Model 3, e Musk ottiene un altro record

Non solo un patrimonio netto che, stimato da Forbes, ammonterebbe a 255,2 miliardi di dollari rendendolo l’uomo più ricco al mondo; non solo la quotazione di 1 trilione di dollari per Tesla e il maxi ordine di elettriche, da parte di Hertz, per 4,2 miliardi di dollari: Elon Musk ha anche altro da festeggiare in questi giorni, grazie alla sua Model 3.

La Tesla più piccola e meno costosa – si parte da “appena” 50 mila euro – nel mese di settembre è stata l’auto più venduta sul mercato europeo, portando allo stesso tempo a un doppio primato: quello di prima EV della storia in cima alla classifica di vendita generale, e quello, per Tesla, di essere il primo costruttore estero a trionfare in Europa.

Secondo i dati di Jato Dynamics, infatti, sono quasi 24.600 le unità che Tesla ha piazzato sul mercato del Vecchio Continente nel solo mese di settembre: un record, che ha visto la compatta elettrica superare Renault Clio (con 18.264 unità) e Dacia Sandero (con circa 18 mila unità), mentre nella classifica delle sole BEV ha sovrastato la sorella Model Y e Volkswagen ID.3, conquistando il 24% di share nello stesso mercato e superando il 22% del gruppo Volkswagen e il 13% di Stellantis.

Di certo un risultato storico per il costruttore di Palo Alto ma significativo pure per l’Europa che, in un crollo delle immatricolazioni del 25% rispetto al settembre dello scorso anno (e del 24% rispetto ai dati pre-pandemia del 2019), ha sperimentato una crescita del 44% (con 221.500 unità) dei veicoli a basse emissioni e una flessione del 51% (167.000 unità in tutto) delle auto diesel.

Basti considerare che se prima della pandemia per ogni veicolo BEV o PHEV immatricolato ve ne erano 10.3 di nuovi diesel, oggi questa quota è scesa a 1.3.

Un passaggio così sostanziale che, secondo Felipe Munoz, Global Analyst di Jato Dynamics, si spiega non solo con gli incentivi, ma anche con il fatto che i costruttori “hanno offerto sempre più modelli elettrici e spostato la limitata fornitura di componentistica alla produzione di veicoli EV, anziché endotermici”.

Covid-19 e crisi dei chip: la ripresa non è così semplice

Che il Coronavirus sia una spina nel fianco per l’industria dell’auto è stato sottolineato più volte. Ora si cominciano a fare previsioni, che hanno tanto il sapore del consuntivo, sui danni che provoca ogni giorno. Secondo l’ultimo Global Automotive Outlook di AlixPartners, ad esempio, solo a partire dal 2025 si tornerà ai livelli di vendite pre-Covid.

A fine anno verranno immatricolati 80 milioni di nuove auto nel mondo (+3 rispetto al 2020): siamo ben lontani da quanto accadeva nel 2018, quando una pandemia di questa portata era solo un caso di studio e si vendevano ben 94 milioni di veicoli.

Sappiamo che questo è il frutto di una congiunzione perversa, che fonde le conseguenze nefaste dell’emergenza sanitaria con quelle della crisi di forniture di semiconduttori, un tunnel di cui si vedrà la luce in fondo (forse) a partire dal secondo semestre 2022. Come se non bastasse, il rialzo dei prezzi delle materie prime (+87% rispetto al 2019) sta pesando sul settore automobilistico: al punto che, secondo AlixPartners, se la situazione dovesse perdurare un terzo dei potenziali profitti dei costruttori è a rischio. Poco male, direbbe qualcuno. Il problema è che in genere un’azienda non si accontenta di guadagnare di meno, neanche in tempi di magra. E può decidere di tagliare costi fissi e non, compresi quelli del personale. In più c’è un rischio per la nascente mobilità elettrica, che dipende in misura maggiore dalle materie prime i cui costi sono lievitati, come alluminio, nickel e rame. Chi non tiene i riflettori puntati sui costi, avrà grossi problemi.

