Stop al Cashback, tagliola sui bonus: manovra Draghi

Una manovra per scontentarli tutti e così nessuno può dirsi punito oltremisura. La cifra della prima legge di Bilancio di Mario Draghi – approvata ieri in Consiglio dei ministri – è quella del ritorno alla normalità dopo la parentesi della pandemia. Di fatto, tutti i cavalli di battaglia dei partiti escono ammaccati, se non sostanzialmente eliminati. Dalle pensioni al Reddito di cittadinanza, dal calo delle tasse ai bonus edilizi: nessuno porta a casa quanto chiesto e ci si limita a ridurre le perdite.

Il quadro è fotografato dalle bozze che lo staff del ministro Daniele Franco fa arrivare ai colleghi poco prima dell’inizio della riunione, che infatti slitta e dura quasi tre ore. “Al termine tutti hanno applaudito”, spiega Draghi, a cui non manca il senso dell’ironia. Nel Cdm non sono mancate le tensioni, soprattutto sul Rdc, tra centrodestra e M5S. I retroscena raccontano anche di una chiamata al premier di Giuseppe Conte per ammorbidire i contenuti punitivi verso i percettori del sussidio. Nel complesso il testo – 185 articoli – vale 23 miliardi di maggior deficit, complessivamente quasi 30 considerate tutte le misure.

Sulle pensioni lo schiaffo è a Lega e sindacati: Quota 100 non viene rinnovata, Draghi ammette solo una Quota 102 (64 anni e 38 di contributi) per il solo 2022, poi si tornerà alla Fornero, salvo novità che potrebbero emergere da un fantomatico “tavolo sulla previdenza” (il contentino lasciato ai sindacati). Viene allargata l’Ape sociale a nuove categorie di lavoratori e confermata Opzione Donna, entrambe per un solo anno (sulla seconda, peraltro, il limite di età sale di due anni). Arriva anche un fondo da 600 milioni per le uscite anticipate nelle Pmi in crisi per chi ha almeno 62 anni. Ieri la Fiom ha annunciato 8 ore di sciopero. Cgil, Cisl e Uil decideranno sabato. “Non mi aspetto uno sciopero generale, vista la nostra disponibilità a discutere. Sarebbe strano”, dice quasi infastidito il premier, che traccia la linea: “Dobbiamo tornare prima possibile al sistema contributivo”. Vale la pena di notare che ieri l’Inps ha fornito i dati aggiornati: 5,3 milioni di pensionati vivono con meno di 1.000 euro mensili lordi.

Sui bonus a uscirne ammaccati sono i giallorosa. Come previsto, viene eliminato il Cashback, la misura anti-nero assai cara a Conte: sospesa per quest’anno non ripartirà nel 2022. Il Superbonus edilizio al 110% viene prorogato per il 2023, poi scatta la riduzione al 70% per il 2024 e al 65% per il 2025. L’estensione però riguarda solo i condomini, per case unifamiliari e villette vale solo per chi ha un Isee fino a 25mila euro e per le prime case. “Così uccidono la misura”, ammette l’ex sottosegretario Riccardo Fraccaro (M5S). Resta il cosiddetto “bonus facciate”, caro al ministro Dario Franceshini, ma tagliato al 60%.

Del Reddito di cittadinanza leggete sotto, ma alla fine il ridisegno della misura – che viene rifinanziata per quasi 9 miliardi (uno in più di quanto previsto) – è tutto nel senso caro a Confindustria e al centrodestra: taglio dell’assegno a chi rifiuta un lavoro, coinvolgimento e soldi alle agenzie di collocamento private, stop al sussidio dopo due offerte e incentivi ad assunzioni anche per part- time e/o precarie.

Nel complesso, la misura più corposa riguarda il taglio delle tasse, a cui sono destinati 8 miliardi. Come verrà fatto, lo deciderà il Parlamento e questo lascia temere che si concentrerà sui redditi medio alti e, in parte, le imprese (Irap). Draghi e Franco, in conferenza stampa, parlano di una cifra finale vicina ai 12 miliardi nel 2021, considerati i due per ridurre il caro bollette e altri incentivi alle imprese. A queste ultime, peraltro sono destinate misure per 10 miliardi nel triennio: 8 per l’“internazionalizzazione”, il resto per rifinanziare il Fondo di garanzia per le Pmi, rinnovare fino a giugno 2022 le garanzie sulla liquidità delle aziende. Alla riforma degli ammortizzatori sociali studiata dal ministro Andrea Orlando vanno circa 4 miliardi, metà di quanto previsto dalle bozze iniziali.

