Allarme virus respiratorio nei neonati

Èallarme per l’epidemia di virus respiratorio sinciziale che sta colpendo in tutta Italia bambini piccolissimi, con reparti pediatrici e terapie intensive piene di neonati con bronchioliti e polmoniti causate dal virus. A Padova sono 16 i piccoli ricoverati, di cui 4 in rianimazione, al Policlinico Umberto I di Roma 10, di cui 2, di appena un mese, in terapia intensiva, ma anche nelle altre regioni la situazione è analoga: “Un’epidemia arrivata con 2 mesi di anticipo – spiega Fabio Midulla, presidente della Società italiana per le malattie respiratorie infantili (Simri) – Il virus se contratto nei primi mesi di vita del bambino provoca forme di bronchiolite gravi, con manifestazioni cliniche nelle basse vie respiratorie, mentre nei bambini più grandi e negli adulti si risolve con sintomi lievi, come rinofaringite, febbre o tosse. Ci aspettavamo l’epidemia – conclude – per un anno e mezzo il virus non ha circolato grazie alle misure anti-Covid. Ma non appena queste misure sono state allentate, i fratellini più grandi sono tornati all’asilo o a scuola, il virus ha cominciato a circolare.

Stragi, i pm a caccia delle prove dei soldi tra i graviano e B.

Ipm di Firenze, ieri, hanno ridato visibilità con una raffica di perquisizioni all’indagine segretissima su Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi relativa al loro ruolo presunto come mandanti esterni delle stragi del 1993 a Milano e Firenze e degli attentati del 1993-94 a Roma.

Ieri gli agenti della Direzione Investigativa Antimafia di Firenze sono andati a Roma, Palermo e Rovigo per rovistare nelle case, negli uffici e nei computer di una decina di persone: familiari del boss Giuseppe Graviano o soggetti vicini alla sua famiglia.

L’inchiesta su Berlusconi e Dell’Utri somiglia a un fiume carsico. Parte e si ferma. Poi riparte e si riferma sempre sotto traccia con un ritmo circa decennale. L’indagine è stata aperta e chiusa, sempre su richiesta dei pm, nella seconda metà di ogni decennio. Prima negli anni 90, poi nei 2000 e infine nei primi dieci anni del nuovo millennio. Ora è ripartita per la quarta volta nel 2020 grazie alle dichiarazioni nel processo di Reggio Calabria “’Ndrangheta stragista” di Giuseppe Graviano.

Il boss recluso dal 1994 al 41 bis ha parlato pubblicamente per ore di Silvio Berlusconi come fosse una sorta di socio occulto della sua famiglia da 50 anni. I pm di Firenze a quel punto sono andati a interrogarlo segretamente in carcere più volte, a partire dal novembre 2020. Graviano non si è tirato indietro e ha fornito dettagli (che la Dia sta verificando) sui luoghi dei suoi asseriti incontri con Berlusconi a Milano e sui termini del presunto accordo finanziario tra i palermitani, incluso suo nonno materno Filippo Quartararo, e Berlusconi.

Le dichiarazioni del boss sono confluite nel nuovo fascicolo con il numero 4703 del 2020 (Registro noti). Il 14 ottobre scorso la Dia ha depositato la sua informativa e – per verificare la fondatezza della versione del boss sui rapporti con Berlusconi – ieri sono stati perquisiti i soggetti che si pensa possano avere carte sul tema.

Negli ultimi tempi Giuseppe Graviano ha annunciato di voler scrivere un libro di memorie e c’è un gran fermento tra i legali e le persone vicine ai familiari del boss per ricostruire alcuni frangenti della sua vita turbolenta.

Gli investigatori cercano una lettera, un contratto per provare le presunte relazioni finanziarie con Berlusconi.

Sono state perquisite entrambe le case delle mogli dei due fratelli condannati definitivamente per le stragi del 1992 e 1993. Oltre alla moglie di Giuseppe e a quella del fratello maggiore Filippo è stato perquisito anche il figlio di Giuseppe Graviano. Tutti i soggetti perquisiti non sono indagati, ma sono terzi nell’inchiesta. L’obiettivo dei magistrati è cercare nelle loro case e nei loro pc prove delle affermazioni del boss sui presunti rapporti finanziari altolocati.

I pm di Firenze scrivono la loro strategia investigativa nel decreto di perquisizione. “Quest’ufficio – si legge nell’atto firmato dai procuratori aggiunti Luca Turco e Luca Tescaroli con il procuratore capo Giuseppe Creazzo – ha necessità di riscontare le recenti dichiarazioni rese a questa Procura da Giuseppe Graviano, in relazione al possesso attuale di documenti utili alle indagini da parte di soggetti a lui vicini al fine di verificare la sussistenza dei rapporti finanziari dallo stesso indicati che costituirebbero antefatto rispetto alla strategia che ha portato all’esecuzione delle stragi del biennio 1993-1994”. Non è chiaro dalle tre pagine stringate del decreto perché i rapporti finanziari, che Graviano asserisce di aver avuto con Berlusconi, potrebbero essere la premessa della strategia stragista che ha portato alla morte di dieci innocenti nel 1993.

