Tasse, il taglio è piccolo e premia chi sta meglio

La riduzione del cuneo fiscale è un leitmotive di tutti i governi della Seconda Repubblica e Draghi non fa eccezione. Ma la legge di Bilancio 2022 non porterà una busta paga più pesante per la gran parte dei lavoratori dipendenti. Il taglio di imposte di 8 miliardi che il governo ha annunciato è destinato a beneficiare solo le fasce medio-alte di reddito Irpef e per cifre irrisorie, anche se fosse speso interamente per abbattere aliquote, effettive e legali. Abbandonato a quanto si apprende il modello tedesco, al ministero dell’Economia l’orientamento è di concentrarsi solo sui lavoratori dipendenti e di intervenire sull’eccesso di tassazione registrato dalla “gobba” delle aliquote effettive nel segmento medio della curva dei redditi Irpef. Quelle cioè che per effetto dell’applicazione di detrazioni, deduzioni e bonus impazziscono letteralmente intorno al terzo scaglione producendo penalizzazioni e privilegi a casaccio con salti di aliquota anche superiori ai 15 punti percentuali. Vincenzo Visco e Ruggero Paladini del centro studi Nens hanno calcolato che l’imposizione effettiva sui redditi fino a 28mila euro raggiunge oggi il 31,51 %, contro il 27 dell’aliquota legale. Tocca poi il 45% tra i 28 e i 35mila euro, supera il 60% tra 35mila e 40mila e si attesta al 41,62 % tra 40 e 55mila euro, dove l’aliquota legale si ferma al 38%.

Secondo uno studio condotto da Lelio Violetti per fiscoequo.it, i contribuenti interessati a un intervento sullo scaglione Irpef compreso fra i 28mila e i 55mila euro, sono 8,79 milioni, il 21,2% del totale. Di questi 5,5 milioni hanno almeno un reddito da lavoro dipendente, su oltre 22 milioni totali, mentre i pensionati sono 3,1 milioni, su oltre 14 milioni.

Nel caso in cui si decida d’intervenire sull’aliquota legale al 38%, Violetti calcola che una diminuzione di 1 punto percentuale genera una riduzione dell’imposta lorda pari a 1,1 miliardi di euro con un guadagno medio annuo per i contribuenti di 30 euro per i redditi compresi fra 28mila e 35mila euro; di 85 euro per i redditi compresi fra 35mila e 40mila; di 160 euro per i redditi compresi fra 40mila e 50mila; di 235 euro per i redditi compresi fra 50mila e 55mila euro e di 270 euro per i redditi superiori.

Per mantenere una progressività che non penalizzi, come avviene attualmente, i contribuenti con redditi nello scaglione fra 28mila e 40mila euro, suggerisce lo studio, sarebbe necessario suddividerlo in due applicando un’aliquota del 32% fra 28mila e 40mila euro e del 36% fra 40mila e 55mila. Un intervento di questo tipo si stima costerebbe alle casse dello Stato 4,3 miliardi e comporterebbe una riduzione d’imposta che va da 180 a 1.020 euro ai due estremi dello scaglione.

Il target individuato da Draghi, il segmento medio-alto nella curva di distribuzione dell’Irpef , ridimensiona anche le aspettative di un possibile aumento dei consumi indotto dalle risorse messe in campo. A dare un’indicazione sono le statistiche elaborate dai ricercatori della Banca d’Italia in occasione di una precedente esperienza di riduzione del cuneo fiscale, il decreto 66/2014 consegnato alla stampa come “Bonus Renzi”. Il beneficio fiscale si rivolgeva esclusivamente ai lavoratori dipendenti con redditi tra 8.145 e 26mila euro, estremi poi ricalibrati nel 2018. Almeno la metà degli 80 euro sono stati spesi in consumi di generi alimentari, beni durevoli e mezzi di trasporto, ma le famiglie che in genere faticano ad arrivare alla fine del mese sono arrivate a spenderne l’80%.

Mazzata sull’edilizia: così vengono colpiti bonus e superbonus

La prima Legge di Bilancio del governo Draghi decreta la fine dell’era dorata degli incentivi fiscali per ristrutturare la casa che, senza ulteriori rifinanziamenti e proroghe successive, andranno in scadenza tra il 2024 e il 2025. Intanto il Superbonus, a meno di correzioni che potrebbero arrivare in Parlamento, non è più “super”. Il testo della manovra licenziato dal Consiglio dei ministri taglia le gambe al campione degli sconti fiscali per le ristrutturazioni edilizie, un unicum di generosità nel panorama europeo degli incentivi per il settore, che era stato un fiore all’occhiello del governo giallorosso e una bandiera del Movimento 5 Stelle.

Introdotto dal decreto “Rilancio” del 19 maggio 2020, il Superbonus consiste in una detrazione del 110% dell’importo da applicare sulle spese per interventi di efficientamento energetico (super ecobonus) o per quelli di adeguamento antisismico (super sismabonus) sostenute dal primo luglio 2020 al 30 giugno 2022.

