Morti il ddl Zan e la maggioranza. Draghi pensa di fuggire sul Colle

Il ddl Zan muore in Senato, tra gli applausi delle destre e i ghigni di certi dem e certi renziani. Nel voto segreto, con 154 voti sì a fronte di 131 contrari (2 astenuti) passa la tagliola voluta da Lega e FdI. I franchi tiratori fanno la differenza. E sono prove generali per il Colle, ma anche un avviso ai naviganti. Anche a Mario Draghi, che sembra già non poterne più dei partiti, e che visto lo stato della maggioranza potrebbe avere sempre più voglia di salire al Quirinale. Ma il segnale è innanzitutto per i giallorosa sconfitti, cioè a Enrico Letta e a Giuseppe Conte, che già pensano seriamente di accettare Draghi al Colle, a patto che la legislatura arrivi al 2023. A oggi non hanno i numeri e la compattezza per un piano B rispetto al premier, su cui alla fine potrebbe convergere il centrodestra e anche quello che giura di non sapere nulla dell’imboscata di ieri, il Matteo Renzi che ai giallorosa ha ricordato che per il Quirinale devono passare anche da lui. “Senza i 100 grandi elettori centristi non vanno da nessuna parte” dice un senatore renziano. In questo clima, i 5Stelle accusano il Pd. “Abbiamo lasciato che le cose venissero condotte da chi aveva più esperienza di noi nel mondo Lgbt, come i dem, e questo è l’esito” morde Alessandra Maiorino. Mentre per Francesco Silvestri “qualcuno ha lanciato messaggi in vista del voto per il Colle”. Le scorie sono già evidenti per i giallorosa, che ora devono evitare il tracollo nella partita del Colle. Per questo Letta e Conte lunedì hanno pranzato assieme a Roma. Entrambi sanno che nelle condizioni attuali di non poter lanciare un nome di sintesi dei giallorosa, “un progressista”. Così la via più semplice potrebbe essere deglutire Draghi.

Ipotesi a cui Conte ha sempre fatto resistenza. Ma che ora comincia ad accettare. Tanto da far trapelare fastidio per chi racconta di rapporti gelidi tra lui e il premier. “Finora non sono tornato a Palazzo Chigi perché non faccio passerelle come Matteo Salvini” ha detto ai suoi. Ma all’inizio della prossima settimana, Conte e Draghi potrebbero incontrarsi. Con Letta l’avvocato ha ragionato anche di questo. E assieme hanno convenuto che la legislatura deve arrivare al 2023: per non far esplodere i propri gruppi parlamentari, e non solo. “Conte – spiegano dal M5S – ha bisogno di tempo per diventare e mostrarsi davvero capo del Movimento”. Ma come si può tenere in vita una maggioranza che sta già esplodendo, al punto che ieri il governo ha dovuto blindare con la fiducia il decreto Infrastrutture, oggi alla Camera? Secondo i 5S, con un accordo che tenga assieme Draghi al Quirinale con un nuovo premier, un traghettatore. E il primo nome è quello del ministro dell’Economia, Daniele Franco. Martedì Conte lo ha chiamato, per discutere con lui della manovra. “E nelle riunioni interne i nostri ne parlano bene” rimarcano i grillini. Ma la tela è complicata. “È evidente che sul Quirinale bisognerà parlare con tutti, anche con Berlusconi” riconoscono i 5S. Quel Berlusconi che ieri sullo Zan si è piegato a Lega e FdI nonostante metà del gruppo di FI fosse favorevole alla norma. Da qui a gennaio gli azzurri si schiacceranno sulle posizioni degli alleati perché il capo ha bisogno dei loro voti per il Colle. Il centrodestra così esulta. Tanto che Ignazio La Russa (FdI) parla di “nuova maggioranza” di centrodestra. E un ruolo l’ha avuto anche la presidente del Senato Casellati, che ha ammesso il voto segreto e invertito la discussione tra Zan e il decreto Incendi tra la mattina e il pomeriggio di ieri dando la precedenza al primo.

Un aiuto alla Lega, che ieri pomeriggio avrebbe avuto problemi di numeri in aula. Anche lei sogna il Quirinale. Nel frattempo la destra di governo cercherà di ricompattarsi nel vertice di oggi a pranzo a Villa Grande a cui parteciperanno Salvini, Berlusconi, i sei ministri e i capigruppo di Lega e FI. Con i ministri di B. che non vogliono piegarsi alla Lega, “perché noi siamo fedeli a Draghi”.

“Dibattito fuorviante: il ritorno alla Fornero non tutela i giovani”

“Nessuna delle scelte degli ultimi dieci anni in tema pensionistico è stata fatta per le giovani generazioni”. Felice Roberto Pizzuti, docente di Economia e politica del welfare state alla Sapienza di Roma, è considerato tra i maggiori esperti di previdenza in Italia. Lo scontro con i sindacati e le parole usate ieri da Draghi dopo la rottura (“dovete pensare ai lavoratori di domani”) o di Elsa Fornero rivolte a Landini (“pensate ai giovani”, la sintesi) lo fanno quasi sorridere: “È un dibattito fuorviante”, dice.

Draghi difende i “giovani” imponendo il ritorno alla Fornero?