Filippo e Giuseppe Graviano sono reclusi dal 27 gennaio del 1994 per le condanne definitive come registi della fase esecutiva delle stragi di Capaci e via D’Amelio nelle quali morirono nel 1992 Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e Paolo Borsellino insieme gli agenti delle due scorte. Sono stati poi condannati per le stragi del 1993 a Firenze e Milano e per gli attentati a Roma del 1993-94 contro le basiliche, Maurizio Costanzo e contro i carabinieri schierati per la partita del 23 gennaio 1994 Roma-Udinese, all’Olimpico di Roma.

I pm fiorentini vogliono capire se il boss 58enne Giuseppe Graviano, recluso all’isolamento del 41 bis dal 1994, dica la verità o menta quando sostiene che la sua famiglia avrebbe avuto, a partire da mezzo secolo fa, rapporti finanziari occulti con Silvio Berlusconi.

Sono stati perquisiti a Roma anche il fratello Benedetto Graviano e la sorella Nunzia. Poi due coppie palermitane vicine al clan familiare, ma il nome più interessante è forse quello di Sandra I., la vedova di Salvatore Graviano, il cugino di Giuseppe, classe 1962, morto nel 2003, indicato proprio da Giuseppe Graviano come l’uomo che – con lui e più di lui – avrebbe tenuto i rapporti con Berlusconi fino al 1994.

Tutte accuse non riscontrate e oggetto di verifica.

Giuseppe non si pente e non si dissocia ma, a partire dal 2016, ha parlato più volte dei suoi presunti rapporti finanziari con Berlusconi. La prima volta in carcere nell’aprile del 2016 con il compagno di detenzione Umberto Adinolfi: il boss siciliano voleva convincere l’amico campano – una volta uscito di cella – a veicolare mediante un emissario non identificato un messaggio minaccioso a Berlusconi perché si muovesse in suo favore. Per convincere l’incredulo Adinolfi a prestarsi, Graviano gli raccontava la sua versione della sua saga familiare intrecciandola con le fortune di Berlusconi negli anni ‘70.

Poi nel febbraio 2020, al processo “’Ndrangheta stragista”, Graviano ha chiarito i concetti sussurrati ad Adinolfi. Il boss ha raccontato che il nonno materno, Filippo Quartararo, nei primi anni settanta investì nei cantieri del giovane Berlusconi a Milano 20 miliardi di vecchie lire. Questa quota rappresenterebbe il 20 per cento dell’investimento totale di un gruppo di imprenditori palermitani: soldi leciti, ovviamente, a detta sua. Graviano ha fatto intendere che il 20 per cento di quanto sarebbe stato creato da Berlusconi grazie a quell’investimento iniziale spetterebbe ora alla sua famiglia che avrebbe avuto finora solo una piccolissima parte dell’utile.

Dopo la morte del padre, nel 1982 e quella del nonno, nel 1985, il giovane Giuseppe sarebbe stato messo a parte del segreto insieme al cugino Salvatore. I due cugini avrebbero incontrato Berlusconi.

Il boss lo avrebbe visto addirittura tre volte. L’ultima volta nel dicembre del 1993 da latitante in un appartamento di Milano 3 messo a disposizione dei cugini Graviano proprio da Berlusconi.

Sempre a detta del boss esisterebbe una scrittura privata da qualche parte, probabilmente detenuta dal cugino Salvatore, che non può confermare né smentire essendo morto, che proverebbe i rapporti dei palermitani con Berlusconi.

L’avvocato del leader di Forza Italia, Niccolò Ghedini, nel febbraio 2019 replicò: “Dichiarazioni totalmente e platealmente destituite di ogni fondamento, sconnesse dalla realtà nonché palesemente diffamatorie”. Ghedini sottolineava che Graviano non è credibile perché “nega ogni sua responsabilità pur a fronte di molteplici sentenze di ergastolo passate in giudicato”.

I giudici di Reggio Calabria nelle motivazioni della sentenza “’Ndrangheta stragista” (pur condannando Graviano per il duplice omicidio e gli attentati contro i carabinieri in Calabria nel 1994) sul punto hanno scolpito: “Con riferimento ai presunti rapporti di natura economica con Silvio Berlusconi riferiti dall’imputato va sottolineato che essi risultano totalmente indimostrati essendo su questo punto le dichiarazioni del Graviano prive di qualunque riscontro”.