Ogni partito finge di aver difeso le proprie misure. Alla fine, perdono tutti. E da lunedì la nuova tappa del dolore sarà il ddl Concorrenza.

I soliti sospetti

Per la serie “Le grandi scoperte della scienza”, pare che il Pd inizi a sospettare di Renzi. I soliti malpensanti lo incolpano financo del sabotaggio del dl Zan, sol perché molti dei suoi han votato contro e lui non ha proprio votato perché impegnato a sbucciarsi le ginocchia dinanzi a Bin Salman, noto cultore dei diritti Lgbt. Nulla, però, nel suo curriculum fa ipotizzare simpatie destrorse. Nel 2010, sindaco di Firenze, incontra segretamente B. ad Arcore tra un bungabunga e l’altro, malgrado la sua maggiore età: dunque è vero che è di sinistra. Nel 2013 il Pd torna a Palazzo Chigi con Letta dopo 5 anni; 9 mesi dopo il neosegretario Renzi riceve B. e Letta (zio) al Nazareno, si accorda sulle schiforme elettorale e costituzionale, fa fuori Letta (nipote) e prende il suo posto: un atto d’amore per il Pd. In due anni e mezzo demolisce lo Statuto e i diritti dei lavoratori, la giustizia, la lotta all’evasione, l’ambiente, la scuola e la Costituzione in combutta con B. tramite Verdini&Alfano: è la prova che è di sinistra. Nel 2018 trascina il Pd al minimo storico, rifiuta di allearsi coi 5Stelle e regala il governo e la scena a Salvini: più di sinistra di così si muore. Nel 2019, dopo la crisi del Papeete, propone il governo col M5S per evitare le elezioni e lasciar lì i gruppi parlamentari nominati da lui; ma, appena nato il Conte-2, secede dal Pd per “svuotarlo”, fonda Iv e tresca con Salvini per uccidere il governo nella culla: altra prova di lealtà e affidabilità.

Nel gennaio 2020 sferra la mozione anti-Bonafede, ma lo frega il Covid: il Conticidio è rinviato per pandemia, ma lui attacca ogni giorno il suo premier e dà interviste alla stampa di mezzo mondo contro il suo governo elogiato in tutto il mondo per la gestione della pandemia e il Recovery Fund; a fine anno tiene in ostaggio il Pnrr con i pretesti più fantasiosi e nel gennaio 2021 rovescia il Conte-2 in piena terza ondata, riportando al governo FI e Lega: l’ennesima prova d’amore per il centrosinistra. Nato il governo Draghi, piccona le riforme più di sinistra degli ultimi decenni, dal Reddito al dl Zan; firma i referendum anti-giudici con B.&Salvini; cena col forzista Miccichè e si fonde in Sicilia con i Dell’Utri Boys: commosso da tanta fedeltà, Letta lo invita nel Nuovo Ulivo. Poi, l’altroieri, un fulmine a ciel sereno: “Pd in allarme: ‘Renzi va a destra’” (Repubblica). Montanelli raccontava di quel “gentiluomo austriaco che, roso dal sospetto che la moglie lo tradisse, la seguì di nascosto in albergo, la vide dal buco della serratura spogliarsi e coricarsi insieme a un giovanotto. Ma, rimasto al buio perché i due a questo punto spensero la luce, gemette a bassa voce: ‘Non riuscirò dunque mai a liberarmi da questa tormentosa incertezza?’”.

“Il lettore sul lettino”: ansioso, cleptomane e pure mammone

Il lettore forte non sta bene. È una specie in via di estinzione, dicono i sociologi. I maligni si affrettano a indicare la causa del declino nelle sue tendenze perverse, una chiara forma di patologia. Bisogna allora chiedersi se il libro sia tossico. Se la lettura sia un piacere o una penitenza per accedere alla nuvola dei sapienti, dei docenti, dei potenti. Oppure un metodo surrettizio per scappare dal reale, dalla dimensione quotidiana, un sostituto legale dell’acido lisergico. Occorre capire se la pratica della lettura sia un vizio o una malattia al fine di indirizzare il lettore compulsivo verso un riformatorio oppure un ospedale.

Per rispondere a questi interrogativi Guido Vitiello stende Il lettore sul lettino (Einaudi) e chiama a consulto tecnici altamente specializzati in Es, Io e Super-io. James Strachey trasformava il libro in un grande teatro edipico in cui la pagina vergine sta per il corpo materno, le parole stampate sono i pensieri fertili e profanatori del padre e il lettore ha la parte del figlio, “desideroso di farsi strada con violenza nel corpo della madre, di scoprire cosa c’è dentro, di strappare via da lei le tracce del padre, di divorarle, di farle proprie, di esserne lui stesso fecondato”.

