Sindaci e assessori ora festeggiano: più paghe per tutti

C’è chi dice che il nuovo sindaco di Roma, Roberto Gualtieri, fatichi a trovare assessori disponibili ad accontentarsi dei circa 6 mila euro al mese (lordi) che il Comune di Roma metterebbe loro a disposizione in caso di partecipazione al governo della città. E che, quindi, trovi soprattutto ragione in questa ritrosia la decisione presa dal governo ieri di aumentare le indennità per i sindaci e gli amministratori locali inserita nella legge di Bilancio. Con un nuovo aggancio ai trattamenti economici dei presidenti di Regione e quindi con un significativo aumento per chi amministra le grandi, medie e piccole città. Una misura non mirata, dunque, ma di cui si sentiranno i benefici più immediati proprio nelle nuove città appena uscite dalla tornata elettorale a cominciare dalle più grandi: Roma, Milano, Torino, Napoli.

La misura – “Disposizioni in materia di indennità dei sindaci metropolitani, dei sindaci e degli amministratori locali” – è contenuta nell’articolo 146 della legge di Bilancio licenziata ieri e prevede che “l’indennità di funzione dei sindaci metropolitani e dei sindaci dei Comuni ubicati nelle Regioni a statuto ordinario può essere incrementata, in misura graduale per ciascuno degli anni 2022, 2023 e in misura permanente a decorrere dall’anno 2024, sulla base del trattamento economico complessivo dei presidenti delle Regioni”.

L’incremento non è ovviamente uguale per tutti, ma segue una rigida tabella a seconda della consistenza dei Comuni. Si va dal 100% per i sindaci metropolitani all’80% per i sindaci dei Comuni capoluogo di Regione e per i sindaci dei Comuni capoluogo di Provincia con popolazione superiore a 100.000 abitanti. Poi, a scendere, si passa al 70% per i sindaci dei Comuni capoluogo di Provincia con popolazione fino a 100.000 abitanti, 45% in caso di popolazione superiore a 50.000 abitanti e poi ancora più giù fino al 16% per i sindaci di Comuni con popolazione fino a 3.000 abitanti.

Per capire di cosa stiamo parlando, prendiamo a riferimento Roma e il Lazio. L’indennità di Virginia Raggi, ormai ex sindaca della Capitale, risultava al terzo trimestre 2021 pari a 9.762 euro lordi mensili sulla base dei dati pubblicati sul sito di Roma Capitale. Il presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti, sulla base dei dati resi pubblici dalla stessa Regione ha un trattamento economico lordo formato dall’indennità di carica e di funzione mensile pari a 10.341,20 euro e dal “rimborso spese mensile per l’esercizio di mandato” di 3.514,00 euro. Complessivamente rappresenta un’indennità di 13.855,20 euro corrisposti per dodici mensilità e indicizzati annualmente sulla base della variazione del costo della vita.

Una differenza del 40% tra Regione e Comune che ora viene colmata con un vantaggio sia per i sindaci sia per i loro vicesindaci e assessori. Il secondo comma dell’articolo 146, infatti, stabilisce che “le indennità di funzione da corrispondere ai vicesindaci, agli assessori e ai presidenti dei consigli comunali sono adeguate alle indennità di funzione dei corrispondenti sindaci come incrementate per effetto di quanto previsto dal comma 1”.

Un chiaro effetto a catena: i compensi dei sindaci vengono rapportati a quelli dei presidenti di Regione, quelli degli assessori, ma anche dei presidenti dei consigli comunali, vengono aumentati in relazione a quelli dei sindaci. Visto che il rapporto tra questi e i sindaci e di 2 a 3, si può prevedere, sempre basandoci sull’esempio di Roma, di un’indennità che dai 6.345 euro lordi mensili passa a circa 8.900 euro.

L’articolo 146 prevede uno stanziamento di 100 milioni per l’anno 2022, 150 milioni per il 2023 e di 220 milioni a decorrere dal 2024.

No vitalizio? E Solinas rivaluta gli stipendi

Riuscire a reintrodurre i vitalizi, renderli retroattivi e, già che c’erano, aumentarsi anche lo stipendio, riesumando la “scala mobile” degli anni Settanta. È la mirabile impresa portata in porto mercoledì notte dalla maggioranza del presidente sardista-leghista, Christian Solinas. Un exploit possibile grazie all’approvazione della “Legge Omnibus” – un moloch da 300 milioni di euro, passato con 28 voti favorevoli (tutta la maggioranza), 18 contrari (tutta l’opposizione) e nessun astenuto – che avrebbe dovuto stabilire principalmente i ristori per gli agricoltori vittime degli incendi estivi.