Graviano nega di conoscere Marcello Dell’Utri. Il nonno materno è dipinto come un socio occulto di Berlusconi ma investirebbe soldi leciti, a suo dire. Il cugino Salvatore, arrestato con accuse meno gravi di lui e poi assolto, sarebbe addirittura il protagonista del rapporto con l’ex premier, nella sua narrazione, ma non è parente del ricco nonno materno che si chiama Quartararo e non Graviano. Insomma: il racconto del boss è difficile da dimostrare ma talvolta anche da credere. Graviano somiglia a un giocatore di poker che tiene le carte coperte. Solo lui conosce il senso dei suoi messaggi. Si intuisce la volontà di mettere pressione, magari anche con false accuse. Un favoreggiatore dei fratelli Graviano, Salvatore Baiardo (condannato a due anni ha scontato la sua pena da decenni) si fa intervistare in tv sui rapporti tra Graviano, Dell’Utri e Berlusconi. Il boss scrive un memoriale in prima persona e lascia intendere chi è l’uomo di Stato, indicato con un soprannome, che avrebbe tirato fuori l’agenda rossa di Paolo Borsellino dalla borsa fumante del giudice ucciso sul luogo della strage di via D’Amelio.

Intanto annuncia di voler scrivere un libro di memorie in cui certamente il capitolo Berlusconi sarebbe il più interessante.

La novità di ieri è che, dopo avere ascoltato Graviano in gran segreto, i pm di Firenze vogliono andare a vedere le sue carte per capire se il suo sia solo un volgare bluff. Non si può lasciare aleggiare un simile sospetto senza verificarlo. I rapporti finanziari della narrazione di Graviano, per i magistrati, potrebbero essere addirittura “l’antefatto” della strategia stragista portata avanti da Cosa Nostra nel 1992-1993-1994.

Si tratta di un’ipotesi investigativa che fa venire i brividi, avanzata dai pm con un doppio condizionale, che potrebbe essere destinata alla quarta archiviazione. A meno che i pm non trovino una carta che permetta loro di tenere viva l’indagine più lunga e delicata della storia della Procura di Firenze.

Furto di chiavi per i Qr code In rete certificato di “Hitler Adolf”

Potrebbe esserci una falla nel sistema del Green pass europeo: alcune “chiavi” crittografiche private che permettono di generare il certificato verde utilizzabile in tutti i Paesi dell’Unione sarebbero state rubate e con quelle sono stati realizzati documenti che sono risultati perfettamente validi alla verifica con le app ufficiali.

Quale sia la reale entità del furto e dei danni che possa aver provocato a livello europeo non è ancora stato quantificato, così come non c’è ancora una indicazione su quale sia il Paese, o i paesi, che hanno subito la compromissione dei propri sistemi informatici. Più chiaro è, invece, come è stato scoperto il furto: dalla serata di martedì hanno iniziato a circolare su Twitter, sui siti specializzati e sui forum di settore, due Green pass intestati ad Adolf Hitler, con unica differenza la data di nascita. Uno riportava il 1 gennaio del 1900, l’altro il 1 gennaio del 1930. Al di là dell’evidente bufala e dell’errata data di nascita del Fuhrer, nato il 20 aprile del 1889, entrambi i pass avevano però un Qr code che, se scannerizzato con la app ufficiale del ministero della Salute “Verifica C19”, vale a dire l’unica abilitata alle verifiche, era valido. E, dunque, utilizzabile ogni qualvolta venisse richiesto.

Dai primi accertamenti investigativi e dalle informazioni d’intelligence non risultano infatti attacchi informatici alla Sogei, la società di Information Thecnology partecipata al 100% dal ministero dell’Economia e delle Finanze che nel nostro paese fornisce i codici con i quali vengono generati i certificati verdi. L’altra ipotesi è che qualcuno abbia fatto un utilizzo improprio della chiave stessa. Diversi siti e blog di settore avanzano l’ipotesi che la sottrazione delle chiavi private avrebbe riguardato la Francia e la Polonia.

“Minacce per avere l’esenzione”

“La strategia è doppia. O fanno inviare dai loro avvocati una lettera con la quale chiedono esami diagnostici non appropriati, pena pesanti ripercussioni giudiziarie, oppure inviano direttamente email con le quali pretendono la certificazione scritta della loro piena idoneità al vaccino, senza rischio di effetti collaterali. Ovvio che i mittenti sono i pazienti e i destinatari sono i medici di famiglia. L’obiettivo è sempre quello di ottenere l’esenzione dal Green pass per motivi di salute, per inidoneità, quindi, alla vaccinazione. Di casi così se ne contano a centinaia in Italia, il fenomeno è esteso. Oggi sono oltre 400 mila in tutto il Paese le esenzioni dal vaccino. E tanti non esitano a ricorrere alle minacce per entrare a far parte della categoria. Tanto da indurre i medici di base a rivolgersi alle forze dell’ordine per sporgere denuncia. E poi a ricusare i pazienti. “Perché di fronte alle intimidazioni il rapporto di fiducia è irrimediabilmente compromesso”, dice Carlo Curatola, presidente dell’Ordine dei medici di Modena. Curatola non ha esitato a denunciare pubblicamente i pesanti avvertimenti di cui sono vittime nella provincia emiliana tanti suoi colleghi. “Contiamo decine di casi che ci vengono segnalati dagli iscritti – prosegue Curatola –, ai quali arrivano richieste inappropriate di esami e certificazioni. Le pressioni sono molto forti. Molti pazienti si spingono a far inviare ai colleghi una lettera dai loro avvocati, con posta certificata, per riuscire a ottenere esami del tutto inutili, minacciando di procedere per vie legali in caso di mancata prescrizione”.

