Giornalisti, le pensioni e le vite degli altri

Non c’è un giornale che più di Repubblica si stia occupando di pensioni. Molte pagine e diversi commenti, anche più di uno al giorno. Ha cominciato Marco Bentivogli, leader di un partito che non nasce mai, Base Italia, lanciatosi a difesa delle giovani generazioni penalizzate da misure come quota 100. Sulla stessa linea ieri con ben due commenti, Claudio Tito e, a doppia firma, Tito Boeri e Roberto Perotti. L’impostazione è sempre la stessa: spendete sciaguratamente per i più anziani e danneggiate i giovani. Non ce n’è uno, però, che spieghi in che modo i giovani verrebbero invece aiutati. “Regole uguali per tutti” dicono Perotti e Boeri, che significa, molto prosaicamente, andare in pensione tutti a età proibitive. Oggi 67 anni, ma domani anche 70. È pieno di giornalisti che non disdegnano di lavorare fino a quell’età, e anche oltre, sapendo che riceveranno pensioni privilegiate (e sovvenzionate) e stipendi alti. Ma vogliono che anche tutti gli altri provino lo stesso brivido. Anche se guadagnano 1.300 al mese e lavorano per più di 40 anni. Loro scrivono per le vite degli altri.

Gualtieri tappa-buche ha trovato già i soldi

Altro colpaccio di Bob Aggiustatutto: appena arrivato, ha già trovato i soldi. Le malefiche, secolari buche capitoline saranno tappate una volta per tutte, mica la solita “romanella”, il tappetino sottile d’asfalto che dopo due piogge sta ridotta già come prima. Scrive l’Ansa: “Approvato alla Camera un subemendamento al dl Infrastrutture predisposto dal sindaco di Roma Roberto Gualtieri di concerto con il governo, che autorizza Roma Capitale a stipulare una convenzione con Anas per realizzare interventi per la messa in sicurezza e la manutenzione straordinaria delle strade”. Cinque milioni di euro, mica cotica. L’ex ministro Gualtieri si incrocia con il sindaco Bob: i rapporti col governo sono ottimi e i frutti di questo rapporto amichevole crescono solerti, maturi. “La stretta e proficua collaborazione tra le istituzioni sarà una delle chiavi fondamentali per il rilancio della Capitale”, dice Gualtieri. Viene il dubbio che prima non collaborassero. “I lavori dovranno essere completati entro tre mesi dalla stipula della convenzione”, si legge. Ché Bob ha fretta e da aggiustare c’è ancora parecchia roba.

Forza Liliana, il Quirinale non è roba loro

Nel sottoscrivere il nostro appello per Liliana Segre al Quirinale, molti lettori osservano che “purtroppo l’ordinamento della nostra Repubblica non consente l’elezione del presidente da parte del popolo” (Susanna Di Ronzo). È così, anche se oggi più che mai, in assenza di una riforma costituzionale in senso presidenziale agli atti pressoché impraticabile, l’opinione pubblica ha tutte le possibilità di esplicarsi come meglio ritiene. Per esempio, con lo strumento della petizione, impulso etico connaturato con il Fatto Quotidiano, giornale che fin dall’origine agisce in simbiosi con la comunità dei propri lettori. E seppure nell’attuale ordinamento la scelta del capo dello Stato è demandata a deputati, senatori e delegati regionali, non si vede perché nello scegliere la personalità ritenuta più adatta a rappresentare l’unità della Nazione i cosiddetti grandi elettori non debbano anche prestare orecchio alle valutazioni dei comuni cittadini. Insomma, il giudizio del corpo elettorale, da cui essi ricevono consenso e legittimità, non deve contare proprio nulla? Siamo sempre lì, alla malaugurata idea che la politica, di riffa o di raffa, sia sempre e comunque “roba loro”. A cominciare dalla vergogna del Parlamento dei nominati che ha come conseguenza logica e inevitabile la marea montante delle astensioni. Non certo sul nome prestigioso di Liliana Segre, ma eventualmente sulla sua indicazione per il Colle possono esserci valutazioni anche diverse (il problema dell’età, anche se l’autocandidato Berlusconi le è quasi coetaneo e lei appare molto più pimpante). Ma l’entusiasmo che pervade le lettere che pubblichiamo, i numeri straordinari a favore del nostro appello a poche ore dal lancio, il “ritorno alla politica” partecipata e appassionata, non dovrebbero suggerire qualcosina a lorsignori? Che, per dirne una, l’istituzione Quirinale non è solo roba loro ma dell’intero popolo italiano. Per questo, ora e sempre, forza Liliana!