Invece in quel testo è entrato di tutto, trasformando la legge praticamente in una legge finanziaria. E, tra i vari blitz, nottetempo, è stato inserito anche il reintegro dei vitalizi per i consiglieri. La Regione Sardegna, infatti, li aveva eliminati prima che la norma diventasse legge dello Stato. Ma non aveva stabilito alcun metodo per i versamenti, contrariamente a quanto succedeva nelle altre regioni italiane. Un buco legislativo che la maggioranza di Solinas aveva più volte cercato di riempire. Invano. Ora quel buco invece è stato riempito grazie all’emendamento n. 407, che recita: “A decorrere dall’inizio della XV legislatura il regime previdenziale dei consiglieri regionali e degli assessori tecnici è di carattere contributivo (…)”. E fin qui tutto nella norma.

Il vero colpo da maestro, infatti, è un altro: per ammortizzare quei contributi che ora dovranno versare volontariamente i consiglieri regionali per avere le pensioni (circa 7 mila euro l’anno), la maggioranza di Solinas ha pensato di intervenire sull’emolumento mensile degli eletti, legandolo in maniera automatica all’Istat e all’indice dei prezzi al consumo. Il che significa che se sale il prezzo della pasta, della benzina o delle materie prime – eventualità affatto remota in questo periodo di crisi –, sale automaticamente anche il loro stipendio. Di fatto un ritorno alla Scala mobile, ma solo per loro. Recita infatti l’emendamento 453: “Le indennità e i rimborsi spese previsti dal presente articolo sono rivalutati annualmente in misura pari alla variazione rilevata dall’Istat, se positiva, dell’indice dei prezzi al consumo”. Dove indennità e rimborsi sono le voci della loro busta paga. Una rivalutazione anch’essa retroattiva, naturalmente, decorre infatti “dalla XV legislatura”, che è quella attuale.

In realtà, la giunta Solinas aveva già tentato di mettere mano ai vitalizi praticamente ogni anno da quando è stata eletta. Il tentativo più clamoroso risale al 2019, quando, appena insediata, aveva tentato di far passare la norma sulle “indennità differite” (altro nome dei vitalizi), che prevedeva che un consigliere versasse un contributo mensile volontario di 580,80 euro, al quale veniva però affiancata una “contribuzione a carico del bilancio del consiglio regionale” pari a “2,75 volte la contribuzione mensile a carico del consigliere”. Così il consigliere regionale si sarebbe trovato a versare 1.600 euro mensili, sborsandone meno di un terzo. Il costo per le casse pubbliche lo aveva quantificato la capogruppo M5S, Desirè Manca: 1.149.984,00 euro l’anno, 5.749.920,00 euro per l’intera legislatura. Lo sdegno dell’opinione pubblica per la decisione e la denuncia del blitz dalle colonne del Fatto Quotidiano bloccarono quella legge assurda.

Ma quello dei vitalizi è tema delicato, un vero nervo scoperto degli eletti. Come dimostra lo scatto d’ira diventato virale del presidente dell’assemblea regionale siciliana, Gianfranco Miccichè, il quale a una signora che gli chiedeva quanto guadagnasse, aveva risposto stizzito: “Quando sono entrato in politica ero un ricco manager di impresa e guadagnavo uno stipendio importante, ho lasciato l’incarico per mettermi a servizio della gente. Non ho rubato, non rubo e mai ruberò e avrò solo 400 euro di pensione per questa demagogia”. Aveva anche aggiunto che avrebbe lavorato per “rimettere i vitalizi”. E non contento, aveva concluso: “Ora sono passato a uno stipendio sempre ottimo, circa 7.000 euro al mese, ma prenderò appunto di pensione solo 400 euro al mese grazie al modo di ragionare di questa gente e dei 5Stelle. Ora mi sono rotto veramente, il prossimo che mi chiede quanto guadagno voglio vedere il suo conto corrente, il mio è sempre in rosso”.

Ma i vitalizi non sono l’unico fronte che scalda gli animi. In Puglia, per esempio, la scorsa estate ha tenuto banco la questione dell’assegno di fine mandato, indennità abolita insieme ai vitalizi dalla giunta Vendola nel 2012, che il consiglio regionale alla quasi unanimità aveva votato per riesumare. Con un emendamento sottoscritto dai capigruppo di tutti i partiti, maggioranza e opposizione, compreso il Movimento 5 Stelle. I consiglieri regionali avevano stabilito di rimetterlo in auge, rendendolo peraltro anche retroattivo fino al 2013, nonché reversibile per gli eredi. Si trattava di oltre 7 mila euro lordi per ogni annualità trascorsa in Consiglio regionale per ciascun consigliere. Cioè 35.500 euro per ogni eletto, da incassare alla fine legislatura. Ovvero poco meno di 2 milioni di euro per il quinquennio di consiliatura. Tutti soldi pubblici. Uno scandalo che però non è andato in porto grazie al fortissimo sdegno dell’opinione pubblica e lo stop imposto dal segretario del Pd Enrico Letta e da Giuseppe Conte, i quali avevano “vivamente invitato” i consiglieri regionali pugliesi di Pd e del Movimento 5 Stelle a fare “un passo indietro”.