I toni sono sempre intimidatori. Con una escalation di fronte alla quale molti medici hanno deciso di ricorrere all’interruzione delle prestazioni a favore degli assistiti, dandone comunicazione all’azienda sanitaria. Se nel Modenese sono partite le indagini, nel Padovano l’Ordine dei medici ha segnalato altre decine di episodi all’Ordine degli avvocati. “Questi sono campanelli d’allarme che non possiamo sottovalutare – spiega Domenico Crisarà, presidente dell’Ordine dei medici della provincia veneta –. Le pressioni sono cominciate con le lettere dei legali dei pazienti sin dall’inizio della campagna vaccinale. Da diverse settimane sono diventate sempre più frequenti. Ultimamente assistiamo a una minaccia alla rovescia. I pazienti ci scrivono per chiederci di certificare che possono vaccinarsi, intimandoci di assumerci la responsabilità della comparsa di eventuali effetti avversi”. Nel Padovano ci sono 10 mila medici, 72 sono quelli sospesi per aver rifiutato la vaccinazione. Sabato scorso tutti i componenti del direttivo dell’Ordine sono andati a farsi somministrare la terza dose. Per lanciare un segnale. “Il problema vero non sono i no vax, con cui è impossibile parlare – osserva Crisarà –. Sono gli indecisi, martellati da messaggi contraddittori. Per questo gli enti regolatori dei farmaci dovrebbero dare indicazioni precise che non lasciano spazio alle interpretazioni”.

Pass, le multe quasi a zero: ci vogliono novanta giorni

Alla Prefettura di Milano hanno contato una sessantina di segnalazioni tra datori di lavoro che non controllano e dipendenti senza green pass “pescati” in ufficio o in azienda. Le valuteranno con calma. Hanno, spiegano, 90 giorni per fare la multa: se tutto va per il meglio tra tre mesi il green pass non ci sarà più, ma certo non è detto. Il decreto legge, del resto, sembra fatto apposta per imporre il pass a tutti e lasciare l’onere dei controlli ai datori di lavoro, pubblici e ovviamente soprattutto privati. Le forze di polizia e le aziende sanitarie possono verbalizzare eventuali violazioni, poi però mandano le carte in Prefettura e tocca al Prefetto irrogare le sanzioni amministrative di cui al decreto 127 del 21 settembre: da 400 a 1.000 euro per il datore di lavoro che non controlla, da 600 a 1.500 euro per il lavoratore (o il fornitore, obbligato anche lui, ma salvo casi particolari non il cliente); c’è invece la denuncia penale per chi falsifica il certificato o per i medici che danno per avvenute vaccinazioni mai fatte e non è chiaro cosa sia successo alla signora che si è presentata in un hub vaccinale con una fettina di pollo appiccicata alla spalla.

A Roma la Prefettura è alle prese con il G20 e non ha il tempo di contare al volo le segnalazioni pervenute. Hanno ragione, non c’è urgenza. Più fonti governative, vista anche la tensione che si registra nel Paese sul lasciapassare verde ben al di là delle pur consistenti piazze “no pass”, dicevano fin dall’inizio che i controlli sarebbero stati piuttosto blandi. Almeno quelli pubblici, tanto più che le polizie nazionali e locali hanno anche altro da fare.

Le multe, insomma, potrebbero anche essere zero dal 15 ottobre, giorno dell’entrata in vigore dell’obbligo per l’accesso ai luoghi di lavoro che interessa oltre venti milioni di persone. Sono, cioè, quelle che si facevano prima, quando il green pass (dai primi di agosto) era in vigore solo per ristoranti e bar al chiuso, piscine, palestre, cinema, teatri, stadi, ecc… e poi (dal 1° settembre) per i voli nazionali, i treni a lunga percorrenza, i traghetti e i pullman che collegano più Regioni, ecc. Una conferma si trova sul sito del ministero dell’Interno, dove giorno per giorno registrano controlli e sanzioni per le norme anti-Covid, tutte le norme Covid, dal green pass alle distanze, al numero massimo di persone ammesse nei locali, alle sanificazioni, alle mascherine e via dicendo. Nessuna impennata dopo il 15 ottobre, siamo sempre lì, tra le 60 e le 70 mila persone controllate al giorno di cui massimo 70 multate e non più di 10 denunciate per violazione della quarantena; più una media attorno ai seimila esercizi commerciali verificati, massimo 10/20 sanzionati e pochissimi, massimo 20, chiusi.

