Beffa di Al-Sisi: fine dei tribunali speciali, Zaki resta in carcere

Di fronte alle pressioni internazionali per la continua violazione dei diritti umani, alla fine il presidente Abdel Fattah al-Sisi ha annunciato la revoca dello stato di emergenza nazionale, inclusi i tribunali ad hoc. La misura era in vigore dagli attentati dell’aprile 2017 a due chiese copte da parte di un affiliato dell’Isis, ci furono 40 morti. Si tratta di una decisione importante, ma non significa in generale la fine dell’uso del carcere preventivo reiterato, tantomeno dello strumento della tortura di cui le autorità egiziane si servono per zittire oppositori politici e attivisti. “L’Egitto è diventato, grazie alla sua grande gente e ai suoi uomini fedeli, un’oasi di sicurezza e stabilità nella regione”, si legge da lunedì sera sulla pagina Facebook del presidente-dittatore. “Per questo ho deciso di annullare il rinnovo dello stato di emergenza in tutto il Paese”, ha affermato via social al-Sisi. “I processi già iniziati davanti a questi tribunali, allestiti ufficialmente per giudicare casi di terrorismo e di altri reati che riguardano la sicurezza dello stato, però andranno avanti e quindi anche quello a carico di Patrik Zaki”, commenta Riccardo Noury, portavoce di Amnesty Italia, una delle organizzazioni umanitarie che si battono per la sua liberazione. Hossam Bahgat, attivista e avvocato, ha accolto con favore la decisione. “È una buona notizia… Questi tribunali non verranno più usati eccetto per i casi di Patrick Zaki, Mohammed Al Baqqer, Alaa Abdelfattah, Ezzat Ghoneim e altri dato che sono già stati deferiti”.

Bahgat, difensore di Zaki, giornalista e fondatore dell’Ong Eipr, “Iniziativa egiziana per i diritti personali”, è stato interrogato a propria volta lo scorso giugno per accuse relative alla libertà di espressione dopo aver twittato nel corso del 2020 che l’Autorità elettorale nazionale aveva supervisionato elezioni legislative fraudolente. La prossima audizione dovrebbe tenersi il 2 novembre, dopo essere stata posticipata.

È la terza indagine penale contro Bahgat a causa del suo attivismo per i diritti umani L’anno scorso erano stati arrestati tre membri senior del personale dell’Ong dopo aver incontrato diplomatici stranieri per discutere della crisi dei diritti umani in Egitto. Lo stato di emergenza ha permesso alle autorità di effettuare arresti e perquisire le case delle persone senza mandato. I diritti costituzionali come la libertà di parola e di riunione sono stati ridotti.

Bolsonaro campione d’Italia. Ma la Lega ora si spacca

Allungherà la sua tappa italiana tornando nel Comune dei suoi avi. Da Roma dove parteciperà al G20 del fine settimana, lunedì prossimo il presidente del Brasile, Jair Bolsonaro, farà una deviazione ad Anguillara Veneta, lembo della provincia di Padova al confine con Rovigo che ha dato i natali ai suoi trisnonni che di cognome fanno “Bolzonaro”.

Arriverà dopo che il comune guidato dalla sindaca vicina alla Lega, Alessandra Buoso, gli ha già conferito, in un’infuocata riunione di martedì sera, la cittadinanza onoraria. Decisione che ha fatto infuriare le opposizioni e le associazioni che non accettano che venga dato un riconoscimento così importante al presidente brasiliano negazionista e con posizioni spesso razziste e “anti-ecologiste”. Ma la Lega, che tramite Matteo Salvini ha spesso fatto elogi nei confronti di Bolsonaro, per il momento difende la decisione. Il governatore Luca Zaia non andrà ad accogliere il presidente brasiliano, mentre Salvini al momento non prevede appuntamenti ad Anguillara per lunedì, ma fonti a lui vicine non escludono una modifica dell’agenda. La sindaca Buoso spiega con imbarazzo che la cittadinanza non è ad personam, ma è “agli italiani in Brasile” mentre sia la Lega che la lista Zaia in consiglio regionale difendono la decisione. Il presidente del Consiglio regionale leghista Roberto Ciambetti parla di “polemiche strumentali” perché la storia dei Bolsonaro “è quella di molti veneti emigrati in Brasile”; l’eurodeputato Paolo Borchia accusa la sinistra di “gazzarra indegna”: “Su Bolsonaro politico decidono i brasiliani, non la sinistra italiana. Sulla figura istituzionale non si discute: c’è un Veneto che ha reso grande il mondo, esportando la propria identità”. Luciano Sandonà, della lista Zaia in Regione, invece prende le distanze dalle posizioni negazioniste di Bolsonaro sul covid ma la cittadinanza è stata attribuita come “rappresentante di un popolo” tra cui ci sono anche veneti emigrati.