Proteste le piazze Lgbtq contro Matteo: “Vergogna”

Il giorno dopo l’affossamento del ddl Zan al Senato, le piazze delle più grandi città italiane si riempiono per condividere rabbia e delusione. E anche se il voto di due giorni fa era segreto, migliaia di persone hanno le idee chiare su chi siano i principali responsabili della disfatta, che da queste parti ha il sapore di un tradimento. A Milano, di fronte all’Arco della Pace, il fondatore dei Sentinelli Luca Paladini lo dice dritto: “Ci sono pezzi di Senato dichiaratamente omofobi e altri che se ne vanno in Arabia Saudita anziché fare il lavoro per il quale sono pagati e che hanno contribuito a creare il clima per quel che è successo”. Perché anche se i voti di Italia Viva non sono stati i soli a mancare, Matteo Renzi è il più citato dagli attivisti: “Pensi di avere un alleato e invece ti sputano in faccia”, dice amareggiato Alex. “Siamo diecimila”, urla fiero il leader dell’Arcigay milanese Fabio Pellegatta. A Roma tra i manifestanti c’è anche Vladimir Luxuria. Anche qui, parecchi i cori di “vergogna” contro Renzi e contro il senatore leghista Simone Pillon. “Avete bloccato la legge, non bloccherete la lotta”, sentenzia uno striscione romano. Ma anche i più ottimisti sanno che adesso potrebbe servire parecchio tempo.

“Ero uno scambista di voti Sono cambiato in cella”

Le ha fatto piacere questa chiacchierata?

Assolutamente sì, è un gesto di attenzione che apprezzo.

Totò Cuffaro, il vasa vasa di Sicilia ancora traffica per edificare la sua Dc.

Gli ultimi tre comizi sono stati bellissimi: San Cataldo, Caltagirone, Favara.

Non le sono bastati i 1758 giorni di carcere.

Ho pagato le mie colpe.

La politica l’ha condotto sui terreni contigui alla mafia.

La mafia fa schifo.

Quella politica anche.

Sono stato il ras delle clientele. E oggi posso scambiare la sua cortesia solo con i miei fichi d’india che produco e vendo in tutta Italia. Mi hanno revocato la pensione, la banca mi rifiuta il conto corrente, non ho più la carta di credito. Le banche sono più maligne e vendicative del diavolo.

Ma continua a comiziare.

Ma è la mia vita, diamine! La politica mi tiene in vita, capisce? Avevo smesso, ero impegnato a illustrare l’inferno delle carceri. Ho scritto quattro libri, facevo convegni, sono stato in Africa.

E poi di nuovo il diavoletto della politica.

Il Covid mi ha di nuovo rinchiuso in una stanza e io ho immaginato cosa potessi ancora fare.

Il Grande Centro.

C’è una sete di Dc, un sentimento nuovo, una speranza.

L’Udc la tiene in disparte, Miccichè adotta il distanziamento.

Lo so, per alcuni non è più utile la mia amicizia. Alcuni lo fanno perché temono la concorrenza.

Renzi che pure ha pranzato con Miccichè con lei nemmeno si sognerebbe.

Ha testa quell’uomo. Ripeto, le convenienze spingono a distanziare, ma io so che della Dc non se ne potrebbe mai fare a meno.

È un irriducibile.

Mi piace troppo la politica. È un filo che ti allena all’esistenza. Ricordo i giorni terribili in rianimazione, a dicembre. Sa che il Covid stava per mandarmi all’altro mondo?

È stata dura.

Diciassette giorni con i fili, i tubi, la semi coscienza. Vedevo davanti agli occhi un filo che scendeva. Ogni giorno tentavo di aggrapparmi e ogni giorno quel filo si sfilava dalle mie mani. Ho immaginato che la mia salvezza fosse nell’agguantarlo. È successo, ce l’ho fatta.

Non nota, quando comizia come fosse Don Sturzo, una punta di compassione nei suoi confronti? Totò Cuffaro ha sempre scambiato prebende, non idee.

Sempre sì.

A volte anche fuori del lecito, oltre il lecito.

La mafia fa schifo, lo ripeto.

Lei ha fatto cose anche oltre il lecito.

Era il mio modo di fare politica: aiutare, accettare, offrire, e anche scambiare. Ora mi sono liberato di quella mia condizione. Vivo del mio e illustro le mie idee.

Chi la ascolta cerca altro?

Non potrei dare altro.

Però continua a frequentare il mercato delle preferenze.

La Dc è il centro perfetto.

Continua ad essere irretito dal potere.

Non sono candidabile, ho perduto i miei diritti. Lo faccio per amore della politica, davvero.

Nei suoi confronti c’è una forma di riverenza o di compassione?

Noto una certa pietas. È un sentimento più largo e più denso della mera compassione.

Lei resta un uomo ricco.

Benestante.

Senza la carta di credito userà i contanti.

Le dicevo della carta per significarle l’esagerazione che le banche fanno con le loro profilature al computer.

Renzi non la inviterà mai a pranzo per fare il grande centro in Sicilia.

Lo so.

Neanche Miccichè.