La bozza della legge di Bilancio proroga il finanziamento dello Stato ai condomìni e case Iacp fino a tutto il 2023 ad aliquota piena, poi scende gradualmente al 70% nel 2024 per poi fermarsi al 65% nel 2025. Per i proprietari di case unifamiliari invece lo stop al Superbonus arriverà il 31 dicembre 2022. Ma se non si tratta dell’abitazione principale e non si è in grado di esibire un modello Isee (indicatore della situazione economica equivalente) al di sotto dei 25mila euro, i lavori possono essere avviati solo se si è presentata la Cila entro il 30 settembre 2021. Anche il fotovoltaico cade nella nuova tagliola di fine 2022 con un tetto massimo di spesa di 48mila euro. I beneficiari del Superbonus potranno continuare a scegliere se utilizzare direttamente la detrazione al 110% pagando meno tasse, cedere il credito d’imposta a terzi anche se si è “incapienti” per il fisco, ottenendo subito liquidità, oppure esercitare l’opzione dello sconto in fattura, facendo i lavori senza nessun esborso. Sono state proprio queste inedite facilitazioni monetarie, estese anche agli bonus edilizi, a decretare il successo di una norma che aveva faticato molto a decollare per le condizioni e i vincoli eccessivi richiesti all’inizio e poi rivisti negli ultimi mesi. Al contrario, però, nel testo di legge uscito dal Consiglio dei ministri dell’altro ieri la possibilità di cedere il credito a un ente finanziario o alla ditta che effettua i lavori non è stato prorogato per tutti gli altri bonus di recupero edilizio, ecobonus e antisismico. In aggiunta il bonus facciate, largamente apprezzato e utilizzato soprattutto dai condomini nei grandi centri urbani, subisce un sostanzioso taglio di aliquota “in corso d’opera”.

Le fatture pagate entro il 2021 potranno essere ancora scontate al 90%, quelle saldate dal primo gennaio del 2022 solo al 60%. Dal 2023 si torna al bonus ristrutturazioni al 50% o in alternativa si può tentare di accedere al Superbonus ridotto al 65%, ma non basterà una semplice tinteggiatura. In generale i bonus tradizionali sono stati rifinanziati per altri tre anni, fino al 2024. Si riduce pure il bonus mobili, si passa da un tetto finanziabile di 16mila euro di spesa a 5mila.

Secondo un’elaborazione del Cresme, nonostante la flessione delle attività dovuta alla pandemia, nel 2020 sono state presentate un milione e 519mila domande di ristrutturazione per accedere a incentivi fiscali, che hanno veicolato investimenti per 25 miliardi di euro, il 54,6 del totale degli interventi di manutenzione straordinaria sul patrimonio residenziale. I dati al 30 settembre 2021 dell’Enea sull’utilizzo del Superbonus dicono che il totale delle spese ammesse a detrazione hanno raggiunto i 7,5 miliardi.

“La delegazione dei Cinquestelle al governo sta facendo pressione perché il testo che andrà in Parlamento venga riaperto e modificato, si deve togliere per i condomìni e le case unifamiliari il vincolo dell’Isee entro i 25mila euro e ripristinare la cessione del credito e dello sconto in fattura per tutti gli altri bonus” assicura al Fatto il “padre” del Superbonus, il deputato Riccardo Fraccaro. “Il testo che è entrato al Consiglio dei ministri disinnesca e rende inefficace una misura che ha determinato una crescita superiore a Francia e Germania – continua l’ex sottosegretario nel governo Conte-2 – abbiamo trasformato l’edilizia nel settore economico più green che abbiamo in Italia e da traino della nostra economia. Far passare questi nuovi vincoli vuol dire rinunciare a un futuro basato sulla sostenibilità ambientale e lo sviluppo economico”.

Montecitorio, epopea della iella

Come certe case, che gettano le fondamenta sopra i cimiteri indiani, diventano il soggetto di un racconto dell’orrore, la storia di Montecitorio può far capire quale sortilegio abbia trasformato un magnificente palazzo istituzionale nel fortino di una classe politica dai più considerata opportunista e lontana dalla realtà. Quella dell’edificio della Camera, in altre parole, è una vicenda sfortunata dal principio.

La racconta – con altre e più nobili finalità – un bel documentario (in onda lunedì alle 21 su Rai Storia) trasmesso in anteprima nell’aula dei gruppi parlamentari. La iella si manifesta da subito: il progetto originale commissionato da papa Innocenzo X a Gian Lorenzo Bernini non vedrà mai la luce. Doveva diventare la fastosissima residenza privata della famiglia Ludovisi, ma il principe Niccolò muore poco dopo l’inizio dei lavori (1653). Il cantiere si arresta immediatamente: Montecitorio costa già troppo.