L’idea che sia una cosa naturale tornare a quella riforma è insensata. Poco dopo che fu fatta, nel 2011, dal governo Monti – la cui cura per l’Italia sappiamo cosa ha comportato – i suoi autori si accorsero della falla tecnica degli “esodati”, a migliaia lasciati senza stipendio o pensione da un giorno all’altro, l’opposto di cosa dovrebbe fare un provvedimento di “previdenza sociale”. Sono poi servite 9 salvaguardie per tutelare 250 mila lavoratori. Governo e ministra pensavano che sarebbe servita anche ad aumentare il tasso di occupazione, ma era una sciocchezza. Il lavoro non si crea modificando l’età di pensionamento, anzi, l’effetto maggiore è stato di ridurre i posti di lavoro a disposizione dei giovani, a cui serve altro.

Cosa?

Bisogna prendere atto che il sistema contributivo, introdotto nel ’95 e ormai dominante, penalizza le pensioni dei molti giovani che hanno un’attività discontinua, dovuta alla precarietà del lavoro, e contribuzioni inadeguate per via dei bassi salari. Quasi il 60% di chi è entrato nel mondo del lavoro negli anni 90 avrà una pensione inferiore alla soglia di povertà. Questa è la vera “bomba sociale” e si sta avvicinando. Se vogliamo davvero pensare ai giovani, va ridotta la precarietà del lavoro, introdotta negli anni 90 parallelamente alle riforme pensionistiche, e va affrontata la questione salariale. A questi ragazzi, o ex ragazzi, gli si dice che anche la pensione, come le retribuzioni, sarà inadeguata: oltre al danno psicologico, vengono condizionati anche i loro consumi, a discapito dell’intero sistema economico.

Il governo però apre solo alle quote per attenuare il ritorno alla Fornero…

Sono palliativi. Quota 100 non era una riforma e i suoi effetti sono stati sovradimensionati sia dai suoi estimatori che dai suoi critici: non ha creato lavoro né fatto esplodere la spesa. Ora ritorna come quota 102, 103 etc. A queste opzioni può aderire solo chi sta economicamente meglio, perché accetta un assegno più basso in cambio dell’uscita anticipata. Discorsi simili valgono per l’Ape o l’opzione donna. La libertà di scelta del pensionamento va bene, ma non risolve il problema di fondo generato dalla riforma Fornero, a cui da 10 anni si cerca di mettere delle pezze.

Qual è la soluzione?

Dare sicurezza ai giovani, garantendo contributi figurativi per i periodi di disoccupazione involontaria. È una deroga al contributivo, certo, ma se ci ostiniamo ad applicare questo sistema tout court, con questi salari, impoveriamo solo le persone. Questo intervento, peraltro, non avrebbe costi immediati per lo Stato. Poi l’età di pensionamento va resa elastica. In un sistema contributivo non c’è un problema per il bilancio pubblico di medio termine nel consentire alle persone di andare in pensione quando vogliono, anche con un assegno più basso.

In molti però sostengono che se non si torna alla riforma Fornero la spesa pensionistica esploderà.

Prima che scoppiasse la pandemia, le tendenze del nostro sistema previdenziale erano perfino migliori di altri Paesi. Ripulendo la spesa dalle prestazioni che non sono di tipo previdenziale, come il Tfr o l’assistenza, il sistema è tendenzialmente in equilibrio e, con le riforme degli anni 90, è stato rimesso in carreggiata. Per questo non c’era bisogno della riforma Fornero, che servì solo per dare un miglioramento immediato ai conti pubblici. Il governo Monti usò la previdenza come un bancomat. Non era una riforma con una visione, che mancava allora e manca oggi. Forse non è un caso che la professoressa Fornero sia consulente del governo.

Oggi l’ok alla manovra: sberle a tutti i partiti

Questo è il momento di dare, aveva detto Mario Draghi qualche tempo fa. Ecco quel momento pare definitivamente passato. La cabina di regia della maggioranza – che ieri ha discusso la legge di Bilancio che il governo dovrebbe approvare oggi in Consiglio dei ministri (comunque in ritardo sui tempi di legge) – ha dovuto prendere atto che per il premier è giunta l’ora del graduale ritorno alla normalità non solo sulle pensioni: dagli ammortizzatori sociali al reddito di cittadinanza giù giù fino alla riforma fiscale, il segno di Mario Draghi è nel solco del conservatorismo in cui è felicemente vissuto tutta la vita.

Com’è noto, sulle pensioni il governo rischia di ritrovarsi il sindacato in piazza: una cosa che non gli farebbe piacere, ma che non può essere evitata. I fondi da dedicare al tema sono limitati e anche le soluzioni a costo quasi zero contrastano con quel che il premier pensa davvero: l’Italia deve aumentare l’età media di pensionamento e ridurre la spesa previdenziale come chiedono le Raccomandazioni 2019 della Commissione Ue (il cui rispetto, peraltro, è una delle condizioni per ottenere i fondi di Next Generation Eu). Il ministro dell’Economia, di fronte ai timidi mugugni della sua maggioranza e all’invito rituale del Pd a dialogare coi sindacati, ha presentato un piano minimale: Quota 102 solo per l’anno prossimo, proroga di “Opzione donna” e “Ape social”, forse qualche ampliamento dei lavori considerati “usuranti”. Così fosse, la platea interessata sarebbe minuscola, per gli altri “legge Fornero” e via.

Anche sul reddito di cittadinanza le modifiche non sono certo nel senso di correggerne i difetti ampliando la platea, ma esclusivamente punitive: in sostanza più controlli preventivi alla concessione del sussidio e la sua decurtazione dopo il rifiuto della prima o della seconda proposta di lavoro “congrua”, fermo restando che dopo il terzo rifiuto si è fuori. La delegazione grillina, capeggiata da Stefano Patuanelli, ha sostenuto che le modifiche vanno nella giusta direzione, ma che il M5S si riserva di “valutare l’equilibrio complessivo” delle modifiche, mentre Lega, FI e IV chiedono, se non l’abolizione, uno stravolgimento. Alla fine si tratterà sulle virgole della proposta del governo.