Bollette, in Ue gli Stati non si accordano. Nuovi rincari

Erano spaccati all’apertura della ministeriale straordinaria sulla crisi dei prezzi dell’elettricità e del gas di ieri in Lussemburgo e sono rimasti spaccati alla fine, rimandando di fatto le decisioni al Consiglio Ue che si terrà a dicembre. In realtà sono più di 20 giorni che non si trova una quadra. In mezzo, i ministri dell’Ue che ora pare consulteranno gli studi sul funzionamento dei mercati per poi decidere. Cosa, però, non è chiaro. Il fronte che non ritiene necessaria alcuna riforma del mercato dell’energia europeo (formato da Lussemburgo Austria, Danimarca, Estonia, Finlandia, Germania, Irlanda, Lettonia e Olanda, Belgio e Svezia) non si è spostato dal lasciare tutto com’è. Dall’altra parte, la Spagna chiede che – oltre agli interventi palliativi proposti nelle ultime linee guida per soccorrere i cittadini, unici su cui c’è accordo generale – ci sia anche uno scollamento tra il prezzo dell’energia elettrica e quello del gas, in modo che non si continuino a influenzare al rialzo. Madrid si è presentata al tavolo chiedendo che in situazioni eccezionali, gli Stati possano essere autorizzati ad adattare la formazione del prezzo dell’elettricità alle loro situazioni specifiche e che possano fissare, sempre in situazioni eccezionali, un prezzo limite per il gas naturale. Una linea per ora respinta, su tutti dalla Germania che attende lo sblocco del North Stream 2 dalla Russia e, con lei, tutto il blocco del Nord (mentre la Francia punta ad ottenere l’inserimento del nucleare nel documento sulla “tassonomia” di dicembre). Si ragiona sugli stock comuni volontari: “Le autorità nazionali potrebbero comprare il gas stoccato che non si sostituirebbe all’acquisto da parte dei privati. Le riserve verrebbero così acquisite in maniera congiunta in tempi di prezzi bassi e ciò darebbe una certa sicurezza. Ma dobbiamo valutare svantaggi e vantaggi” ha spiegato la Commissaria Ue all’Energia, Kadri Simson. Di certo, al momento, si sa solo che “non c’è alcuna indicazione che i prezzi scendano dai record attuali”.

Record per il reddito: 3,8 mln di beneficiari

Acontraddire l’entusiasmo e i discorsi motivazionali sulla crescita, sul “quadro economico di gran lunga migliore delle aspettative”, come lo ha definito il presidente del Consiglio Mario Draghi, c’è il costante aumento di persone che stanno chiedendo e ottenendo il Reddito di cittadinanza.

Il 2021 segna un nuovo record per il sussidio: tra gennaio e settembre quasi 1,7 milioni di famiglie, circa 3,8 milioni di persone, hanno ricevuto almeno una mensilità (contando anche quelli che prendono la cosiddetta “pensione di cittadinanza”). Abbiamo già superato grossomodo di 100 mila individui il numero raggiunto nell’intero 2020, quando i beneficiari si erano “fermati” a 3,7 milioni.

Dunque il miglioramento in termini di Pil, cresciuto del 17,2% su base annuale nel secondo trimestre 2021, non sta per il momento frenando la corsa all’aiuto statale. Del resto anche gli ultimi dati sul mercato del lavoro non sono stati del tutto confortanti, gli occupati sono in calo da due mesi consecutivi: meno 23 mila a luglio e meno 80 mila ad agosto. Rispetto all’ultimo mese prima del Covid, febbraio 2020, mancano 392 mila occupati. Anche le ore lavorate raccontano di una ripresa a metà: nel secondo trimestre 2021 sono state 10,4 miliardi contro gli 11 miliardi di media del periodo pre-pandemico. E bisogna anche capire che succederà quando, tra qualche giorno, i licenziamenti saranno sbloccati anche per il settore dei servizi, le piccole imprese e il commercio.