Range Rover, il lusso “intelligente” resta sempre il suo marchio

Mezzo secolo di costante evoluzione tecnica e stilistica rendono la Range Rover un’icona, il fuoristrada di lusso per eccellenza. La sua eleganza passa per la sobrietà delle forme, pulite e contemporanee. Le stesse che contribuiscono a contenere il coefficiente di penetrazione aerodinamica a 0,30, un record per un suv. Sotto il vestito si nasconde la più sofisticata tecnologia. Un esempio? Il dispositivo che sfrutta gli altoparlanti integrati nei poggiatesta per schermare dal rumore le orecchie dei passeggeri: il sistema monitora le vibrazioni delle ruote, il rotolamento dei pneumatici e i suoni del motore che penetrano nell’abitacolo e genera un segnale acustico in controfase, riprodotto attraverso le casse audio, che li annulla. L’auto adotta la nuova piattaforma “MLA-Flex”, disponibile anche a passo lungo e con abitacolo fino a sette posti. Mentre la dinamica di guida beneficia di avanguardie come le sospensioni pneumatiche predittive – che preparano il veicolo ad affrontare le curve usando i dati di navigazione satellitare – e le quattro ruote sterzanti, di serie, che ottimizzano l’agilità o la stabilità a seconda della velocità di marcia, migliorando la manovrabilità in ambito urbano. Infine, il controllo elettronico del rollio attivo tiene a bada i movimenti della scocca. All’interno l’infotelematica sfrutta un touchscreen curvo da 13,1”, azionabile pure tramite i comandi vocali di Amazon Alexa, che consentono di gestire musica, gps, aggiornamenti sul traffico e dispositivi domotici. Il cruscotto si basa su un pannello da 13,7”, semi-flottante, e non manca l’intrattenimento per la seconda fila di sedili, con i touchscreen hd regolabili da 11,4”. Sotto al cofano figurano nuovi propulsori ibridi plug-in di 3 litri di cubatura, da 440 e 510 Cv: grazie alla batteria a litio da 38,2 kWh, collegata a un secondo motore elettrico da 105 kW integrato nella trasmissione, offrono un’autonomia in modalità di marcia elettrica di 100 km (a patto di non superare i 140 km/h di velocità). Al vertice il benzina V8 biturbo da 530 Cv, che scatta da 0 a 100 km/h in 4,6 secondi. Nell’elenco pure le recenti unità mild-hybrid a sei cilindri a benzina, da 360 e 400 Cv, e diesel, da 250, 300 e 350 cavalli.

Le suddette unità propulsive sono abbinate alle quattro ruote motrici, al differenziale posteriore con bloccaggio attivo – ottimizza la trazione in curva e su fondi a bassa aderenza – e al cambio automatico. Dal 2024, poi, la Range Rover sarà proposta anche in un’inedita edizione 100% elettrica. Quattro gli allestimenti: SE, HSE, Autobiography e “First edition”, quest’ultimo disponibile per tutto il primo anno di produzione e impreziosito da specifiche esclusive. Prezzi a partire da 124.300 euro.

“Artemisia e Belle Greene: donne da vera rivoluzione”

Alexandra Lapierre è come una bibliotecaria che accompagna il lettore tra gli scaffali. Consiglia cosa leggere. Chiede cosa si ama. Conserva il bello. E difende la memoria. “In questo sono come Belle”.

Belle da Costa Greene è un personaggio straordinario realmente esistito: nata negli Stati Uniti nel 1879 da genitori “con sangue nero” ma bianca di carnagione, insieme a tutta la famiglia decise di falsificare le proprie origini. A quel tempo “un tale inganno, se scoperto, prevedeva conseguenze gravissime”. Eppure Belle da Costa Greene è riuscita a trasformare la collezione privata del banchiere John Pierpont Morgan in una biblioteca e museo pubblico, l’attuale Morgan Library & Museum di New York. E Alexandra Lapierre ha ricostruito la sua esistenza.

Lei è una storica…

In qualche modo sì. Ma tutto parte sempre da un momento di collera, quando mi domando com’è possibile che un tal personaggio non sia conosciuto: era accaduto con Artemisia (libro del 1999), poi è successo con Belle; Belle è stata la prima a rincorrere il sogno di portare negli Usa la conoscenza, esattamente nel momento in cui gli statunitensi capiscono che i soldi non bastano a costruire una cultura.

La sua chiave di scrittura?

Essere più vera possibile, basarmi sulle testimonianze, sui documenti che toccano destini fantastici, completamente dimenticati; (sorride) ora, in Francia, Artemisia non è più una sconosciuta.

Mentre prima?

Quando ho iniziato a occuparmene, ed era il 1990, nel mio paese era un’artista anonima; l’editore era terrorizzato, non capiva la necessità di trasferirmi in Italia, poi giudicava il barocco come poco affascinante per i francesi. Alla fine sono rimasta a Roma cinque anni, e prima di arrivare mi sono iscritta alla Sorbonne per studiare Storia dell’Arte.

“Belle Greene” è un libro su una donna, ma non tende a compiacere le donne.