Donald Winnicott si limitava a battezzare la zona dove vanno a depositarsi le letture “Spazio Potenziale o Area dell’Illusione”. E siccome si discusse anche sul sesso del libro, nostro padre Sigmund Freud si lanciò in un’attribuzione audace: “Anche certi materiali sono simboli della donna: il legno e la carta e certi oggetti che sono fatti con questi materiali, come il tavolo e il libro”. Melanie Klein si spinse oltre il maestro: “Non solo il libro è femmina, ma il corpo della madre è il nostro libro originario, il primo che vogliamo leggere voracemente, a costo di sgualcirlo o di smembrarlo”.

Del resto la disputa sul sesso del libro aveva già prodotto aberrazioni precedentemente. Nell’800 una biblioteca inglese aveva steso un regolamento preciso contro la promiscuità: “Le opere degli uomini e quelle delle donne per decenza siano tenute separate e poste su scaffali lontani. La loro vicinanza è inammissibile a meno che gli autori non siano sposati”, così Vitiello nel suo libro colto e sciolto.

Intanto il paziente sotto analisi confessa le turpitudini della sua specie. Storie come quella di Georg Tinius, pastore cristiano di fine Settecento che non esitava a ammazzare una vedova benestante per tamponare i debiti accumulati con l’acquisto di libri rari: finì i suoi giorni in galera. Guglielmo Libri Carucci della Sommaja, genio precoce della matematica e bulimico di edizioni rare, rubava libri e riuscì a farsi nominare ispettore generale delle biblioteche di Francia saccheggiandole senza pietà. Ma non sono solo storie criminali quelle legate al lettore. Dato che il libro è un oggetto totemico, consolatore e perfino erotico, genera anche esaltazioni e piaceri, si spera integrativi e non sostitutivi di altri. “Troviamo il lettore dongiovannesco, a cui manca solo un Leporello bibliotecario che gli tenga aggiornato il catalogo di tutti i libri sedotti e abbandonati… Quando questo lettore dissoluto s’immerge troppo a fondo in un romanzo, al punto da sentirsene legato, si tormenta al pensiero di tutte le avventure letterarie che la fedeltà a quel libro gli preclude.”

Certi libri danno dipendenza, si soffre verso le ultime pagine perché si pensa che un’emozione così non ci potrà essere una seconda volta. “E accanto alla depressione post-partum e alla depressione post-coitum esiste anche la depressione post-librum, gli americani la chiamano post-book blues”.

Altri libri si spingono oltre l’eros e varcano i confini di una liberatoria pornografia. Ma hanno ancora una possibilità di essere reintegrati con l’aggiunta di incisioni di grandi illustratori come Félicien Rops. Il collezionista li pone in seconda fila per occultare i suoi gusti ai familiari, poi nella solitudine della notte estrae uno di quei livres qu’on ne lit que d’un main.

E alla fine di una lunga analisi il lettore, con tutte le sue patologie si alza dal lettino liberato dall’Es, ma con un aumento di Super-io che può fare ancora più danni. Le sue patologie poi non sono il peggio del mondo, ci sono malattie più devastanti, letali, da cui la lettura ci salva: l’ignoranza e la noia. Come scriveva in una lettera alla figlia Madame de Sévigné: “Sans la consolation de la lecture, nous mourrions d’ennui présentement (“Senza la consolazione della lettura, moriremo di noia in ogni momento”, ndr).

“La faccio finita…” “Sei un cadavere”: torna il Festival mondiale della Canzone funebre

Ricordiamoli festeggiando, i nostri cari estinti, i trapassati tout-court. Niente panico: toccherà a tutti. Tanto vale, insomma, riderci sopra, cantarci su. È proprio il caso di dirlo: chi non muore si rivede, e così dopo due anni di fermo biologico causa Covid torna a Rivignano Teor, in provincia di Udine, il Festival Mondiale della Canzone Funebre. Un unicum ultraterreno, un Sanremo di crisantemi e canzonette scaramantiche. Una gara canora in cui gli artisti suonano inediti eccentrici e dissacranti, per esorcizzare la paura (suprema) della morte. E magari per provare a scacciare sine die la visita della Falce Nera: se la musica non serve più a fare rivoluzioni, che ci allunghi almeno la vita.