Quanto alle misure fiscali, il M5S incassa l’estensione per sei mesi (a fine 2022) del Superbonus 110% anche per le case monofamiliari (tipo villette e solo registrate come “prima casa”) i cui proprietari abbiano un Isee fino a 25mila euro. Esteso per tutto l’anno prossimo, ma solo al 60%, anche il cosiddetto “bonus facciate”. Non proprio la presa del palazzo d’inverno, anzi un discreto schiaffone se a questo si aggiunge la definitiva cancellazione del cashback, timidamente riproposto da grillini e qualche democratico.

Quanto alla riforma degli ammortizzatori sociali, che doveva accompagnare lo sblocco dei licenziamenti (per Pmi e servizi scatterà a fine mese) pare uscita dai radar e sicuramente non avrà la quantità di risorse che si riteneva necessaria ad un vero strumento universale (10 miliardi circa). Restano in manovra invece gli 8 miliardi per il taglio delle tasse la cui modalità andrà decisa dal Parlamento: viste le posizioni prese finora, c’è la concreta possibilità che finisca ai redditi medio-alti o, in parte, alle imprese se si sceglierà di ridurre il cosiddetto “cuneo fiscale”. Altra scelta non proprio gradita ai sindacati.

Questo il risultato di tre ore e passa di riunione governo-maggioranza, sul cui tavolo è finito pure il ddl Concorrenza: non è chiaro se sarà in Cdm oggi, ma in ogni caso difficile che i partiti tocchino palla…

L’uomo che abolisce quota 100 becca la pensione con quota 99

La misura che abolirà quota 100 passando per quota 102 e 104, è gestita da un “baby pensionato” che ha ottenuto l’assegno previdenziale con quota 99. Mario Draghi, infatti, come aveva documentato Il Fatto già qualche anno fa, è andato in pensione nel 2006, quindi a 59 anni, dopo una carriera fatta di dottorato di ricerca negli Stati Uniti, ricercatore a Trento, direttore esecutivo nella Banca mondiale e poi l’ingresso nell’amministrazione pubblica. Assumendo che abbia riscattato la laurea, ottenuta nel 1970, si tratta di circa 40 anni di lavoro che sommati ai 59 di età lo portano a quota 99.

L’assegno pensionistico gli fu liquidato dall’Inpdap, l’ente previdenziale dei funzionari pubblici poi accorpato all’Inps, e consisteva in 14.843,56 euro mensili lordi, per un importo netto di 8.614,68 euro.

Una soluzione possibile se si tiene conto dell’evoluzione della legislazione previdenziale. Prima della riforma Amato del 1992, infatti, il lavoratore riceveva una pensione il cui importo era collegato alla retribuzione percepita negli ultimi 5 anni di lavoro. Dopo, il calcolo retributivo si estende gradualmente a tutto l’arco della vita lavorativa mentre con il governo Dini nel 1995 viene istituita la distinzione attuale tra regime contributivo (pensione commisurata non più alle retribuzioni ma ai contributi versati per coloro che iniziano a lavorare dopo il 1995) e regime retributivo riservato solo a coloro che hanno già ottenuto 18 anni di versamenti. Il sistema misto viene riservato a chi nel 1995 ha meno di 18 anni di contributi.

Draghi, nel 2006, quando assume l’incarico di governatore della Banca d’Italia, rientra nella prima tipologia e, ai fini della pensione può vantare rilevanti stipendi di dirigente dello Stato visto che è stato direttore del Tesoro fino al 2001 e poi, dal 2002 al 2005, vice chairman e managing director di Goldman Sachs International. Dopo la pensione, con l’incarico di governatore della Banca d’Italia, arriverà a maturare un’indennità che, nell’anno di conclusione del mandato, il 2011, raggiunge i 757.714 euro.

Questa condizione speciale di “quota 99” non gli impedisce però di costruire la narrazione dei giovani contro i cattivoni del sindacato che tutelano solo gli anziani e che ostacolano le nuove generazioni. Il sindacato non brilla certo per capacità di relazione con i più giovani, ma in questa visione, che Draghi ha iniziato a diffondere già nell’incontro dell’altra sera con gli studenti dell’Itis Coccovillo di Bari. La narrazione è stata poi pienamente rilanciata da Elsa Fornero, l’autrice della famigerata riforma e oggi consulente dello stesso governo Draghi, in un ampio articolo su La Stampa contro Maurizio Landini accusato di non pensare ai giovani e di occuparsi solo di quota 100.

Parlare di pensioni, però, non significa parlare di pensionati, ma di coloro che in pensione ci devono ancora andare, cioè di lavoratori. Vecchi e giovani.

Come ha ben sottolineato Fausto Bertinotti in un’intervista si tratta sempre di “salario differito”, quota della retribuzione accantonata per la vecchiaia. Così come è molto parziale desumere che dalle tante riforme degli ultimi trent’anni, fatte sempre solo per innalzare l’età pensionabile e ridurre l’assegno previdenziale, i giovani abbiano guadagnato qualcosa come spiega nell’articolo a fianco il professor Felice Pizzuti. Ma il gioco della contrapposizione generazionale è troppo ghiotto per non farne un ritornello subito ripreso dalla grande stampa. E di cui, ad esempio, deve tener conto anche Beppe Grillo quando calibra le proposte rilanciate ieri sera proprio sulla questione giovanile, sia pure in un senso alternativo a quello del governo. Le idee del fondatore del M5S riguardano il “riscatto gratuito della laurea”, la “pensione di garanzia” per chi, con il sistema contributivo, non avrà una pensione decente e soprattutto una pensione possibile a 63 anni, sia pure solo contributiva, e il resto percepito a 67 anni (come già proposto dal presidente dell’Inps, Pasquale Tridico). Ma mister “quota 99” al momento sembra voler tirare dritto.