Se ne guarda bene.


Vasa vasa.

Ero così. Scambista, clientelare.

Sua figlia si prepara al concorso in magistratura.

È la sua ambizione. E spero davvero ci riesca. Ps: io in carcere mi sono laureato in giurisprudenza.

È una bella ambizione quella di sua figlia.

Pensi che, convinto di fare buona cosa, la raccomandai all’università. Non sa quanto si arrabbiò, come la prese male.

Lei è irredimibile.

Sono profondamente cambiato.

Speriamo.

A gennaio torno in Africa. Vuol venire in Burundi?

“Prova generale per il Colle. Renzi tirerà la volata a B.”

La nuova vita (anche) da vicepresidente vicaria di Giuseppe Conte è appena iniziata, ma Paola Taverna prova a guardare a medio termine: “Noi del M5S dobbiamo dare nuove risposte ai cittadini. Dopo tre anni di pandemia la gente ha nuove priorità, e dobbiamo intercettarle”.

Il Senato ha affondato il ddl Zan. Brutta sconfitta per Pd e M5S, no?

Ho ancora negli occhi la squallida esultanza del centrodestra, sulla pelle di cittadini che ogni giorno vengono discriminati. Hanno mostrato che il distacco tra una certa classe politica e il Paese è immenso.

È emersa una maggioranza in vista del voto sul Colle, composta dal centrodestra e da Matteo Renzi, no?

Il centrodestra da solo non avrebbe potuto farcela, quindi il contributo di Italia Viva è stato determinante. Sono state prove tecniche per il Quirinale. E forse Renzi tirerà la volata a Berlusconi.

Potrebbero esserci stati franchi tiratori anche nel Pd e tra voi 5Stelle.

Parlare di franchi tiratori nel M5S è ridicolo, ogni volta che c’è stata tensione tra noi su singoli provvedimenti si è saputo. Sul ddl Zan eravamo compatti.

Alcuni 5Stelle hanno accusato il Pd di cattiva gestione politica.

Se oggi Letta ha accusato palesemente Renzi vuol dire che il capo di Iv aveva preso impegni che poi non ha mantenuto.

Il segretario dem parla di “rottura” con Iv. È davvero la fine del nuovo Ulivo?

Di nuovo Ulivo il M5S non ha mai parlato. Il dialogo con il Pd deve andare avanti, ma sulle proposte. Dai dem ci aspettiamo sostegno su temi comuni, a partire dal salario minimo. Il Pd ora deve dimostrare di voler fare un percorso con noi, sulle cose da realizzare.

Per restare uniti dovreste giocare assieme la partita del Colle. Letta e Conte potrebbero anche votare Draghi, a patto che la legislatura prosegua fino al 2023.

L’unico nostro interesse è proporre la migliore figura di garanzia per il Paese. E ciò non va certo legato alla permanenza nei Palazzi.

Serve un nome condiviso anche col centrodestra?

L’importante è innanzitutto tenere compatto il M5S. E comunque ora siamo concentrati sulla legge di Bilancio.

Draghi cancellerà il cashback e imporrà restrizioni al Rdc. Per il M5S è una batosta, non crede?

Se non fossimo in questo governo il Reddito lo avrebbero già smantellato, come il Superbonus. Questo non è il nostro esecutivo, ma dobbiamo mettere a terra i soldi del Pnrr conquistati da Conte. In manovra abbiamo mantenuto nostre misure come i sostegni a scuola, università e ricerca, i fondi per le imprese, il taglio del cuneo fiscale per aziende e lavoratori.

Mentre trattava con i sindacati sulle pensioni, Draghi ha lasciato il tavolo. Cosa ne pensa?

Mi ha fatto ricordare che il presidente Conte restava seduto con tutti quando gli chiedevano un confronto.

Come funzionerà la segreteria del M5S? E voi vice avrete deleghe?

Noi vice dovremo aiutare Conte innanzitutto nella gestione politica. Le deleghe arriveranno quando la nuova struttura sarà, velocemente, portata a compimento. E comunque verremo votati dagli iscritti.

Alla struttura servono fondi, ma molti eletti non restituiscono più. È quasi una rivolta.

Sui soldi facciamo quanto facevamo anche prima: una parte va al M5S e un’altra ai cittadini. A breve 7 milioni di restituzioni verranno destinate a progetti votati in Rete. Dopodiché in assemblea Conte lo ha detto: non è il tempo degli individualismi. Tutti devono fare il loro dovere.

Sui due mandati sentirete gli iscritti: conferma?

Sui punti rilevanti sentiamo sempre la nostra comunità.

Di Battista ha lanciato il suo tour. Farà un partito?

Sono contenta di sapere che Alessandro ha ancora voglia di fare politica. Con quali strumenti, lo deciderà lui.