L’appuntamento è da sabato a martedì 2 novembre. Si sfideranno nove protagonisti tra band e interpreti, tre per serata: 15 minuti ciascuno, un quarto d’ora di macabra celebrità per proporre tre brani autografi, di cui uno (rigidamente) a tema fatale. Ma come sempre non saranno requiem o melò strappalacrime: il menu prevede murder ballads, orazioni cantautoriali, blues e folk song ad alto voltaggio ritmico e grottesco. Sabato si esibiranno la Maurizio Perosa Band, gli All in duo e i Red Code; domenica Franz Merkalli&amp, i TelluriKa, gli All’ultimo momento e la Soul Orchestra; lunedì (Ognissanti) Gilbend, Bratiska Trio, Rocco Rosignoli. Martedì infine il gran finale, l’ultimo viaggio per la commemorazione dei defunti con le performance dei tre finalisti.

Una giuria popolare scelta a caso, un po’ alla maniera della Livella, sancirà il vincitore assoluto. A vestire i panni di Amadeus sarà Rocco Burtone, che ha ideato la kermesse insieme a Enrico Tonazzi. Nell’ultima edizione del 2019 imperversarono, tra gli altri, i Noi Duri Swing (La faccio finita) e i Frizzi Comini e Tonazzi (Sei un cadavere). Ottimo fu anche il set de I giù col morale. Il festival della Canzone Funebre è uno degli eventi della Fiera dei Santi e dei Morti, una tradizione antichissima che a Rivignano Teor si rinnova da oltre seicento anni. Altro che le “monate americane tipo Halloween”, rivendicano gli organizzatori: pensate che ne parlò persino Ippolito Nievo, lo scrittore-patriota, nel suo romanzo storico-autobiografico Le confessioni d’un italiano. Via silenzio e mestizia, spazio a balli, saltimbanchi e a un gran mercato per accogliere “Striis, Orcui, Cjalcjùtse Aganis” (streghe, orchi, diavoletti, streghe buone, ndr). Senza dimenticare le fate d’acqua, le zucche italiane, un premio alle maschere più spaventose e una notte bianca eterna.

Guarda che luna, Fred. Bionde, jazz e “whisky facile”

“Attenti al cappellone, arriva Fred Buscaglione”. Era il 1956 quando a Torino furono affissi ventimila manifesti che mostravano la fotografia di un bel ragazzo con un Borsalino in testa e la faccia da Clark Gable, l’espressione da duro dal cuore tenero, con i baffetti “assassini”, che si sarebbe esibito come cantante jazz e sentimentale al Faro Danze. L’idea del manifesto era venuta al cantante Gino Latilla, la scritta fu un’invenzione del paroliere Leo Chiosso.

Tre anni dopo, nel 1959, Ferdinando Buscaglione detto Fred venne proclamato cantante italiano dell’anno. Sarebbe arrivata la consacrazione televisiva in una memorabile puntata di Il Musichiere di Mario Riva; presto lo avrebbe scoperto il cinema: da Poveri milionari di Dino Risi a Noi duri di Camillo Mastrocinque, con Totò. La premiata ditta Buscaglione-Chiosso sfornava intanto pezzi come Che notte ed Eri piccola, Che bambola (che vendette ben 980 mila copie) e Guarda che luna, Teresa non sparare, Porfirio Villarosa, Whisky facile, Love in Portofino, Il dritto di Chicago. I juke-box dell’Italia del miracolo economico li diffondevano giorno e notte.

È passato un secolo esatto dalla nascita di Buscaglione, o Semplicemente Fred, come s’intitola il bel libro che Maurizio Ternavasio gli ora ha dedicato: un volume ricco di testimonianze e aneddoti. L’artista che con Renato Carosone, e con Domenico Modugno, rivoluzionò la musica leggera italiana, era nato il 23 novembre del 1921 a Torino, in una portineria (della madre) di piazza Cavour 3. Quando Fred morì in un’alba romana, il 3 febbraio 1960, schiantandosi con la sua Ford Thunderbird rosa contro un camion, l’amico Chiosso, autore dei testi di tutti i suoi successi, ricordò: “Piazza Cavour, il muro del giardino/ la panchina deserta di contrasti/ la finestra più bassa dove dorme/ la mamma innamorata di Puccini”.