Una versione rivista e corretta del progetto iniziale viene terminata a fine secolo, diventando sede della Curia pontificia fino alla breccia di Porta Pia (1870): nel nuovo Regno d’Italia, Montecitorio ospita la Camera dei deputati. L’aula semicircolare viene ricavata all’interno del cortile grazie al progetto dell’architetto Paolo Comotto, che copre le gradinate con una struttura di ferro e legno. Una scelta disgraziata: l’ambiente è gelido d’inverno e torrido d’estate. Da qui la “cerimonia del ventaglio”, il tradizionale saluto della stampa parlamentare alle prime tre cariche dello Stato: il primo ventaglio fu regalato il 7 luglio 1893 dai giornalisti al presidente della Camera Giuseppe Zanardelli, che cercava sollievo dall’asfissia dell’aula sventolando freneticamente fogli di carta.

Si decide presto che Montecitorio, così com’è, non va bene. Il nuovo e definitivo progetto risale al 1902, l’opera è di Ernesto Basile. La Camera raddoppia: un altro edificio viene aggiunto al disegno berniniano. Il nuovo complesso ha dimensioni ciclopiche, con conseguenze sull’intera urbanistica capitolina: Montecitorio invade la piazza e richiede ingenti demolizioni. Lievitano i costi: solo per i palazzi abbattuti l’opera passa da 2 a 3 milioni. Forse anche per questo i romani non se ne innamorano. L’ambizioso progetto liberty di Basile – come spiega nel documentario il prof. Ettore Sessa dell’Università di Palermo – suscita polemiche per l’aspetto quasi marziale, “fortilizio”, conferitogli dalle quattro torrette sugli angoli del palazzo. Non aiutano nemmeno gli interni lignei con cui viene arredata l’aula, criticati perché la fanno somigliare – parola di Sessa – “a un circolo di notabili”.

Già dalla sua genesi architettonica, insomma, Montecitorio viene raccontato come una rocca fortificata, separata dal resto della società, sovradimensionata e costosa. La parola “casta” diventerà di uso comune quasi un secolo dopo.

5S: “Ora alla pari con i dem”. Ma mezzo Pd rivuole Renzi

Da una parte c’è il maggiorente dem Lorenzo Guerini ad avvertire Enrico Letta, ma anche i grillini, che di chiudere la porta a Matteo Renzi e Carlo Calenda non se ne parla: “Penso che il campo largo di cui ha parlato il segretario sia un dovere che dobbiamo portare avanti con grande impegno”. Dall’altra, il pur contiano Riccardo Fraccaro, furibondo per le modifiche al Superbonus – una sua misura – che scandisce quello che tanti 5Stelle pensano: “L’abbraccio con il Pd è una strategia perdente”.

Fuochi opposti, e in mezzo c’è Giuseppe Conte, presidente del M5S che da dopo le Comunali vive in un eterno mare grosso. E per tirarsi fuori da acque troppo agitate deve innanzitutto ridefinire il rapporto con i dem e difendere i confini della coalizione giallorosa, il suo perimetro. Per questo le contorsioni dem su Renzi e Calenda suscitano nuovo fastidio ai piani alti del M5S. Mentre in serata Conte lo ripete ad alcuni dei suoi: “Mai con quei due e i loro partiti personalistici, alle prossime elezioni chiederemo agli italiani il voto utile”. È la strada obbligata per provare a tenere assieme i gruppi parlamentari già intossicati da rogne croniche e nuovi rancori, compresi quelli per le recenti nomine interne. Mostrarsi meno adagiati sui dem e indifferenti alle loro convulsioni sulle alleanze. Non è un caso che nelle scorse ore Luigi Di Maio abbia quasi esortato l’ex premier: “Il rapporto con il Pd deve essere alla pari”. Un’esigenza che Conte pare aver compreso. Già nell’assemblea congiunta di una decina di giorni fa, aveva giurato che verso i dem non ci si porrà in modo subalterno. E aveva insistito sul nodo dell’identità del M5S: “Dobbiamo decidere cosa siamo”.

Così ieri sul Fatto la neo-vicepresidente vicaria Paola Taverna lo ha detto dritto: “Il M5S non ha mai parlato di nuovo Ulivo, ora ci aspettiamo che il Pd ci dimostri di voler fare un percorso assieme sui temi, a partire dal salario minimo”. Ed è quanto Taverna sosteneva da tempo anche nelle conversazioni con l’avvocato, proprio come altri contiani come il tesoriere alla Camera Francesco Silvestri e l’ex ministra Lucia Azzolina. Sollecitazioni, segnali. E qualcosa si è mosso. Lo conferma quanto fatto trapelare dal M5S sulla partita del Colle: ossia che l’elezione di Mario Draghi al Quirinale potrebbe andare bene, anche a Conte, mentre su un nome del Pd il Movimento proprio non reggerebbe. Mentre l’apparente rottura pubblica di Enrico Letta con Renzi dopo il disastro in Senato sul ddl Zan era stata accolta come una liberazione. Però, ieri mattina, Guerini e tutti i suoi di Base Riformista dicono ovunque che con l’amico Matteo non si può rompere. “L’alleanza con M5S e Pd non può bastare” teorizza Alessandro Alfieri, il portavoce della corrente dem. E Letta a stretto giro precisa: “Io lavoro sempre in una logica di centrosinistra inclusivo, vincente”. Così Alfieri incassa: “Bene Letta”. Ma non può andare bene a Conte, che oltretutto in giornata deve leggere di un Fraccaro bellico: “Se manteniamo una linea di coerenza e rilancio dei nostri temi senza essere succubi di qualcuno potremo crescere, il contrario non è percorribile”.