Come volevasi dimostrare

I nodi vengono al pettine tutti insieme. Chi, da Mattarella in giù, s’illudeva di mettere la camicia di forza alla politica – che è conflitto, dialettica, scontro di idee, di valori e di principi – con “un governo di alto profilo che non si identifichi con alcuna formula politica” formato da “tutte le forze politiche presenti in Parlamento”, deve riconoscere che era un ossimoro. Prima o poi la politica si libera e si riprende il suo posto. È quanto sta accadendo ora che si scende dai massimi sistemi e dalle massime urgenze (i vaccini e il Pnrr, peraltro già pronti a gennaio senza bisogno di salvatori della patria) e si toccano i legittimi interessi dei cittadini-elettori. Draghi e il suo circoletto di tecnici, che di elettori non ne hanno, possono infischiarsene. Ma i partiti, che molto presto dagli elettori dovranno tornare, no. I populisti dell’élite, molto più qualunquisti e antipolitici di quelli propriamente detti, sognavano che l’assembramento cancellasse le differenze di idee di partiti ed elettori, degradandole sui loro giornaloni a “sabotaggi” e “bandierine”. Ora quell’incubo sta naufragando contro gli scogli della legge Zan, della riforma delle pensioni e presto del dl Concorrenza. Ovvio, visto che gli “alleati” la pensano all’opposto su tutto (a proposito: Renzi d’Arabia è perfetto per Letta). Era già chiaro con la schiforma Cartabia, ma siccome a opporsi era Conte si era preferito ignorare ciò che tutti sanno: i governi, per governare, devono reggersi su un minimo di unità d’intenti. Invece il mastice di questo è il ricatto quirinalesco fondato su due paure: quella dei parlamentari di essere sciolti e perdere il posto; e quella dell’establishment di veder rivincere per la terza volta in 10 anni i “populisti” (dopo M5S e Lega, la Meloni).

Noi ci eravamo permessi di scriverlo fin da subito, ma fummo zittiti come “vedovi di Conte” e nemici “rosiconi” di Draghi. Invece, proprio per la sua figura di altissimo livello, pensavamo che meritasse di più e facesse meglio a evitare d’imbarcarsi in questa disavventura, preservandosi per il Colle. Ciò che ora accade a lui era già capitato ai “migliori” di Monti nel 2011-’12, sul finale della penultima legislatura: i primi mesi di luna di miele, poi gli smarcamenti dei partiti in vista delle urne, infine la resa dei conti. Con una differenza. Allora in fondo al rettilineo, non c’era il Quirinale, infatti Monti si fece un partito e finì come finì. Ora lo sbocco più naturale per Draghi è il Colle e il Vietnam prossimo venturo lo spinge a fuggire verso quel traguardo. Che rimane possibile, ma molto più arduo e incerto di un anno fa. Il terrore generale delle urne, che finora ha cementato il suo governo, potrebbe ritorcerglisi contro. E costargli non solo il Quirinale, ma pure Palazzo Chigi.

“X-Factor”, c’è la mattanza dei live con la solita ombra dei Måneskin

È l’X Factor della “ripartenza”. Ma per andare dove? Sul talent grava l’ombra dei Maneskin, freschi ospiti da Jimmy Fallon, che con quel trionfo globale potrebbero aver bruciato i ponti agli emergenti. “Non hanno chiuso la strada a nessuno” riflette il mentore Manuel Agnelli, “siamo un popolo di importatori che ha l’occasione di esportare un’Italian wave: capita ogni 50 anni. E sono stronzi quelli che nutrono pregiudizi sui Maneskin. Questi non sono talebani del rock o i Sonic Youth, ma straordinari talenti mainstream”. In attesa della nuova onda nazionale, domani al teatro Repower comincia la mattanza dei live (guest Carmen Consoli), il traguardo sarà la finale del 9 dicembre al ritrovato Forum di Assago, con i Coldplay superstelle. Cadranno come birilli 11 dei 12 selezionati: cinque band (Karakaz, Le Endrigo, Westfalia, Mutonia, Bengala Fire, nessuna destinata allo stardom), cinque solisti uomini e solo due donne, che però potrebbero arrivare fino in fondo. La spiazzante Vale Lp (“vengo da un paese”, in realtà Caserta, “per prendermi l’Italia”, ammette, con la provocatoria Porcella che le varrà l’etichetta di prossima Madame) o l’eterea, ancora esile Nika Paris, che l’Italia se l’è già presa trasferendosi dalla Bulgaria con il passaporto da sedicenne. Le girls superstiti (“ma non parliamo di maschilismo”, tuona Emma: “finché servono quote rosa le donne saranno l’anello debole della società. Altre ragazze non erano pronte, e una volta abolite le categorie abbiamo scelto chi ci somigliava di più”) dovrebbero vedersela con l’avvolgente Erio, un rettiliano piovuto dalla galassia dei Cantanti Superiori, o con Fellow – un Jeff Buckley più soul – immerso in una pozza espressiva dalle incerte profondità. Outsider gIANMARIA, elaboratore di post-depressioni pop-trap, e il crossoverista Versailles, faccia da copertina e graffio in gola. I bookmaker propongono quote d’oro per Baltimora, certi che non vincerà. Ma è già un colpo di culo essere all’ultimo sfoglio delle dirette (SkyUno e Tv8 alle 21.15, streaming su Now!, produzione Fremantle, RTL 102.5 radio partner) con il compendio dell’Hot Factor condotto dall’influencer Paola Di Benedetto. Molti, per scrematura, sono spariti dai radar anche dopo un quadruplo sì alle audition: vedi gli Uomini Coreani. I giudici Agnelli, Emma, Mika e Hell Raton se le suoneranno per contratto: “Mika è una tigre dalla crudeltà naturale” sentenzia Manuel. C’è poi il novizio Ludovico Tersigni che se la fa sotto al pensiero di cancellare l’algido cattelanismo, e sul megapalco evoca Mosè: “Sembra il Mar Rosso, non ti inghiotte ma ti spinge fuori”. Sempre meglio delle piaghe d’Egitto.