Fred mosse i primi passi musicali studiando al Conservatorio torinese e suonando in una piccola sala dell’Hotel Ligure e alla Sala Gay, dove si esibiva l’orchestra di Cinico Angelini. Era una Torino che sapeva di jazz, il grande amore di Fred, tanto che nel 1935 era sbarcato Louis Armstrong, al Teatro Chiarella. Fred e i suoi amici debuttarono con lo swing nell’abitazione di Renato Germonio, in una Torino odorosa di brillantina e di dancing che si chiamavano anche Pagoda (Pippo Barzizza dirigeva il Trio Lescano) e Studium. A guerra finita sarebbe stato il turno del Faro e della Serenella, del Giardino d’Inverno, della Tavernetta del Sestriere, del Florida, del Chatam. Tutti locali di Fred, del Fred che faceva l’americano e suonava il violino e il basso nell’Hot Club . Stava per diventare il “dritto di Chicago/ Sugar Bing/ Arrivato fresco fresco da Sing Sing”. E avrebbe avuto il whisky facile: “Perdonate se ho il whisky facile/ Son sempre amabile/ Pur se bevo così”.

Nel 1954 si era sposato con la cantante Fatima Ben Embarek, in arte Fatima Robin’s: andarono a vivere al numero 26 bis di via Bava. Chiosso – che stava ricreando per le canzoni di Fred e del suo gruppo Asternovas un’ironica America tutta bulli e pupe, libri di Mickey Spillane e Damon Runyon, bionde mozzafiato e duri “facili alle cotte” – risiedeva in via Santa Giulia. I loro balconi non erano distanti che pochi metri. Se a uno dei due veniva un’idea e quattro note, magari di notte, bastava fischiare. Si mettevano al lavoro, in un oceano di fumo, mentre Gino Latilla cantava come Frank Sinatra e nelle serate Fred avrebbe svariato sui tasti del suo pianoforte rosa nella Sala Lutrario, progettata da Carlo Mollino. Qualche mattino coglieva Fred e Leo sulle rive del Po. “Le mattine ci vengono incontro/ risalendo le strade dei Murazzi”, scrisse Leo.

Venne il boom anche per Fred, dopo tanta gavetta nei locali italiani e di mezzo mondo. Vennero le serate nei night pagate fino a un milione e ottocentomila lire (un record per l’epoca), il trasferimento a Roma all’Hotel Rivoli, la tv, il cinema (Il moralista, I ragazzi del juke-box, La Cento Chilometri, Tu che ne dici?). Fino a quel 3 febbraio del 1960. Forse quando Fred morì a nemmeno trentanove anni nella sua Thunderbird, rosa come il piano di Lutrario, quasi all’altezza di Villa Taverna, rivide la nebbia che sicuramente a quell’ora stava salendo dal Po lungo via della Rocca, via Mazzini, piazza Maria Teresa, fino a una portineria di piazza Cavour 3.

Giornalismo in pezzi: invenzioni e scarpe

Pubblichiamo l’introduzione a “Il giornalismo fatto in pezzi”, ultima opera di Massimo Fini da oggi in libreria

E attraverso questa passa uno spaccato della vita italiana di quegli anni.

È un giornalismo in presa diretta, fatto di racconti di vita, delle testimonianze di uomini e donne dall’estrazione sociale e dalle esperienze più diverse, di ritratti di personaggi famosi, politici ma soprattutto artisti e letterati la cui memoria affonda spesso ancora più lontano, nel periodo fascista e della guerra. È un giornalismo molto diverso da quello che si fa oggi, che usa e abusa del ricorso al web, ma comune ai colleghi della mia generazione e di alcune successive. Diceva Nino Nutrizio, direttore de La Notte, un grande della nostra professione, se vogliamo elevare questa ‘arte minore’ a quel livello, che il nostro “è un mestiere che si fa prima con i piedi e poi con la testa”. Intendendo che bisogna uscire dalle redazioni, guardare, osservare, annusare e soprattutto ascoltare (direi che la capacità di ascolto è decisiva non solo in giornalismo ma nella vita di tutti i giorni e anche per la riuscita degli artisti o dei grandi manager). La testa viene dopo ed è dare al materiale che si è raccolto un senso. La lezione io la appresi da Tommaso Giglio, il mitico direttore dell’Europeo degli anni Settanta, quando ero ancora un ragazzo. Rifacendosi alla tradizione di Arrigo Benedetti, fondatore del settimanale, Giglio portò al massimo livello il giornalismo di reportage rendendolo una scuola: storie, racconti, personaggi, tutti dal vivo. Una delle forze di quell’Europeo era andare sui piccoli fatti della vita quotidiana, specie di provincia, e farli diventare, grazie a una lente d’ingrandimento e al significato più generale che si riusciva a darne, dei grandi fatti nazionali. Giglio voleva che nemmeno un fonema fosse raccolto non dico attraverso email, che allora non esisteva ancora, ma nemmeno per telefono. La persona la dovevi vedere in faccia. Giglio era addirittura maniacale in questa smania delle interviste che darà poi origine a quello che è stato chiamato il “Fallaci style”. Mi ricordo che per intervistare non so più quale allenatore di uno sport marginale dovetti fare Milano-Trieste-Milano in giornata. Riuscii a malapena a vedere Piazza Unità. Era un giornalismo estremamente faticoso, a volte massacrante. Per un’inchiesta sui quindicenni, è solo un esempio, dovetti fare in pochissimi giorni il giro d’Italia: Milano, Torino, Roma, Bari, Trapani e altre località minori. Ma il peggio veniva quando moriva un grande personaggio dello spettacolo e io dovevo ricostruirne la personalità attraverso chi lo aveva conosciuto da vicino: si trattava di abbordare, in soli tre giorni, uomini altrettanto famosi non usi a darsi facilmente o di rintracciare antiche amicizie perse nel tempo. Il lettore ritroverà qui, fra gli altri, i ritratti di Luchino Visconti, di Vittorio De Sica, di Anna Magnani, di Ermanno Olmi, di Curzio Malaparte. Ci sono anche grandi imprenditori e politici “visti da vicino”: uno su tutti Gianni Agnelli, una lunga confessione di Angelo Rizzoli, Aldo Moro, la singolare figura di Giangiacomo Feltrinelli.

