“4 capi di abbigliamento in omaggio per Figliuolo”

Quattro capi di abbigliamento sartoriali, omaggio di una società di Biella, sono costati al generale Francesco Paolo Figliuolo l’iscrizione a Roma nel registro degli indagati. La vicenda è stata rivelata ieri dal Fatto. Il commissario straordinario è finito indagato nell’ambito dell’inchiesta che vede coinvolto Enzo Vecciarelli, capo di Stato maggiore della Difesa, che risulta accusato di corruzione per l’esercizio della funzione. Il fascicolo inizialmente affidato ad Antonio Clemente (ora in Procura generale) è sul tavolo del pm Carlo Villani. Secondo le accuse iniziali, Vecciarelli si sarebbe messo a disposizione di due imprenditori, Eugenio Guzzi e Rosa Lovero, favorendo le società a loro riferibili (“prima Technical Tex Srl poi Technical Trade Srl”), aziende “titolari di contratti di forniture di mascherine e macchinari per la produzione e il confezionamento di mascherine alle Forze armate, agevolando lo sdoganamento di 600mila mascherine, fornite dalla Technical Trade”. In cambio Vecciarelli avrebbe ricevuto per sé e i suoi familiari utilità consistite “nella donazione di generi alimentari e di 58 capi di abbigliamento”. E nel capo di imputazione si citano: “Abiti sartoriali, cappotti, vestito da sposa, giacche, camicie e divise”.

Sono accuse che il capo di Stato maggiore, nel corso di due interrogatori davanti ai pm, ha sempre respinto, sottolineando – hanno spiegato poi i suoi avvocati – “come non abbia mai ricevuto alcun provento o utilità illecita nello svolgimento delle proprie funzioni”. Per quanto riguarda il presunto sdoganamento di 600mila mascherine, l’avvocato Lorenzo Contrada, che difende gli imprenditori Guzzi e Lovero, invece spiega: “L’intervento alla dogana non favoriva la Technical Trade ma l’Agenzia Industrie Difesa che a sua volta doveva distribuire alle Forze Armate le mascherine nel peggior momento pandemico perché ne erano totalmente sprovvisti per i militari che andavano in strada. I prezzi dei Dpi, come dimostrato da una memoria consegnata in Procura, era tra i più bassi in quel momento”.

Quella delle forniture è una contestazione che non ha nulla a che vedere con la posizione di Figliuolo, la cui iscrizione nel registro degli indagati è un atto dovuto, a sua tutela. E nelle prossime settimane, la Procura di Roma potrebbe chiedere l’archiviazione. Nel frattempo gli accertamenti sono in corso. La questione riguarda alcuni capi di abbigliamento sartoriali spediti a Figliuolo, a capo del reparto logistica dell’esercito, prima della nomina a commissario.

Un omaggio, secondo quanto spiegano fonti vicine agli imprenditori indagati, spedito solo per “amicizia” e senza alcun nesso con le attività lavorative. Lo spiega al Fatto anche l’avvocato Contrada: “I capi di abbigliamento spediti ai vari generali rientrano tra quelle spese che sono state regolamentate e in tempi non sospetti iscritte a bilancio 2020 quali spese promozionali. Tra l’altro, da quello che mi dimostrano i miei clienti, ciò che li lega ai generali è un rapporto di sola amicizia. Oltre all’attività promozionale, ci sono stati scambi di regali reciproci che non hanno però assolutamente alcun nesso con l’attività lavorativa o con autorizzazioni alle forniture delle ditte riferibili ai due imprenditori”.

Eugenio Guzzi è l’amministratore unico della Technical Trade srl, società costituita nel 2019, che annovera come attività prevalente la “produzione per conto terzi di filati, tessuti, feltri tecnici, prodotti tessili in genere; servizi di consulenza e organizzazione nel settore del marketing”. Guzzi detiene il 93 per cento della Technical Trade mentre il restante 7 per cento delle quote è di Rosa Lovero, entrambi indagati a Roma.