Certo, l’ex ministro è nervoso per la questione Superbonus (“con il nuovo testo in manovra non è più super”). Ma il tema della rotta resta centrale. Lo conferma Azzolina al Fatto: “Il tema è quale sensibilità prevale nel Pd: forse quella che vuole rincorrere a tutti i costi Renzi anche dopo il ddl Zan?”. La risposta pare complicata, in un venerdì in cui i 5Stelle mettono in fila riunioni via Zoom sulla manovra. Cercando il modo di difendere qualche bandiera.

Il Potus incontra il Papa: colloquio su virus e povertà

Joe Biden è “un buon cattolico” e deve continuare a ricevere la Comunione; anzi dovrebbe, perché la conferenza episcopale degli Stati Uniti, i cui leader sono ‘anti-Francesco’ e ‘pro-Trump’, gliela vuole negare. Biden trova così in Vaticano, nelle parole del Papa, la “benedizione” che i suoi vescovi gli negano. L’incontro tra Bergoglio e Biden, il secondo presidente Usa cattolico – il primo fu John Kennedy –, dura un’ora e un quarto. È il presidente stesso a rivelarne alcuni particolari: non s’è parlato d’aborto, ma di lotta contro la povertà, di contrasto alla pandemia, della questione dei migranti e delle guerre.

Le fonti Usa sottolineano che fra il presidente e il pontefice c’è “un vero feeling”: Biden ha definito Francesco “il più grande combattente per la pace” e dopo il colloquio ha twittato: “È stato un onore incontrarlo di nuovo in Vaticano. Lo ringrazio per il sostegno ai poveri del mondo e a quanti soffrono per fame, conflitti e persecuzioni”. Biden ha pure lodato la “leadership” del Papa “nel combattere la crisi del clima e la pandemia”. In sintonia il commento della first lady Jill Biden: Francesco “è stato meraviglioso”, ha detto, prima di entrare in un caffè romano con Brigitte Macron. La delegazione in Vaticano comprendeva anche il segretario di Stato Antony Blinken e numerosi funzionari e diplomatici. Alla fine dell’incontro, Biden ha scherzato con il Papa sulla loro età: “Che età avresti se non sapessi che età hai?”. Francesco ha sorriso e Biden ha risposto: “Io 60 e tu 65!”. In realtà ne hanno 79 e 85.

Negli Usa, intanto, è in corso un’offensiva negli Stati più conservatori per limitare l’accesso all’aborto ed è attesa una sentenza della Corte Suprema, che può minare il diritto di aborto nell’Unione. Biden vuole che le donne possano continuare a decidere se portare a termine una gravidanza; i vescovi glielo contestano e pensano che gli debba essere negato l’accesso ai sacramenti. I prelati Usa torneranno a discutere in novembre la bozza di un documento sull’eucarestia che vieta il sacramento ai politici pro-aborto. Il Papa li ha però invitati a non farlo, per evitare divisioni. Ieri, il cardinale Raymond Leo Burke, un rivale di Francesco e un ‘no vax’, appena ripresosi dal Covid, ha ribadito il suo no alla comunione per chi non s’oppone all’aborto.

Per Biden, gli impegni internazionali a Roma e a Glasgow preludono a una settimana in cui, come ha riferito, “si gioca non solo la presidenza, ma anche la maggioranza in Congresso e l’eredità di Lyndon Johnson e Franklin Delano Roosevelt”. Il presidente scuote i democratici per convincerli ad appoggiare il suo nuovo piano di spesa da 1.750 miliardi di dollari, con oltre 550 miliardi di investimenti nella lotta contro il riscaldamento globale. Ma il piano resta in bilico e le Suppletive del 2 novembre possono alterare i rapporti di forza nel Congresso.

A margine del G20, Biden ha numerosi impegni. Ieri pomeriggio ha incontrato a Villa Bonaparte, l’ambasciata di Francia presso la Santa Sede, il presidente francese Emmanuel Macron (il primo ‘faccia a faccia’, dopo la ‘crisi dei sottomarini’ esplosa a settembre nel triangolo Canberra-Parigi-Washington). I due leader si sono abbracciati, a metterci una pietra su, almeno a uso dei media.

G20, Draghi tampina Biden per essere l’alleato più fedele

Joe Biden e sua moglie Jill, in piedi all’ingresso di Palazzo Chigi, mano sul cuore, che ascoltano l’inno americano. Accanto, Mario Draghi e sua moglie, Serena, alla prima uscita pubblica da First Lady. Il premier incassa la photo opportunity alla quale puntava dal suo arrivo alla guida del governo, mentre gli sherpa lavorano ancora alle conclusioni del G20 (oggi e domani a Roma), che si preannuncia in salita. La Cina resta l’osso più duro sulla strada di un accordo nella lotta al cambiamento climatico. Pechino, presentando il piano aggiornato sul taglio delle emissioni, ha confermato che raggiungerà la neutralità carbonica entro il 2060. Obiettivi troppo lontani nel tempo rispetto agli impegni presi da Ue e Usa.

