Uccide ladro in casa: tabaccaio indagato

Eccessodi legittima difesa. È l’ipotesi di reato per la quale Sandro Fiorelli, tabaccaio di 58 anni che lunedì sera ha ucciso con un colpo di fucile un ladro sorpreso in casa a Santopadre, nel Frusinate, è indagato a Cassino. Da quanto ricostruito finora dai carabinieri, l’uomo avrebbe esploso due colpi con un fucile da caccia regolarmente detenuto dopo che Mirel Joaca Bine, 34enne di origine romene, gli ha puntato una pistola, poi risultata una replica. Un colpo ha centrato il giovane, incensurato, uccidendolo mentre l’altro sarebbe stato sparato in aria. Tre complici, invece, sarebbero riusciti a fuggire. “Ci sono gli elementi per il riconoscimento della legittima difesa”, ha commentato l’avvocato Sandro De Gasperi, difensore di Fiorelli.

Salerno, il ras delle coop: “De Luca era il mio referente, da lui indicazioni su chi far votare”

Nel Sistema Salerno costruito sul patto della spartizione degli appalti alle cooperative che garantivano il sostegno elettorale ai politici locali di fede deluchiana, il ras delle coop, Fiorenzo Zoccola detto Vittorio, dice ai pm di avere “come miei riferimenti esclusivamente Vincenzo e Roberto De Luca, con Piero De Luca non ho rapporti perché non c’è affinità”.

È uno dei passaggi chiave dei due interrogatori investigativi resi da Zoccola, durati sette ore, depositati agli atti del Riesame che sta vagliando le posizioni di altri coindagati. Per il momento non sappiamo perché Zoccola, in carcere dall’11 ottobre con l’accusa di essere il capo di un’associazione a delinquere finalizzata alla turbativa d’asta, avesse come suoi riferimenti ‘solo’ il governatore Pd della Campania e il figlio ex assessore comunale al Bilancio, e non anche l’altro figlio deputato dem dal 2018. Un omissis apposto dal procuratore capo di Salerno Giuseppe Borrelli nasconde i dettagli. Segnale che Procura e Squadra Mobile guidata da Marcello Castello indagheranno anche su questo.

Zoccola parla in nome di due coop, “Terza Dimensione” e “3 SSS”: “Fanno capo a me”. Ribadisce di conoscere De Luca “dal 1989, da quando era segretario del Pci”. E’ l’anno della trasformazione del partito comunista in Pds. Quattro anni prima che De Luca diventasse sindaco di Salerno per la prima volta. Senza mai più mollare la presa sulla sua città. Come il leader delle coop conferma in un dettaglio: nel 2002 il sindaco De Biase, ex capostaff di De Luca, voleva acquisire le quote del cartello di Zoccola nelle municipalizzate. Ne ebbe un rifiuto. Poi Zoccola fu convocato da De Luca (all’epoca deputato). Lui “mi promise che avrei mantenuto il mio ruolo”. Così cambiò idea, e cedette le quote.

I rapporti tra Zoccola e De Luca sono proseguiti almeno fino al 2020, afferma di averlo incontrato al Genio Civile 15 giorni prima delle regionali. In altro verbale, Zoccola sostiene che fu il governatore a dirgli come far votare le coop. “L’indicazione 70-30 (del sostegno da ripartire tra i candidati deluchiani in Regione Nino Savastano, arrestato, e Franco Picarone, ndr) la ricevetti a giugno direttamente da Vincenzo De Luca che incontrai casualmente”. Zoccola, infine, dice di aver rotto con De Luca: “Dopo le elezioni dissi a Savastano di riferire a De Luca che non avrei più fatto campagna elettorale, perché avevano ridimensionato il ruolo di mio fratello in una partecipata”.