Nel capitolo del bilancio 2020 della società che riguarda i “costi della produzione”, a un certo punto si legge: “Si fa presente che tra le prestazioni di servizio figurano spese per ‘prototipi e omaggi’ per Euro 145.724 che si riferiscono all’acquisto di tessuti e alle lavorazioni per realizzare articoli sartoriali che sono stati consegnati come campioni da testare o come omaggi per promuovere l’immagine dell’azienda”. Il legale spiega che quegli oltre 145 mila euro citati in bilancio si riferiscono al totale dei costi sostenuti per l’intera fase di progettazione industriale in cui si realizza il prototipo di un prodotto: l’addetto, il reparto, la tecnica utilizzata. Di quella cifra, chiarisce ancora l’avvocato, l’importo complessivo per gli omaggi (e non solo dunque per i capi di abbigliamento destinati a Figliuolo) sarebbe di 6/7mila euro: la voce di bilancio insomma si riferisce a tutta l’attività promozionale dell’intero anno.

Sono aspetti questi che verranno verificati dai magistrati della Procura di Roma, ai quali l’avvocato Contrada ha consegnato nelle scorse settimane una copiosa memoria chiedendo anche un interrogatorio degli imprenditori Guzzi e Lovero che ancora non vi è stato. Gli accertamenti dei magistrati, dunque, non sono conclusi. Intanto il Fatto ha chiesto chiarimenti al generale Figliuolo rispetto al legame con gli imprenditori indagati e agli abiti donati, ma il commissario non ha risposto.

Renzi affossa il ddl Zan e torna in Arabia

L’accordo non c’è. Neanche stavolta. Sul ddl Zan non basta una giornata di vertici e appelli pubblici: i partiti di maggioranza non trovano l’intesa né per un rinvio né per alcune modifiche alla proposta di legge contro l’omotransfobia, che oggi potrebbe finire impallinato dal voto segreto del Senato. Il tutto mentre Matteo Renzi, il cui partito è decisivo per i destini del provvedimento, per una beffarda coincidenza sarà impegnato ad omaggiare il principe saudita Bin Salman partecipando a un evento del FII Institute, la fondazione nel cui board of trustees siede proprio l’ex premier.

Oggi pomeriggio, Renzi dovrà infatti presenziare a un panel dal titolo “La cultura salva il mondo”, un monologo di circa un quarto d’ora inserito nel folto programma della kermesse di Ryad, sede di quello che il senatore ha più volte definitivo “un nuovo Rinascimento”. Nel frattempo, Italia Viva ha provato fino all’ultimo a far passare la linea delle destre sulla legge Zan, ergendosi a paladina dei diritti civili. Secondo i renziani, al termine di una lunghissima giornata di trattative Pd, M5S e Leu avrebbero dovuto accettare il rinvio di una settimana della discussione del ddl, in modo da trovare poi un’intesa con Lega e Forza Italia sulle modifiche al testo.

Ipotesi rigettata dai giallorosa, disponibili a mediare purché la destra avesse rinunciato alla cosiddetta “tagliola”, ovvero una procedura che questa mattina consentirà a Palazzo Madama di votare a scrutinio segreto il rinvio in Commissione del ddl. Tradotto: “la sua morte politica”, per stessa ammissione del dem Alessandro Zan, ben consapevole che in caso di affossamento in aula – dove i numeri sono parecchio stretti – non ci sarà modo di ricominciare da zero l’iter.

Intuita l’aria, per tutto il giorno il Movimento 5 Stelle e Leu – attraverso i capigruppo in Senato Ettore Licheri e Loredana Depetris – avevano boicottato il tavolo proposto dal leghista Andrea Ostellari. Enrico Letta, parlando alla direzione del partito, aveva definito “uno schiaffo alla società italiana” l’ipotesi dell’impallinamento a opera delle destre, cedendo però su quelle modifiche alla legge che prima sembravano intoccabili: “Cercare un’intesa significa essere responsabili, la concretezza è fondamentale per evitare la pietra tombale”.

Inutili i vertici del pomeriggio, con Italia Viva che alle 20 si allinea alla proposta di rinvio del provvedimento: “Sul ddl Zan questo è il momento del buon senso – dice Teresa Bellanova – altrimenti si rischia di affossare una legge necessaria. Al Pd diciamo: rinviamo e lavoriamo per un accordo tra tutte le forze politiche di maggioranza, è possibile”.

Problema: davvero si può trovare un testo che vada bene alla Lega tanto quanto a Leu? Difficile. Tanto che i giallorosa preferiscono smascherare il bluff: “Domani si vedrà chi voleva affossare il provvedimento”, sbotta la capogruppo dem Simona Malpezzi uscendo infuriata dal vertice coi colleghi. Per scoprirlo, forse butterà un occhio a Ryad.