Insomma, il peggio non è passato, il recupero non ha ancora restituito ossigeno a tutte le vittime dello tsunami sociale che lo scorso anno si è abbattuto sull’Italia. E qui torniamo alle richieste del Reddito di cittadinanza: i beneficiari restano stabilmente attorno ai 3 milioni, segno che la povertà continua a mordere. La cifra media erogata è pari a 546 euro, che diventano 661 euro se consideriamo solo le famiglie con minori.

Del resto, anche l’evidenza di quanto accaduto nella ripresina vissuta dal Paese tra il 2014 e il 2019 dopo il tracollo degli anni precedenti dimostra che la crescita del Pil non necessariamente porta effetti positivi sulle disuguaglianze: in quegli anni l’incidenza del disagio economico è comunque aumentata costantemente, per poi ridursi solo nel 2019, in concomitanza con l’arrivo dello stesso Reddito di cittadinanza. Nel 2020, complice la pandemia, l’indigenza ha colpito un milione di persone in più, arrivando a coinvolgere 5,6 milion di italiani e, probabilmente, questa è la causa principale dell’aumento di sussidiati nel 2021.

L’argomento preferito dei detrattori consiste invece nell’affermare che dietro questi numeri non vi siano reali situazioni di bisogno, ma semplici truffe e opportunismo. Non esiste però alcun dato che supporti questa tesi. La scorsa settimana è stato pubblicato il rapporto della Guardia di Finanza, dal quale emerge che ammonta a 127 milioni di euro la cifra incassata da chi non aveva titolo a ricevere il Rdc, da aggiungere ai 217 milioni richiesti ma non incassati da persone prive di requisiti. Spiccioli rispetto alla somma totale investita per lo strumento anti-povertà, e anche rispetto al totale dei soldi sottratti allo Stato dalle varie truffe. Non solo: finora non si nota alcun effetto sul lavoro nero. Diversi imprenditori – supportati da partiti come la Lega, Fratelli d’Italia e Italia Viva – sostengono che i percettori del Reddito siano disposti a farsi assumere solo irregolarmente, per non perdere l’assegno mensile. Una settimana fa, però, l’Istat ha pubblicato i dati sugli addetti in nero del 2019, anno di esordio del Rdc: questi sono diminuiti di 57 mila unità rispetto all’anno precedente. Nel corso del 2021, quasi 90 mila famiglie si sono viste revocare il diritto al Reddito.

Il premier distrugge il Cashback. Asse giallorosa sui bonus

Uniti, per portare avanti almeno alcune delle misure simbolo del Conte bis. Così si presentano Pd e M5S nella fase finale della trattativa sulla manovra, nella serata in cui Luigi Di Maio, parlando a Otto e mezzo lancia un segnale a Mario Draghi: “Oggi Quota 100 non è più sul tavolo, nessun partito lo sta chiedendo, così come nessuno chiede che si torni alla legge Fornero, non più sostenibile dopo tre anni”. Però è sempre Draghi a fare muro al cashback, misura cui pure Giuseppe Conte tiene moltissimo, e che il Movimento reclama. In giornata il dem Francesco Boccia prova a dare un sostegno se non altro formale. “Io sono sempre stato favorevole al cashback” dice al fattoquotidiano.it.

Ma a Palazzo Chigi non ne vogliono sapere. E hanno preso male, raccontano, le dure agenzie con cui lunedì il Movimento era tornato a invocare la misura. E allora la battaglia giallorosa si è spostata su qui bonus che, come dice un big del M5S, “a Draghi proprio non piacciono”. Ieri a esprimersi pubblicamente sul tema è stato Enrico Letta: “È fondamentale la continuità sui bonus, sapere che non è che si fa una norma e un attimo dopo viene cambiata, gli investimenti si fanno se sono di lungo periodo. La battaglia sui bonus, per dare continuità, è necessario farla, muovendosi in quella direzione”. Sulla stessa linea Mario Turco (M5S): “Il superbonus, così come altri bonus edilizi, hanno il merito di aver dato un’incredibile scossa all’economia italiana”. Il tentativo è quello di far sì che venga prorogato fino al 2023 il cosiddetto 110 per cento, anche per le villette e non solo per i condomini. Così Conte telefona al ministro dell’Economia Daniele Franco per parlare della manovra (“Lo cercherò” assicura ai 5Stelle riuniti via Zoom per parlare di Mps). Mentre a Palazzo Chigi a trattare sul bonus facciate e su alcune questioni legate alla Cultura va il dem Dario Franceschini, che incontra Franco e il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Roberto Garofoli.