Le somministrazioni di prime dosi calano, lo dice anche la Fondazione Gimbe. L’effetto green pass se c’è stato è finito nonostante gli sforzi del generale Francesco Paolo Figliuolo, delle Regioni e del considerevole apparato di propaganda a favore dei vaccini, che per ora ci consentono di fare una vita quasi normale ma non nascondono le criticità di un sistema sanitario che punta solo sulle immunizzazioni. Aumentano, col certificato verde obbligatorio per lavorare, i tamponi. E i lavoratori in malattia, nell’ordine del 15 per cento: abbiamo chiesto all’Inps se sono aumentate anche le visite fiscali, ma ieri non ci hanno risposto.

5S, Conte vuole blindare il voto sui 5 vice: si sceglieranno online anche i coordinatori

La sospiratissima segreteria del Movimento con i cinque vicepresidenti c’è. Ma a breve andrà anche votata dagli iscritti sul web, e in tempi di mareggiata costante per i 5Stelle ai piani alti temono brutte sorprese. Anche per questo, Giuseppe Conte sta pensando di “proteggere” i suoi vice allargando la votazione anche ai coordinatori dei quattro (o più) comitati previsti dal nuovo Statuto. Ovvero il comitato nazionale progetti, quello per la formazione e l’aggiornamento, quello per i rapporti europei e internazionali e infine il più centrale, il comitato per i rapporti territoriali, che dovrà di fatto costruire la struttura del nuovo M5S.

Di certo alcuni comitati hanno già una fisionomia chiara. Ad esempio quello che si occuperà della progettazione economica, composto dalla viceministra all’Economia Laura Castelli, dal deputato Stefano Buffagni e anche da due vicepresidenti, Michele Gubitosa e Mario Turco. Conte ha infatti sdoganato i doppi incarichi, suscitando mal di pancia nel corpaccione parlamentare, già agitatissimo. Ma l’ex premier vuole tirare dritto, anche se ha l’obbligo di guardarsi le spalle. Per questo, la votazione sul web va preparata con attenzione così da tutelare i 5 vice, a cui Conte assegnerà anche precise deleghe. Mentre all’orizzonte si profila un altro passaggio delicato, quello sui nuovi regolamenti, che dovranno passare dal comitato di garanzia composto dai tre big voluti da Beppe Grillo: Luigi Di Maio, Roberto Fico e Virginia Raggi. Sono loro, secondo lo Statuto, “a esaminare ed eventualmente approvare i regolamenti esecutivi necessari per l’attività dell’Associazione, inclusi quelli inerenti alle modalità di selezione dei candidati alle cariche rappresentative”. E proprio il comitato dovrà dire la sua anche sul nodo dei nodi, il vincolo dei due mandati. Nell’attesa, dal M5S vogliono chiedere a Conte di organizzare una riunione su Roma. Obiettivo, coinvolgere e nello stesso tempo contenere Raggi, già molto attiva (ha appena fatto visita a Chiara Appendino). Invece ieri sul suo blog Grillo, il Garante, ha riprovato a dettare la linea: questa volta sulle pensioni, proponendo un sistema misto (in pensione a 63 anni con la quota contributiva, a 67 anni con la parte retributiva). Ma di queste cose dovrebbe parlare il presidente del M5S, cioè Conte, e non il Garante. E il condizionale è d’obbligo.

Zoccola: “Ecco il libro mastro del sistema De Luca a Salerno”

Il governatore Pd della Campania, Vincenzo De Luca, è il sole del Sistema Salerno e le cooperative salernitane sono i pianeti che gli ruotano intorno. Così appare dal cannocchiale del ras delle coop salernitane, Fiorenzo ‘Vittorio’ Zoccola.