Forza Italia Viva, battesimo siciliano: padrino è Dell’Utri

All’ora di pranzo, a palazzo dei Normanni, sede dell’Assemblea Regionale Siciliana, c’erano Gianfranco Miccichè, proconsole di Silvio Berlusconi in Sicilia, e il capogruppo di Italia Viva Nicola D’Agostino. Ma sulla conferenza stampa per battezzare il nuovo gruppo “Forza Italia Viva” in Regione aleggiava un padrino politico: Marcello Dell’Utri. È lui, l’ex fondatore di Publitalia e di Forza Italia, che ha scontato una condanna a 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa, ad aver apparecchiato l’accordo tra i renziani e i berlusconiani nell’isola siglato in una cena tra Matteo Renzi e Miccichè a Firenze. Per il presidente del parlamento regionale azzurro sono “fantasie giornalistiche” ma la mano di Dell’Utri è pesante e prevede l’accordo in vista delle Comunali di Palermo e delle Regionali del 2022: a settembre l’ex braccio destro di Berlusconi, tornato a frequentare Arcore dopo l’assoluzione in appello sulla trattativa Stato-mafia, ha passato due settimane ad Agrigento per incontri politici in vista dei due appuntamenti.

Un disegno che includerebbe anche Totò Cuffaro che, dopo aver scontato 7 anni per favoreggiamento a Cosa Nostra, ha riesumato la Dc alle comunali in Sicilia. “Cuffaro ha ottenuto buoni risultati – lo ha elogiato ieri Miccichè in conferenza stampa – sono stato il primo a fargli i complimenti”. Il capogruppo in Senato di Italia Viva Davide Faraone, insieme ai centristi di +Europa e Azione vuole includere anche Totò Vasa Vasa nel progetto centrista. Intanto il “laboratorio Sicilia” è partito ieri in Regione con la nascita del gruppo consiliare “Forza Italia-Sicilia Futura-Italia Viva”: sarà formato da 16 deputati, 13 di Forza Italia 3 di Italia Viva. Alla presentazione, oltre a Miccichè, erano presenti anche i due capigruppo Tommaso Calderone (Forza Italia), Nicola D’Agostino (Italia Viva) e il renziano Edy Tamajo che da settimane aveva annunciato a Renzi il suo avvicinamento al partito di Berlusconi. Ieri è arrivato l’annuncio di Miccichè: “Tamajo sarà candidato alle regionali nelle liste di Forza Italia”. Durante la presentazione, Miccichè ha parlato di “accordo politico solo siciliano perché un patto nazionale con Italia Viva si può fare solo a Roma”. Ma poi ha fatto capire che la Sicilia, nei suoi pensieri, debba diventare il laboratorio per il “grande Centro” per Draghi con una legge elettorale proporzionale: “La vicinanza a Renzi è nota – ha continuato Miccichè – io resto nel centrodestra ma serve un check alla coalizione perché alle ultime elezioni hanno vinto solo i moderati”. L’obiettivo, che sia quello di allargare il perimetro del centrodestra o costruire un polo centrista autonomo, è uno solo: allearsi con i renziani. E l’accordo di ieri in Regione è solo il primo passo. L’obiettivo è quello di trovare un nome per le comunali di Palermo e poi per le Regionali. E ieri nel centrodestra qualcosa si è mosso: il presidente della Regione Nello Musumeci ha annunciato che si ricandiderà. Sul suo nome si giocherà una partita interna al centrodestra: Matteo Salvini vorrebbe far correre un leghista lanciando l’opa sulla Sicilia ma dovrà scontrarsi con Giorgia Meloni che potrebbe appoggiare la ricandidatura del governatore.