Pd e Letta rinsaviti: scaricano Italia Viva (e pure il Caimano)

Enrico Letta lo aveva incontrato subito dopo Pasqua, Matteo Renzi. Perché era arrivato alla segreteria del Pd con l’idea di lanciare una coalizione che andasse da M5S a Iv, da Leu a Carlo Calenda. Nonostante i trascorsi: la sua defenestrazione da Palazzo Chigi per mano del fu Rottamatore. Sono passati sette mesi da allora, sette mesi in cui non si è mai arrivati a un chiarimento reale. Fino a ieri quando Letta ha scandito ai microfoni di Radio Immagina: “È evidente che si è sancita una rottura della fiducia, con Italia Viva”.

Parla del disegno di legge Zan, affossato mercoledì nel voto segreto a Palazzo Madama. Centrali i franchi tiratori. Che pure ci sono stati, anche tra i dem. Con Letta che punta il dito contro Iv e Renzi, che invece dà tutta la responsabilità alla gestione del segretario del Pd. “Sul ddl Zan si è consumato un disastro politico, gestito con totale incapacità dal Pd di Letta, che prima ha fatto un’apertura in Tv e poi ha deciso di andare al muro contro muro, giocando una partita ideologica sulla pelle delle persone. E naturalmente perdendola, come era chiaro per tutti quelli che conoscono il Senato, la politica e, soprattutto, la matematica”. Il leader di Iv, in realtà, neanche ci prova a respingere le accuse sul voto (“i franchi tiratori ci sono stati in tutti i gruppi” dice con una mezza ammissione). E poi racconta di un messaggio ricevuto dal segretario dem prima di andare domenica sera da Fabio Fazio ad annunciare la trattativa.

Al Nazareno a questo punto colgono l’occasione per sbattere fuori Renzi dall’Ulivo 2.0 che (forse) sarà. Mentre raccontano di una valanga di messaggi contro Renzi, ma anche dei sospetti e del rancore nei suoi confronti registrato in questi mesi nel Pd, a tutti i livelli. Lo Zan finisce sullo sfondo. Così come il fatto che in realtà una certa parte del Pd avesse le sue perplessità e come l’irrigidimento nelle fasi finali della trattativa su indicazione dello stesso segretario, che fa dire ad alcuni che lui per primo ha preferito la “bella morte” della legge.

Renzi ormai è fuori, considerato quasi organico al centrodestra, tra gli accordi con Miccichè in Sicilia e la vicinanza a Matteo Salvini. La chiusura di Letta però “riguarda tutta la parte che ha votato in quel modo. Lo dico anche per FI. Dove sta FI? Con Pillon e Orban? Non dovrebbe stare con Von del Leyen che è la principale avversaria di Orban?”. Affonda, lo dice esplicitamente: “Se ci mettiamo tutti con la testa al Quirinale finiremo col disastrare il panorama politico e tutti i provvedimenti. Sul ddl Zan hanno fatto le prove generali dei giochi per il Quirinale o di alleanze politiche”. Se con Renzi, la chiusura appare definitiva, con Forza Italia no. Il tentativo è ancora cercare di dividerla. O comunque di riprendere il dialogo una volta che sia chiaro che la candidatura di Silvio Berlusconi al Quirinale non va molto lontano.

Fino a quel momento, fino a che il Caimano spera nel Colle, FI lo seguirà. La porta resta aperta per Carlo Calenda. Il suo unico senatore, Matteo Richetti, allo Zan ha detto sì. Ma comunque, in prospettiva l’ex candidato sindaco di Roma è una figura meno odiata. Lui, peraltro, ieri mattina aveva twittato rivolto a Renzi: “Ma come cavolo ti viene in mente di legarti all’Arabia Saudita e allearti con Miccichè”. Una sorta di appello destinato a rimanere senza risposta il suo: “Dovremmo lavorare insieme e costruire un grande polo riformista. Ma come possiamo farlo credibilmente se continui così! Fermati un secondo a riflettere”.

Mancano tre mesi al voto del Quirinale, ma la mossa di Letta aumenta le nubi, proprio mentre tra i Cinque Stelle rimbalza il nome di Rosy Bindi come candidata: possibile pensare di riuscire a contare davvero solo con Pd e M5S? Senza contare che tra i dem resta una zona grigia, vicina a Renzi, e che potrebbe portare avanti i propri giochi.

Salvini: “Silvio, ora il Colle è possibile” Processo ai ministri FI: “Non contate”

Doveva essere il vertice per ritrovare l’unità e riunire le forze del centrodestra di governo. Di fatto però è diventato il vertice dei sospetti, delle accuse incrociate e della spaccatura nel centrodestra, costretto a trattare su tre tavoli diversi: quello dei leader, quello dei ministri e quello interno a Forza Italia dove i tre esponenti di governo sono in aperto scontro con il resto del partito. In questo contesto è avvenuto il pranzo di ieri a villa Zeffirelli tra Silvio Berlusconi, Matteo Salvini, i sei ministri e i capigruppo di Lega e Forza Italia.

