sui cambiamenti climatici siglata già nel 1992 (Unfccc). Tra speranze, lentezze e inciampi, i successi negoziali non sono mancati, tra questi l’approvazione nel 1997 del Protocollo di Kyoto e nel 2015 dell’Accordo di Parigi che chiede a tutti i Paesi del mondo (le 197 “Parti” della Convenzione) di presentare e migliorare periodicamente piani volontari di taglio alle emissioni, le cosiddette Nationally Determined Contributions (NDCs), con l’obiettivo di ridurre a meno di 2 °C, meglio se a 1,5 °C, il riscaldamento terrestre nel 2100 rispetto all’era preindustriale, in modo che i suoi impatti rimangano gestibili.

Per farlo occorre sempre più lasciare sotto terra carbone, gas e petrolio a favore di rinnovabili ed efficienza energetica e nell’uso delle materie prime, bloccare la deforestazione, la depredazione degli ecosistemi e il consumo di suolo, in poche parole fermare la crescita economica così come la intendiamo oggi, e contenere l’aumento demografico. Solo così si giungerebbe a metà secolo alla neutralità climatica, ovvero al bilanciamento tra le emissioni residue che inevitabilmente ancora ci saranno, e il loro assorbimento da parte dei “pozzi” naturali di carbonio come oceani e foreste. Mica poco.

Promesse mancate: la terra è in pericolo

Chiunque abbia partecipato a un’assemblea di condominio sa bene quanto sia arduo mettere tutti d’accordo, figurarsi conciliare le esigenze di 197 Paesi e dei loro 7,8 miliardi di abitanti su questioni che coinvolgono geopolitica, economia industriale, finanza e standard di vita che qui nel mondo sviluppato continuiamo a considerare “non negoziabili”, proprio come Bush senior disse vent’anni fa di quelli americani. Eppure il clima se ne frega dei nostri battibecchi, e la posta in gioco – l’abitabilità del pianeta – è talmente elevata che non possiamo più permetterci ritardi e fallimenti.

A che punto siamo? A stilare un quadro provvede il nuovo “Emissions Gap Report” dell’Unep, il programma ambientale delle Nazioni Unite che nel 2022 compirà mezzo secolo. Il rapporto, il cui titolo tradotto è “Il riscaldamento è acceso. Un mondo di promesse climatiche non ancora mantenute”, descrive le differenze tra i (sempre troppi) gas serra che ancora emetteremo nel 2030, nonostante il rispetto peraltro non scontato dei piani climatici nazionali, e le (minori) quantità che ci potremmo permettere di liberare per scongiurare il peggio dei cambiamenti climatici.

Le strategie nazionali ancora non bastano

L’applicazione delle strategie nazionali, considerando anche gli aggiornamenti recenti trasmessi da 120 Paesi, al 2030 incrinerebbe appena la curva delle emissioni globali che ora, già annullato il calo del 5,4% registrato nel 2020 a causa dei lockdown Covid, effimero e insignificante per il clima, si attestano sui 55 miliardi di tonnellate di CO2 equivalente all’anno, e questo scenario ci proietterebbe verso un riscaldamento di 2,7 °C a fine secolo.

Sempre meglio del terribile mondo “business-as-usual” che, senza politiche climatiche, arrostirebbe con 5 °C in più dell’attuale ponendo forse fine alla civiltà come l’abbiamo conosciuta finora, ma quanto basta per scatenare stravolgimenti comunque gravi e irreversibili. Per centrare l’obiettivo più stringente di Parigi (+1,5 °C) occorrerebbe invece dimezzare le emissioni entro otto anni fino a 25 gigatonnellate annue, puntando dritti a zero nei prossimi Anni Sessanta, missione che francamente ci sembra ormai quasi impossibile.

Più fondi di finanza climatica per non fallire

Siamo dunque fuori strada e servirebbe aumentare urgentemente l’ambizione e la collaborazione internazionale, affinando le regole per la rapida applicazione dell’Accordo e mobilizzando fondi di finanza climatica da almeno cento miliardi di dollari all’anno, e sarebbero proprio questi gli obiettivi della Cop26. Lo ha detto anche il segretario delle Nazioni Unite António Guterres, che ha definito “catastrofico” il percorso che stiamo seguendo, e intravede per la conferenza un elevato rischio di fallimento.

Mentre noi discutiamo, intanto i gas serra nell’aria hanno raggiunto nuovi record di concentrazione, con una media annua globale di 413 parti per milione di CO2 nel 2020 stando al nuovo “Greenhouse Gas Bulletin” dell’Organizzazione Meteorologica Mondiale, +49% dall’era preindustriale, e quanto la Terra non vedeva da almeno 3 milioni di anni, quando le temperature erano 2-3 °C più alte di oggi e i livelli marini 10-20 metri più elevati.

Anni extra caldi: soliti appelli?

Sempre il 2020 è stato uno dei tre anni più caldi da quando ci sono misure meteorologiche, tutti e sei gli anni più bollenti della storia nota sono concentrati dal 2015 in poi, e il 2021 si candida ad aggiungersi a breve con il suo carico di estremi tra cui l’estate più rovente mai registrata nelle terre emerse boreali, i 49,6 °C di Lytton (Canada), i 48,8 °C di Siracusa, le alluvioni in Germania e gli incendi dall’Ovest americano alla Siberia.