L’Unione dei missionari italiani attivi in Brasile chiede che si proceda alla revoca dell’onorificenza: “Sta massacrando la vita della gente, alimenta una politica negazionista, svende le terre d’Amazzonia.” Il coordinatore dell’Unione, Giuliano Zattarin, 74 anni, che dal 2005 al 2014 ha vissuto a Salvador de Bahia, sa che “la Chiesa può stare da una sola parte: quella dei poveri, porsi contro chi ne offende la dignità e difendere chi ha bisogno” da un presidente che “dichiara persona non grata anche i missionari attivi in Amazzonia”.

Dal gennaio 2019 Bolsonaro ha favorito la lobby delle aziende legnifere e la deforestazione (aumentata del 9,5% da quando è al potere), e ha danneggiato non solo le popolazioni indigene che abitano quelle terre da epoche ancestrali, ma anche il resto del pianeta, polverizzando la più grande foresta pluviale al mondo. Per ecocidio, persecuzione dei nativi e per “politica anti-indigena, esplicita e sistematica” molte ong ambientaliste lo vorrebbero sul banco degli imputati alla Corte internazionale dell’Aja.

Il leader che in questi anni si è detto a favore della tortura e della dittatura, nel marzo 2020, dichiarò che in molti morivano in Italia “perché è un Paese pieno di anziani, c’è una coppia di vecchi in ogni edificio come a Copacabana”. Per i 600 mila brasiliani morti di Covid, infezione che il macho al potere ha definito “una banale influenza”, è sotto indagine al Senato per crimini contro l’umanità: è tacciato di negligenza e di aver lasciato intenzionalmente che il virus si diffondesse. Lo certificano le oltre mille pagine stilate dalla Commissione d’inchiesta di Brasilia che ha analizzato il suo cattivo operato, compiuto anche dai collaboratori e dai suoi figli. A chiedere l’impeachment del presidente già migliaia di brasiliani sono scesi per strada in decine di città, da Rio a San Paolo, nelle ultime settimane. Ad accusarlo di genocidio c’è anche l’ex presidente Luiz Lula che, stando agli ultimi sondaggi sulle prossime urne del 2022, è in testa con il 48% delle preferenze. Bolsonaro non supera il 30%. Dopo aver mosso guerra alla Corte suprema che ha arrestato i suoi alleati, ultimamente il presidente ha cominciato ad attaccare la commissione elettorale, riferendo che potrebbe non riconoscere l’esito delle prossime elezioni in caso di sconfitta.

Tutta la Corea fa brodo

Dopo decenni di sushi servito anche nelle sagre di paese, il Giappone deve farsi da parte; adesso è il momento della Corea, tutto ciò che è coreano ha una marcia in più, c’è persino la zanzara coreana che dura 12 mesi l’anno, l’avrà brevettata la Samsung. Per non parlare di cinema e tv: da Kim Ki Duk al pluripremiato Parasite, alla serie del momento, Squid Game, il leitmotiv made in Korea è sempre quello: la diagnosi di un capitalismo fosco e terminale, che non fa prigionieri. Bei tempi quelli in cui in ammollo c’era solo Franco Cerri, nella pubblicità del Bio Presto; adesso siamo tutti immersi fino al collo nella globalizzazione selvaggia. In Squid Game i giochi dei bimbi vengono giocati da adulti sommersi dai debiti: chi fa una mossa sbagliata a “Un due tre stella!” muore davvero, chi vince potrà diventare milionario: metafora spiegata al popolo di un liberismo totalitario (e il vicino di casa Kim Jong-un, che di totalitarismo se ne intende, non ha fatto mancare il suo apprezzamento).