Uranio impoverito “Vietato presidio alla Camera”

“Il governo ha permesso ai fascisti di assaltare la Cgil e ora vieta di manifestare a cittadini democratici”. La contraddizione viene messa in evidenza da Rifondazione comunista, che oggi avrebbe dovuto partecipare a un presidio davanti alla Camera dei deputati accanto ad alcuni ex militari che hanno contratto malattie in seguito all’utilizzo di proiettili all’uranio impoverito e che denuncia che l’evento è stato vietato. Gli organizzatori del corteo (tra cui figurano l’Associazione vittime dell’uranio impoverito, Anvui, e la Fondazione Dario Fo e Franca Rame) hanno dunque fissato un appuntamento su internet, invitando le persone a inondare Twitter e gli altri social con l’hashtag #GiustiziaVittimeUranio, ma resta l’amarezza per la decisione presa dal governo. In Italia sono più di 8mila i soldati che sono morti o si sono ammalati a causa dei proiettili all’uranio impoverito, utilizzati nelle guerre della Nato. “Siamo stati sempre al fianco di questi militari vittime della guerra come le popolazioni civili”, commenta Maurizio Acerbo, segretario nazionale di Rifondazione comunista, che sottolinea come queste armi abbiano seminato morte in moltissime operazioni della Nato, specie nell’ex Jugoslavia. “Da pacifisti e antimperialisti siamo vicini alle vittime di questo crimine di cui si sono resi responsabili i governi italiani – ha aggiunto Acerbo –, che non tutelarono la salute di militari mandati sul terreno senza protezioni e senza informazioni sui rischi che correvano”.

Il missile che doveva “uccidere” Salvini? Il Gip di Milano: “Era un soprammobile”

Aluglio 2019 era un missile aria-aria Matra, in uso alle forze armate del Qatar, pronto a “uccidere” Matteo Salvini. Oggi si scopre che era un oggetto inoffensivo, un “forse bizzarro complemento d’arredo”. Se gli sceneggiatori di 007, dopo l’ultima fatica arrivata nelle sale, fossero a corto di idee, per il prossimo film potrebbero attingere da questa storia. Stando però ben attenti che la vicenda del missile per Salvini inizia grande spy story internazionale, ma finisce saga sgangherata, tipo Una pallottola spuntata.

L’ultima parola, per ora, l’ha scritta il giudice dell’indagine preliminare di Milano Roberto Crepardi, chiudendo con una bella archiviazione una lunga inchiesta rimbalzata, tra il luglio 2019 e l’autunno 2021, da Torino a Pavia, da Pavia a Milano. Al termine di una accurata perizia realizzata da esperti di armi da guerra, “non vi è dubbio” che il missile che doveva far fuori Salvini “pur originariamente classificabile come arma da guerra, sia stato sottoposto a procedure di disattivazione in altro Paese, all’esito delle quali lo stesso ha perso tutto l’enorme potenziale bellico ed è divenuto del tutto inidoneo a recare offesa alla persona”. Prosciolti dunque i cinque indagati, perché “il fatto non sussiste”. Tra loro, anche Fabio Del Bergiolo, ex ispettore delle Dogane ed ex candidato al Senato per Forza Nuova, che aveva tentato di vendere il missile per 470 mila euro. Nel luglio 2019, Salvini era ministro dell’Interno ed era assediato dalle accuse sui finanziamenti alla Lega del Russiagate (mai arrivati).

Il nazista Del Bergiolo fu arrestato dopo una segnalazione arrivata al ministro dell’Interno da un ex agente del Kgb, che lo mise in allarme a proposito di un attentato che un gruppo di nazionalisti ucraini stava organizzando contro di lui. Salvini allora aveva dichiarato: “L’ho segnalato io. Era una delle tante minacce di morte che mi arrivano ogni giorno. I servizi segreti parlavano di un gruppo ucraino che voleva attentare alla mia vita. Sono contento sia servito a scoprire l’arsenale di qualche demente. Penso di non aver mai fatto niente di male agli ucraini, ma abbiamo inoltrato la segnalazione e non era un mitomane. Non conosco filo-nazisti. E sono contento quando beccano filo-nazisti, filo-comunisti o filo chiunque”. Ma oggi siamo tutti più sereni: Salvini non è più ministro dell’Interno e il suo missile era una pallottola spuntata.

Potenza, inchiesta chiusa: pure Laghi rischia il processo

Un “soggetto attivo della corruzione in atti giudiziari”. È il ruolo attribuito dalla Procura di Potenza a Enrico Laghi, il supermanager italiano nominato dal governo Renzi come ex commissario Ilva e coinvolto nell’inchiesta che ha portato all’arresto dell’ex avvocato di Eni e Ilva Piero Amara e all’obbligo di dimora per Carlo Maria Capristo, ex procuratore di Trani e Taranto. Sono 12 gli indagati dalla procura lucana, guidata da Francesco Curcio, coinvolti in episodi di scambio di favori tra Trani e Taranto, in particolare intorno alle inchieste sull’acciaieria: il nome di Laghi, non compreso nell’elenco principale, figura tra quelli a cui i magistrati contestano il reato di corruzione in atti giudiziari: l’ex commissario è stato indagato in un secondo momento rispetto agli altri e quindi per lui non sono ancora scaduti i termini di indagine.