E poi le grandi aziende: la Fiat, l’Olivetti di Adriano, la Montedison del prima e dopo Cefis, l’Alfa Romeo. Vi si racconta anche la lenta ma inesorabile decadenza della borghesia a favore di una partitocrazia sempre più invadente, processo che era già iniziato nei primi anni Sessanta, e di una media borghesia senza ideali, abbagliata dal benessere. Se, come afferma Benedetto Croce, “la Storia è il passato visto con gli occhi del presente”, chi legge questo libro potrà, con gli occhi dell’uomo di oggi, trovarvi cosa rimane di quelle stagioni, di quelle speranze, di quelle illusioni e disillusioni. Ma i pezzi che mi offrivano maggior respiro erano quelli che mi dava Pierluigi Magnaschi, direttore della Domenica del Corriere. Dovevo andare in vari paesi del mondo e cercare di descriverli in un tempo adeguato. Ma il tempo non è mai adeguato, fra di noi si dice che se un giornalista va in un posto e ci resta un giorno scrive un articolo, se ci sta un mese scrive un libro, se ci sta un anno non scrive più nulla tanto complessa è la realtà, è ciò che tormentava quel grande collega che è stato Kapuscinski riguardo alla cultura indiana. Mi diceva Oriana Fallaci quando stavo scrivendo una sua biografia poi abortita: “Con questo libro tu devi fare un panegirico di questo mestiere, del giornalista, di questo personaggio straordinario che va in paesi di cui non conosce la lingua, non conosce la geografia, non conosce la storia, non conosce nulla, e torna indietro con un grande racconto col quale, a intuito, ha penetrato lingua e storia e umanità del posto in cui è stato”. L’intuizione è assolutamente necessaria al giornalista. E anche, bisogna pur dirlo, l’invenzione pura e semplice. Tutti i grandi del nostro mestiere, da Malaparte a Montanelli, si sono inventati molte cose. Ma bisogna saperlo fare. Perché il verosimile è alle volte più vero del vero. Disse Ettore Della Giovanna a proposito di Malaparte: “Lui l’ha scritto ed è diventato vero”.