E allora, Draghi punta a porsi come mediatore per conclusioni del vertice che non siano fallimentari, che non gettino un’ombra sulla Cop 26 di Glasgow, in partenza lunedì. Non è secondario il bilaterale con il premier indiano, Narendra Modi. Anche l’India sulla transizione climatica è distante dagli obiettivi centrali per l’Occidente. Ma il premier spera di aprire una crepa nel muro a oriente rispetto alle azioni da intraprendere per limitare il riscaldamento globale a 1 grado e mezzo al massimo, come prescrivono gli obiettivi di Parigi del 2015. Modi diventa centrale, vista l’assenza a Roma di Xi Jinping e di Putin. Tanto più visto che l’India è un paese dove molte scelte sull’energia sono ancora da fare. E dunque questo bilaterale, dura un’ora come quello con il presidente degli States. Da vedere come andrà a finire.

Dopo essere uscito dal passaggio sulla manovra con una fatica crescente nella gestione della sua maggioranza, Draghi cerca una sorta di incoronazione come alleato più fedele degli Usa. “Grazie per la tua leadership in un anno complesso”, gli avrebbe detto Biden, secondo fonti Usa. Fonti italiane calcano la mano: “Grazie per il tuo lavoro straordinario”. Le immagini della giornata rimandano due leader più ingessati, più distanti.

Cina e Mediterraneo restano gli argomenti più critici. Perché il ritiro da Kabul degli Usa in agosto ha lasciato l’Europa da sola, a gestire una situazione di crisi nel Mediterraneo. Senza contare che il patto Aukus tra Australia, Uk e Usa, aveva portato la Francia solo qualche settimana fa a perdere un’importante commessa di sottomarini. Insomma, l’incontro tra Draghi e Biden arriva dopo che le relazioni Usa-Ue si sono rivelate più deludenti del previsto per l’Europa. L’investimento americano lo fotografa il New York Times: con la fine dell’era Merkel e le relazioni complesse con un Macron in campagna elettorale, Draghi è un “interlocutore chiave”.

A leggere i comunicati finali la sintonia parrebbe totale, le parole sono talmente altisonanti da rivelare la necessità di tale narrazione. “Eccellente cooperazione” fra la presidenza italiana del G20 e gli Usa nella gestione delle più importanti sfide globali, si legge nel comunicato di Palazzo Chigi. Ovvero, “la lotta alla pandemia, il contrasto ai cambiamenti climatici, il rilancio dell’economia, il rafforzamento del sistema multilaterale”. Si parla anche di Afghanistan, di Mediterraneo e Libia. La Casa Bianca a sua volta il colloquio lo racconta così: “Hanno discusso le sfide alla sicurezza nella regione del Mediterraneo e hanno riaffermato l’importanza degli sforzi della Nato”. Accento sull’impegno per i rapporti bilaterali e il legame transatlantico anche attraverso la Nato. Passaggio non secondario, vista la discussione su una difesa autonoma da parte dell’Europa. Con l’Italia che ha battuto sulla necessità che sia complementare con la Nato. E ancora si parla di “lavoro in corso per assicurare che le regole che governano l’economia del 21esimo secolo siano basate su valori democratici condivisi”. Anche qui, evidentemente, gli Usa cercano di portare l’Italia dalla propria parte rispetto all’influenza crescente di altri Paesi, Cina in testa. E se Biden ringrazia Draghi per il lavoro fatto per sostenere il popolo afghano, impegni concreti da parte degli Usa nel quadrante Mediterraneo però non se ne vedono. Come non se ne sono visti nel G20 straordinario.

Subito dopo Biden, Draghi incontra Modi. L’indiano aveva partecipato al G20 speciale sull’Afghanistan, disertato da Cina e Russia. Ma il focus è un altro: il colloquio, come dicono da Chigi, infatti, affronta in particolare le tematiche della lotta ai cambiamenti climatici e la transizione energetica.

Sicilia, gli amorosi sensi tra renziani e Carfagna: “Mara sei straordinaria”