Nel frattempo che l’alleanza Forza Italia-Italia Viva sia un dato di fatto lo dimostra anche la “Leopoldina siciliana” che Faraone ha organizzato per questo fine settimana. Una scuola politica per under 30 – “Futura” – che oltre alle rappresentanti di Iv al governo, Elena Bonetti e Teresa Bellanova, ospiterà anche Emma Bonino, il sindacalista Marco Bentivogli, Luciana Lamorgese ma soprattutto Mara Carfagna e Giancarlo Giorgetti, i due volti moderati del centrodestra al governo che da tempo dialogano con i renziani guardando al centro. Venerdì Carfagna, che guida l’ala liberal di FI e ieri ha disertato insieme a Brunetta la riunione con Berlusconi sulla manovra, terrà un panel su “Sud: coesione e innovazione” mentre il ministro leghista sabato si occuperà di come far ripartire l’economia al Sud. Domenica interverrà il giurista Giovanni Fiandaca, storico oppositore dell’accusa sul processo sulla trattativa Stato-mafia difendendo più volte la posizione di Dell’Utri.

“Sì, lo voto”: è già pronta la promessa di fede a B.

Sandra Lonardo in Mastella a metà pomeriggio attraversa il salone Garibaldi del Senato. Scialle rosa, passo svelto. Ma quando si pronuncia il nome di Silvio Berlusconi accostato alla parola Quirinale si ferma. Le si illuminano gli occhi: “Lo vedrei molto positivamente – sorride – lo voterei subito. È stato ingiustamente tartassato, la sua elezione porterebbe quella pacificazione tra politica e giustizia che attendiamo da tempo”.

Il suo è uno dei 50 nomi che Berlusconi conserva avidamente sulla sua scrivania di Arcore. Sono curati al minimo dettaglio: identità, gruppo, collegio di elezione, commissione parlamentare. Sono le “prede”. E lui è il cacciatore. Si è fatto dare i numeri di telefono di ognuno. Li chiamerà, o li farà chiamare, uno a uno. Li elogerà, si complimenterà per “il lavoro svolto” e poi chiederà un sostegno se alla quarta votazione si dovesse capire che il suo è il nome giusto per salire al Quirinale. Non ha bisogno di tutti i 50: gliene bastano 40 per essere eletto. E allora bisogna tornare in Senato, sul luogo del delitto di gennaio quando Giuseppe Conte cercava i responsabili per salvare il suo governo dalle angherie di Renzi. Quella caccia è andata male, questa è tutta un’altra partita. Perché nella palude che unisce il Gruppo Misto, le autonomie e i centristi (compresi i renziani) senza una casa, ci sono i senatori più avvicinabili perché guidati da un unico pensiero: mantenere il seggio e tenere Mario Draghi a Palazzo Chigi fino al 2023 (e oltre). E Berlusconi, da questo punto di vista, sarebbe una garanzia. Così in pochissimi in Parlamento dicono di “no” a una sua candidatura. Qualcuno addirittura fa un endorsement. Per esempio Andrea Causin, ex senatore di FI: “Non avrei nessun problema a votare Berlusconi, è una figura di garanzia, di alto profilo”. Ma l’età anziana e la salute? “Che problema c’è, anche Pertini fu eletto a 87 anni”. Anche Paolo Romani, storico berlusconiano e oggi in “Coraggio Italia” di Toti e Brugnaro ci spera: “Lo voterei subito, non posso scordare il mio passato. E in più Draghi resterebbe a Palazzo Chigi”. Vittorio Sgarbi invece lo sosterrebbe ma è convinto che “alla fine Salvini punterà su Draghi” mentre nemmeno Emma Bonino esclude di votare Berlusconi al Colle: “Vediamo – dice – i giochi si fanno a gennaio”. Di Azione c’è anche il deputato Enrico Corsa, ex berlusconiano e pasdaran ipergarantista. Resta vago ma fa intendere che Berlusconi gli piacerebbe: “Non mi esprimo ma è chiaro che ha riacquistato centraltà”. Poi ci sono i renziani. Sono 43: un pacchetto di voti che fa gola a Berlusconi. Ettore Rosato dice che l’ex premier non sarà “il candidato di Italia Viva” ma Luciano Nobili lascia uno spiraglio aperto: “Serve una figura di garanzia, vediamo”. Il senatore renziano Leonardo Grimani invece chiude la porta: “Berlusconi ha una macchia troppo grande: la condanna per frode”. Tra gli ex grillini invece si attende. Gregorio De Falco dice che Berlusconi “non lo voterà mai”, secondo Saverio De Bonis invece è “troppo presto per parlarne” mentre Emanuele Dessì è criptico: “Se votare Berlusconi al Colle significa mandare Draghi a casa lo farei subito, dipende dalle contropartite”. Ah, le contropartite.