Il successo della serie Netflix più vista di sempre non si spiega solo perché la Corea tira più di Chiara Ferragni; a dare una mano c’è lo Spirito del Tempo. Squid Game è un astuto prodotto del sistema di cui denuncia l’orrore: c’è la venerazione per il denaro (“se è al denaro che attribuite il vero significato della vita, il denaro non vi basterà mai”, scrive David Foster Wallace), c’è la visione distopica di tutte le serie à la page, c’è l’immaginario splatter da videogame, ci sono i geni del male sfrattati dalla Spectre, ci sono i buoni sentimenti dei padri di famiglia pronti al sacrificio estremo, ci sono la canna del gas e il Cofanetto Sperlari, tutto in coerenza con la sopravvalutazione delle serie tv, la calata delle serie è lo Squid Game che ha ucciso il cinema. Ciliegina sulla torta, la serie ispirata ai giochi dei bambini sta ispirando i bambini a farsi male sul serio. L’infanzia era già un continente in via di estinzione; non vorremmo che dalla Corea arrivi il colpo di grazia.

Prodi e Conte, gli smemorati e l’aerosol per B. al colle

Romano Prodi e Giuseppe Conte come novelli smemorati di Collegno.

Un singolare, inatteso e congiunto vuoto di memoria, ha colpito i due considerati come i più severi censori e irriducibili oppositori di Silvio Berlusconi. In due distinte interviste hanno infatti avuto parole di una qualche comprensione verso l’anziano di Arcore che sogna di divenire presidente della Repubblica. “È tecnicamente un pregiudicato, non potrebbe mai fare il capo dello Stato” domandava, preso dallo stupore, Corrado Augias a Prodi. Era certo che l’ex premier gli avrebbe dato ragione, invece il Professore piegava sull’anagrafe matrigna: “Ma io dico che a 83 anni, quanti ne ho, mai mi sognerei…”. Un sorriso e poi il silenzio. E Conte? Meglio ancora ha fatto l’avvocato, molto riposizionato e sempre a modo: “Faccio gli auguri per la recente assoluzione a Siena, ma non è lui il nostro candidato”.

Fantasticamente i due si sono ritrovati smemoratissimi. Svanita la condanna in via definitiva a 4 anni di reclusione per frode fiscale, e in primo grado ad altri tre per concorso in corruzione. Non male per un candidato al Quirinale! E i sette processi estinti per prescrizione e i due per amnistia? E l’avvocato del popolo che si felicita per l’assoluzione ottenuta a Siena in un troncone del processo Ruby (dura da tanto tempo che quando si concluderà la ritroveremo nonna) ma dimentica che nelle stesse ore la Corte di Cassazione ha ricondotto all’esercizio della prostituzione gli incontri serali che Arcore titolò come “cene eleganti”?

La memoria fa così difetto che anche le leggi ad personam (nove) e quelle che avrebbero procurato vantaggi economici al tycoon (dodici) stanno per essere nebulizzate nel giardino fiorito del Quirinale. Che sarà mai un po’ di aerosol?

Mail Box

B. e gli anticorpi delegati
alla decenza collettiva

Il corrosivo articolo di Corrias, “Ma è più folle B. o quelli che gli stanno intorno?”, circa lo stato di salute di Berlusconi e del suo sogno quirinalesco, mi hanno fatto riflettere sull’opportunità, in caso questa sventura si avverasse, di abbandonare la mia attuale cittadinanza italiana perché rifiuterei di appartenere a un Paese il cui primo cittadino fosse un pregiudicato. Spero che il Covid-19 non abbia distrutto gli anticorpi dei nostri rappresentanti; quelli delegati alla decenza.

Salvatore Antonio Aulizio

 

Anche la Annunziata
vuole “Un posto al sole”

Ho letto che a Rai 3 si pensa di spostare il seguitissimo Un posto al sole (share intorno al 7%) – prodotto di successo tutto italiano e orgoglio partenopeo – a un orario infelice, per sostituirlo con un programma politico diretto da Lucia Annunziata. Non so chi senta la necessità di seguire l’ennesimo talk politico che ripeta le stesse percentuali sulla pandemia o che disquisisca dell’ultimo tweet di Salvini scritto dalla sagra della salsiccia, ma sono sicura che gli ascolti daranno la risposta che merita questa scelta a dir poco incomprensibile. In alternativa, per spiazzare il pubblico, si potrebbe pensare di fare entrare la Annunziata nel cast della soap, chissà che non le/ci regali un po’ di spensieratezza, perché dopo due anni di pandemia abbiamo bisogno tutti di un po’ di evadere dalla quotidianità.

Valentina Felici

 

A salvarci sono i vaccini,
mica il certificato verde

Mi sono rotto di continuare a sentire che il Green pass ci ha salvati: ci ha salvati la vaccinazione! Il certificato verde è solo una “furbata all’italiana” che aggira l’obbligo vaccinale, peraltro previsto in costituzione in casi di pandemia, e permettere allo Stato di “non pagare” eventuali danni provocati dai nuovi vaccini che, al contrario dei vecchi, sono sicuri al 100%, come dichiarano tutti i ricercatori.