Zoccola, quel Sistema, lo illustra con chiarezza nell’interrogatorio del 22 ottobre: “Esiste un accordo ben preciso tra le cooperative e la politica che è teso a garantire alle prime continuità lavorativa in cambio di voti”. E a chi andavano i voti? “La situazione è diversa tra le elezioni regionali e quelle comunali. Alle elezioni regionali vi è una pluralità di indicazioni di voto che proviene sia dai referenti in Consiglio Comunale delle cooperative sia da coloro che sono rappresentanti alla Regione (consigliere e governatore). Alle Comunali, invece, ogni cooperativa agisce per conto suo e fa riferimento al suo rappresentante in Consiglio Comunale”. Segue dettagliata mappa dei referenti politici, cooperativa per cooperativa. Una specie di ‘libro mastro’ del consenso nelle coop. Tutti fedelissimi della galassia De Luca, ça va sans dire. La mappa la traccia Zoccola: la coop il Leccio “fu costituita da Dario Barbirotti” (non indagato) già assessore comunale e già consigliere regionale, oggi in Europa Verde, che nel 2010 convinse Di Pietro a concedere il simbolo Idv a De Luca nonostante fosse imputato. La coop Lavoro Vero “fa capo a Dario Loffredo” (non indagato), primo eletto in consiglio con oltre 1800 preferenze in ‘Progressisti per Salerno’, la civica fondata nel 1993 da De Luca. Ma il presidente di questa coop “ha rapporti sicuramente anche con il sindaco Enzo Napoli” (indagato per turbativa d’asta).

La coop San Matteo “venne creata con l’appoggio dei fratelli Ventura” e “il capo era Izzo Gianluca, cognato del presidente, Francese Davide”. Izzo è l’uomo arrestato per l’audio con il quale minacciava i dipendenti per indurli a votare la moglie, Alessandra Francese, prima dei non eletti in ‘Progressisti per Salerno’. La coop Socofasa “è nata prima degli anni 90. Il presidente, Ripoli Alfredo, è vicino a Pasquale Stanzione (ex vicesindaco negli anni 90, ndr) e a De Luca”. Nessuno risulta indagato. E poi c’è la coop Albanova “che ha avuto riferimento in consiglio prima Picarone e poi ha gestito rapporti con Savastano (il primo presidente Pd della commissione regionale bilancio, non indagato, il secondo assessore a Salerno e poi consigliere regionale di Campania Libera, ai domiciliari come presunto complice di Zoccola, ndr).

Zoccola conosce De Luca e ne è amico “dal 1989”, e davanti al procuratore capo di Salerno Giuseppe Borrelli che ne ha chiesto e ottenuto il carcere, e poi ha dato parere favorevole all’attenuazione agli arresti domiciliari concessi ieri riconoscendone il contributo alle indagini, si autodefinisce così: “Ero quello che garantivo gli equilibri”. E che significa per Zoccola garantire gli equilibri? “Significa garantire che tutti potessero lavorare”. E poi aggiunge: “Significa che veniva prestata adeguata considerazione alle indicazioni di voto, che in occasione delle competizioni elettorali, fornivo alle altre cooperative… (che) avrebbero quantomeno dovuto tenerne conto, in considerazione del fatto che anche il rispetto di tali indicazioni faceva parte dell’equilibrio che si doveva garantire”. È la sintesi del Sistema Salerno. In vigore da 30 anni.

“Col cuore diciamo Segre” 80 mila firme per il Colle

Sono già state raccolte più di 80mila firme in favore della candidatura di Liliana Segre al Quirinale, e tantissimi sono i commenti che continuano ad arrivare in redazione sulla possibilità che la senatrice a vita venga eletta Presidente della Repubblica. Per moltissimi, la storia personale di Segre vale più di ogni esperienza istituzionale. Sulla piattaforma change.org, dov’è possibile firmare la petizione, Paola Brunetti scrive: “Firmo perché mi schiero contro il fascismo imperante e le troppe e continue discriminazioni. La Segre mi rappresenta in quanto donna, con dignità e valori comuni alla mia famiglia, valori di libertà e uguaglianza, rispetto e compassione per l’altro”.

Molti lettorisottolineano però come l’età avanzata della senatrice (91 anni da poco compiuti) sia poco adatta alla durata del mandato quirinalizio, che è di sette anni. Sul nostro sito, l’abbonato Paolo Borri scrive che secondo lui “Segre non è adeguata solo perché è troppo anziana, per il resto andrebbe benissimo e magari ce ne fossero. Berlusconi non va bene non solo perché è anziano, questo sarebbe il meno, ma per tutta la sua ‘carriera’ pregressa, che a me personalmente fa orrore”. B. è tra le motivazioni più ricorrenti nella petizione: tanti hanno sottoscritto l’iniziativa proprio perché stimolate dal timore che possa essere lui il prossimo presidente della Repubblica. Del resto, la stessa proposta fatta da Antonio Padellaro su Segre al Colle nasceva proprio dalla paura di un lettore di vedere B. a capo dello Stato.

In una mail, Mauro Ottonello prova ad analizzare quelle che sarebbero le sue intenzioni di voto, se potesse scegliere il nuovo presidente. “Con il cuore dico Segre, cittadina esemplare, donna di grande equilibrio e moderazione, martire, patriota, esempio vivente dei valori a noi più cari” ci dice, per poi aggiungere: “Con la parte meno ‘nobile’ del mio corpo, ecco, nemmeno con quella riesco a sussurrare il nome di quel delinquente immorale e sfascia Paese, origine di molti dei nostri mali, gravato da decine di certezze, sospetti, prescrizioni, indagini e processi, imperatore di nefandezze assortite, collettore del peggio della nostra politica, goccia immonda che ha fatto traboccare un vaso di ingiustizie e di lacerazioni. Provo schifo e orrore alla sola ipotesi da bar”.