Il tutto aperto con un aperitivo definito “chiarificatore” tra Berlusconi e i tre ministri di FI Gelmini, Carfagna e Brunetta che negli ultimi giorni avevano aperto una frattura nel partito chiedendo al capo di non schiacciarsi sulla Lega. Clima pesante e toni alti, secondo le fonti filoleghiste dentro FI, cordiale e affettuoso per l’ala moderata. Come che sia la discussione c’è stata. “Il coordinamento con i leghisti c’è già – hanno detto a Berlusconi i tre ministri azzurri – ma bisogna essere fedeli a Draghi”. Poi l’accusa: “Saremo leali con te per sostenerti al Quirinale ma il nodo politico resta: non possiamo essere schiacciati con Salvini”. Berlusconi, dispiaciuto, ha risposto: “Ditemi una sola occasione in cui mi sono piegato a Salvini. La linea la decido io”. Ed era solo l’aperitivo. Durante il pranzo allargato ai leghisti e ai capigruppo (presenti anche Gianni Letta, Licia Ronzulli e Antonio Tajani) a base di tagliolini cacio e pepe, carpaccio e cheesecake al cioccolato, a fare gli onori di casa è stato B. che ha chiesto una “maggiore unità” e poi è intervenuto Salvini. Il leader della Lega prima ha spiegato perché serve un maggior coordinamento tra i ministri confermando il suo sostegno a Draghi: “Sei è meglio di tre, dobbiamo ottenere di più in Cdm”. E poi si è rivolto direttamente ai ministri che spesso si sono ribellati al volere suo e di Berlusconi: “Non esistono sovranisti ed europeisti. Dovete seguire quello che diciamo io e Silvio e se ci sono dei problemi risolviamoli tra noi e non sui giornali”. A partire dalla manovra con la richiesta di abbassare le tasse e tutelare le partite Iva.

Poi ha parlato della coalizione: “Se il centrodestra vuole vincere le elezioni serve una legge maggioritaria perché altrimenti il Pd governerà per tutta la vita, anche Silvio è d’accordo” ha detto il leghista riferendosi all’ala moderata di FI favorevole al proporzionale. Infine il Colle. L’affossamento del ddl Zan ha rinfrancato Salvini: “È stato un grande successo – ha concluso – siamo imprescindibili per il Quirinale. I voti per te, Silvio, ci sono, poi ci dirai…”. Giorgia Meloni da fuori cavalca il sogno dell’ex Cavaliere: “Sarebbe un fatto epocale e d’impatto”. Al pranzo poi sono intervenuti a ruota i ministri. Giorgetti ha elogiato Draghi per il “decisionismo”, i ministri di FI hanno precisato che “il centrodestra deve essere plurale” e che “vanno valorizzate le differenze tra Lega e FI”. Come dire: siamo autonomi. Prossimo incontro tra due settimane. Quello tra i leader, con Meloni, tra sette giorni. Per provare a stare uniti, nonostante tutto.

“Grazie, ma non mi candido” “Il nostro voto resta indelebile”

La nostra campagna per sostenere la candidatura di Liliana Segre al Quirinale è arrivata a 90 mila firme. Ecco la lettera che ci ha inviato la senatrice a vita.

Cari Furio Colombo, Peter Gomez, Antonio Padellaro e Marco Travaglio, vi sono grata per la stima che mi dimostrate e per le copiose manifestazioni di affetto e simpatia che la vostra iniziativa ha suscitato. Tuttavia, mi pare doveroso precisare che non sono disponibile per la candidatura che avete ritenuto di proporre.

Quando si raggiunge un’età avanzata si deve avere cura di se stessi e coscienza dei propri limiti. Non si può rischiare di compromettere, con le proprie fragilità, il funzionamento di Istituzioni essenziali. Oltretutto, il ruolo di Presidente della Repubblica richiede grande sapienza costituzionale e politica. E io ne sono priva, non avendo mai fatto politica attiva.

Infine, anche il ruolo che con la nomina a senatrice a vita il Presidente Mattarella mi ha voluto affidare, di testimone e simbolo di una vicenda storica, mal si concilia con quello di “candidata di bandiera” di una parte.

Un cordialissimo saluto.

Liliana Segre

 

Gentile Senatrice. È vero, le manifestazioni di affetto e di simpatia sul suo nome piovono talmente copiose che dopo pochi giorni si sta toccando il traguardo delle novantamila firme (e prossimamente delle centomila). Siamo dunque noi che le siamo particolarmente grati per questa grande e salutare boccata d’aria fresca che raccoglie i tanti che nel nostro Paese non si rassegnano a vedere la più alta istituzione al centro di un mercato al ribasso. E nel quale si vellicano le ambizioni di personaggi senza dignità.

Ella ha perfettamente compreso come la sua candidatura sia stata da noi concepita sulla base di questo impulso pur tenendo conto delle difficoltà che nella sua lettera sono esposte con quella sensibilità istituzionale che, una volta di più, le fa onore.

Infatti a lei abbiamo subito pensato come candidata di bandiera non di una parte, ma di tutto il Parlamento unito nella difesa dei valori costituzionali di giustizia e di libertà e contro ogni forma di risorgente fascismo.