Per l’accusa Laghi e Capristo avrebbero operato, con il tramite di personaggi come Amara, per tenere al riparo l’ex Ilva dalle azioni che avrebbero potuto danneggiare la sua vendita ai privati, obiettivo principale del governo Renzi.

Bimbe di 11 e 3 anni morte in comunità: ricercata la madre

Due bambine sono state trovate morte in una casa di accoglienza a Verona, che le ospitava insieme alla madre, al momento scomparsa. La donna, una quarantenne di origini cingalesi, è attualmente ricercata e gli investigatori pensano che potrebbe essere stata lei ad aver ucciso le figlie. I corpi delle due bambine, di 3 e 11 anni, sono stati trovati da un’operatrice sociale dalla struttura, la comunità “Mamma Bambino” nel quartiere di Porto San Pancrazio. Le ricerche si sono estese al fiume Adige, per il sospetto che la donna possa aver tentato il suicidio dopo l’accaduto. Il fiume non è infatti distante dalla struttura, anche se le ricerche non hanno ancora dato alcun esito. Le tre si trovavano nella comunità dal gennaio 2021, in seguito a un provvedimento deciso dal Tribunale dei minori di Venezia per i comportamenti violenti del padre, che avrebbe avuto problemi di tossicodipendenza. Il pm che si occupa delle indagini, Maria Federica Ormanni, ha disposto l’autopsia sulle due vittime, per accertare la causa della morte.

Alta tensione per il weekend: 10 mila agenti blindano Roma

Il weekend del G20 si avvicina e sarà un banco di prova soprattutto per la ministra dell’Interno, Luciana Lamorgese, al centro di pesanti attacchi politici per la gestione della sicurezza durante gli scontri No Green pass del 9 ottobre a Roma e le proteste al porto di Trieste.

La titolare del Viminale replica assicurando di avere una “pazienza di Giobbe, tolleranza e qualità che ci consentono di affrontare i problemi con serenità, non pensando a quello che dicono le parti politiche”. Ma su Trieste si smarca: “Siamo stati criticati, ma non c’erano più lavoratori, erano frange estremiste arrivate da tutte le parti d’Italia e anche da fuori. I poliziotti non hanno usato manganelli. C’erano tir fermi che non riuscivano a entrare, dovevamo fare uno sgombero leggero per far ripartire il porto”. Il periodo, ricorda, è stato “difficilissimo a tutti i livelli per le forze di polizia: solo quest’anno ci sono state 13.800 manifestazioni di cui oltre 5mila contro i provvedimenti del governo e circa 3.500-3.600 anti-Covid”.

Il ministero dell’Interno ora lavora di concerto con intelligence e questura di Roma per evitare qualunque intoppo nella gestione del vertice che sabato e domenica porterà a Roma 20 capi di Stato e di governo. Diecimila gli agenti delle forze dell’ordine messi in campo: circa 5mila al lavoro nella prima giornata del G20 e altrettante domenica, per la giornata conclusiva. All’Eur, intorno alla Nuvola di Fuksas, che ospiterà il vertice dei capi di Stato e di governo, e il Palazzo dei Congressi, dove sarà allestito il Media Center, sarà creata un’area off limits attiva già da giovedì e operativa fino a domenica. Il resto dell’area sarà interdetta al traffico. Saranno incrementate le misure di sorveglianza e dello spazio aereo, con l’utilizzo del sistema anti-drone. Tutta la zona sarà presidiata da tiratori scelti, unità cinofile e artificieri. Vietate le manifestazioni a ridosso dell’area del summit, ma non nel resto della città.