Nella stessamail, Ottonello ci scrive poi che “con la testa, dico Zagrebelsky (78 anni contro i 91 della Segre): saggezza, competenza, dedizione, fedeltà ai valori repubblicani, rettitudine, salda sicurezza”. Il nome di Gustavo Zagrebelsky, giudice della Corte costituzionale dal 1995 al 2004 e presidente dello stesso organo nel 2004, è fra le alternative più ricorrenti tra quelle proposte dai lettori. Il suo nome come possibile presidente della Repubblica era già stato proposto alle elezioni del 2015. Tanti suggeriscono anche il nome della costituzionalista Lorenza Carlassare, che però, sempre nel 2015, declinò la candidatura al Colle spinta dal M5S. Parecchi consensi li raccolgono anche i nomi di Rosy Bindi, presidente della Commissione parlamentare antimafia dal 2013 al 2018, e di Pier Luigi Bersani, segretario del Pd dal 2009 al 2013.

Caccia ai “traditori”: Iv quasi al completo, 5 dem e 2 del M5S

Il boato, il tuono. Nel Parlamento non si assistevano a scene di così fantastico giubilo dai tempi del voto su Ruby, la marocchina nipote di Mubarak l’egiziano, e al Senato questa euforia mancava dal giorno in cui cadde il governo di Romano Prodi e la mortadella, il suo pseudonimo, comparve tra i velluti e fu presa a morsi e disfatta nell’aula. “Avete visto?”, urla godendosi la magia del momento, le mani al cielo, le dita a consegnare la vittoria per aver riposto la legge Zan, un complesso di norme contro chi usa violenza nei confronti di coloro che fanno scelte sessuali diverse, nel cassetto dei ricordi. È il leghista Roberto Calderoli ad alzare le mani al cielo, con lui altre cento di mani, perché la destra ha vinto la conta. “Fottuti, prendete e portate a casa”, dice un collega di Ignazio La Russa, anch’egli indomito nella lotta finale alla diversità.

Ventitré voti di scarto, ma 16 e anche più sono stati i traditori decisivi, si chiamano franchi tiratori, che nell’urna segreta sono passati da una parte all’altra, trascinando il centrosinistra in una rovinosa sconfitta. Chi sono costoro? E da dove vengono? “La cosa che mi ha impressionato è che loro erano sicuri di vincere, da ieri ci dicevano che al voto ce l’avrebbero fatta. È come se sapessero già nomi e cognomi”, dice Valeria Fedeli, mesta nel cercare risposte a una domanda che non ne ha: “Noi del Pd eravamo invece sicuri di farcela”.

Il voto segreto che il Parlamento legittimamente concede quando sono in esame rilevanti casi di coscienza, voti sul destino delle persone, ieri è stato autorizzato dalla presidente forzista Elisabetta Casellati per puntare al cuore di una legge, e permettere di cancellarla senza nemmeno l’obbligo di dichiararsi: “Fateci vedere chi siete, mostrate la vostra faccia, non la nascondete”, accusa Loredana De Petris. E il voto segreto ha permesso di fare nel buio ciò che alla luce risulta sgradevole e politicamente sconveniente. Ha utilmente mimetizzato coloro decisi a dare un aiutino al centrodestra, ma soprattutto ad assestare un ceffone a Enrico Letta, il loro nemico interno. E così i diritti civili sono stati trasformati in una contesa post-elettorale, resa dei conti in zona Cesarini, una partita da giocare e vincere comunque.

Chi ha tradito? Primi nella lista quelli di Italia Viva. Cioè Matteo Renzi. Che ieri disertava platealmente l’occasione volando a Ryad in Arabia Saudita (dove l’omosessualità è pagata con la vita) per assolvere agli obblighi derivanti dall’ingaggio ottenuto dal principe Bin Salman, il figlio del re. “Ma i nostri undici voti non sarebbero bastati. È una sciocchezza grande quanto una casa questa”, spiegava Gennaro Migliore. Davide Faraone, capogruppo, aveva fatto mettere a verbale che avrebbero votato no alla mozione. Dunque, almeno in teoria, anche Italia Viva era col centrosinistra.

Teoria e pratica spesso non coincidono e quanti degli undici hanno seguito l’indicazione? Pochi, si direbbe. Ma anche in casa del Pd gli occhi sono stati puntati sui sordi pensieri dei dissidenti muti. Chi? Per esempio Andrea Marcucci, l’ex capogruppo disarcionato. Il quale, per legittima difesa, avrebbe mostrato a un compagno di partito il suo voto, e dunque la fedeltà alla ditta.