Da Copenaghen nel 2009 a Marrakesh nel 2016, a Madrid nel 2019, ogni anno si dice che sarà la “Cop” della svolta, dell’ultima chiamata, della redenzione.

La speranza che Glasgow davvero lo sia è l’ultima a morire, ma forse è meglio non cedere a troppa ingenuità.

“Le norme in manovra non migliorano il Rdc: puniscono solo i poveri”

Lo scenario è paradossale. I 5Stelle parlano di pericolo scampato per le modifiche al Reddito di cittadinanza approvate in manovra. “Poteva andare peggio” è il senso. Gli esperti delle misure anti-povertà sono invece preoccupati. “Non affrontano nessuno dei principali problemi del Rdc e sono ispirate a una logica punitiva dei poveri”, spiega Cristiano Gori, docente di Politica sociale a Trento, curatore del rapporto Caritas (il più completo finora sulla misura) e membro della commissione di esperti nominata dal ministro Orlando per rivedere la misura.

È al lavoro in commissione che si ispirano queste modifiche?

Il nostro lavoro sarà chiuso a breve, ma chiariamo un punto: tutti gli esperti concordano che abbiamo bisogno di uno strumento come il Rdc, ma serve correggerne alcuni aspetti per potenziarlo. Interventi che qui non ci sono.

Perché?

Si è voluto dare il messaggio che si sarà ancora più severi con i poveri. Dietro c’è lo stereotipo del povero come una persona che non vuole lavorare, verso cui avere un approccio coercitivo e punitivo. La narrazione dei “divanisti”, però, ignora i dati e chi sono i poveri beneficiari del Rdc: persone in condizione di fragilità con ridottissimi livelli di studio. E ci si dimentica che prima di tutto serve una domanda di lavoro.

Perché pensa sia un approccio “punitivo”?

Prima si perdeva il sussidio dopo la terza offerta di lavoro rifiutata, adesso dopo la seconda, inoltre prima il posto di lavoro doveva essere entro i 200 km, ora in tutta Italia. Anche il taglio di 5 euro mensili dopo i primi 6 mesi solo per chi non ha trovato lavoro è inutilmente punitivo. Il messaggio è: non lo hai trovato? Colpa tua, vai sanzionato. E poi è tutto da vedere se queste regole verranno osservate.

In che senso?

Giovedì è arrivata un’ulteriore stretta, ma già oggi i dati Ocse dicono che il Rdc è la misura anti-povertà con il sistema sanzionatorio più forte d’Europa. E proprio per questo è impossibile applicarlo tutto. Insistere non serve a molto.

Si apre alle agenzie private, cui andrà il 20% del sussidio se trovano lavoro al percettore.

Queste agenzie non si sono mai occupate di lavoratori con questo profilo di fragilità. Il governo di questa misura deve rimanere pubblico, si può dare un ruolo al privato ma allora perché non farlo anche con le imprese sociali?

Non vengono indebolite ancora le politiche attive pubbliche per il lavoro?

Purtroppo i centri per l’impiego sono stati trascurati da anni. La verità è che stiamo rincorrendo la debolezza storica del welfare italiano sulle politiche attive.

Altra modifica: i datori di lavoro potranno ricevere l’incentivo anche se offrono part time e contratti a termine.

Questo penso sia positivo. Molti poveri non riescono ad arrivare subito a un contratto stabile a tempo pieno. La priorità è rimetterli prima in pista.

Mario Draghi ha detto che la misura non deve ostacolare il mercato del lavoro.

Questo è il malinteso di fondo. Il Rdc è stato presentato come una misura di politica per il lavoro, ma non lo è. Gli interventi anti-povertà sono politiche sociali, devono assicurare alle persone una vita dignitosa. Ci deve essere la parte lavorativa, ma con aspettative realistiche sul tipo di risultati che si possono ottenere. La gran parte dei percettori del Rdc non è occupabile nell’immediato.

Il premier, e non solo lui, parla di fallimento su questo piano.

Non è vero, lo sanno tutti gli studiosi. Innanzitutto si sono posti obiettivi inarrivabili, poi ci si dimentica del ritardo storico sulle politiche attive e che c’è stato il Covid. Ma soprattutto serve una domanda di lavoro, che manca. Tutto il pacchetto punitivo, che ora viene potenziato, si basa sull’idea irreale che il lavoro ci sia e tu, povero, non lo vuoi prendere.

Cosa si deve fare allora?

I difetti principali sono noti: la misura penalizza i nuclei numerosi, gli stranieri e le famiglie del Nord. Finisce poi a molti che non sono in povertà assoluta, seppur non lontani e questo capita per un difetto di costruzione non per le truffe. Serve poi permettere ai beneficiari che trovano lavoro di cumulare lo stipendio con il Rdc per un po’. Cose che sono note da tempo, ma si continua a voler punire i poveri invece di occuparsi dei veri problemi della misura.