“Cara Mara”, “Caro Davide”. Se servisse qualche altra prova della corrispondenza di amorosi sensi tra Matteo Renzi e il centrodestra è arrivata ieri con la “Leopolda siciliana” organizzata dal senatore renziano Davide Faraone. Una tre giorni che si concluderà domenica e che tra gli ospiti vede alternarsi esponenti e ministri renziani (ieri è stato il giorno di Elena Bonetti, oggi di Teresa Bellanova) e del centrodestra: la prima ospite è stata la ministra di Forza Italia, Mara Carfagna, mentre oggi interverrà il leghista Giancarlo Giorgetti. Una scuola di politica per gli under 30 che è la prima conseguenza del patto siglato in Regione Siciliana, e benedetto da Marcello Dell’Utri, tra i renziani e i forzisti di Gianfranco Miccichè (di cui si fa il nome per la presidenza della Regione nel 2022). Obiettivo: un grande centro a livello nazionale per Draghi o un centrodestra allargato ai renziani. Ad aprire la kermesse è stato Faraone con un intervento in cui ha elogiato il governo Draghi auspicando che vada avanti anche oltre il 2023 e attaccando a testa bassa “l’assistenzialismo” del M5S. Poi ha presentato così la Carfagna: “Cara Mara, sei una ministra straordinaria: stai dimostrando passione e competenza”. La responsabile del Sud di FI, negli ultimi giorni, con i colleghi Brunetta e Gelmini, ha aperto una frattura dentro il partito chiedendo a Berlusconi di non piegarsi alla Lega e facendo pensare a una sua uscita. Ieri ha parlato di Sud e ha condiviso con Faraone gli elogi al governo Draghi attaccando M5S e Lega: “Con la normalizzazione di Quota 100 e del Reddito di cittadinanza la stagione del populismo è stata archiviata”. Poi, a chi le chiedeva di uscire da FI, ha risposto: “Finché ci sarà una legge maggioritaria bisogna stare in coalizione e far vincere la parte moderata, anche allargandola”. Un invito diretto a Iv. Nel pomeriggio si sono alternate le ministre Lamorgese e Bonetti (dura col Pd sul ddl Zan) e oggi arriverà Giorgetti. La strada verso il centrodestra è segnata.

Senato, l’ex premier prende lo stipendio per volare in Arabia

Dell’ultima trasferta se ne sono accorti tutti, non foss’altro perché mentre Matteo Renzi si trovava in Arabia Saudita il Senato affossava il ddl Zan. Ma il clamore della vicenda non deve far pensare a un episodio isolato: dall’inizio della legislatura, il leader di Italia Viva è tra i meno presenti ai lavori d’aula, potendo vantare solo il 39 per cento di partecipazioni ai voti (la fonte è OpenParlamento). Il resto, più di 6 sedute su 10, sono missioni (20 per cento) o assenze ingiustificate (41 per cento), vuoi per conferenze in giro per il mondo, meeting internazionali o persino presentazioni dei suoi libri.

D’altra parte, in molti di questi viaggi Renzi ha modo di arrotondare gli oltre 10mila euro lordi mensili garantiti dal Senato, a cui se ne aggiungono fino ad altri 10 mila tra diaria e rimborsi. Per dare sostanza ai freddi numeri, basta poi ripercorrere a ritroso l’agenda del senatore confrontandola con il programma dei lavori di Palazzo Madama.

2018. Il primo anno di legislatura serve a Renzi per prendere le misure della nuova attività di conferenziere. Si affida ad alcune agenzie internazionali e inizia a farsi vedere all’estero. Il 19 settembre, per esempio, arriva in aula il Milleproroghe ma Renzi è in tour in Asia (Shanghai, Macao, Hong Kong) e parteciperà ai lavori soltanto dal giorno dopo. In estate l’ex premier vola anche in Sudafrica per il centenario della nascita di Nelson Mandela, ma la sua assenza viene ricondotta a un “incarico ricevuto dal Senato”.

2019. È l’anno più florido per il senatore conferenziere. Il 4 aprile è a Zurigo per il Fund expert Forum e si perde una giornata di interrogazioni parlamentari. Il 14 maggio il Senato vota la nuova legge che inasprisce le pene per il voto di scambio politico-mafioso, ma l’ex premier è a Seul per l’Asian Leadership Conference. Il 17 luglio c’è invece il via libera definitivo al Codice Rosso contro la violenza di genere, con Renzi in altre faccende affaccendato: il 16 è ad Atene per un dibattito, poi parte per Yellowstone per “discutere di futuro”. Il 28 ottobre Renzi pubblica su Twitter una foto da Central Park, New York, “tappa obbligata per smaltire il jet lag”: il Senato è lontano e Renzi non può votare per la richiesta di utilizzo delle intercettazioni sul forzista Luigi Cesaro.

2020. Il pre-lockdown promette bene. Il 10 gennaio Renzi va in Cina e risulta in missione per i giorni successivi, compreso quando, il 15, il ministro degli Esteri Luigi Di Maio rende un’informativa in aula sul conflitto in Libia. Il 17 febbraio Renzi è in Pakistan per “due giorni di sci” e per coltivare “relazioni internazionali”: “Se ad altri non capita non so che farci”. Il giorno dopo, complice un odg fiacco o magari la stanchezza del viaggio, Renzi non è a Palazzo Madama. D’estate il Covid concede una tregua e Renzi si dà da fare con le presentazioni del suo libro La mossa del cavallo. Il 16 luglio, per dirne una, risulta “in congedo” e non vota il decreto Rilancio, ma partecipa a due presentazioni letterarie (Pontedera e San Lazzaro di Savena, ovvero Toscana ed Emilia).