Qui Covax Italia: mancano ancora 37,2 mln di dosi

“Entro fine anno doneremo 45 milioni di dosi”. A poco meno di due mesi dalla scadenza del termine fissato da Mario Draghi, i vaccini che l’Italia ha effettivamente consegnato ai Paesi più poveri del mondo sono in tutto 7,8 milioni, quasi sei volte meno rispetto all’obiettivo annunciato dal premier alla Global Covid-19 Summit, la riunione straordinaria di un mese fa tenutasi a margine dell’Assemblea generale dell’Onu. I numeri raccolti dal Fatto tengono conto sia delle dosi regalate attraverso il programma Covax, sia di quelle frutto di accordi bilaterali firmati da Roma con altre nazioni. Resta da capire quanti siano i vaccini in scadenza che rischiano di essere buttati: su questo le autorità italiane non forniscono numeri, ma la cifra potrebbe essere rilevante visti i dati a livello globale.

Tra pochi giorni vanno in scadenza le prime dosi. Solo tra i Paesi del G7 (Canada, Francia, Germania, Giappone, Italia, Regno Unito e Usa) ci sono 46,5 milioni di vaccini che non potranno più essere utilizzate a novembre. A queste se ne aggiungeranno altre 60,6 milioni in scadenza a dicembre. Il totale fa oltre 107,1 milioni: sono le dosi che rischiano di andare perse, se non verranno subito distribuite alle nazioni che di iniezioni per proteggersi dal Covid ne hanno ricevute pochissime. Gli ultimi dati (20 ottobre) pubblicati da Airfinity dicono che finora in totale sono state donate 350 milioni di dosi. Più del doppio rispetto a un mese fa, quando le statistiche di Our World in Data fissavano a 143 milioni le donazioni complessive effettuate. È il segno che la macchina del programma Covax – creato nell’aprile del 2020 da Oms, Commissione europea e Melinda Gates Foundation per “dare a tutti un vaccino” – sta finalmente iniziando a funzionare. La spinta è arrivata soprattutto degli Usa, che hanno raggiunto quota 187 milioni di dosi donate su un totale di 280 milioni promesse entro il 2021. Nonostante i progressi, però, l’obiettivo fissato di arrivare a 1 miliardo di dosi donate è ancora lontanissimo, anche perché nel frattempo le nazioni ricche si stanno dando da fare per la terza dose ai propri cittadini. Il risultato – ha calcolato l’Università di Oxford – è che mentre in alcune nazioni (come l’Italia) più del’80% della popolazione ha ottenuto la doppia dose, in quelli a basso reddito i vaccinati sono in media il 2% del totale,

I prodotti che rischiano di scadere sono quasi tutti marchiati AstraZeneca e Johnson&Johnson. Battuti dalla tecnologia nRna di Pfizer-BioNTech e Moderna, i due vaccini sono rimasti praticamente inutilizzati dall’inizio dell’estate, dopo lo stop dell’Ema e del Cts per gli under 60. Milioni di dosi stipate nei freezer di mezzo mondo, anche di quelli della struttura commissariale guidata dal generale Francesco Paolo Figliuolo. Basti dire che l’Italia ad oggi ha somministrato 88,9 milioni di iniezioni, e di queste 71 milioni sono di Pfizer-BioNTech, 15 di Modena, mentre solo 11 sono prodotti di Astrazeneca e 1,8 milioni di J&J. Le dosi consegnate all’Italia dalle singoli aziende non sono note, ma i dati della Commissione europea dicono che ai 27 Paesi sono state vendute in tutto 300 milioni di dosi Astrazeneca e altre 200 milioni di J&J. Numeri che fanno pensare a un elevato tasso di vaccini rimasti nel freezer.

Oltre che attraverso Covax, i Paesi stanno regalando vaccini anche tramite accordi bilaterali. Un’opzione apprezzata da alcune cancellerie, perché così si può scegliere a quale nazione fare beneficenza. L’Italia finora ha donato in tutto 7,8 milioni di dosi. Di queste, 2,6 milioni sono vaccini AstraZeneca trasferiti mediante accordi bilaterali, principalmente a Tunisia e Vietnam. Il resto è andato al Covax: 5,2 milioni le dosi consegnate finora, secondo i dati aggiornati al 15 ottobre. Per rispettare la promessa di Draghi, in due mesi l’Italia dovrà riuscire a donare vaccini a una media di 620 mila dosi al giorno.

