Trent’anni fa mancava Natalia Ginzburg, ma sarebbe più giusto dire “ci mancava”, e una volta di più si sospetta che le migliori uscite editoriali sono diventate le riedizioni, come la raccolta di testi Vita immaginaria apparsa nel 1974 da Mondadori, e ora magistralmente curata – e illuminata – da Domenico Scarpa per Einaudi. Dalla copertina Natalia ci sorride in bianco e nero come una parente nella cornice d’argento, una parente lontana che vede più lontano di noi. Molte e varie sono le scoperte riservate dalla lettura; l’abissale confronto tra le terze pagine de La Stampa e del Corriere della Sera di quegli anni e il giornalismo di oggi; il lessico familiare degli autori più cari (Delfini, Pavese, Calvino…), fotografati nella coincidenza tra stile e uomo, nel valore e nell’affetto. Lo stile; merce sempre più rara, anche in letteratura. Una volta si leggevano gli scrittori, oggi si leggono i libri (anche buoni, per carità). Ragione principe per amare Vita immaginaria è lo stile della Ginzburg. Dritto, secco, ortogonale come le strade di Torino, e sempre ombreggiato dai portici della poesia. Che si occupi della questione femminile o di quella ebraica, i testi sembrano scritti oggi, anzi domani: “Le parole ‘Proletari di tutto il mondo unitevi!’ le trovo chiarissime. Le parole ‘Donne di tutto il mondo unitevi!’ mi suonano false”. Quella con la realtà è una rincorsa durata tutta la vita. Il testo che dà il titolo alla raccolta, unico non nato da committenze redazionali, si può leggere come un’amara confutazione del Tempo ritrovato. Da giovani, la vita immaginaria è quella che ci rende palpitanti, sognatori, inconsapevoli che “da vecchi il nostro pensiero impara a conoscere l’inesorabilità”. Da vecchi, siamo circondati dall’inesorabile; resta però inviolato il luogo verso cui muove la poesia: “Un punto dove tutti i contrari s’incontrano e si congiungono”. È lì che i poeti si dirigono “per dovere e onestà”. È lì, che in ogni sua pagina, si dirige Natalia Ginzburg.
Mail Box
Un patto per impedire
a B. di andare al Colle
Quando si dovrà votare il prossimo presidente della Repubblica, Il Movimento 5 Stelle sarà chiamato a salvare la Costituzione, e salvare la Costituzione significa non eleggere Berlusconi. Ma ve lo immaginate B. presidente della Repubblica che chiede ogni giorno di fare una riforma della Giustizia fatta su misura per se stesso, che gli garantisca l’impunità per il fatto che abbia avuto rapporti accertati con la mafia? Io no, ma siamo in Italia! Va benissimo che il M5S abbia stretto una futura alleanza per le prossime elezioni politiche nazionali con il Partito democratico e con il centrosinistra compatti, a costo di ingoiare pure i rospi, ma perché non stringere qualche patto per il Quirinale? L’importante è che non sia Berlusconi o chi per lui, come la Casellati, eletta nella totale ingenuità e mancanza di informazione dei 5 Stelle come presidente del Senato. Dovete organizzare una, due manifestazioni contro B. presidente della Repubblica.
Alessandro Tesi
Cosa sarebbe successo
senza il bicameralismo
Il ddl Zan è stato affossato per una mera, becera volontà politica, che ci fa capire la bassa qualità del nostro legislatore. Tuttavia parlare di violazione dei diritti in senso generico semplificare una questione complessa che in questo caso riguarda il diritto. Chi nel 2016, nel referendum renziano, optava all’abolizione formale del Senato, si accorge forse solo ora di come il bicameralismo può potenzialmente aumentare la qualità dell’attività legislativa. Se a oggi ci fosse stata solo una camera, la legge sarebbe passata. Da giurista, penso che sia meglio così. Una legge scritta male, poco chiara. In un ambito come quello penale, la tassatività è necessaria, affinché non si lasci un margine di discrezionalità che nessun giudice potrebbe sopportare. Il bicameralismo in se può migliorare l’attività legislativa. Il problema sono le storture che ne derivano nel momento in cui se ne fa un cattivo uso a soli scopi politici, come è successo mercoledì. L’applauso al Senato mostra sicuramente uno stacco tra istituzioni e cittadini sul quale si dovrebbe riflettere.