Sorrentino goes to Hollywood: l’Italia prega la “Mano di Dio”

Paolo Sorrentino per l’Oscar. È stata la mano di Dio è il candidato italiano nella corsa ai 94esimi Academy Awards, categoria “International Feature Film”, l’ex straniero.

Nessuna sorpresa, la commissione istituita dall’Anica – composta da Alberto Barbera, Nicola Borrelli, Francesca Calvelli, Edoardo De Angelis, Piera Detassis, Andrea Goretti, Benedetto Habib, Federica Lucisano, Paolo Mereghetti, Lucia Milazzotto e Anna Praderio – ha ratificato le previsioni della vigilia, che durava invero dall’11 settembre scorso allorché questo coming of age autobiografico conquistò il Leone d’Argento – Gran Premio della Giuria e il Premio Marcello Mastroianni (al giovane protagonista Filippo Scotti) alla 78esima Mostra di Venezia.

In cinema selezionati il 24 novembre, su Netflix dal 15 dicembre, “è il mio film più importante e doloroso e sono felice – commenta il regista – che tutto questo dolore oggi sia approdato alla gioia”. La shortlist dei quindici migliori film internazionali verrà resa nota il 21 dicembre, l’annuncio delle nomination è previsto per l’8 febbraio 2022, la cerimonia a Los Angeles il 27 marzo: “Quello di oggi è solo il primo passo e il bello di questa gara è che l’unica competizione al mondo in cui arrivare già tra i primi cinque è una vittoria”. Ne sa più di qualcosa, Sorrentino, perché ha stravinto, aggiudicandosi la statuetta nel 2014 con La grande bellezza, che è pure l’ultimo titolo tricolore a essere entrato in cinquina. “Ringrazio di cuore la commissione dell’Anica, che ha scelto il mio tra tanti bei film. Ringrazio The Apartment, Fremantle e Netflix per avermi sostenuto. W il cinema italiano”.

Il processo decisionale ha richiesto appena un’ora e un quarto. Al primo turno, in cui si esprimevano tre preferenze, È stata la mano di Dio ha ottenuto nove voti, Qui rido io di Mario Martone sette, Ariaferma di Leonardo Di Costanzo tre. Bene, che cosa li tiene insieme? L’origine festivaliera veneziana, sopra tutto, l’interprete Toni Servillo, che occupa l’intero podio: chapeau! Due voti ha preso Mondocane, opera prima di Alessandro Celli, appaiati a uno 3/19 di Silvio Soldini, L’Arminuta di Giuseppe Bonito, Lei mi parla ancora di Pupi Avati, Parsifal di Marco Filiberti, La scuola cattolica di Stefano Mordini e – ahia! – Tre piani di Nanni Moretti. Una sola preferenza anche per A Chiara di Jonas Carpignano, già vincitore alla Quinzaine des Réalisateurs di Cannes e a Zurigo: se la Bibbia Variety lo metteva all’undicesimo posto – È stata la mano di Dio al sesto – tra i papabili a livello globale per la candidatura, quell’unico votarello non fa che ribadire l’inestirpabile provincialità del nostro cinema, di chi lo fa e chi lo vede.

Al secondo turno sono approdati i primi cinque titoli, ma solo due sono stati votati: È stata la mano di Dio, nove, e Qui rido io, due. Al terzo, dove era richiesto il 66% dei voti, Sorrentino ne ha ottenuti dieci su undici, laureandosi anzitempo il prescelto nazionale. Per la lunga marcia verso il Dolby Theatre della Notte degli Oscar, può contare sull’esperienza accumulata con The Great Beauty; il portafogli di Netflix, che potrebbe valergli altre candidature, per la sceneggiatura in primis; un lavoro di autopromozione, festivaliera (Telluride, il Lumière di Lione, Londra) e non, fin qui impeccabile, complice la moglie plenipotenziaria Daniela D’Antonio. Come predica il film stesso, serve “perseveranza”, e ancor più per gli Academy Awards.

La shortlist pare cosa fatta, per la cinquina Paolo “il venexiano” dovrà vedersela con una teoria di opere provenienti da Cannes: A Hero dell’iraniano Asghar Farhadi, insignito già due volte della statuetta; il giapponese Drive My Car di Ryûsuke Hamaguchi, che adatta un racconto di Murakami; la Palma d’Oro Titane di Julia Ducournau, che la Francia ha preferito al Leone d’Oro L’événement di Audrey Diwan (da noi La scelta di Anne, il 4 novembre in sala); il norvegese The Worst Person in the World di Joachim Trier; l’islandese Lamb di Valdimar Jóhannsson, sostenuto dalla potente A24; il finlandese Scompartimento n. 6 di Juho Kuosmanen, dal 2 dicembre sui nostri schermi. Certo, avere Dio nel titolo aiuta.