Troppi silenzi di big Pharma su durata e terza dose

“Le aziende produttrici dei vaccini conoscono da mesi i dati sulla diminuzione della copertura nel tempo, ma sembrerebbe che non li abbiano comunicati alle agenzie regolatorie e alle autorità politiche. Oppure queste ultime non li hanno divulgati. Sicuramente non sono stati condivisi con la comunità scientifica. Non so se ci fossero obblighi giuridici, certamente c’era un obbligo morale”, dice al Fatto il direttore della Microbiologia dell’Università di Padova, tornando su quanto ha affermato lunedì al convegno su scienza, politica e informazione organizzato dalla senatrice Elena Fattori, ex M5S passata a Sinistra italiana, con Enrico Mentana, il presidente della Fondazione Gimbe, Nino Cartabellotta, la professoressa Valeria Poli, biologa molecolare all’Università di Torino e diversi altri esperti, senatori e comuni cittadini. “I trial di Pfizer – ragiona Crisanti, come sempre molto diretto – sono iniziati a settembre, quindi ad aprile sapevano che la protezione iniziava a diminuire dopo sei mesi. Noi l’abbiamo saputo solo dagli studi condotti in Israele. Johnson & Jonhson inizia a perdere efficacia dopo due mesi, lo apprendiamo ora. Ma l’azienda deve averlo saputo due mesi dopo la conclusione del trial, cioè quando hanno iniziato a vaccinare la popolazione.”

Il che vuol dire, in sostanza, che il vaccino monodose non era monodose. Eppure, proprio l’essere monodose era il vantaggio competitivo di J&J sul mercato miliardario dei vaccini anti-Covid, quelli che ci stanno consentendo di fare una vita pressoché normale. La Fda, l’agenzia regolatoria statunitense, ha già autorizzato la seconda dose booster di J&J a due mesi dalla prima, come è stato fatto nel trial. Domani ne discuterà Ema, l’agenzia europea e a breve Aifa, quella italiana. C’è l’ipotesi di vaccinazione eterologa, cioè di fare il richiamo con uno dei vaccini a mRna alle persone che hanno fatto la prima dose J&J, vaccino a vettore virale come AstraZeneca su cui l’Unione europea ha deciso di non puntare.

Anche Pfizer ha saputo subito della diminuzione della protezione vaccinale dopo sei mesi. Le vaccinazioni in Europa sono iniziate a fine dicembre 2020 e già l’11 marzo 2021 il direttore finanziario di Pfizer Frank D’Amelio, alla Global Healthcare conference della britannica Barclays, rivolgendosi agli investitori spiegava: “Vogliamo stare al passo con le varianti. Valuteremo quindi una terza dose del nostro vaccino, un richiamo, per capire la durata dell’immunità e l’efficacia contro queste varianti”. Credevano già allo “sviluppo endemico” della pandemia e alla “rivaccinazione annuale”.

Ma davvero le aziende non erano obbligate a fornire i dati alle agenzie? Se si prende l’autorizzazione Ema per Corminaty, il vaccino di Pfizer e Biontech che è il più venduto nel mondo occidentale, il produttore aveva l’obbligo di comunicare con continuità i dati e poi i risultati completi, l’esito cioè del follow up successivo all’autorizzazione detta condizionale (cioè appunto condizionata all’assolvimento di determinati obblighi) da parte dell’agenzia europea, ma questo solo nel dicembre 2023, ovvero a un anno dalla conclusione del trial iniziato nel 2020 (fase 1) nei primi mesi della pandemia. Un obbligo specifico relativo alla durata della protezione non c’era, spiega un qualificato addetto ai lavori, perché in quel momento si guardava piuttosto all’efficacia e alla sicurezza dei vaccini.

Lo scorso luglio, come riportato in Italia dal manifesto, il trial di Pfizer è stato interrotto perché era necessario vaccinare anche i volontari che, nell’esperimento cosiddetto “a doppio cieco”, avevano ricevuto il placebo. L’azienda ha concordato con Ema di trasformarlo in uno studio sulla terza dose, che è stata poi autorizzata da Fda e dall’agenzia europea, sul presupposto della diminuzione a sei mesi della copertura, in particolare per gli anziani, comunicando anche i dati sulle reinfezioni.