Lorenzo La Via
A tutte le forze di sinistra
serve un po’ di coraggio
L’affossamento del ddl Zan fa presagire tempi molto bui per l’asse M5S-Leu e per quella parte del Pd che ha la predisposizione a rivolgersi al popolo piuttosto che alle élite. Ma non tutto è perduto. A mio avviso occorre, da parte di tutte le forze realmente di sinistra, un atto di coraggio: uscire in massa da un governo che, pur essendo sostenuto più o meno convintamente da essi, non fa altro che causargli solo emorragie elettorali. Ci sarebbero solo vantaggi: ricompattamento del fronte progressista, recupero degli elettori astensionisti, rinnovato e maggiore potere negoziale nei confronti delle altre forze politiche, smacco alla destra. Cosa farà FdI in caso di mozione di sfiducia del governo Draghi avanzata dal fronte di sinistra? Come giustificherà ai suoi elettori un eventuale astensione/voto di fiducia?
Giuseppe Zullo
Contro l’omofobia, però
anche contro l’eterofobia
La legge Zan affossata dal Senato.L’omofobia non fa parte del cosmo. Cito un passo tratto da La forza del carattere dello psicologo James Hillman: “Ogni respiro che facciamo lo prendiamo dal cosmo. Inaliamo la sua aria; parliamo con il suo fiato; il suo pneuma è la nostra ispirazione. La parola ‘cosmo’ indica un mondo conformato dall’estetica. ‘Cosmesi’ e ‘cosmetica’, che derivano dal greco ‘kovsmo’, alludono al significato greco originale, quando la parola rimandava alle vesti delle donne, alla decorazione e agli abbellimenti, a tutto ciò che è idoneo, ordinato, arredato e ben disposto, con connotazioni etiche di proprietà, decenza, onorabilità”. Dunque la legge Zan contro l’omofobia andava approvata. Vorrei però che venisse proposta anche una legge contro l’eterofobia, cioè contro l’intolleranza, le calunnie e i biasimi nei confronti degli eterosessuali. Da qualche tempo il corteggiamento reciproco tra uomini e donne, un fatto non memo naturale di quello tra uomini omosessuali e tra lesbiche, viene indicato da certi ospiti delle trasmissioni televisive come una colpa comunque vada. Qui ora io rivendico il fatto che, se una donna mi guarda e mi sorride, contraccambio il sorriso e se lei seguita a guardarmi con simpatia aggiungo; “sei carina”. Se poi lei mi risponde “anche tu”, cosa che capita sempre più raramente purtroppo, le chiedo se possiamo parlare di Aristotele e di Plato oppure dei Troiani, di Fanum Fortunae e di Roma. Se accetta, la benedico e sono felice; se non accetta, sono assai meno felice ma la benedico lo stesso lei e la madre che in lei si incinse. Ebbene questo mio modus vivendi è oggi considerato criminale. Le leggi proteggano tutti gli amanti non violenti e delicati tanto omosessuali e transessuali, quanto gli eterosessuali se questo non è chiedere troppo. Noi amatori delicati siamo pochi: “we few, we happy few, we band of brothers” e se le leggi non ci proteggeranno ci estingueremo.
Gianni Ghiselli
La mattanza dei 20enniNapoli e le sue madri, ma lo Stato che fa?
Ho letto il reportage da Napoli di Maddalena Oliva e sono rimasto scosso anche perché nei tg non se ne parla, forse per non disturbare il manovratore. Mi dispiace molto per tutte quelle madri che piangono i loro figli. Penso che dovrebbero avere più coraggio e denunciare i loro figli per salvarli da morte sicura, e lo Stato dovrebbe aiutare queste donne. Solo il loro amore può salvare Napoli.