A me interessa lei e lei è di una modernità incredibile: Belle fuma, ha gli amanti, è zitella, esce, balla, guida l’auto e soprattutto lavora. Per il tempo era impossibile e con la libertà di scegliere il proprio destino. Così a un certo punto rivendica: “Sono chi sono, non appartengo né a persone né a gruppi”. (Ci pensa) Il mio sogno è di riportare in vita dei personaggi geniali senza rivolgermi agli specialisti.

Cioè?

Voglio offrire a un ampio pubblico le chiavi per scoprire un mondo perduto, che ha ripercussioni sull’oggi: Belle era una donna di colore che decide di rischiare la vita e di passare per bianca; insomma era sì libera, ma incatenata a logiche della società.

Quanto è difficile staccarsi dai suoi personaggi, visto che ci convive per anni?

Molto. Ma dopo aver concluso un libro non lo riapro più e tratto i personaggi come gli amori che pian piano finiscono; (sorride) tempo fa ero in Spagna, per caso ascolto in inglese una storia. Mi fermo. Chiamo mio marito: “È un disastro, qualcuno mi ha rubato l’idea”. Passano cinque minuti, era di nuovo lui: “Ale, è il tuo libro!”.

Nei libri lascia traccia di sé?

Solo nella scelta del personaggio; Belle è un inno ai libri, alla vita e alla libertà. E sono così. Per il resto devo restarne fuori.

E con Artemisia?

Alla fine in molti si sono sbagliati e per strada mi hanno chiamato Artemisia. Io mi giravo, lo trovavo normale.

Suo marito è “stato” con Artemisia.

Non la sopportava più; (sorride) con Belle sono stata fortunata: i primi di marzo del 2020 torno dagli Stati Uniti con un numero incredibile di documenti. Dopo è scattato il lockdown: mi sono chiusa in casa senza i soliti sensi di colpa.

Nella scrittura è scientifica alla Simenon?

È fondamentale. Dopo la ricerca costruisco un impianto dettagliato e una sinopsi. Da quel piano non mi discosto e quando mi allontano sbaglio sempre; (ci pensa) il libro è una briciola rispetto a tutto quello che ho trovato e mi ha affascinato: è fondamentale saper scegliere.

Quando termina un libro, cosa pensa?

Che è l’ultimo. Che non ne posso più.

Quanto dura il “basta”?

Non ci sono regole.

Qual è la sua urgenza?

Combattere la morte, conservare la memoria, lasciare una traccia; Artemisia era un’artista talmente unica che gli esperti del tempo erano convinti che i suoi quadri in realtà fossero di Caravaggio: queste storie devono restare.

Il suo libro di formazione.

Anna Karenina: adoro il mondo raccontato da Tolstoj, con dei personaggi in teoria secondari in realtà formidabili.

Tra 250 anni cosa potranno scoprire di lei?

(Ride) Non mi sono mai posta questa domanda; (pausa) forse, come Belle, parleranno di una donna interessata a tutto. Una donna curiosa.

La cartabia ignora l’“autogoverno”

Secondo il quotidiano Repubblica del 26 ottobre, a fronte della proposta del deputato del Partito democratico Walter Verini di introdurre una Corte disciplinare competente a giudicare gli illeciti di tutte le magistrature, il ministro della Giustizia Marta Cartabia avrebbe commentato: “Sarebbe un bel segnale”.

Proviamo a capire di che si tratta. Anzitutto quante sono le magistrature in Italia? Sono cinque: la magistratura ordinaria, quella amministrativa (T.A.R. e Consiglio di Stato), quella contabile (Corte dei conti), quella militare e quella tributaria (quest’ultima composta da giudici part time).

La Costituzione della Repubblica tratta solo dell’assetto disciplinare dei magistrati ordinari, mentre per le altre magistrature questo è previsto da leggi ordinarie. La Costituzione, nell’art. 105, stabilisce che spettano al Consiglio superiore della magistratura (C.S.M), tra l’altro, “i provvedimenti disciplinari nei confronti dei magistrati”. Per le altre magistrature leggi ordinarie prevedono analoga competenza per i Consigli di presidenza istituiti per ciascuna di esse.

Solo per la magistratura ordinaria e per quella militare il procedimento disciplinare è giurisdizionale, cioè comporta la pronunzia di sentenze (in taluni casi ordinanze) ricorribili innanzi alle Sezioni Unite della Corte suprema di Cassazione.

Per le altre magistrature il procedimento disciplinare è amministrativo e si conclude con un atto amministrativo impugnabile davanti al giudice amministrativo.

Quindi introdurre una Corte disciplinare unica per i procedimenti disciplinari relativi a tutte le magistrature implica da un lato la modifica della Costituzione della Repubblica (per la magistratura ordinaria), dall’altro la trasformazione del procedimento disciplinare amministrativo previsto per le altre magistrature (tranne che per quella militare che ha un disciplinare simile a quello della magistratura ordinaria) in uno giurisdizionale.