 

Che sballo la guerra, soldati. Storia di droghe e conflitti

Al fronte non si va mai sobri: un goccio d’alcol per darsi coraggio, una pillola per restare lucidi, la sigaretta contro la noia, un tiro d’oppio per rilassare i nervi. In guerra, drogati è meglio; di più, la storia bellica è intimamente legata a quella degli stupefacenti. Ce lo ricorda ora Peter Andreas nel saggio Killer High, in libreria da domani con i tipi di Meltemi: “La droga fa la guerra e la guerra fa la droga”.

Dall’antica Grecia all’Isis, dai samurai giapponesi ai narcos messicani, “il rapporto tra droghe e guerra ha alimentato espansioni imperialiste, ha causato rivolte e rivoluzioni”: le sostanze psicotrope – debitamente tassate – hanno inoltre foraggiato e rimpinguato le finanze degli Stati, diventando essenziali all’economia interna. Già Napoleone si vantava che il fumo “riempie le casse di cento milioni di franchi ogni anno”: lui sniffava un chilo di tabacco a settimana, l’equivalente di cento sigarette al giorno. Talvolta, camuffata col nome di “Operazione Giusta Causa”, la droga è stata il pretesto di invasione e defenestrazione di dittatori; talaltra, le sostanze sono state strumenti di pulizia etnica, come i superalcolici spacciati ai nativi per espandersi nel Far West. Ecco “la storia della guerra in sei droghe”.

Alcol. Le prima testimonianza di soldati avvinazzati risale all’esercito mesopotamico 5.500 anni fa. Dai sumeri ai greci, gli antichi apprezzavano lo stordimento etilico: Alessandro Magno istituì gare di bevute tra i suoi, mentre Erode – quello che fece ammazzare i neonati per paura di Gesù – elargiva alcol alle truppe per sedarle. L’acqua era da evitare: troppo piena di germi e non calorica, mentre il vino ha proprietà antibatteriche e la birra è nutriente. Nel 1400 in Scozia il rancio giornaliero dei soldati comprendeva due litri di vino: poi ci si stupisce che lì sia nato Macbeth. La Guerra d’Indipendenza americana scoppiò anche per colpa del rum: la madrepatria britannica aveva infatti represso il contrabbando di melassa per la produzione del liquore, scatenando la rivolta delle colonie. Altro che libertà: toglieteci tutto, ma non il rum. Anzi, il whiskey: una volta conquistata l’indipendenza, l’America abbandonò la bevanda inglese per ripiegare sul distillato autoctono. La Russia fu un impero in quota vodka: Stalin la usava per corrompere a cena i dignitari stranieri, cui erano serviti 30-36 giri di alcolici, e sosteneva che i suoi generali combattessero meglio “quando erano ubriachi”. L’armata napoleonica era ghiotta di champagne, mentre i nazisti bevevano di nascosto: Hitler era quasi astemio e gli alcolisti mandati a morire nei lager. Nei lager, in compenso, le Ss si sollazzavano con l’alcol tra una fucilazione e l’altra.

Tabacco. Iniziò a soppiantare l’alcol dalla fine del XVII secolo, prima sniffato, poi fumato. “Serve tabacco quanto servono le pallottole”: George Washington pregava i suoi concittadini di mandarlo agli americani al fronte. Accaniti tabagisti furono i samurai e i filibustieri: “Una sigaretta può fare la differenza tra un eroe e un lavativo”. Ancora negli anni 90 del 900, durante la guerra in ex Jugoslavia, il governo bosniaco distribuiva razioni di sigarette come stipendio. E persino l’Isis dovette tollerare i tabagisti nelle file del suo esercito: la nicotina è una delle sostanze che creano più dipendenza al mondo, con buona pace di Allah.

Caffeina. Dall’Est all’Ovest ognuno la consuma come meglio crede, nel tè, nel caffè o nella Coca-Cola, lanciata in tutto il mondo dopo le bombe di Pearl Harbor: a nulla servirono le lagnanze della Pepsi perché la rivale aveva “iniquamente” accesso alle basi militari americane. È andata così. Durante il D-Day, una delle preoccupazioni fu quando far sbarcare le bottigliette di Coca: con il primo o il secondo plotone. Solo in Russia la caffeina ebbe qualche resistenza: “Il mio popolo deve bere birra”, tuonava lo zar.

Oppio. I sumeri lo coltivavano già 5.000 anni fa, ma la “pianta della gioia” si ritrova ovunque, nell’Odissea come in Persia. La Cina ne divenne presto il più vorace consumatore: la prima “guerra della droga” fu proprio contro la perfida Albione, che lì la importava. Il proibizionismo non funzionò, la Cina perse il conflitto e pure la lucidità: a inizio 900 un quarto dei maschi adulti del Paese dipendeva dall’oppio, mentre negli Usa “Lucky” Luciano dava il via al primo traffico internazionale di eroina, la piaga dei soldati in Vietnam, immortalati da Newsweek, nel 1971, con una siringa conficcata nell’elmetto.

Amfetamine. Lo “speed” regala lucidità e velocità. Ne furono specialisti i nazisti, che aborrivano le altre sostanze: in Germania le metamfetamine venivano vendute senza bisogno di prescrizioni mediche. Il futuro Nobel Heinrich Böll, in trincea, supplicava i familiari di mandargliene più dosi. Nella Seconda guerra mondiale, anche gli americani scoprirono le pillole magiche: quasi tutti i 12 milioni di soldati all’estero le assaggiarono. Solo “pasticche d’assalto”, infine, per i kamikaze giapponesi ieri e per gli jihadisti oggi.