Di Marco Antonio
Caro Antonio, la sua indignazione e il suo strazio mi hanno ricordato, nel mio piccolo, la prima volta che misi piede a Napoli, spedita da Michele Santoro a cercare di raccontare come fosse possibile che un ragazzo di 17 anni, Genny Cesarano, venisse ammazzato “per errore”. Poi, una volta arrivata, scoprii che non c’era solo Genny, anche se i tg non ne parlavano. C’erano tanti altri giovanissimi morti. E altrettanti addolorate madri. Come quella di Emanuele Esposito, che aveva scritto finanche al Papa per salvare suo figlio (poi regolarmente ucciso, dopo essere stato scarcerato): “Perché se non c’è un’alternativa, mio figlio prima o poi risbaglierà. Io ho provato a insegnargli cose diverse, noi siamo persone diverse, ma se viviamo a due metri dai camorristi, e per questi ragazzi non c’è niente, non c’è scuola, non c’è lavoro”. Erano gli anni della paranza dei bambini e dei “Robinu”. Dei film e delle serie tv, ma a Napoli la realtà supera sempre, e di gran lunga, la fiction. Oggi la triste fine dei bambini morti ammazzati non fa notizia (ci sono eccezioni, come il Tg1 e Chi l’ha visto?), ma alla fine, per davvero, forse non l’ha mai fatta. Sembriamo indifferenti, nella nostra assuefazione. Rassegnati, nel nostro ripeterci che le cause centenarie dei problemi di questa città, e del Mezzogiorno, non potranno essere risolti nemmeno dal Recovery plan. Distratti, nel nostro sentirci impegnati a combattere altro, qualcosa sempre di più grande e più complesso di questi eventi da “cronaca nera”, derubricati alla voce “delinquenza di strada e disagio giovanile”. Le assicuro che chiunque avesse visto il luogo in cui è stato ritrovato il corpo di Antonio Natale, il 22enne da cui è partito il nostro ultimo reportage, se avesse realizzato il modo in cui quel ragazzo è stato fatto sparire, tra monnezza e campi di broccoletti, avrebbe pensato: questa non è Italia. E l’Italia non può dirsi tale – lo scriveva Norberto Bobbio – se il tricolore coi suoi valori non sventola pure nell’angolo più dimenticato e remoto del nostro Paese. Napoli è una città che non crede nel proprio futuro. Napoli, Italia.
Maddalena Oliva
Tutto come previsto: sì di Sala a San Siro (ma solo dopo il suq)
Come avevamo scritto in questa colonna già il 22 ottobre, il sindaco Sala ha deciso di dire sì all’operazione San Siro e questa sarà la sua prima mossa di rilievo dopo la riconferma a Palazzo Marino (“Trionfo” al primo turno, hanno scritto i giornali, in realtà risultato del voto di un solo milanese su quattro). Avevamo visto giusto. In politica le decisioni divisive e potenzialmente impopolari si devono prendere lontano dalle nuove elezioni e magari sfruttando l’effetto “luna di miele” dei primi cento giorni. Sala aveva già deciso, naturalmente, prima delle elezioni in cui è stato rieletto, e Milan e Inter lo sapevano. Ora c’è da fare un po’ di scena, un teatro per gli allocchi, una trattativa per i gonzi. In verità, un mercato dei tappeti: Milan e Inter hanno chiesto mille per ottenere cento. Sala lo sa, e si presta al suq. Da mesi il venditore del tappeto “cemento a San Siro” (Paolo Scaroni, presidente del Milan) e il compratore (il sindaco Sala) stanno facendo finta di trattare, di alzare le richieste, di abbassare il prezzo, di rilanciare, di allontanarsi con sdegno, di offrire un te alla menta, di riproporre l’offerta e così via. In un suq di Marrakech non saprebbero fare di meglio. Entrambi sapevano fin dall’inizio di questa pantomima che prima o poi ci sarebbe stato un