La prima domanda da farsi è quale scopo di vorrebbe perseguire con una riforma costituzionale. Forse si vogliono tutelare di più le altre magistrature? Non credo.

Può essere che ci si immagini di potere ottenere una maggiore severità verso le magistrature ordinaria e militare?

Se è questo il fine, è opportuno verificare se e quanto è severo il procedimento disciplinare per i magistrati ordinari (per quelli militari il loro ridotto numero non consente valutazioni statistiche apprezzabili).

Nel dicembre 2011 partecipai a un incontro organizzato dal Consiglio Superiore della Magistratura compendiato in uno dei Quaderni del C.S.M. (anno 2012 n. 158) dal titolo “Riformare il giudice disciplinare dei magistrati”. In quell’occasione indicai i dati dei procedimenti che avevo ottenuto dalla Procura generale della Corte suprema di Cassazione per l’anno 2010 e per i primi 11 mesi dell’anno 2011.

Devo premettere che l’attività disciplinare della Procura generale si articola in due fasi; una predisciplinare e una disciplinare. Per quanto riguarda la fase predisciplinare i dati, impressionanti, vanno considerati alla luce del numero di magistrati ordinari realmente il servizio, che erano circa 9000. La Procura generale presso la Corte suprema di Cassazione aveva aperto nell’anno 2010 1382 procedimenti (su 9000 magistrati!); nei primi 11 mesi del 2011 ne erano stati aperti 1622. Di questi ultimi ne erano stati archiviati 763, 47 erano stati riuniti e ne risultavano pendenti 774. Questo significa che in media ogni magistrato ordinario può essere, una volta ogni cinque anni, sottoposto quantomeno a un procedimento predisciplinare, ricevere una richiesta di informazioni o di chiarimenti e quindi ricercare atti di processi trattati, scrivere relazione e soprattutto preoccuparsi.

Se da questi numeri passiamo a quelli (per fortuna non così impressionanti) delle azioni disciplinari promosse, nell’anno 2010 erano state esercitate 157 azioni disciplinari di cui 101 dal procuratore generale, 54 dal ministro, 2 da entrambi, con quindi una lieve sovrapposizione. Nei primi 11 mesi dell’anno 2011 erano state promosse 127 azioni di cui 88 da parte del procuratore generale e 39 da parte del ministro. Le sanzioni inflitte ai magistrati italiani erano decisamente più numerose di quelle inflitte a magistrati di altri Stati. Secondo i dati elaborati dalla Commissione europea per l’efficienza della giustizia del Consiglio d’Europa (che mette a confronto 47 Stati membri), l’Italia sia nel rapporto del 2008 sia nel rapporto del 2010 era al secondo posto dopo la Russia.

Il rapporto Cepej (Commissione europea per l’efficienza della giustizia) 2008 segnalava 7,5 sanzioni inflitte per anno ogni 1000 magistrati in Italia, contro 0,5 della Francia: 15 volte di più! Il dato è equivoco perché si potrebbe dire: “Certo, siete i magistrati più cattivi d’Europa, vi puniscono di più”. Tutto può essere. Però quando mi confronto con colleghi stranieri non ho affatto la sensazione che i magistrati italiani siano i più cattivi d’Europa né dal punto di vista della correttezza e della professionalità né, meno che mai, dal punto di vista del carico di lavoro smaltito. Ma il dato che più colpisce è che un terzo delle sentenze di non luogo a procedere sono pronunziate per cessata appartenenza all’ordine disciplinare. Ciò vuol dire che molti magistrati sottoposti a procedimento disciplinare si dimettono, il che significa che il giudice disciplinare è un giudice temuto. Questo cancella la favola che viene raccontata di una giustizia domestica, comprensiva, morbida.

Quasi sempre sanzioni superiori all’ammonimento hanno conseguenze sulle valutazioni di professionalità e quindi sulla progressione economica. In nessuna altra magistratura italiana vi è lo stesso rigore e neppure un tale rigore è riscontrabile in altre pubbliche amministrazioni. Rigore doveroso, data la delicatezza delle funzioni svolte dai magistrati.

Allora, con la proposta di introdurre la Corte disciplinare, si persegue lo scopo di incrementare il rigore disciplinare verso le altre magistrature? Anche questo mi pare improbabile. La spiegazione che rimane è quella di tentare, attraverso uno strumento disciplinare esterno al C.S.M., di limitare l’indipendenza della magistratura ordinaria. Infatti in una siffatta Corte dovrebbero esservi rappresentanze di altre magistrature, le quali non solo non hanno le stesse garanzie, ma hanno anche una parte dei componenti nominati dal governo.