Ma da Chigi filtra che la proroga del superbonus al 110% per le villette è fuori discussione. Mentre per le facciate si cerca una mediazione. Il Pd parte dalla richiesta di un decalage: invece di passare dal 90% a zero, la proposta è di passare al 70%, o comunque a una percentuale minore, e dunque non interromperlo del tutto. Un accordo di massima c’è – dicono sia a Palazzo Chigi che al ministero dell’Economia – ora si stanno definendo i dettagli.

Intanto, il fronte comune tra Pd e Cinque Stelle va avanti anche sul cuneo fiscale. Sulle pensioni l’ idea è quella espressa dal Enrico Letta: “Superare il sistema quote”. Al Pd proprio non piace. E dunque il segretario si riferisce a una riforma che porti a un sistema flessibile e dia una mano soprattutto a donne, giovani e lavori gravosi.

Anche in questa battaglia, il Movimento sostiene l’estensione dell’Ape sociale ai lavoratori gravosi e la proroga dell’opzione donna proposti dal ministro del Lavoro, Andrea Orlando. Altri due obiettivi che dovrebbero essere centrati.

E ancora, i giallorosa procedono congiunti sulla difesa della riforma degli ammortizzatori universalistica di Orlando, e per difendere i reddito di cittadinanza.

Pensioni, niente intesa con Draghi. Sindacati verso la mobilitazione

Le premesse erano quelle giuste per arrivare a un sostanziale nulla di fatto, e infatti è andata proprio così: nessun accordo tra il governo e i sindacati sul tema delle pensioni. O meglio, nessuna intesa sull’intero impianto della manovra, che sarà approvata domani dal Consiglio dei ministri ma che è già stata nettamente bocciata dalle sigle sindacali.

Ieri pomeriggio i segretari di Cgil, Cisl e Uil sono stati ricevuti a Palazzo Chigi dal presidente del Consiglio Mario Draghi con i ministri di Economia (Daniele Franco) Lavoro (Andrea Orlando) e Pubblica amministrazione (Renato Brunetta). Come ha riferito chi era presente, l’aria è stata molto tesa, praticamente da braccio di ferro. Il motivo principale è che sulla previdenza il premier ha offerto non più di 600 milioni di euro, da destinare alla proroga dell’Ape sociale – l’anticipo pensionistico riservato solo ad alcune categorie – e di Opzione donna. Maurizio Landini, Luigi Sbarra e Pierpaolo Bombardieri hanno rispedito al mittente la proposta annunciando la possibilità di una mobilitazione nei prossimi giorni. Ma il giudizio negativo è anche sulla riforma degli ammortizzatori sociali, quella che dovrebbe far nascere la cassa integrazione universale ma per la quale ci sono appena tre miliardi, cifra ritenuta del tutto insufficiente. Infine, i tre segretari hanno manifestato contrarietà sulla volontà del governo di non decidere quali categorie beneficeranno del taglio delle tasse. L’impostazione del governo, viste le distanze all’interno della maggioranza, è quella di non decidere subito e limitarsi alla creazione di un fondo da 8 miliardi, e poi sarà il Parlamento a stabilire dove collocarli.

Il nodo principale, comunque, resta il superamento di Quota 100, norma che andrà a scadenza il 31 dicembre 2021. Finora si è ipotizzato di introdurre una Quota 102 nel 2022 – da capire se azionabile a 63 o 64 anni – per poi passare a 103 o 104 nel 2023. Su questo è in corso un ampio dibattito in maggioranza, ma curiosamente all’incontro con i sindacati non se ne è parlato: “Non c’è una scelta sulle riforme delle pensioni – ha detto all’uscita il leader Uil Pierpaolo Bombardieri – né 102 né 104, c’è soltanto una scelta di 600 milioni che sarà utilizzata per prorogare Ape social e Opzione donna; non ci sono risposte a chi ha versato per 41 anni, non ci sono risposte su quella che è una necessaria riforma complessiva che noi abbiamo chiesto sulle pensioni”. L’Ape social è riservata ai lavoratori gravosi (lista che si valuta di allungare) e ad alcune categorie fragili come gli invalidi, i disoccupati e i caregiver. L’opzione donna permette di andare prima in pensione a patto che la lavoratrice accetti un ricalcolo contributivo dell’assegno, quindi molto penalizzante e per questo ha avuto poco successo in questi anni. Sulle nuove quote, invece, non c’è stato alcun cenno.