punto di caduta, che il Meazza sarà abbattuto, che i permessi per il nuovo stadio saranno concessi, che – soprattutto – saranno costruiti nuovi edifici per oltre 150 mila metri quadrati di superficie lorda. Ed entrambi sanno fin dall’inizio che lo stadio è una scusa: potrebbe essere rinnovato, con minor spesa, il Meazza. Ma costruire il nuovo stadio – per cui non è stato neppure ancora scelto il progetto! – è l’innesco necessario per poterci costruire attorno 77 mila mq di spazi commerciali, 47 mila di uffici, 12 mila di alberghi, 9 mila di intrattenimento, 4 mila di centro congressi, oltre a 2,7 mila di museo dello sport e 1,3 mila di attività sportive. Il calcio non c’entra nulla: lo stadio a Milano già c’è, è la “Scala del calcio”. Ma abbatterlo serve per dare il via a una gigantesca operazione immobiliare, un affare da 1,2 miliardi di euro, che ridarà fiato ai traballanti bilanci di Milan e Inter, club di calcio che si trasformeranno in sviluppatori immobiliari.
Ora l’ultima parte del suq sarà in pubblico, la (falsa) trattativa avverrà sotto gli occhi attenti dei giornali compiacenti che scriveranno: oh com’è bravo il sindaco, che buon prezzo è riuscito a strappare per il “tappeto San Siro”! Un affarone! Possiamo già prevedere tappe e temi del mercato dei tappeti. E i comunicati finali di gioia e trionfo. Diranno: abbiamo salvato il Meazza! Perché resterà un triste moncherino, inutilizzabile per il calcio, utile solo per conservare la memoria come rovina, relitto, rottame; e per farci qualche shop turistico ed ennesimo localino milanese. Diranno: abbiamo ridotto la cementificazione! Perché, certo, partendo da un indice di edificabilità dello 0,70, poi sceso a 0,51, ci si fermerà a un indice forse un po’ più basso, ma vedremo se pari a quello che il Piano di governo del territorio (Pgt) di Milano impone ai comuni mortali (0,35). Diranno: ci sarà più verde per il quartiere! Ma continuerà il consumo di suolo di cui la Milano di Sala è primatista. E dal cantiere usciranno 1,8 milioni di metri cubi di materiale da scavo, con 153.312 viaggi di camion, 188.060 metri cubi di materiali da demolizione, con altri 18.806 viaggi, 658.250 metri cubi di materiale per le nuove costruzioni, con ulteriori 65.826 viaggi: sarà la sagra degli inquinanti, del Pm10, delle polveri sottili. Molto green! Diranno (e questo è il coniglio che uscirà dal cappello di Sala il mago): i due club offriranno risorse per risanare le case popolari di San Siro! Così dovremo anche dire a Scaroni, con la voce di Giandomenico Fracchia: “Grazie, com’è umano lei!”.
Tra costi e futuro, le continue bugie sulla decarbonizzazione
In vista della Cop26 di Glasgow, due sono le linee di attacco degli oppositori alla decarbonizzazione dell’economia. Una è diretta, l’altra è insidiosa. La prima dice: i costi della transizione energetica sono insostenibili, comportano “decenni di pesanti sacrifici” – parole testuali del Corriere della Sera – “Bollette più care, nuove tasse, gravi tensioni sociali, segmenti di popolazione composti da milioni di persone che diventano di colpo più povere o perderanno, nel giro di pochi anni, il loro posto di lavoro” (Guido Tonetti, “La transizione ecologica non sarà un pranzo di gala”, Corriere della Sera, 13.10.21).
L’altra, in un perfetto gioco delle parti, risponde rassicurando: “Zero emissioni nette” (al 2050) non significa rinunciare a tutta l’energia di cui abbiamo bisogno, ma solo trovare il modo di neutralizzare e compensare le emissioni climalteranti indesiderate.