Raffaele Fabbrocino

 

Solo l’Italia non si schiera
contro il turco Erdogan

Il presidente turco Erdogan ha deciso di espellere gli ambasciatori in Turchia di Stati Uniti, Francia, Germania, Olanda, Canada, Finlandia, Svezia, Norvegia, Danimarca e Nuova Zelanda perché hanno osato firmare l’appello per il rilascio del filantropo turco Osman Kavala in carcere dal 2017, nonostante una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, già nel 2019, ne avesse decretato la liberazione. Mi chiedo: come mai l’ambasciatore italiano Massimo Gaiani ha scelto di non firmare tale appello?

Raffaele Pisani

 

L’inchiesta su Vecciarelli
e le parole di Kennedy jr

L’ultima inchiesta sulla corruzione che a Roma chiama in causa il capo di stato maggiore Vecciarelli, indagato per per corruzione per un giro di appalti all’esercito di oltre 18 milioni di euro. Questo fatto, gravissimo in sé, riporta in vista le recenti dichiarazioni in una intervista del figlio di Robert Kennedy, famoso ministro della giustizia Usa e assassinato negli anni sessanta. Dice Robert Kennedy Junior che il padre da vivo gli insegnò con enfasi di rammentare sempre che, dalla sua esperienza, chi raggiunge posizioni di preminenza e di potere elevate, mentirà sempre e sarà disposto a qualunque bassezza per mantenere il potere e il proprio interesse specifico. Se sarà provato che anche il capo di stato maggiore, che comanda in nostro esercito, cede a questa disgraziata logica, le residue speranze per questo paese si estingueranno tristemente

Enrico Costantini

 

Le battaglie per tenere
i privilegi di pochissimi

Quota 100 è stata una grande spreco di denaro, che ha favorito chi non aveva bisogno di sostegno e poteva permettersi decurtazioni di pensioni già consistenti. Né ha creato il ricambio occupazionale millantato (si parlava di tre assunzioni di giovani per ogni prepensionato). Non c’è ragione di replicare questo sperpero, neanche a quote maggiorate (102 o 104). Meglio invece indirizzare queste risorse per assumere giovani dove gli organici della pubblica amministrazione sono carenti da anni, per offrire servizi primari efficienti (sanità, scuola, giustizia, ecc.). Il fatto è che non esista un “sindacato dei giovani in attesa di buona occupazione” e quindi gli interessi di chi è al primo impiego non hanno una rappresentanza precisa. Ma un governo deve comunque tenerne conto. Bene quindi programmare pensioni più flessibili e soprattutto anticipate per i lavori usuranti; ma finiamola con l’assecondare chi vuole solo un privilegio.

Massimo Marnetto

Ingiustizie “Noi disabili costretti a scegliere tra il lavoro e il sussidio”

Gentile “Fatto Quotidiano”, sono un ragazzo disabile di 33 anni, costretto a vivere sulla sedia a rotelle e a oggi attualmente disoccupato, benché iscritto negli elenchi degli appartenenti alle categorie protette. Qualche giorno fa, ho letto sui giornali che il diritto all’assegno mensile di invalidità d’ora in poi sarà riconosciuto solo a chi non lavora, nemmeno poche ore a settimana. I disabili in Italia sono condannati a restare a casa, senza lavoro e poveri. Se vogliono essere attivi e lavorare, devono rinunciare all’assegno di invalidità. Se invece vogliono tenersi l’assegno da 287,09 euro al mese per 13 mesi, allora non devono lavorare. Dove per lavorare si intende un lavoretto al massimo da 400 euro al mese per non superare il tetto di reddito annuale, compatibile con l’assegno di invalidità, da 4.931 euro all’anno. Un cortocircuito che rischia di lasciare ai margini migliaia di persone affette da disabilità non grave dal 74% al 99%, impedendo loro di integrarsi socialmente a meno di rinunciare al sostegno a cui hanno diritto.