Allora, ricordando che l’art. 104 comma 1 della Costituzione (che riguarda la sola magistratura ordinaria) afferma: “La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere”, a me non sembra affatto un bel segnale, checché ne dica il ministro della Giustizia.

 

Biden: “1.750 miliardi per welfare e clima”, Ma senatori dem frenano

Il presidente Biden ha annunciato ieri, prima di partire per il vertice del G20, il nuovo piano economico che verrà votato al Congresso la prossima settimana. Dei 1.750 miliardi, 400 saranno destinati all’infanzia, 555 all’energia pulita, 35 alla copertura sanitaria, 100 verranno destinati all’immigrazione. Due senatori centristi del suo partito hanno frenato: Krysten Sinema e Joe Manchin. Anche l’ala liberal mal digerisce un piano definito “storico” dal presidente, ma di fatto dimezzato rispetto alla prima ambiziosissima stesura. “La prossima settimana si gioca non solo la mia presidenza, ma anche la maggioranza al Congresso e l’eredità di Lyndon Johnson e Franklin Delano Roosevelt”. Con queste parole Biden ha scosso l’ala del suo partito per un voto che può compromettere le elezioni di metà mandato.

Parigi, Londra e la guerra del pesce

Due navi da pesca britanniche sono state fermate ieri dalla polizia marittima francese durante dei controlli. Uno dei due pescherecci sarebbe stato sorpreso a pescare senza autorizzazione ed è stato scortato fino al porto di Le Havre. Rischia denunce penali e la confisca del pescato. L’altro peschereccio è stato multato. Il governo di Londra ieri sera ha convocato l’ambasciatore francese per protestare. Dopo mesi di minacce, rimaste per ora solo verbali, Parigi mette in pratica le prime ritorsioni nella guerra del pesce con il Regno Unito, che va avanti dall’entrata in vigore della Brexit. Ieri ha dato un ultimatum a Londra: il 2 novembre scatterà il divieto di sbarco per i pescherecci britannici nei porti della Manica e saranno effettuati controlli doganali e sanitari sistematici sui prodotti importati dal Regno Unito e sui camion da e per il Regno Unito. Il governo britannico ha parlato di minacce “sproporzionate” e ha lanciato un appello alla “calma”. Al centro della disputa, i patentini necessari ai pescatori di Bretagna e Normandia per continuare a lavorare nelle acque della Manica. Sulla base dell’accordo per la Brexit, i pescatori europei possono ottenere una licenza di pesca a condizione di dimostrare di aver già pescato in precedenza nelle acque britanniche. Solo la metà circa dei pescatori francesi, poco più di 200, hanno ottenuto la licenza. Ne mancano dunque all’appello altre 200. Per Londra questi pescatori non hanno fornito i documenti richiesti. Una burocrazia tale – risponde Parigi – che in certi casi ottenere la licenza è impossibile. Non c’è neanche un accordo sui numeri. Il governo britannico ha assicurato di aver accordato già il 98% delle licenze agli undici Paesi europei interessati. Dato smentito ieri dalla ministra francese del Mare, Annick Girardin: “Sono state soddisfatte 1.913 domande su 2.127, il 90,3%. E, stranamente, sono rimaste fuori solo quelle francesi”. Di qui l’ultimatum: o Londra fornisce le licenze, o partono le sanzioni. Il premier Jean Castex si è comunque detto “aperto al dialogo”, se Londra “mantiene gli impegni presi”. Il conflitto si è scaldato già dalla primavera, quando i pescatori francesi erano andati a bloccare il porto dell’isola di Jersey, a una trentina di chilometri dalla costa francese, e Boris Johnson aveva inviato la Royal Navy. Parigi ha più volte minacciato di tagliare la luce alle isole britanniche della Manica, che ricevono l’elettricità via cavi sottomarini dalla Francia. Minaccia che non è mai stata messa in pratica.

Ma ieri Clément Beaume, ministro agli Affari europei, che chiede un intervento fermo dell’Ue, non ha escluso nuove misure, come l’aumento delle tariffe dell’elettricità: “Il governo britannico – ha detto – capisce solo il linguaggio della forza”.