Quindi: spalanchiamo i forzieri, stampiamo Bond verdi, offriamo nuove opportunità di investimento in qualsiasi tecnologia che raggiunga il risultato, compresi il nucleare, l’idrogeno blu (da combustibili fossili), le pratiche di compensazione della CO2 (ETS, sistemi di scambio delle quote di emissione, riforestazioni a distanza, ecc.) e le tecniche di bioingegneria (cattura e stoccaggio del carbonio sotto terra, sbiancamento delle nuvole, fertilizzazione degli oceani, ecc.). Così la magia è compiuta: la transizione ecologica smette di essere un “costo” per le imprese e per gli Stati, ma un asset per nuovi business.
La crescita diventa green, tutti ci guadagnano, nessuno ci perde. Sarà vero?
La via tecnologica allo “sviluppo sostenibile” non è una novità. La si consiglia da cinquant’anni. Ma non ha dato i risultati attesi. Per una semplice ragione: se i benefici che si possono ricavare migliorando l’efficienza e la pulizia degli apparati energetici e produttivi vengono impiegati per aumentare continuamente i consumi delle merci immesse nei mercati, non vi saranno benefici ambientali. L’estrazione di materie prime e la dispersione delle scorie non metabolizzabili dai cicli naturali continuerà a crescere e, con loro, la distruzione degli ecosistemi, della biodiversità, della salubrità della biosfera.
Un percorso di vero rientro delle attività antropiche nei limiti della sostenibilità ecologica si misura in un modo solo: nella diminuzione dei flussi di materia e di energia (bilanci di materia e di energia) impiegati nei processi trasformativi. Gli economisti (e i politici) devono rassegnarsi: tra l’economia dei soldi e quella della natura vi è una contradizion che nol consente.
Draghi, temporeggiatore con gambe (molto) corte
In Italia i governi di unità nazionale, come le bugie, hanno sempre le gambe corte. Seppur varati tra grandi aspettative, sono predestinati a durare poco perché le divisioni tra i partiti che li sostengono impediscono il varo di riforme significative. Altro che decisionismo. Per quanto investito “dall’alto” di una funzione salvifica, neanche il condottiero Draghi sembra in grado di fare eccezione.
Rinviata all’anno prossimo la riforma delle pensioni, limitandosi alla pezza di quota 102. Rinviata al Parlamento la destinazione degli 8 miliardi di sgravi fiscali (12 se si considerano gli incentivi) perché non c’è accordo fra i ministri. Rinviata ancora la riforma degli ammortizzatori sociali promessa nel marzo scorso. Slittata la legge sulla Concorrenza…
Il tecnocrate chiamato a traghettare il Paese fuori dalla pandemia con i miliardi del Pnrr, costretto a non scontentare nessuno dei partiti che lo votano, intanto che se le suonano di santa ragione, finirà per vedersi assegnato il titolo con cui passò alla storia il generale romano Quinto Fabio Massimo, vincitore della Seconda guerra punica: Draghi il Temporeggiatore.
Per la verità, il nostro Temporeggiatore ieri è stato costretto, malvolentieri, a scontentare qualcuno che non siede in Parlamento e dunque non parteciperà all’elezione del prossimo Capo dello Stato: i sindacati. È infatti ai lavoratori sindacalizzati, i quali vedono allontanarsi il traguardo della pensione, che il governo Draghi, per la prima volta, anziché “dare soldi” chiede dei sacrifici. Lo fa a modo suo, da Temporeggiatore, cioè scegliendo di consegnare all’esecutivo che sarà in carica nel 2023 la patata bollente di un secco innalzamento dell’età pensionabile. Chi vivrà vedrà. Pochi credono che debba essere ancora lui a occuparsene direttamente da Palazzo Chigi. Alla Cgil e alla Uil (meno alla Cisl) riuscirà difficile stavolta fare buon viso a cattivo gioco come nel luglio scorso, quando fu revocato il blocco dei licenziamenti. Perché è vero che impellenti fattori demografici e di bilancio rendono obbligatoria una revisione complessiva del sistema previdenziale nell’Italia che invecchia e maltratta i suoi giovani. Ma è altrettanto vero che si è già rivelata fallimentare, nel ventennio trascorso, la teoria secondo cui diminuire la tutela dei lavoratori “garantiti” consentirebbe di aumentare l’occupazione e di includere nel welfare i “non garantiti”.