L’invalidità non può comportare il confinamento nella solitudine della inattività; e nemmeno la condanna a una povertà certa. Per non parlare della rinuncia a ogni tipo di indipendenza economica. Se l’isolamento per le esigenze sanitarie è di per sé una condizione pesante, può diventare un vero dramma se a provarlo sono persone con disabilità fisica o psichica. Penso a chi ha bisogno continuo di assistenza, a chi vive negli istituti, a chi in qualche modo dipende, per la sua esistenza quotidiana, da farmaci, macchinari o dal sostegno di altre persone. Preoccupano le difficoltà e i rischi per ottenere l’assistenza e le cure ordinarie presso i presidi medici e ospedalieri, impegnati faticosamente a fronteggiare l’emergenza Covid… Se l’inclusione in Italia equivale al confinamento del disabile, che è costretto di fatto a non potersi costruire un futuro dignitoso, lo Stato si spoglia delle proprie responsabilità di tutela dei più deboli lasciando i disabili e le loro famiglie soli e abbandonati. Voglio ricordare che il livello di civiltà di un popolo e di uno Stato si misura anche dalla capacità di assicurare alle persone con disabilità “inclusione, pari opportunità, diritti e partecipazione a tutte le aree della vita pubblica, sociale ed economica”.

Mi vergogno personalmente che chi soffre in silenzio la propria disabilità venga trattato e umiliato in questo modo: non si può consentire o barattare il diritto al lavoro con il diritto a una vita dignitosa. In buona sostanza, devi scegliere se isolarti dal mondo o lavorare (se riesci a trovare un’occupazione). Tutto questo è inaccettabile. Bisogna garantire entrambi i diritti al fine di non lasciare nessuno indietro (soprattutto in questo periodo). Il disabile non è un costo, ma è una risorsa di inestimabile valore per il nostro Paese. Non ci sono parole.

 

Con la neo-lingua, i poveri in Italia sono diventati “diseguali”

Nella neo-lingua di orwelliana memoria entra con prepotenza un nuovo termine, o se preferite una nuova categoria di persone: quella dei diseguali. Chi siano ce lo spiega con dovizia di particolari il Corriere della Sera in un fondo di prima pagina: i diseguali sono “gli operai, gli impiegati a bassa qualifica, i disoccupati, i precari, i meno abbienti, le finte partita Iva”. I diseguali sono coloro che, abitando in genere nelle periferie delle metropoli, hanno scelto di astenersi alle Amministrative dopo aver votato in massa Movimento 5 Stelle alle Politiche del 2018.

L’analisi del Corriere è tutto sommato condivisibile, tranne che per un non irrilevante particolare. In italiano, o se preferite nell’archeo-lingua, i diseguali si chiamano poveri. In Italia ce ne sono milioni e milioni. Molti di essi lavorano, ma guadagnano troppo poco. Chiamarli con il loro nome però fa brutto. Così nella neo-lingua si arriva al massimo a definirli working poors, forse in omaggio al fatto che per anni e anni chi era al potere ha ripetuto ai giovani un solo mantra: ragazzo studia, prendi la laurea e un master, impara le lingue e vedrai che il mondo sarà tuo. Il mondo forse sì. L’Italia certamente no.

In ogni ufficio, fabbrica, negozio sfilano ogni giorno migliaia di giovani molto più preparati rispetto ai loro coetanei di 25 anni fa, ai quali vengono però offerti stage a 500 euro al mese con prospettive di assunzione statisticamente irrilevanti. Mentre chi ce la fa o ce l’ha fatta deve fare i conti con stipendi più bassi rispetto a quelli medi italiani del 1990. La situazione è tale che nel 2016, durante il governo Renzi, il ministero dello Sviluppo economico ha pensato bene di lanciare una sorta di pubblicità regresso: una brochure in inglese rivolta agli investitori esteri con la quale li si invitata a venire in Italia perché “gli stipendi sono più bassi della media europea”. Da allora nulla è cambiato. Quasi tutti i sindacati e quasi tutti gli imprenditori si oppongono con forza all’introduzione di un salario orario minimo garantito. Tanto che, quando il governo Draghi lo ha fatto sparire dalla versione finale del Recovery plan, tutti sono rimasti zitti. I giornali e le tv hanno invece continuato a dare spazio a una serie di imprenditori che assicurano di non trovare manodopera a causa dei 570 euro al mese del Reddito di cittadinanza, sebbene i dati Inps certifichino come quest’anno il numero dei lavoratori stagionali sia aumentato del 35% rispetto al 2018, anno in cui il sussidio ancora non c’era. E quasi nessuno si è preso la briga di verificare sul campo quali fossero le reali condizioni di lavoro e di stipendio offerte dagli imprenditori testimonial (ilfattoquotidiano.it lo ha fatto partecipando a un centinaio di colloqui di lavoro con telecamera nascosta e ha scoperto che erano fuorilegge e miserrime).