Cocaina. Masticata sin dal 3.000 a. C. in America Latina, nell’800 ebbe il suo quarto d’ora e passa di celebrità e ancora nel 1980 Time la reclamizzava come “droga seducente, priva di rischi. Vigore, brillantezza, allegria”. Prima era legale, poi no: così gli affari della criminalità organizzata soppiantarono quelli delle case farmaceutiche. E così la guerra alla cocaina risolse anche i problemi dell’esercito americano: “Con la pace che scoppia dappertutto, la droga potrebbe darci qualcosa da fare”.

I karamazov, il denaro e il sangue di draghi

Sono di madre russa e più invecchio più mi sento russo e sempre meno italiano. Sono, oserei dire, un Karamazov.

Ho tutte le diverse e contraddittorie anime dei tre protagonisti del capolavoro di Dostoevskij: l’istintualità e la violenza di Dimitri, nel cui sottofondo, oltre all’ingenuità, c’è il masochismo che è una delle caratteristiche fondanti dell’intero popolo russo, la disperata razionalità di Ivan (“Se tutto è assurdo, allora tutto è permesso”), la spiritualità di Alioscia portata all’estremo, perché tutto è estremo nelle passioni del popolo russo che si autocolpevolizza e si autoassolve in continuazione. Dimitri, Ivan, Alioscia non sono che tre aspetti dell’anima di Dostoevskij e dei contrapposti sentimenti che la compongono.

Il popolo russo è mistico. E nemmeno il comunismo era riuscito a cambiarlo. Bastava solo grattare un po’ la superficie e subito saltava fuori il russo di Dostoevskij. Quando ero in Unione Sovietica nell’autunno del 1985, quella del primo Gorbaciov, a Mosca erano aperte solo tre chiese ortodosse. Se vi entravi eri preso dall’emozione, l’emozione della loro emozione. La religione ortodossa è presa sul serio da quelle parti, come del resto, poniamo, in Romania, e ha poco a che fare con lo stanco rito cattolico della messa domenicale, mentre al pomeriggio le chiese sono deserte o quasi, frequentate solo da tre o quattro vecchie strapenate terrorizzate dalla morte. La stessa emozione che avevo provato nelle chiese di Mosca, la ritrovai molti anni dopo a Teheran alla funzione del Venerdì. Gli islamici, il lettore lo sa, si mettono proni, il capo appoggiato al terreno e il culo all’aria, in una posizione oggettivamente ridicola a un occhio occidentale. Ma anche lì, io che non sono credente, mi emozionai della loro emozione.

In me ha sempre giocato un ruolo fondamentale la contrapposizione fra l’istintualità di Dimitri e la razionalità di Ivan, purtroppo ha quasi sempre vinto la seconda tranne che in due o tre occasioni in cui, in preda all’ira, avrei potuto tranquillamente uccidere un uomo. Pm fermati: non ho ancora ucciso nessuno, ma nulla esclude che potrei farlo in futuro, avevo una pistola con venti colpi in canna che ora però son diventati 19 perché uno l’ho già usato (“Ma sono un gentiluomo e a nessuno dirò il perché”, Sergio Endrigo, Via Broletto 34) gli altri potrebbero servirmi più in là.

Quello che non è riuscito al comunismo è riuscito, a quanto pare, al capitalismo almeno a giudicare dai turisti russi di oggi che sono griffati dalla testa ai piedi in modo sgangherato, una scarpa e una ciabatta. La volgarità non è mai appartenuta a questo popolo, in ogni russo, per quanto agli stracci, cova un principe Stavrogin. Non ha alcun concetto dell’investimento, il denaro vale sempre meno di una buona occasione per spenderlo o, meglio ancora, per buttarlo via. Non è un caso che lo stesso Dostoevskij dilapidasse in vari Casinò d’Europa, in particolare in quello di Baden Baden, il denaro che racimolava faticosamente scrivendo un articolo al mese. I fratelli Karamazov sono un romanzo d’appendice, per quanto a noi oggi possa sembrare incredibile nascono così.

Insomma il russo, almeno finché è rimasto tale, è un passionale, un estremista delle passioni. Che cosa ho io a che fare con quelle “anime morte”, per restare in tema, che formano in gran parte il popolo italiano di oggi? Che cosa ho a che fare con quella madonnina infilzata di Mario Draghi, un banchiere nelle cui vene più che il sangue sembra scorrere il denaro, e che fra poco, Berlusconi permettendo, sarà il Capo dello Stato, cioè il simbolo della Nazione? Ma qui sta il punto. Noi occidentali siamo posseduti dal denaro, da questa concretissima astrazione che informa tutta la nostra vita. Il Dio Quattrino è l’unico idolo, il solo valore unanimemente riconosciuto. Ma a sua volta il denaro non è che la sovrastruttura di un sentimento più profondo che rende possibile e trionfante il capitalismo: l’invidia. Ludwig von Mises, che è uno dei più estremi ma anche dei più coerenti teorici del capitalismo, lo ammette in modo esplicito ne La mentalità anticapitalistica: l’operaio invidia il capofficina, il capofficina invidia il dirigente, il dirigente invidia l’amministratore delegato, l’amministratore delegato invidia il proprietario che guadagna un milione di dollari e costui quello che ne guadagna tre. È un processo che non ha mai fine e che ci riguarda tutti Salito un gradino si deve farne un altro e poi un altro ancora e così via. È il demone della società dinamica in contrapposizione a quella statica. E quella occidentale è la società più dinamica che sia mai apparsa nel corso della Storia. Ma a parte che l’invidia non è un sentimento propriamente nobile e che fa soffrire chi ne è preso, in questo modo l’uomo non può mai raggiungere un momento di tranquillità, di riposo, di equilibrio. È sempre spinto ad andare avanti verso un fine di fatto irraggiungibile, come al cinodromo i cani levrieri, fra gli animali più stupidi del Creato, inseguono la lepre meccanica, coperta di stoffa, che per definizione non possono raggiungere perché è posta davanti al loro muso proprio per farli correre. E così siam noi. Oggi.