Assange, sfida tra accusa e difesa sullo stato mentale

Ci vorranno molte settimane, se non mesi, prima che venga emessa una sentenza. E nel frattempo, Julian Assange rimarrà incarcerato nella prigione di massima sicurezza di Londra, Belmarsh. Si è chiuso ieri il processo di appello per l’estradizione del fondatore di WikiLeaks davanti alla High Court. Assange è apparso brevemente in videoconferenza solo il primo dei due giorni di dibattimento, lasciando profondamente impressionati i giornalisti che, come noi, hanno lavorato come media partner di WikiLeaks e, nel corso degli ultimi 11 anni in cui ha perso la libertà, hanno visto la sua salute andarsene piano piano. Un volto bianco spettrale, i capelli in disordine, tremendamente invecchiato e dimagrito a un livello pericoloso. Nel processo di estradizione le autorità inglesi devono decidere se concedere il suo trasferimento negli Stati Uniti, dove è rinviato a giudizio per aver pubblicato i documenti segreti del governo americano sulle guerre in Afghanistan e in Iraq, i cablo della diplomazia americana e le schede dei detenuti di Guantanamo. File che hanno permesso di rivelare crimini di guerra, torture, uccisioni stragiudiziali con i droni.

È per queste rivelazioni che Julian Assange rischia 175 anni di prigione nel carcere più estremo degli Stati Uniti: l’ADX Florence, in Colorado, dove si trovano criminali del calibro del re del narcotraffico, El Chapo. Nel gennaio scorso, il giudice inglese Vanessa Baraitser aveva negato l’estradizione negli Usa, rigettando gli argomenti dei legali di Assange in favore della libertà della stampa di rivelare quei file, ma accogliendo le conclusioni degli psichiatri della difesa. Le loro perizie ricostruiscono le condizioni mentali del fondatore di WikiLeaks in tutta la loro drammaticità, tanto che, nel dicembre del 2019, il professor Michael Kopelman, docente emerito di Neuropsichiatria al King’s College, aveva descritto così il suo stato: perdita del sonno, di peso, “uno stato di agitazione acuta per cui camminava nella sua cella fino allo sfinimento, prendendo a pugni la testa o sbattendola contro il muro della cella”, un pensiero fisso di suicidarsi, e un “desiderio costante” di atti di autolesionismo. Sono proprio queste perizie che le autorità americane hanno cercato di smontare durante il processo di appello contro la sentenza di primo grado, argomentando che Assange esagera e fa finta, e mettendo in dubbio l’imparzialità dei periti. Nel tentativo di dimostrare la parzialità del professor Kopelman, per esempio, il legale che rappresenta gli Stati Uniti, l’avvocato inglese James Lewis ha insistito ossessivamente sul fatto che, nella sua prima perizia, l’eminente psichiatra aveva omesso di rivelare la relazione tra Assange e la sua compagna Stella Moris, che ha portato al concepimento dei loro due figli in ambasciata. Un’argomentazione questa che la difesa del fondatore di WikiLeaks ha respinto, dichiarando che la scelta di Kopelman non era stata presa in combutta con la coppia, tanto che Assange stesso aveva comunicato di avere una relazione con Moris allo psichiatra incaricato dalle autorità americane di valutare la sua salute mentale. La scelta era dovuta alle gravi preoccupazioni che Assange e la sua compagna avevano per la loro sicurezza e anche per la privacy di Moris e del loro bambino piccolo, Gabriel. Preoccupazioni che una recente inchiesta di Yahoo! News – citata nelle udienze – ha confermato: la Cia aveva pianificato di ammazzare o rapire Julian Assange. Nel processo di appello, le autorità americane hanno anche argomentato sulle garanzie diplomatiche, secondo cui Assange non verrà sottoposto al regime speciale di carcerazione preventiva estrema, che va sotto il nome di SAM. La difesa, invece, ha ricostruito quanto quelle garanzie siano inaffidabili e facili da bypassare. La parola ora è ai giudici della High Court, mentre per Assange non cambia nulla: rimane in carcere.

Generale e presidente Burhan copia al-Sisi: il Sudan come l’Egitto

Se lo prendiamo in parola, il generale Abdel Fattah al-Burhan è stato uno dei tre generali che nel 2019 è andato nella residenza del dittatore Omar al-Bashir – mentre le strade erano invase dalla folla che chiedeva democrazia – a dire che dopo 30 anni era finita. Quella conversazione deve essere stata difficile per il massimo generale del Sudan. Soldato veterano, Burhan era stato a lungo uno dei luogotenenti più affidabili del dittatore. Adesso, due anni dopo, siede sulla sedia che fu di Bashir. Burhan, presidente del Consiglio sovrano di transizione (Tsc) del Sudan dal 12 aprile 2019 e comandante in capo delle forze armate, è al centro della scena, dopo aver dichiarato lo stato di emergenza, sciolto il governo e arrestato i principali oppositori pro-democrazia. Certamente il generale era consapevole che il golpe avrebbe bloccato i generosi finanziamenti Usa (700 milioni di dollari) e quelli della Banca mondiale al nuovo corso sudanese.