Non solo i sindacati, ma anche il segretario del Pd, Enrico Letta, ormai riconoscono che l’aver reso più flessibili le regole del mercato del lavoro ha causato il boom dei contratti a termine e delle retribuzioni da fame, triste record italiano, senza favorire né la crescita né la competitività del sistema. Solo i datori di lavoro se ne sono avvantaggiati.
Orbene, anche tatticamente, prima di chiedere ulteriori sacrifici ai lavoratori in età matura, dal governo ci si sarebbe aspettati un qualche provvedimento di equità fiscale a sostegno delle buste paga; o prelievi sulle rendite e sui grandi patrimoni. Ma ciò è stato reso impossibile al Temporeggiatore dai vincoli della coalizione che lo sostiene. Né avrebbe potuto promettere all’assemblea di Confindustria: “Quest’anno non aumentiamo le tasse”. Sottinteso: in futuro, semmai, ci proverà qualcun altro. Quanto alla proposta avanzata da Letta di tassare le eredità dell’1% più ricco del Paese per fornire ai giovani una dote di 10 mila euro, la destra era già pronta a gridare all’esproprio proletario. E Draghi l’ha subito respinta al mittente. In quel caso la sua attenzione al destino delle nuove generazioni è rimasta nel cassetto. Oggi che deve chiedere agli italiani un prolungamento dell’età lavorativa – in prospettiva, certo, inevitabile – sfodera la sua premura per i giovani. Ma lo fa dopo aver rifiutato un piccolo sacrificio richiesto in loro favore ai plurimilionari.
I collaboratori di Draghi da alcuni giorni fanno circolare voci su di una sua forte esasperazione per i continui veti cui è assoggettata l’azione del governo. Non ci si poteva aspettare altro da una coalizione che tiene insieme visioni antitetiche e interessi sociali contrapposti. Poco importa se si tratti solo di un bluff o – come altri sostengono – di saggiare il terreno in vista del voto per il Quirinale. In ogni caso la classe dirigente di cui Draghi è l’espressione più autorevole patisce un deficit di credibilità incolmabile nell’affrontare il tema della giustizia sociale. Basti pensare alle grandi famiglie di cui apprendiamo, da denunce giudiziarie, che hanno occultato all’estero ingenti patrimoni. Sui loro giornali leggiamo dotte prediche rivolte ai sindacati, accusati di tutelare categorie ristrette a scapito dell’interesse generale. Ma quegli stessi editori hanno avviato piani di prepensionamento di giornalisti che hanno da poco compiuto i 60 anni, naturalmente a carico della collettività. La coerenza non è il loro forte.
Trans, drag queen o tranny sotto la lente delle gag di Chappelle
L’ultimo show Netflix di Dave Chappelle, The Closer, ha suscitato le proteste della comunità LGBTQIA+ e delle associazioni per i diritti civili a causa delle sue gag transfobiche e omofobiche. Era già successo dopo ciascuno dei cinque special precedenti, per lo stesso motivo. Stiamo dunque passando in rassegna quelle gag. Poi le commenteremo, insieme con il caso, i suoi sviluppi, e il ruolo che polemiche come queste hanno nello scontro politico, anche da noi. Non c’è fretta: il Ddl Zan anti-omofobia è stato bocciato al Senato grazie a un trappolone di Calderoli (Lega) e se ne riparlerà chissà fra quanto. Qui l’esultanza delle destre, a futura memoria: bit.ly/3mjnNfQ.