Nel ringraziarla ancora, sappia che il nostro voto per Liliana Segre, unito a quello copioso e straordinario di tanti cittadini italiani, resterà comunque indelebile.

Furio Colombo, Peter Gomez, Antonio Padellaro e Marco Travaglio

I soldi del Rdc alle imprese in cambio di lavoro precario

La cosa era nell’aria, da ieri è ufficiale: i grillini, officiante Mario Draghi, provano a far fare la pace a Confindustria col Reddito di cittadinanza dando alle agenzie private un pezzo della torta, ricca specie con la partenza del Pnrr e delle politiche attive del lavoro.

Carlo Bonomi lo chiedeva da due anni buoni e l’idea del capo degli industriali ora è finita nelle proposte di modifica che il M5S si è intestato prima della manovra. Ieri mattina, la viceministra dell’Economia Laura Castelli, ancor prima del Consiglio dei ministri, ha annunciato alla deliziata platea di Asstel, l’associata di Confindustria per le telecomunicazioni, che “coinvolgiamo, nelle politiche attive, anche le agenzie private”. Novità che risulta ancor più rilevante se connessa con altre due: “Interveniamo sulla computabilità del reddito da lavoro (in sostanza sarà più conveniente accettare anche lavori a termine) e introduciamo un décalage con l’obiettivo di dare una maggiore motivazione ad accettare le proposte”, cioè 5 euro in meno al mese se rifiuti la prima proposta di lavoro, tenendo presente che chi ne rifiuta due – e non tre com’è stato finora – perde il sussidio. Si spera, se non altro, che la fanteria di complemento mediatica, ora che i soldi vanno dove volevano, la pianti con la storia della gente sul divano.

Riassumendo, gli 1,1 milioni di percettori del Reddito di cittadinanza definiti “occupabili” (circa un terzo del totale) da gennaio saranno caldamente “consigliati” ad accettare qualunque tipo di offerta di lavoro entro gli 80 chilometri da casa. Chi ci guadagna? Le imprese, che si prenderanno il loro sussidio. In sostanza, prima solo l’imprenditore che assumeva “a tempo pieno e indeterminato”, passando dal sito Anpal, un percettore del Rdc si beccava fino a 780 euro al mese per almeno 5 mesi: dal 2022 la stessa cifra verrà incassata anche coi contratti precari di ogni genere e Anpal sparisce. Questo illumina meglio la novità successiva – che era la vera richiesta di Bonomi e soci – ovvero il coinvolgimento delle agenzie private di lavoro, che avranno il 20% del bonus per i contratti da loro intermediati.

Il privato è invitato al banchetto delle politiche attive del lavoro, su cui l’Italia finora investiva circa 700 milioni di euro l’anno (meno della media Ue), ma su cui col Piano di ripresa convoglierà altri 4,4 miliardi di qui al 2026: torta a cui, a questo punto, va aggiunta una quota dei fondi destinati al Reddito di cittadinanza (circa 8,8 miliardi l’anno). È appena il caso di ricordare che, all’ultimo report Inps, l’aumento di occupazione post-Covid è quasi tutto imputabile ai contratti precari, in particolar modo stagionali (+68%) e in somministrazione (+34%). Adesso, insomma, le agenzie private come Adecco, Manpower, eccetera potranno mettere le mani su quel pezzo di risorse pubbliche dedicate ai lavori a competenza medio-bassa che finora era intermediata (male) soprattutto dallo Stato: il precedente di Garanzia Giovani non lascia ben sperare…

Queste novità, peraltro, vanno di pari passo con la rinuncia a strutturare un potente e funzionante sistema di Centri per l’impiego pubblici, uno dei più straordinari fallimenti del federalismo all’italiana: a oggi le Regioni non hanno portato a termine neanche il 10% delle oltre 11mila assunzioni a cui sono autorizzate da più di due anni e i Centri occupano molto meno personale delle agenzie private (9.000 contro 12.000), un sesto degli omologhi francesi, un dodicesimo di quelli tedeschi e sono, di fatto, ignorati dalle imprese che offrono lavoro. In questo contesto non è senza effetti anche l’abbandono, certificato sempre nella manovra, a una riforma davvero universalistica degli ammortizzatori sociali che lascia decine di migliaia di persone senza copertura nel momento della disoccupazione e le avvia, se va bene, proprio al Reddito di cittadinanza, nuovo bacino statale del lavoro precario.

Le altre modifiche al sussidio voluto dai 5Stelle sono tutte dello stesso tenore punitivo: in sostanza più paletti all’ingresso e maggiori cause di esclusione. Chi sperava di veder corretti i due difetti più evidenti della norma – la penalizzazione dei percettori del Nord e delle famiglie numerose – avrà forse capito che a nessuno, governo in testa, interessava mettere mano ai difetti, ma solo evitare che il Rdc avesse l’effetto di far aumentare i salari al fondo della catena alimentare. E di far partecipare le imprese alla festa, ovviamente: ora non siamo più il Sussidistan.