“C’è un flusso continuo di dati tra le aziende produttrici ed Ema, ma la durata della protezione dipende soprattutto dalle varianti. I trial sono iniziati nell’estate 2020, prima della variante Alfa a cui è seguita la Delta”, osserva Enrica Altieri, già a capo della divisione di Valutazione di Ema. “Non credo ci sia stata mancanza di trasparenza da parte delle aziende su questi dati. La durata della protezione vaccinale viene poi studiata sul campo, da soggetti indipendenti, come sta avvenendo”, dice ancora Altieri.

La somministrazione delle terze dosi sono già iniziate in Italia per il personale sanitario che era stato vaccinato all’inizio della campagna, per gli over 80 e gli ospiti delle residenze sanitarie assistenziali, poi estese agli over 60, ma le autorità sanitarie confermano che toccherà a tutti. Altieri mette in guardia da un approccio esclusivamente quantitativo alle vaccinazioni: “Sulla terza dose – sottolinea l’ex dirigente dell’agenzia europea – Ema ha detto che si può fare, cioè che non fa male, ma non ha detto di farla a tutti. Non credo sia opportuno procedere a tappeto con le terze dosi sulle persone già vaccinate, occorrerebbe valutare caso per caso la risposta immunitaria, cioè il livello degli anticorpi, il che è difficile in assenza di un test standardizzato per la ricerca degli anticorpi neutralizzanti”.

“Io, Craxi e la mappa per vedere B.”

“Abbiamo condiviso un destino. Seguirlo ad Hammamet, scelta più impopolare di quella… Craxi dopo il ’92, in latitanza…”. Patrizia Caselli ieri ha raccontato a Oggi è un altro giorno su Rai1, gli anni passati accanto al leader del Psi.

“Eravamo in Messico insieme quando gli arrivò il mandato di cattura”: Caselli è stata showgirl, attrice e conduttrice tv. Ed è stata amante e compagna di Bettino Craxi dal 1990 agli ultimi giorni. “Il primo incontro è stato diversi anni prima. Vengo convocata – lui era presidente del Consiglio – perché sua moglie Anna aveva ricevuto una lettera anonima in cui si diceva che io e Bettino avevamo una relazione. In realtà quella lettera sembra l’avesse scritta Walter Chiari con cui avevo da poco rotto. ‘Ci penso io – mi disse Craxi, io gli davo del lei ovviamente – dico a Pillitteri (allora sindaco di Milano e fedelissimo craxiano, ndr) di parlare con Walter’. Fu però alla fine del 1990, durante una cena a Roma, il nostro incontro decisivo”. Caselli rievoca diversi aneddoti: dalla piantina che Craxi le disegnò per indicarle la strada per andare in via Rovani per incontrare Berlusconi e passare alla Fininvest, alle gelosie reciproche (“non voleva che facessi tv”), dal suo rifiuto di rinnovare il contratto con la Rai agli anni di Tangentopoli. Un sodalizio che la Caselli ricorda come “un patto di onestà”. Culminato con la decisione di seguire Craxi in Tunisia. “No, Hammamet, il film di Amelio non l’ho visto, solo qualche scena… Il concetto di amante ovviamente mi andava stretto, anche se mi sono sempre comportata nel pieno rispetto di altre figure”. Il riferimento è proprio ad Anna Craxi. “Ad Hammamet non ci siamo mai incontrate, c’è stata sempre grande attenzione da parte di tutte e due. L’obiettivo era unico: sostenere Bettino”. Caselli si lascia scappare anche un “questo lo ha capito più lei dei figli… ma loro li comprendo”. Com’era stare con Craxi? “È una scelta che mi ha ovviamente penalizzata, l’ho fatto solo per amore. Vivevo ad Hammamet in una casa affacciata sul mare, ma mi entravano ladri, mi facevano perquisizioni, prendevano la donna di servizio e le dicevano ‘devi prendere le carte che madame butta nel cestino e darle a noi’… mi intercettavano, non sono stati anni facili”. E alla domanda se non fosse gelosa della moglie Anna, o avesse mai chiesto a Craxi di ufficializzare la loro storia, risponde: “Bettino non era solo un politico ingombrante, era anche un uomo ingombrante, se a un certo momento tornava anche a casa di Anna, a me andava benissimo…”. “La morte di Craxi? Quel giorno ad Hammamet c’era solo Stefania con lui. Anna era a Parigi, io a Milano… Bettino un paio di ore prima mi aveva telefonato, io ero dal parrucchiere. Lo richiamai dopo, ma non rispondeva già più”.