Comunque, per tornare a Magnaschi e non solo a lui, si trattava di andare in giro, col taccuino in tasca, per cercare di descrivere la way of life di un Paese senza interpellare sociologi, psicologi, antropologi, politici e altri intermediari. In quei reportage potevo unire le mie qualità di giornalista, sempre che ci siano, a quelle di scrittore, ammesso e non concesso che ci siano anche queste. Si va in giro, a zonzo, ma in modo diametralmente opposto a quello del turista. Non sono i monumenti che contano (sono stato una mezza dozzina di volte al Cairo e le piramidi le ho viste solo di sfuggita) ma gli ambienti, i modi di fare e del vestire, i colori, i dettagli. Perché a volte è da un dettaglio, come diceva appunto Fallaci, che puoi cogliere l’insieme. Così nascono, fra gli altri, i servizi sull’Unione Sovietica, sull’Iran, sull’Egitto, su Israele, sul Sudafrica e quello sul Giappone, del 2008, che è l’ultimo di questo genere. Questi reportage, nel raffronto fra culture e società a volte omologhe, altre molto diverse, ci aiutano a capire meglio qual è stato, qual è e quale potrà essere il ruolo dell’Italia in un mondo divenuto globale. Il libro si chiude con lo sguardo a un futuro che è già presente. Nel marzo del 1982 pubblicai un’inchiesta alla quale Aldo Canale e io demmo il titolo Scienza amara. Si tratta della “questione epocale” dell’ambiguità e dell’ambivalenza della Tecnica, ma sarebbe più preciso dire della Scienza tecnologicamente applicata, posta a metà degli anni Trenta da Martin Heidegger, l’ultimo filosofo comparso nell’orizzonte speculativo occidentale, molto influenzato, attraverso Nietzsche, dal pensiero presocratico, preplatonico, prearistotelico e in definitiva, se non antiscientifico, certamente prescientifico. Oggi cominciano ad affiorare dei dubbi sulla Scienza, finora idolo incontrastato, sulla sua capacità taumaturgica di risolvere tutti i nostri problemi. Da parte di una minoranza, che però sempre più si ingrossa, si pensa che la Scienza ci porterà in un vorticoso e velocissimo giro di vite al collasso. Mi ha detto il fisico Edoardo Amaldi, uno dei padri dell’Atomica e che quindi se ne intendeva: “L’uomo se può fare una cosa, prima o poi la fa”. Io penso invece che si dovrebbe recuperare il profondo senso del limite che la cultura greca aveva e che noi abbiamo pericolosamente perduto. Per Scienza amara andai a Ginevra a intervistare Carlo Rubbia, che allora dirigeva il CERN. Rubbia, scienziato, positivista, illuminista, mi ricevette molto di malavoglia, in maniera scontrosa e quasi sgradevole. Mi riteneva, secondo la classica distinzione di Umberto Eco, un “apocalittico”. A mia volta infastidito gli dissi: “Senta professor Rubbia, lei è un fisico e le pongo una domanda alla quale vorrei una risposta da fisico: non è che andando avanti a questa velocità e sempre aumentandola, noi stiamo accorciando il nostro futuro?”. Rubbia restò per un attimo pensieroso. Poi disse: “È così”.

Qui sono in gioco non solo il nostro futuro ambientale, che è questione ormai avvertita dai più, ma il concetto di progresso come l’abbiamo concepito finora e soprattutto il futuro dell’uomo che, in una perversa inversione dei ruoli rispetto a Blade Runner, potrebbe diventare un semplice replicante della macchina. Scrissi queste cose ormai quarant’anni fa. Irrise allora, sono diventate temi di strettissima attualità.

 

Terni, il sindaco vieta i vestiti “indecorosi”

Fa discutere l’ordinanza del sindaco di Terni Leonardo Latini che, per contrastare “il fenomeno della prostituzione”, impone il divieto, in alcune vie della città, “di porre in essere comportamenti diretti in modo non equivoco ad offrire prestazioni sessuali a pagamento, consistenti nell’assunzione di atteggiamenti di richiamo, di invito, di saluto allusivo”. Peccato che nelle stesse vie il sindaco vieti anche l’abbigliamento “indecoroso o indecente in relazione al luogo ovvero nel mostrare nudità, ingenerando la convinzione di esercitare la prostituzione”. “È evidente – scrive in una nota l’associazione Terni Valley – che queste righe siano rivolte alle donne a cui il sindaco ordina un abbigliamento decoroso”.

2021, fuga dal “Titanic” del San Raffaele: “Manca personale, ma costruiscono ancora”

Un Titanic che si infrange contro il famoso iceberg. Solo che a danzare sul ponte del transatlantico (di cartone) non ci sono Leonardo DiCaprio e Kate Winslet, ma i lavoratori dell’ospedale San Raffaele di Milano. E anche l’iceberg non è fatto di ghiaccio, ma di mattoni, come il nuovo polo chirurgico dell’ospedale privato di proprietà del Gruppo San Donato. Un ospedale che, per i sindacati, è diventato un incubo per i lavoratori, a causa del numero sempre più risicato di dipendenti, del massiccio ricorso alla precarietà e al turnover. Tanto che ieri hanno organizzato un’assemblea generale per dire che la misura è colma. E che la qualità del servizio ai degenti sta cadendo verticalmente. Non il miglior biglietto da visita per la struttura scelta da Silvio Berlusconi per i suoi ricoveri pre-udienza, da Flavio Briatore per curare la sua prostatite (che poi era Covid) e da Guido Bertolaso per la terapia intensiva.