154 sì alla mozione del centrodestra, contro i 131 no, due gli astenuti. Casellati ha letto il referto mortale e Simona Malpezzi, chiamata a guidare i senatori del partito di Letta, ha volto lo sguardo sulla larga platea degli ammutoliti, sulla possibile fibra degli ammutinati, su quella falange oscura di traditori che la settimana prossima la condurrà, quando sarà riunita l’assemblea dei senatori, sul banco degli imputati.

“La legge è una porcata, fatevelo dire da chi le porcate le ha fatte e di porcate ne sa”, ha spiegato candido Calderoli, effettivamente autore negli anni delle più efferate incursioni legislative. Il Pd non ha tenuto, “grazie all’arroganza di Letta si è andati a sbattere contro un muro”, ha accusato Boschi, intenta a ridurre l’ombra che avvolge il suo partito. Eppure l’ombra rimane, ma si allarga e copre uno spicchio del Pd (quattro? cinque? di più?), una fettina di Cinquestelle (due, forse tre), e un plotoncino ancora non definito di senatori acquartierati nel Gruppo misto. Ex disposti a fare la festa al festeggiato.

Eccolo il Senato. Ieri non erano le tasse in discussione, non i migranti, non le scelte di politica sanitaria. Il boato di vittoria si è levato alto quando a schiantarsi è questa legge che allargava i diritti civili, definendo con più rigore la cornice dei reati che commette chi usa violenza, fisica o verbale, nei confronti di coloro che hanno fatto scelte sessuali differenti. “Omotransfobia” è la definizione nella quale lo scontro è caduto e con esso la barbarica resa.

Renzi diserta il Senato e pontifica dall’Arabia

È tardo pomeriggio quando il dibattito politico italiano incontra l’arte surrealista. Dall’Arabia Saudita, dove si trova per un evento della fondazione FII Institute per cui ha disertato il Senato, Matteo Renzi pontifica sui diritti civili e sull’affossamento del ddl Zan: “Per mesi ho chiesto di trovare un accordo, hanno voluto lo scontro e queste sono le conseguenze. La responsabilità è chiara: e dire che per Pd e 5Stelle stavolta era facile; basta conoscere l’aritmetica”.

E così la linea del capo arriva da Ryad, dopo che per tutto il giorno Italia Viva e i giallorosa si scambiano accuse reciproche sui traditori di Palazzo Madama. Renzi osserva tutto da lontano, reduce da un evento in Germania martedì e pronto al quarto d’ora di monologo per quella fondazione saudita che gli garantisce un compenso annuo fino a 80 mila dollari lordi. L’ex premier arriva appena prima di pranzo. Il suo panel è previsto per le 16.15 locali, ma a differenza di quasi tutti gli altri eventi non viene trasmesso in streaming sul sito del FII, che tra l’altro per un errore storpia in “Mario” il nome di Renzi.

Il senatore parla in piedi su un palco improvvisato e informale a pochi metri dal bar self-service del lussuosissimo centro conferenze King Abdulaziz. Tema dell’incontro è “La cultura salva il mondo”, questione cara a Matteo anche per il suo passato impegno nella Royal Commission for AlUla, la città archeologica saudita al centro di un ambizioso progetto di rigenerazione spesso citata da Renzi come esempio di ponte “tra passato e futuro”. Renzi sottolinea l’importanza di “investire nella cultura”, poi si dedica alle pubbliche relazioni: oltre a diversi esponenti del governo saudita, ci sono imprenditori, manager e diplomatici, senza dimenticare il vecchio amico Anthony Scaramucci, altro promotore seriale di conferenze.

Il paradosso di un Paese alle prese con un leader al lavoro per una fondazione estera non sfugge a nessuno tra i delusi per il ddl Zan. Compreso il rapper Fedez, punto di riferimento della rivolta social di ieri: “Ma il Renzi che si proclamava paladino dei diritti civili è lo stesso che è volato in Arabia Saudita mentre si affossava il ddl Zan?”. La 5 Stelle Alessandra Maiorino fa ironia: “Dopo aver portato il Rinascimento in Arabia, forse Renzi voleva portarlo anche nella Lega e in FdI”. Nicola Fratoianni si sfoga: “Immagino che ora il Renzi, dopo aver fatto la lezione sull’aritmetica, da buon piazzista magnificherà la legislazione saudita sui diritti Lgbt e magari pure sul sistema pensionistico di Ryad”.

Il riferimento è all’altra sentenza renziana del giorno: “Che i sindacati attacchino il governo sulle pensioni dimostra come parte dei dirigenti di questo Paese pensi solo a chi è già garantito e non ai giovani. Tanto il conto lo pagano sempre i nostri figli. Per me ha ragione Draghi e non Landini”. Anche su questo, magari il principe Bin Salman ha portato consiglio.