Burhan conta ora soprattutto sull’Egitto, Paese con il quale durante la dittatura di Omar Bashir i rapporti erano pessimi, ma che sono migliorati dopo la sua estromissione nel 2019. Al Cairo, Burhan ha poi ritrovato un caro amico, col quale condivide non solo il nome di battesimo, ma anche la visione dello Stato e il ruolo dei militari nella vita civile: Abdel Fattah al Sisi. E sull’alleanza per fermare la Gerd (la grande diga in Etiopia alle sorgenti del Nilo che rischia di lasciare a secco Sudan e Egitto) si è cementato anche un patto militare vincolante. In politica interna, Burhan potrebbe finire per copiare il manuale di al-Sisi per schiacciare la democrazia. Nato nel 1960 in una famiglia sufi in un villaggio a nord di Khartoum, Burhan ha studiato in un college dell’esercito sudanese, poi in Giordania e all’accademia militare egiziana del Cairo, dove tra i suoi allievi c’era il futuro presidente egiziano al-Sisi. Burhan e al-Sisi sono amici di vecchia data, sebbene il generale sudanese abbia avuto per tutta la vita affiliazioni con i movimenti islamisti che al-Sisi ha bandito. Tuttavia, come sostiene il direttore di Africa Confidential, Patrick Smith, i due generali sono uniti da esigenze maggiori: “Fermare la democrazia”. Il suo primo viaggio all’estero dopo essere diventato de facto capo di Stato del Sudan nel maggio 2019 è stato in Egitto. Da lì ha proseguito negli Emirati Arabi Uniti e in Arabia Saudita. Al-Sisi ha ricambiato la visita lo scorso marzo.

La carriera militare di Burhan sotto Bashir è stata definita dai ruoli di spicco svolti in Sud Sudan, Darfur e Yemen dove, come capo delle forze armate, ha aiutato i militari sauditi e guidato la coalizione coi mercenari sudanesi. “È stato assolutamente determinante per la devastazione causata nel Darfur” dal 2003 al 2005, dice ancora Smith, coordinando gli attacchi dell’esercito e della milizia contro i civili nello Stato del Darfur occidentale. Il generale nega di aver commesso atrocità, ma i leader del Darfur non hanno dubbi sul ruolo che ha svolto. Il periodo passato da Burhan in Darfur è significativo, anche perché lo ha messo in contatto con il potente “signore della guerra” Mohamed Hamdan Dagolo, ampiamente conosciuto come Hemeti. Hemeti, all’epoca, era il capo dei famigerati Janjaweed, le milizie arabe fedeli a Bashir che portarono morte e disperazione nel Darfur, e che da allora si sono trasformate nella Rapid Support Forces (RSF), con Hemeti ancora al timone. Burhan e Hemeti sono “frenemy” (friend/enemy), cioè alleati ora, ma rivali in futuro. Hemeti è poi enormemente ricco, è vicepresidente del consiglio militare di transizione e la sua famiglia e la Rsf beneficiano enormemente del controllo delle miniere d’oro nel Darfur, nonché del patrocinio di Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita. L’esercito del Sudan ha, ma solo in teoria, un budget maggiore della Rsf. Queste fonti di potere e ricchezza si sono sentite minacciate dal governo a guida civile del Sudan di Abdalla Hamdok e questo in parte è il motivo per cui Burhan e Hemeti hanno trovato un accordo. In novembre, Burhan avrebbe dovuto dimettersi dalla presidenza militare del consiglio sovrano, per essere sostituito da un civile. “Questo è il golpe di Burhan e Hemeti”, spiega Smith, ma il rapporto tra i due uomini è difficile “perché, tra l’altro, Hemeti è ambizioso e si proietta come leader all’estero”, ed è vicino sia al principe ereditario saudita Mohammed bin Salman (MBS) sia al principe ereditario di Abu Dhabi, Mohammed bin Zayed (MBZ). Burhan è invece considerato l’uomo dell’Egitto. Hemeti è una figura più carismatica e scaltra rispetto al metodico Burhan, ma il leader della Rsf è però strettamente associato alle atrocità che circondano la transizione verso la democrazia, in particolare il massacro di oltre 128 persone a Khartoum nel giugno 2019.

Un tempo Burhan era considerato l’archetipo del soldato apolitico. Adesso che le strade del Sudan sono piene di gente che chiede democrazia sembra aver preso le sue decisioni. Meglio al-Sisi, Mbs e Mbz che Stati Uniti e Unione europea. La democrazia può attendere.

La richiesta a Denis: “Lotti può intervenire sulla nomina all’Ilva?”