“Abbiamo scelto la metafora del Titanic per denunciare la nostra condizione lavorativa ormai insopportabile”, spiega Claudia Moro della Rsa, “al San Raffaele da dieci anni non ci sono aumenti salariali, i lavoratori scappano appena possono e non vengono sostituiti. E chi rimane, deve fare straordinari e salti mortali, a scapito dei pazienti”.

Per il sindacato, dopo il cambio di contratto (da quello della Sanità pubblica a quello della Sanità privata avvenuto a giugno 2020, in piena pandemia), dalle parti di via Olgettina si è assistito a una fuga continua di professionisti. Così l’ospedale va avanti con i “gettonisti”, cioè sanitari pagati a tempo, oltre l’orario di lavoro.

Secondo i sindacati il personale rimasto è quello minimo richiesto per non perdere gli accreditamenti con la Regione. “Il gruppo San Donato non fornisce i numeri ufficiali dei dipendenti – dice Moro – agli incontri si limita a piangere miseria. Lamenta una perdita di 70 milioni nel fatturato nel 2020, ma esattamente un mese fa ha avviato le attività nel nuovo polo chirurgico. Investe sì, ma solo nel mattone e non nelle risorse umane”. “Basta vedere cosa accade in una delle due unità di radiologia – spiega un’altra lavoratrice – dove sono rimasti in tre tecnici e devono coprire i turni 7 giorni su 7, 24 ore su 24”. “Del resto, a ogni nostra assemblea partecipa il 10% dei lavoratori, perché il resto deve assicurare il livello minimo di prestazioni in caso di sciopero. Già questa è la dimostrazione che siamo sotto organico”, conclude la sindacalista.

Il Comune leghista spende 10 mila euro per Bolsonaro

Che Jair Bolsonaro, controverso presidente del Brasile accusato di razzismo, negazionismo sul Covid e mancato rispetto dei diritti umani, sarebbe arrivato nel Comune del suo bisnonno Vittorio era noto dal 19 ottobre. Quel giorno infatti la giunta di Anguillara Veneta (Padova), guidata dalla sindaca vicina alla Lega, Alessandra Buoso, ha approvato una delibera di giunta per stanziare 9 mila euro da destinare all’associazione Proloco di Anguillara per organizzare “l’accoglienza” di una non meglio precisata “delegazione straniera” in città. Nelle ultime ore si è poi scoperto che quella sarà la delegazione brasiliana di Bolsonaro che lunedì allungherà la sua tappa in Italia – arriverà a Roma per il G20 del fine settimana – per tornare nel comune dei suoi avi. Ad accoglierlo non ci sarà il governatore del Veneto Luca Zaia e, a meno di cambi dell’ultim’ora, neanche Matteo Salvini, ma la sindaca Buoso. Sarà un’accoglienza regale con un grande pranzo nella seicentesca villa Arca del Santo, fatta costruire dai monaci francescani della Basilica del Santo di Padova. Chiesa che Bolsonaro dovrebbe visitare nella sua giornata ad Anguillara. Una visita che, visti i soldi pubblici spesi, è destinata a far discutere ancora dopo la decisione del Comune leghista di conferire a Bolsonaro la cittadinanza onoraria. Nonostante le polemiche dell’opposizione e delle associazioni, la Lega difende il riconoscimento. Intanto ieri il Parlamento brasiliano ha chiesto di incriminare Bolsonaro per crimini contro l’umanità.

Giorgianni, giudice comiziante no vax sospeso dal Csm

Via la toga e al posto della retribuzione un assegno alimentare. La Sezione disciplinare del Csm ha così sanzionato il giudice Angelo Giorgianni, consigliere alla Corte d’appello di Messina e già sottosegretario all’Interno con il governo Prodi, per l’intervento fatto alla manifestazione del 9 ottobre scorso dei no green pass a Roma, che poi sfociò nell’assalto alla sede della Cgil. Lo ha sospeso dalle funzioni e dallo stipendio, come chiesto dal procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi.

“In nome del popolo italiano il green pass è abrogato” aveva proclamato Giorgianni dal palco di piazza del Popolo. Poi era stato tutto un crescendo di toni: la manifestazione dipinta come un “preavviso di sfratto” a “coloro che occupano abusivamente i palazzi del potere” e la invocazione di un processo, “una nuova Norimberga” per i governanti. Una richiesta fatta in nome del “popolo sovrano” che “reclama giustizia per i morti , le privazioni, la sofferenza che hanno causato”. Il tutto sbandierando il suo ruolo di magistrato venuto a “onorare” quel popolo.