Troppo poco per i sindacati, che da tempo chiedono una vera riforma del sistema previdenziale con meccanismi di flessibilità a partire da 62 anni di età o comunque la possibilità per tutti di andare in pensione dopo 41 anni di anzianità contributiva. Quest’ultima opzione, peraltro, è la stessa richiesta dalla Lega di Matteo Salvini che fa sapere di stare lavorando proprio a un’intesa su questo. Le risorse a disposizione, però, sono insufficienti per arrivare a interventi così importanti, quindi lo scenario che si delinea è un sostanziale ritorno alla legge Fornero – comunque mai abolita – con poche eccezioni. Quota 41, secondo il presidente dell’Inps Pasquale Tridico, costerebbe 4,3 miliardi già il primo anno; secondo i sindacati la platea effettiva che eserciterebbe il diritto si fermerebbe a meno della metà di quella potenziale, perciò la dote necessaria sarebbe di circa due miliardi.

“Sulle pensioni sono mesi che hanno in mano la nostra proposta”, ha ricordato ieri Maurizio Landini, che ha anche attaccato anche sull’ipotesi di dedicare parte del fondo tasse per tagliare l’Irap: “Vorrebbe dire tagliare le tasse alle imprese – ha detto – il taglio deve invece andare nella direzione di alzare i salari dei lavoratori e le pensioni”. Landini ha anche chiesto interventi contro il precariato: “Non è accettabile che il lavoro creato in questi mesi sia precario”, ha scandito.

Il perimetro della manovra sarà quindi quello indicato ieri ai tre segretari. Tempo per trovare un accordo ormai non c’è più visto che la riunione del governo è in programma domani. Soprattutto, come detto, non lo consentono le risorse.

Nubifragio su Catania: un morto Strade come fiumi, negozi chiusi

Un nubifragiosi è abbattuto tra lunedì e martedì su Catania e provincia. Un uomo di 53 anni è morto a Gravina di Catania, travolto da acqua e fango dopo essere uscito dalla sua auto, forse dopo un incidente stradale. La pioggia senza precedenti ha trasformato le strade, in particolare la centralissima via Etnea, in un fiume in piena e piazza Duomo in un lago. Allagato il mercato della pescheria e invasa la fontana da dove emerge il fiume sotterraneo Amenano. Un’ordinanza del Comune ha decretato la chiusura di tutti i negozi. Chiuse anche le scuole.

Rai, il piano di Fuortes? È come quello di Salini

Arrivaoggi in Cda Rai il piano industriale di Carlo Fuortes. Ed è quasi uguale a quello del predecessore Fabrizio Salini (che però poi si era inspiegabilmente arenato). Nove sono le direzioni di genere che Fuortes presenterà: intrattenimento prime time, day time, cultura, fiction, cinema-serie tv, kids, documentari, nuovi format, approfondimenti news. Rispetto alle 10 di Salini, manca il coordinamento tra i generi. “Riprenderò il piano di Salini”, aveva detto l’ad. Con le nuove direzioni orizzontali perderanno potere quelle di rete, che saranno semplici organizzatori di palinsesti. Non verrà toccata l’informazione: con sollievo dei giornalisti per ora niente newsroom né accorpamenti di testate.

Latina, 33 arresti: pure uomo di Durigon in Ugl

Trentatré persone sono state arrestate a Latina – 27 in carcere e 6 a i domiciliari – nell’ambito di un’inchiesta della Dda di Roma sul clan Di Silvio. In cella anche Simone Di Marcantonio: per l’imprenditore, definito nell’ordinanza “prestanome di Sergio Gangemi”, quest’ultimo condannato lo scorso giugno in appello a 7 anni per estorsione aggravata dal metodo mafioso, è accusato di estorsione con la medesima aggravante perché, secondo i pm, condotta con l’aiuto di un membro del clan Ciarelli. Nel 2018 Di Marcantonio era diventato dirigente sindacale dell’Ugl Lazio per i lavoratori autonomi e le partita Iva ai tempi in cui il sindacato era guidato dall’ex sottosegretario Claudio Durigon.