Una delle chiavi di Piero Amara per accedere al Giglio magico dell’ex premier Matteo Renzi, era l’ex senatore toscano Denis Verdini, fondatore di Ala, che all’epoca fungeva da stampella politica del governo renziano. Dai messaggi Whatsapp estratti dal cellulare di Verdini, su richiesta della Procura di Milano, tra il 15 ottobre 2015 e il 23 ottobre 2017 si contano ben 1687 messaggi con l’ex avvocato esterno di Eni e Ilva. E spesso i due fanno riferimento a “Luca” e “Lotti” ovvero all’ex sottosegretario e braccio destro di Renzi. Lotti ha sempre smentito di aver intrattenuto rapporti con Amara, che ha anche querelato, e in due occasioni (l’8 agosto 2018 e il 20 giugno 2019) ha spiegato alla procura di Messina d’aver avuto con l’avvocato solo “rapporti formalissimi” e di averlo incontrato “non più di una” volta.

Dai messaggi estrapolati dal telefono di Verdini emerge, in un’occasione, una sorta di triangolazione con Amara e Lotti, che riguarda la vicenda Ilva. “Come tu sai sono stato nominato difensore di Ilva dal prof. Laghi (Enrico, ndr). Il prof. Laghi è uno dei commissari del governo. Oggi solo incidente mortale sono riuscito a fare dissequestrare tutto” esordisce Amara il 19 settembre 2016 in quattro messaggi spediti tra le 19.30 e le 19.32. “L’altro commissario del governo, tale Carrubba (Carmelo, ndr) non vuole firmare mia nomina perché non vuole avvocati di Eni in Ilva”. “Laghi che conoscerai è totalmente con me ed è in rapporti diretti con De Vincenti (Claudio, ndr)”. “Puoi chiedere a Lotti se può fare arrivare messaggio a Carrubba di non rompere le palle? Che ne dici se gli scrivo?”. Laghi è stato, insieme a Carrubba e Piero Gnudi, commissario straordinario dell’Ilva, nominato nel gennaio 2015 dalla ministra dello Sviluppo economico, Federica Guidi, del governo Renzi, in cui De Vincenti era sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei ministri. Nell’inchiesta di Potenza, chiusa pochi giorni fa, Laghi e Amara sono indagati per traffico di influenze: secondo l’accusa l’ex commissario avrebbe nominato l’avvocato “consulente dell’Ilva” con “parcelle per oltre 90.000 euro” e Amara avrebbe tessuto i rapporti con l’ex procuratore capo tarantino Carlo Capristo. Ai pm, lo scorso 10 giugno, Amara racconta: “All’Ilva non si muoveva un dito se non era Enrico Laghi a decidere. Il dominus di certi rapporti era Enrico Laghi”.

Ai messaggi di Amara, Verdini risponde: “Ok scrivi e domattina lo vedo io”. “Ti giro mio sms a Luca” scrive l’avvocato inoltrandogli il messaggio inviato a Lotti: “Sono stato nominato questa estate difensore di Ilva da prof. Laghi (riferimento del dott. De Vincenti) uno dei commissari del governo con cui ho un rapporto di grande e reciproca stima. Oggi, dopo il tragico infortunio, siamo riusciti a ottenere il dissequestro dell’impianto dimostrando la correttezza dell’operato dei tecnici di Ilva. Nonostante il successo l’altro commissario del governo, tale prof. Carrubba, mi sta ostacolando sostenendo che non è il caso di avere difensori dell’Eni in Ilva. Laghi non ha dato nessun credito a Carrubba. Considerato che per me è un’importante mandato professionale e che ho operato nell’interesse dei commissari (peraltro con grande successo a detta dello stesso Laghi) ritengo che il comportamento di Carrubba sia del tutto pretestuoso. Puoi darmi una mano? Ciao, Scusa, Piero”. “Ottimo”, replica Verdini. Il giorno successivo Amara scrive ancora a Verdini: “Ciao due cortesie se puoi: A) ti ricordi di parlare con Luca? B) mentre gli parli cerchi di capire se si infastidisce per i messaggi? Tempo fa, dopo avere incontrato Luca con Bacci, Bacci mi disse che Luca gli avrebbe detto che per qualunque cosa potevo scrivergli (naturalmente con prudenza e moderazione). Siccome non vorrei che Bacci si sia inventato un po’ di cose vedi se riesci a percepire se è infastidito”. Andrea Bacci è un imprenditore già socio di Amara e vicino alla famiglia Renzi. “Fatto. Passa a De Vincenti. Tutto ok”, risponde Verdini. “Grazie mille” replica Amara. Lotti al Fatto dichiara: “Non mi sono mai occupato di Ilva né di questa vicenda”.