Così oggi nella neo-lingua accade persino che il povero, alias il diseguale, diventi solo e semplicemente un fannullone o se volete “uno che preferisce stare sul divano”. Il sito del Fatto ha per questo deciso di raccogliere le storie dei lavoratori sottopagati (ne stanno arrivando a migliaia) e di smascherare alcuni celeberrimi imprenditori. Persone che pubblicamente parlavano di offerte rifiutate a 1.300 e persino 3.000 euro al mese a causa dei sussidi. Alcune di queste vicende sono già state pubblicate. Altre ne seguiranno. Alla fine delle nostre inchieste contiamo che gli esperti di neo-lingua trovino un termine per definire chi racconta balle. Noi in omaggio ai poveri, pardon ai diversamente ricchi, ne proponiamo una: luridi propagandisti.

 

Pensioni. La solita moda di usare i figli per picchiare i padri e i nonni

Colpo di scena, tornano di moda i giovani. Non stupisce più di tanto, è una cosa che succede periodicamente quando si tratta di penalizzare i vecchi, e quindi si attua il facile barbatrucco di mettere generazioni contro generazioni, segnatamente quando si parla di pensioni e previdenza. Traduco: siccome le pensioni ci costano un bel po’ e data l’incapacità di chiedere qualche soldo ai nuovi ricchi (un milione e mezzo i neo-milionari italiani, cresciuti del 20 per cento durante l’età d’oro – per loro – del Covid), ecco che si indicano ai giovani i diritti dei vecchi additandoli come odiosi privilegi.

È un trucchetto antico come il mondo, che funziona sempre e che ha come unico effetto collaterale di rivelare la statura etica, morale e politica di chi lo conduce: poca cosa. Non mi addentrerò qui nel vortice attuale dei numeri e nel gorgo che si legge in giro: quota 102, no, 104, no Fornero forever, eccetera eccetera, e mi limiterò all’uso strumentale del giovane in quanto sfigato storico di riferimento, funzionale al dibattito, feticcio utile alla causa draghian-confindustriale. Un po’ occultati e nascosti sotto il tappeto (quando non se ne parla per dire che sono tutti scemi), i famosi giovani vengono buoni adesso per dire che loro probabilmente le pensioni non le vedranno, o le avranno sotto la soglia di una decente sussistenza. E si capisce: calcolandole col retributivo secco, e avendo fino alla mezza età lavori intermittenti e stipendi da fame, dall’Inps prenderanno due cipolle e un pomodoro. Da qui, dritta come una freccia, ecco la pressione sulle trattative per la previdenza di genitori e nonni: è colpa loro e della loro avidità se chi ha vent’anni oggi farà la fame domani. E giù interviste, pareri, interventi, per dire che il sistema è iniquo e penalizza le nuove generazioni (mentre i pensionati anziani, si sa, nuotano nell’oro). Naturalmente essendo le basse paghe e il precariato ad libitum a penalizzare eventuali pensioni dei giovani, bisognerebbe intervenire su quei punti: meno contratti fantasiosi, meno stage e tirocini, più stipendi veri, magari un salario minimo che finisca per rasentare la decenza. Invece, su quel versante, niente, mentre si spinge sul pedale della guerra tra generazioni, mettendo figli contro padri, cioè i futuri poveracci contro i “privilegiati” che dopo aver lavorato una vita prendono (addirittura!) la pensione.

Il trucchetto ha il suo fascino, e a volte funziona. A pensarci, è quello su cui basa la sua propaganda anti-immigrati Matteo Salvini che tuona “prima gli italiani”, cioè invita i penultimi (gli italiani poveri) a odiare gli ultimi (i migranti). Altro caso di scuola, la narrazione renzista che portò all’abolizione dell’articolo 18. Siccome moltissimi non l’avevano, invece di darlo anche a loro si additò chi ne usufruiva come egoista e privilegiato. Anche allora i giornali erano pieni di giovani che dicevano: io, precario, l’articolo 18 non lo avrò mai, e allora perché deve averlo un metalmeccanico? Il meccanismo culturale che sovrintende il “ridisegno” del sistema pensionistico è esattamente lo stesso: lasciare una moltitudine senza diritti e poi – fase due – additare chi i diritti ancora ce li ha come un pescecane profittatore. Questo il desolante quadro del dibattito: trasferire la guerra ai piani bassi della società, mentre ai piani alti si stappa e si festeggia la ripresa “oltre le previsioni”. Siamo sempre lì: un Monti, un Renzi, un Draghi, la stessa sostanza di cui sono fatti gli interessi dei ricchi.