La nuova Rai? Avrà uno Zar a guidare tutta l’informazione

E ora l’ad della Rai, Carlo Fuortes, fa sul serio e non vuol sentire ragioni: avanti tutta con le direzioni di genere che spianeranno l’identità delle singole reti del servizio pubblico. Ce lo chiede l’Europa, par di capire, e pure qualcun altro. Il nuovo piano industriale approvato all’unanimità dal cda prevede infatti “una riorganizzazione che ricalca quella già adottata dai principali broadcaster pubblici europei e costituisce – come ha spiegato l’azienda di Viale Mazzini – un fondamentale momento di discontinuità e un punto di ripartenza ineludibile accelerando il processo di trasformazione digitale quale requisito necessario al mantenimento del ruolo centrale di servizio pubblico in un contesto multipiattaforma”. Bene, bravi bis. Ma nei corridoi di Viale Mazzini ci si interroga su quale sia il disegno. Ché – è il paradosso – agli appetiti dei partiti si è fatto il callo, “ma almeno, accontentando tutti, ne veniva fuori una sorta di pluralismo all’italiana. E nelle reti resisteva qualche isola felice. E ora che succederà?”.

Bella domanda, dato che alla prossima nomina dei direttori dei Tg, classico terreno di caccia della politica, si accompagnerà la riorganizzazione per generi voluta da Fuortes, mentre alle viste c’è un appuntamento delicatissimo da segnare in rosso, anzi due: l’elezione del nuovo capo dello Stato e poi le Politiche più in là. La cosa preoccupa non poco, anche perché quello spinto dall’ad è lo stesso piano voluto dall’ex amministratore delegato, Fabrizio Salini, che si era arenato sulla casella più delicata: quella del super direttore preposto agli approfondimenti, insomma ai programmi e palinsesti che più interessano la politica. In pole, all’epoca di Salini, c’era Antonio Di Bella. Con Fuortes salgono le quotazioni del renzianissimo Mario Orfeo, già direttore generale della Rai, poi transitato alla guida del Tg3, anche se rispunta il nome di Teresa De Santis, nominata direttrice di Rai1 con l’etichetta di sovranista salviniana, costretta a rivolgersi agli avvocati per il suo allontanamento a ridosso del Festival di Sanremo del 2020. Orfeo va per la maggiore, anche se Monica Maggioni, che della Rai è stata pure presidente, vanterebbe anche un grande sponsor a Palazzo Chigi, ossia Roberto Garofoli, il potente sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, ormai uomo macchina di Mario Draghi.

Ma quali saranno i compiti dei nuovi direttori di genere? Secondo quanto illustrato dall’azienda, verranno istituite dieci direzioni che dovranno produrre contenuti per i canali Rai1, Rai2 e Rai3 e per i canali specializzati, declinandoli a seconda dei diversi pubblici e dei profili editoriali dei canali e piattaforme digitali. Le dieci strutture si occuperanno rispettivamente di “intrattenimento prime time”, “intrattenimento day time”, “cultura ed educational”, “documentari”, “fiction”, “sport”, “cinema”, “kids”, “contenuti RaiPlay”. E per l’appunto “approfondimento”, che resta il genere più delicato perché finiranno sotto un’unica regia e un’unica linea editoriale i programmi come Porta a Porta di Bruno Vespa, ma pure quelli di Lucia Annunziata o Bianca Berlinguer oltreché Report di Sigfrido Ranucci. Un unico direttore scelto dall’ad, la cui nomina non dovrà neppure ottenere il via libera del consiglio di amministrazione della Rai, e che deciderà in che fascia collocare il prodotto, come ci si dovrà regolare durante la par condicio imposta dalle campagna elettorale e poi anche esercitare il controllo sui singoli programmi.

Certo tutte decisioni che coinvolgeranno necessariamente anche il marketing dell’azienda, i general manager, la distribuzione. Ma – spiega chi conosce la macchina dal di dentro – “il punto è che la responsabilità dei programmi passa dalle direzioni delle reti a quelle dei generi, o meglio al singolo direttore” ora che è stata decisa la transizione al modello organizzativo orizzontale. “Dipende tutto dalla qualità delle persone. Anni fa si mise in piedi la direzione intrattenimento e venne affidata a Giancarlo Leone. Andato via lui venne sciolta” ricorda il deputato di Italia Viva, Michele Anzaldi, che non ha pregiudizi, ma nutre qualche dubbio su Fuortes e ci tiene a farglielo sapere. “Già il termine ‘nuovo piano’ che ha usato è un falso: si tratta di quello fatto da Salini che poi non è mai partito. In più, l’ad è venuto a dire in Vigilanza che la Rai ha un buco da 300 milioni e che servono soldi. Ma non vedo alcuna innovazione e nessun risparmio, anzi. Vedo solo una moltiplicazione di direttori e di nomine da fare: e i nomi che circolano sono sempre gli stessi”.