Che si sarebbe andati a finire in tal modo lo aveva capito Dostoevskij già nel 1879, anno in cui pubblicò I Karamazov, quando fa dire allo stàrez Zòsima: “Concependo la libertà come una moltiplicazione e una rapida soddisfazione dei bisogni, stravolgono la propria natura, giacché ingenerano in loro stessi una moltitudine d’insensati e stupidi desideri, d’insulsissime abitudini e fantasie. Non vivono se non per l’invidia che si portano l’un l’altro”.

La Santa Scuola di Esorcismo: in 137 per sconfiggere Satana

Sono in mezzo a noi, intorno a noi. Esorcisti, demonologhi. Spiritualisti militanti, secondo cui Satana non è affatto una metafora o un sinonimo del male, ma un’entità reale, uno spirito vivo che attraversa la società e s’impossessa ancora degli esseri umani. L’esorcismo non è una pratica consegnata alla storia e alle credenze medievali, non è materia da film horror e serie Netflix: è vivo e gode di ottima salute. È riconosciuto e accreditato dalla Chiesa cattolica e ha ancora centinaia di “praticanti”, soprattutto in Italia.

A Roma ha appena riaperto i battenti la “scuola” di esorcismo, un corso universitario organizzato ogni anno dall’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum che nel 2021 è arrivato alla quindicesima edizione. Le iscrizioni sono aumentate rispetto al passato: gli iscritti quest’anno sono 137 (un centinaio in presenza e gli altri dietro al computer) e quasi la metà sono laici. Il coordinatore è sempre lo stesso, padre Luis Ramirez, responsabile dell’Istituto Sacerdos e cultore della disciplina. Obiettivo del corso è presentare “una ricerca accademica attenta e multidisciplinare sul ministero dell’esorcismo e della preghiera di liberazione; una risposta concreta, approfondita e professionale”. Gli incontri sono iniziati lunedì e proseguono fino a sabato nell’aula magna “Giovanni Paolo II” dell’ateneo. I momenti clou – fanno sapere dall’ufficio stampa – saranno la “tavola rotonda tra esorcisti di diverse confessioni cristiane” e la presenza di un’enfant prodige dell’esorcismo mondiale, il sacerdote francese don Olivier Rollan, che potrebbe raccogliere l’eredità di Padre Gabriele Amorth, l’esor-star della diocesi di Roma che si è spento nel 2016.

L’approccio accademico dell’Ateneo Pontificio è tutt’altro che scherzoso. Gli iscritti dopo gli anni del Covid sono cresciuti, ma non sfuggirà che nello stesso periodo sono aumentati soprattutto i casi psichiatrici e le sacche di sofferenza psichica. I due temi per la religione non si intrecciano, sono distinti. Per chi crede nell’esorcismo, la patologia psichiatrica è una condizione diversa dalla possessione demoniaca, che presenta caratteristiche proprie. Alcuni esorcisti lavorano anche insieme a psichiatri e psicologi, ma non è esagerato supporre che professionisti disposti a prestare servizio nel campo dell’irrazionale abbiano una peculiare predisposizione culturale e religiosa. Come ha detto Ramirez al Post, agli esorcisti si rivolgono anche “non credenti, che magari dopo tanti anni di sofferenza alla fine cercano un sacerdote, perché capiscono che si tratta di una cosa che va oltre una situazione normale”. Persone con patologie che non trovano sollievo nella medicina e nel pensiero razionale, si affidano a un sacerdote.

Il corso di Roma ha valore teoretico, divulgativo: non si distribuiscono “patenti” da esorcista. Lo si può diventare solo per cooptazione, se nominati da un altro sacerdote “certificato”. E come nelle professioni, c’è una sorta di praticantato durante il quale il giovane esorcista affianca una figura già esperta. L’Associazione internazionale degli esorcisti fondata da padre Amorth – scrive ancora il Post – sostiene che “i professionisti” in Italia siano 300 e ce ne siano più o meno altrettanti nel resto del mondo. Secondo le indagini dell’istituto Sacerdos (2020) la figura dell’esorcista è presente in 160 diocesi italiane su 226: in totale sarebbero 283.

Al di là delle ironie e al netto delle adesioni entusiastiche alla “scuola” pontificia, è in corso un vero risorgimento dell’istituto dell’esorcismo nella dottrina cattolica. E non sono stati solo i papi “conservatori”, come Giovanni Paolo II e Benedetto XVI a ridare centralità teologica alle figure del demonio e della possessione, ma anche un progressista come Francesco: è sotto il suo magistero che è stato emesso il decreto che riconosce giuridicamente l’Associazione internazionale degli esorcisti. “Il diavolo esiste e si è fatto uomo, semina l’odio nel mondo, provoca morte”, ha detto Bergoglio in un’omelia del 2019. Non parlava di un film.