 

Le Lobby e gli euro-flop: Draghi sia trasparente

Al termine dell’ultimo Consiglio dei 27 capi di Stato e di governo a Bruxelles, il premier “tecnico” Mario Draghi, riferendo in conferenza stampa sul dossier immigrazione, l’ha raccontata imitando i predecessori politici di mestiere: ha espresso “soddisfazione” per vari temi della discussione e ha sorvolato sul rigetto delle sue richieste di aiuti all’Italia, il secondo dopo il flop simile nel summit Ue del giugno scorso.

Il premier ha aggiunto due promesse molto giuste. Punta al riequilibrio tra il poco investito dall’Ue nel Mediterraneo centrale (per frenare gli sbarchi in Italia) e i tanti miliardi spesi nella parte orientale (per bloccare i profughi diretti in Germania). Intende poi attuare politiche di bilancio impostate sulla maggiore “equità” urgente in Italia. Ma a Bruxelles ha deluso chi si aspettava i fatti. Le sue parole non hanno nemmeno ben informato su cosa è veramente successo nelle sessioni dei 27 leader Ue, che sono segrete. Mentre da Draghi ci si aspetterebbe ben altra trasparenza. Innanzitutto perché ha notevole competenza negli affari europei. Perché governa senza aver ottenuto il consenso diretto degli elettori. E perché dovrebbe allontanare il dubbio di una sua ritrosia a rinunciare alle logiche di riservatezza apprese nelle zona d’ombra della sua antica appartenenza a lobby semi-segrete e alla banca privata Usa Goldman Sachs.

Sorprendentemente il premier figura ancora tra i “membri senior” sul sito del “Gruppo dei trenta” di Washington, che riunisce in assoluta “confidenzialità” potenti ed ex potenti del settore finanziario come la Segretaria del Tesoro ed ex capo della banca centrale Usa Janet Yellen o l’ex governatore della Bank of China, Zhou Xiaochuan. Cosa aspetta per farsi cancellare da questo organismo Usa troppo riservato per le democrazie europee? Quando Draghi presiedeva la Banca centrale europea (Bce), l’Ombudsman Ue, la irlandese Emily O’Reilly, era stata perentoria. Dopo un anno di indagini, gli chiese di rinunciare al “Gruppo dei trenta” perché i suoi incontri con quei banchieri e finanzieri risultavano “non trasparenti” e avrebbero potuto “determinare la percezione che l’indipendenza della Bce possa essere compromessa”. Da premier non dovrebbe prenderne ancora di più le distanze?

Draghi ha partecipato anche alle riunioni riservate di Bilderberg e Trilateral, che avvicinano banchieri, finanzieri e investitori multinazionali con l’obiettivo presumibile di favorire arricchimenti privati (e forse anche altri interessi non noti). Queste frequentazioni gli furono contestate nell’Europarlamento, quando fu esaminata la sua candidatura a capo della Bce. Il buon Mario replicò che quegli organismi non gli sembravano “particolari cupole segrete”.

Misteriosa è rimasta la sua attività in un altro santuario della riservatezza, la banca d’affari Usa Goldman Sachs, negli anni dopo la direzione del ministero del Tesoro e fino alla nomina a governatore della Banca d’Italia. È poco chiaro perfino il suo ruolo. Goldman Sachs, assumendolo, comunicò che avrebbe operato “con governi e agenzie governative”. Draghi nell’Europarlamento – per smentire un suo coinvolgimento nello scandalo dei derivati finanziari venduti alla Grecia vicina al tracollo – sostenne di aver trattato solo con i privati.

Da premier il problema è diventato più complesso perché Goldman Sachs è una grande utilizzatrice delle “porte girevoli” tra pubblico e privato. Per accelerare l’arricchimento dei suoi azionisti, manager e clienti, ingaggia con super-stipendi ex governanti ed ex dirigenti pubblici, apprezzati (a volte come interlocutori più o meno diretti) quando operavano per lo Stato. Poi li usa spesso come lobbisti, consulenti e procacciatori di affari con governi e pubbliche amministrazioni. Sostiene anche le nomine ai vertici degli Stati di suoi dirigenti: meritandosi il soprannome di “Government Sachs” per i successi non solo a Washington, dove Henry Paulson e Robert Rubin sono passati da Goldman a Segretari del Tesoro. In Italia, oltre a Draghi, anche i premier Romano Prodi e Mario Monti, o Gianni Letta, “braccio destro” di Silvio Berlusconi a Palazzo Chigi, erano degli ex della banca Usa, ritenuta influente a Roma.