2021. Il 26 gennaio Paola Taverna legge la lettera con cui Giuseppe Conte annuncia le proprie dimissioni. Renzi è appena atterrato da Ryad, Arabia Saudita, dove tornerà due giorni più tardi per incontrare “l’amico” Bin Salman. Il 2021 porta a Renzi anche un nuovo libro, Controcorrente, e dunque nuove presentazioni. Il 29 luglio il Senato vota il dl Reclutamento dopo una seduta interminabile chiusa a tarda notte. Renzi nel frattempo è nel ben più quieto Hotel Cenacolo di Assisi, intervistato da Gaia Tortora. Il 15 settembre è un’altra giornataccia al Senato, dove si votano la proroga dello stato di emergenza e le prime regole sull’obbligo di Green pass. Renzi ha di meglio da fare: è a Milano, nella lussuosa piscina dei “Bagni misteriosi”, dove coccola gli elettori “un po’ più di destra”. Il resto è storia recente. Questa settimana Renzi è volato prima in Germania per l’Unternehmertag, un incontro a invito destinato soprattutto a manager e imprenditori; e poi a Ryad, dove siede nel board of trustees del FII Institute. Uno dei tanti incarichi privati che l’ex premier può preferire al lavoro di senatore.

Open, la Gdf trova la proposta di Mr.Moby a Renzi per l’1,5%

La bozza di un contratto che prevede un pagamento dell’1,5 per cento alla Digistart srl (società allora amministrata e partecipata al 100 per cento da Matteo Renzi) nella sua veste di consulente da parte di una società privata di un armatore: Vincenzo Onorato. La percentuale indicata nella bozza sarebbe stata calcolata a beneficio della società di Renzi sui ricavi derivanti dai nuovi clienti e sugli investimenti dei nuovi investitori frutto dell’attività svolta come advisor dalla Digistart a beneficio della società del gruppo di Onorato, patron dei traghetti Moby. La Guardia di Finanza ha trovato la bozza di accordo nel corso delle sue indagini sulla Fondazione Open, allegata a una email. Risale all’estate del 2019. Si tratta di un contratto che alla fine non verrà mai concluso. L’accordo prevedeva “la fornitura di servizi di sviluppo aziendale, inclusa la presentazione della ‘società’ a potenziali investitori e potenziali clienti”.

La circostanza – che non ha rilievo penale – emerge da un’informativa delle Fiamme Gialle del 15 aprile 2021, depositata agli atti dell’indagine sulla Fondazione Open. L’inchiesta, appena chiusa, della procura di Firenze, vede indagati (per altri fatti) con l’ipotesi di concorso in finanziamento illecito, l’ex premier Renzi e gli ex ministri Maria Elena Boschi e Luca Lotti più l’imprenditore Marco Carrai e l’avvocato Bianchi, che della Open era presidente. Scrive la Gdf: “Nel corso del 2019, Renzi e Carrai con la società Digistart srl a loro riconducibile hanno dimostrato un ‘interesse’ di natura imprenditoriale, verso il gruppo societario riconducibile a Vincenzo Onorato”. La Digistart è una società nata nel maggio del 2019, che ha avuto vita breve. Amministratore unico all’inizio era Matteo Renzi, carica che poi verrà assunta (ma solo dal 9 al 25 settembre 2019) da Marco Carrai, per poi tornare a Renzi, fino al novembre del 2019 quando la società è stata messa in liquidazione, e poi cancellata a febbraio 2020. Nell’informativa si fa quindi riferimento a un “manoscritto” sequestrato il 26 novembre 2019 nello studio di Marzo Fazzini (non indagato) e che secondo la Finanza riporta gli argomenti trattati da Fazzini e Carrai “nel presumibile incontro tenutosi il 29 luglio 2019”. Nell’appunto c’è scritto: “Business development and public affair. Ogni fine anno riconoscere l’1,5% dell’ammontare investito in borsa da parte degli investitori da noi introdotti. Resta esplicitamente esclusa l’intermediazione finanziaria. + Onorato va bene così”. In questo appunto si parla solo di investitori e non di nuovi clienti per il calcolo dell’1,5. Il primo maggio del 2018 è Ernesto Carbone (ex parlamentare del Pd e non indagato) che inoltra a Onorato una bozza di contratto in lingua inglese denominata “Business Development and pubblic Affair Advisor Agreement” e che – annotano gli investigatori – “risulta precompilato per la parte della società” Digistart “la quale figura in qualità di ‘Advisor’, con la previsione di una ‘success Fee’ dell’1,5%”. “Il contratto di consulenza allegato all’email – aggiunge la Gdf – prevede la fornitura di servizi di sviluppo aziendale, inclusa la presentazione della ‘società’ a potenziali investitori e potenziali clienti”. Nei giorni successivi, il 5 agosto 2019, Carbone invia a Marco Carrai il pdf di due documenti: “Confidentiality Agreement.pdf” e “Advisor_agreement_digistart.pdf”. “Tali documenti – scrive la Finanza – revisionati e ‘già debitamente sottoscritti’ da parte della Moby, sono stati inviati a Carbone con preghiera di ‘restituirli firmati’”. Alla fine verrà informato anche Renzi, al quale Carrai – secondo la Gdf – trasmette “specifici file riferibili alla consulenza a favore della Moby”. Il 6 e il 9 agosto 2019 Carrai invia a Renzi il documento “Bp Moby Group”, mentre il 7 agosto invia il documento “Moby Confidentiality Agreement 2”. Ma perché Carbone si interessa a questa consulenza? “È un accordo di riservatezza – spiega Carbone – su eventuale contratto che non è mai stato fatto. Io seguo la questione nel mio ruolo di avvocato e in quel momento non ero parlamentare”. Sentito dal Fatto, Onorato invece non ricorda: “Sono passati molti anni, potrebbe esser stato fatto nell’ambito della ricerca di nuovi finanziatori”. Marco Carrai precisa: “Ogni mio atto è perfettamente lecito. La Digistart è un’azienda che non ha chiuso nessun affare perché è stata aperta e chiusa subito. Io peraltro ne sono stato amministratore solo qualche settimana. Non ho mai chiuso nessun accordo con il gruppo Moby, nemmeno personalmente. Non vedo peraltro di quale ipotesi di reato stiamo parlando”.