CHAPPELLE: “Se la polizia uccidesse la metà dei trans rispetto a quanti negri ha ucciso l’anno scorso, ci sarebbe una cazzo di guerra, a Los Angeles. Conosco dei neri a Brooklyn, dei figli di puttana, dei duri da strada, che si mettono i tacchi alti solo per sentirsi al sicuro.”
“I trans sono gangster. Facevo affari con una trans a Hollywood. Avrebbero tutti paura di lei, in una sala riunioni. Farebbe il suo ingresso, nuova di zecca, tacchi alti, borsetta. Non dice nulla, cammina semplicemente intorno al tavolo, minacciosa. Poi si mette a capotavola, ci fissa tutti, prende la borsetta, tira fuori il suo vecchio uccello e lo schiaffa sul tavolo. ‘Parliamo di affari, signori.’ ‘Aaah!’ Uno spavento del cazzo. Se il tuo migliore amico te lo proponesse, saresti inorridito. ‘Yo, negro, andiamo all’ospedale, tagliamoci i cazzi e facciamo cagare sotto quelle merde.’ ‘Cosa?! Non possiamo solo metterci dei giubbotti identici o farci dei tatuaggi o qualcosa del genere? Sei sicuro che è quello che vuoi fare?’ ‘C’è solo un modo per scoprirlo, negro. Wu Tang! Pow! Pow! Andiamo al club e inganniamo i negri a scoparci. Sì.’”
“Sono andato a un party in una galleria d’arte. Non so chi di voi sia mai stato ricco, ma sono party molto carini. Vino e formaggio e conversazioni favolose. E c’erano alcuni tipi eccentrici, uno dei quali era un uomo molto ricco che indossava un vestito femminile. Non so come lo chiamate. Una tranny, o una drag queen, forse. Qualunque cosa fosse, era decisamente un uomo. E quest’uomo era decisamente drogato. Non so di cosa si fosse fatto, ma aveva esagerato. Non aveva un bell’aspetto. Era così: (fa dei gemiti). Sembrava malato, e tutti i suoi amici erano in piedi intorno a lui, preoccupati, cercando di rianimarlo. Sembrava una specie di rianimazione gay. Sventolare di ventagli eccetera. Avrei dovuto badare ai fatti miei, ma mi sono incuriosito. E mi sono avvicinato. Gli ho detto solo: ‘Mi scusi, signore. Sta bene?’ Mi hanno guardato come fossi il male. ‘Lei sta bene.’ Ora, sostengo il diritto di chiunque di essere chiunque si senta dentro di sé. Sono dalla tua parte. Tuttavia, la mia domanda è: fino a che punto devo partecipare alla tua immagine di te? È giusto che io debba cambiare tutto il mio gioco di pronomi per questo figlio di puttana? Non ha senso. Sul serio. Se indosso un maglione a rombi e dico: ‘Ehi, gente, mi sento un bianco con questo maglione, e voglio un po’ di rispetto e un prestito bancario’, non funzionerà. Non te ne frega un cazzo di come mi sento. Perché dovrei fregarmene di come ti senti? Ma non c’era tempo per il dibattito filosofico. Era una situazione di emergenza. Ho detto: ‘Ok, mi dispiace. Ero solo preoccupato perché ha un aspetto terribile. Ed è appena caduta dalla panchina. Il suo cazzo le sta uscendo dal vestito. Ti dispiace se chiamo un’ambulanza, campione? Preferirei non essere a un party dove una tranny ha un’overdose. Troppe domande a cui rispondere”. (3. Continua)
Gramellini e Il ddl Zan ucciso da chi l’ha votato
Nel giorno in cui prende forma una nuova alleanza di centrodestra al Senato, con chi ironizza Massimo Gramellini per l’uccisione del ddl Zan? Con la “sinistra”. Intendiamoci: non è che l’editorialista del Corriere abbia espresso un’opinione compiuta, si è limitato a sparacchiare nel mucchio, a cazzeggiare un po’. Ma dal poco che si può trarre dei suoi ampollosi ragionamenti, pare di capire che se la legge non è passata la colpa è di chi l’ha votata, non di chi l’ha ostacolata in ogni maniera. E quindi il nostro ironizza sulla “casa scombiccherata che va dai nostalgici di Blair a quelli dell’Urss”, una categoria che esiste solo negli editoriali di Gramellini, forse. E che lui, seppur “per abitudine e approssimazione”, si diletta a chiamare “sinistra”.