La copertura della “confidenzialità” impedisce certezze assolutorie o colpevoliste sulla precedente appartenenza di governanti a lobby riservate e banche d’affari. Ma non elimina i dubbi di opportunità politica e di conflitti d’interessi. Per questo Draghi, da premier non eletto, dovrebbe garantire la massima trasparenza sul suo operato. E magari evitare di ricorrere alle “parole, parole, parole” da politici di mestiere. Così le ombre delle zone riservate, che ha frequentato, forse non si allungherebbero.

 

Dave Chappelle: quando il razzismo non c’entra con il diritto di satira

Essere trans è buffo. Devono ammetterlo: è una situazione fottutamente esilarante. Se accadesse a me ridereste, no? (Dave Chappelle, 2017)

Il razzismo, nell’accezione estesa che ne dava Pasolini, consiste nel considerare l’altro inferiore a te perché è diverso da te. In questo senso, anche il maschilismo è una forma di razzismo: razzismo contro le donne. La cultura di massa può rendere normali gli stereotipi discriminatori: assorbendoli e ripetendoli, anche inavvertitamente, ci si comporta da razzisti, e la società peggiora. Lo scontro sul razzismo, e sulle disuguaglianze sociali che crea e rafforza, oppone due fronti. Contro il razzismo, i progressisti ricorrono a proteste mirate, sul web e fuori: gli obiettivi sono l’ostracismo del razzista e il boicottaggio delle aziende che gli forniscono il megafono. I reazionari rispondono invocando la “libertà di espressione”, come se ci fosse libertà di razzismo; definiscono “cancel culture”, etichetta denigratoria, le giuste critiche al discorso razzista; sfottono chi pensa, giustamente, che il linguaggio discriminatorio finisca per sdoganare comportamenti aberranti come quelli contro cui è sorto il movimento di protesta #blacklivesmatter; e banalizzano la questione accusando i bersagli del razzismo di “offendersi”, come se il problema fosse che l’altro si offende, non che tu sei razzista.

Uno dei campi di battaglia per l’egemonia culturale, anche su questo tema, è la comicità. Quando un comico reazionario viene accusato di fare gag razziste, replica sempre appellandosi al politicamente scorretto e alla libertà di satira: solo che il razzismo non c’entra col politicamente corretto, ma con la legge, poiché è un reato; non c’è libertà di razzismo, e neppure la satira ce l’ha. Per entrare nel merito, la replica del comico reazionario dovrebbe spiegare perché quelle sue gag non sono razziste. Se la polemica monta, il comico reazionario invita a farsi una risata (altra colpevolizzazione del bersaglio razzista, che dovrebbe ridere di essere ghettizzato). E i media reazionari arrivano subito in soccorso, sostenendo che quelle gag facevano ridere. Ma il punto non è se una gag fa ridere o meno. La risata non è un criterio di giudizio sui contenuti, è un riflesso scatenato dal meccanismo comico della gag. (L’altro motivo per cui la risata non è un criterio di giudizio sui contenuti è che i motivi per cui non si ride sono molteplici.). Se la tua gag veicola un’idea razzista, hai fatto il razzista (consapevole o no); se ridi a una gag razzista, hai fatto il razzista (consapevole o no). A maggior ragione, più sei bravo come comico, e più amplia è la tua platea, più attenzione devi mettere in ciò che dici, poiché la risata che provochi con una gag razzista sdogana il razzismo. Perpetuare uno stereotipo razzista non contrasta lo stereotipo, e incoraggia chi lo condivide: l’ultimo show del comico Dave Chappelle, The Closer, su Netflix dal 5 ottobre, ha suscitato scalpore con le sue battute transfobiche (e non solo con quelle) anche perché Chappelle, uno degli standup comedian più abili in circolazione, in passato si era posto il problema della responsabilità sociale dell’arte comica: aveva dichiarato i propri dubbi sugli effetti del suo tipo di comicità, che esasperava gli stereotipi per ridicolizzarli; e si chiedeva se il pubblico non si divertisse solo per gli stereotipi, che così lui contribuiva a rafforzare (è quello che capita in Italia con le gag reazionarie di Checco Zalone e di Pio & Amedeo, non a caso sempre difese, a ogni polemica, da Salvini e Meloni).

(1. Continua)