Negli atti dell’indagine Open c’è anche una lettera di Onorato del 2016 inviata a Luca Lotti. Il patron di Moby (non indagato) è tra i finanziatori della Open per 300 mila euro in due anni: nel 2015 vengono versati alla Fondazione 50 mila euro da Onorato personalmente e 100 mila da Moby. Stessa cosa nel 2016. I finanziari osservano che “le contribuzioni a favore della Open erogate da Onorato e Moby Spa, appaiono finalizzate a consolidare e rafforzare i rapporti con esponenti politici del Pd collegati alla Fondazione Open (in particolare con l’on. Carbone e con l’on. Lotti, quest’ultimo con incarichi di Governo) potenzialmente funzionali agli interessi imprenditoriali del gruppo Moby”. Fonti vicine a Lotti fanno sapere che il deputato ha svolto il suo lavoro “mai per interessi di parte”.

Troppo Fuortes

La democrazia ritrovata dopo la buia parentesi del vulnus contiano fa passi da gigante. L’altroieri, per dire, i ministri hanno potuto leggere con ben 8 minuti d’anticipo le 94 pagine della legge di Bilancio per studiarsela nei minimi particolari (5,1 secondi a pagina) prima di approvarla. Alla fine, ha rivelato il premier Draghi, è scattato l’applauso. E pazienza se ad applaudire sono stati solo i ministri tecnici che fanno il bello e il cattivo tempo col premier, più il solito Brunetta, mentre i ministri politici sono rimasti impassibili: è comunque bello sapere dall’oste che il vino è buono. Anche alla Rai son tutte rose e fiori. Lo dice a Repubblica l’amministratore-tanguero Carlo Fuortes: il suo piano “è una rivoluzione, e non è esagerato usare questo termine”, anzi è poco, infatti “è passato all’unanimità”, “i partiti non bussano alla mia porta”, il Cda vota tutto senza fiatare in perfetta “armonia fuori da logiche di maggioranza e opposizione”, anche perché han tagliato fuori l’unico partito di opposizione (FdI) , così la Rai da “broadcaster internazionale evolve” in “media company innovativa” (qualunque cosa significhi) che “pensa anzitutto agli utenti”, dà “ai cittadini un prodotto migliore”, “mette al centro” – tenetevi Fuortes – “il prodotto e la qualità” e i nuovi direttori – ci credereste mai? – “saranno scelti in base alle competenze”. Troppo Fuortes!

Elettrizzata dal tocco magico del tanguero, l’intervistatrice s’è scordata di domandargli come gli sia venuto in mente di affidare il controllo di tutto l’approfondimento – da Porta a Porta a Report, da Cartabianca a Mezz’ora in più, da Iacona alla Sciarelli – a un direttore solo al comando (si parla del tenero virgulto multiuso Moiro Orfeo), scavalcando i direttori di rete e cancellando pure quell’ombra di pluralismo lottizzato che garantiva un minimo di polifonia. A pensarci prima, B. si sarebbe risparmiato tutte le polemiche sull’editto bulgaro contro Biagi, Luttazzi e Santoro e sulla “struttura Delta” cara alla Repubblica pre-Sambuca (quella di D’Avanzo) e Renzi avrebbe evitato di papparsi tutte e sei le direzioni di rete e di tg, concentrandosi sull’unico megadirettore che conta davvero. Eppure nessuno scrive né dice nulla. Ma è solo questione di tempo. Finché la Rai rimane il servizietto privato dei Migliori, tutto va ben madama la marchesa. Ma basta aspettare che la destra vinca le elezioni e faccia quel che fanno ora i Migliori: cancellare l’opposizione dal Cda e nominare una Maria Giovanna Maglie a megadirettora galattica di tutta l’informazione. Poi vedrete che casino. Grideranno tutti al fascismo, senz’accorgersi di averlo armato loro. Diceva Lenin, a parti rovesciate: “La corda per impiccare i capitalisti ce la venderanno loro”.