Una famiglia in cui tiene dentro, nonostante ogni evidenza, anche il conferenziere di Ryad. “Renzi era in Arabia e gli altri, come sempre, su Marte”. Colpa di tutti, colpa di nessuno.
Nel “caffè” scuro di Gramellini tutte le vacche sono nere. Non solo quelle di Matteo Renzi.
Festival dell’Economia, sarà a Torino la prossima edizione
Il festival internazionale dell’economia targato Editori Laterza-Tito Boeri saluta Trento, dopo il burrascoso divorzio con la Provincia che ha affidato l’edizione numero 17 della kermesse al gruppo Il Sole 24 Ore, e riparte da Torino. “Gli Editori Laterza, Tito Boeri e Innocenzo Cipolletta hanno accolto l’invito della Regione Piemonte e della città di Torino. Il Festival si terrà da giovedì 2 a domenica 5 giugno e avrà come tema “Merito, diversità, giustizia social”. La manifestazione, dunque, si terrà negli stessi giorni di quella di Trento.
Giornalisti: l’Inpgi in crisi finirà nell’Inps (insieme al buco)
Dopo 95 anni di storia e gli ultimi 11 bilanci chiusi in “rosso” sempre più profondo, col rischio concreto di non riuscire a pagare le pensioni già dal prossimo anno, l’Inpgi arriva al capolinea. L’istituto previdenziale dei giornalisti confluirà nell’Inps, anche se solo per la sua sezione che si occupa dei lavoratori dipendenti. Lo prevede la bozza della legge di Bilancio: dal 1° luglio 2022 passeranno all’Inps tutti i giornalisti dipendenti (attivi e pensionati) iscritti all’Inpgi 1, senza tagli degli assegni già erogati e senza ricalcoli dei contributi accantonati. Sempre all’Inps passerà quanto resta del patrimonio dell’Inpgi 1. Le pensioni dei giornalisti si uniformeranno a quelle Inps salvo quanto maturato sino al prossimo 30 giugno. L’Inpgi 2, la sezione dell’istituto aperta a free lance e collaboratori, rimarrà invece autonomo. I dipendenti di Inpgi saranno trasferiti all’Inps. Si concretizza così la proposta del governo emersa il 20 ottobre nella relazione finale, della Commissione tecnica sull’ente istituita a luglio, dopo che Palazzo Chigi aveva rinviato di sei mesi il commissariamento della cassa.
Cade dunque la proposta alternativa dell’Inpgi e della Fnsi, il sindacato dei giornalisti, che chiedeva di mantenere autonomo l’ente allargandone per legge la platea ai circa 22mila lavoratori della filiera editoriale, già pronti alla rivolta. Il sindacato però si consola con i due membri che potrà designare nel consiglio di vigilanza dell’Inps.
A scassare l’Inpgi sono stati la crisi del settore e i prepensionamenti in massa (1.145 negli ultimi anni, almeno altri 200 già previsti), chiesti dagli editori (che la manovra peraltro fa contenti con 90 milioni di sgravi). Dal 2011 al 2020 la cassa ha perso 1 miliardo e il preventivo 2021 segna un “rosso” di altri 204,6 milioni. Il rapporto tra giornalisti attivi e pensionati nel 2020 era crollato a 1,53, un valore insostenibile. Che ora ripianerà lo Stato. Ma i giornali, si sa, non sono i sindacati.