“Segre Presidente”: cinquantamila firme in appena un giorno

In appena un giorno sono state raccolte più di 50mila sottoscrizioni in favore della candidatura di Liliana Segre a presidente della Repubblica. La petizione lanciata dal Fatto Quotidiano nasce da una proposta di Antonio Padellaro, che rispondeva a un lettore preoccupato dalla possibile elezione di Silvio Berlusconi al Quirinale. “Possiamo fare molto di più: possiamo candidare Liliana Segre e indire una petizione rivolta alla generalità delle forze politiche presenti in Parlamento perché la votino come candidato di bandiera” ha scritto Padellaro. L’iniziativa è firmata da Peter Gomez, Antonio Padellaro, Marco Travaglio e Furio Colombo, e quelli che seguono sono alcuni dei commenti giunti in redazione e sul nostro sito riguardo la candidatura della senatrice a vita.

La primadonna presidente della Repubblica, per di più senatrice a vita e con la sua storia personale? Potete contare sulla mia firma in quella petizione.

Marco T.

 

Beneper la Segre, ma perché non pensare a Rosy Bindi al Quirinale?

Romano Lenzi

 

L’ideadi Segre alla presidenza è ottima, è la persona perfetta. Però come sempre viene inquinata da una volontà di votare contro qualcuno, contro Berlusconi. No, in realtà la candidatura di Segre è buona a prescindere!

Buenavista

 

Anche iodesidero chiedere, se B. andasse al Quirinale, la cittadinanza europea perché mi vergognerei di appartenere a una nazione che ha come presidente un pregiudicato a capo della Magistratura.

Marco Olla

 

Non possiamofar finta di nulla e anche solo accettare la candidatura di un pregiudicato al Quirinale. Per questa ragione appoggio una petizione a favore di Liliana Segre come presidentessa della Repubblica.

Collecchia Zanello F.

 

Nulla da eccepiresulle qualità e la statura morale della persona, ma mi chiedo se sia auspicabile candidare la Segre (91 anni), che a fine di un eventuale mandato alla presidenza avrebbe 98 anni. Non sarebbe meglio Zagrebelsky?

Vanes Dall’Olio

 

Sono d’accordocon l’idea di Padellaro per la candidatura di Liliana Segre al Quirinale, come risposta alla assurdità eventuale (spero molto eventuale) di B. come nostro futuro presidente della Repubblica. Concordo anche con il suggerimento del lettore Giaffreda, che proporrebbe il nome di Rosy Bindi a capo dello Stato.

Vanes Dall’Olio

 

Plaudo all’iniziativa, anche se il mio candidato rimane il prof. Zagrebelsky: ha tutte le caratteristiche per essere il presidente di tutti, capace anche di fare non solo discorsi! Ovviamente firmerò comunque!

Raffaele Fabbrocino

 

Nessunoha mai pensato che, se B. venisse eletto al Quirinale, la bandiera italiana si abbasserebbe davanti a un pregiudicato e oggetto di diverse inchieste nei Tribunali italiani? È il caso di tenere presente la cosa, in modo tale che l’Italia che conta pensi anche a questo, e che farebbe sorridere non solo la Merkel e l’ex presidente francese Sarkozy, ma anche tutto il mondo.

Vincenzo Frisenda

 

Sarebbetroppo bello! Avere una personalità come Segre al Quirinale sarebbe l’antitesi dell’avere il delinquente certificato. Uno scatto di orgoglio, tanto grande quanto la vergogna se ci capitasse il Caimano. Non si avvererà questo miraggio, ma se mai dovesse, sarebbe una ventata di onore, freschezza, serietà, limpidezza.

Antonio

Colle, i giallorosa al buio L’unica carta resta Draghi

L’obiettivo sarà, o sarebbe, trovare un candidato comune per il Quirinale. “Un progressista” per dirla come un big del M5S, che cementi quell’alleanza giallorosa dal perimetro e dal futuro ancora incerti. Ma i numeri e l’inerzia politica a oggi portano altrove Pd e Cinque Stelle. Ovvero sempre al favorito di tutti, a Mario Draghi.

L’ipotesi verso cui Giuseppe Conte mostrava e mostra tuttora forti resistenze, politiche e in fondo anche umane. Ma anche un’opzione che a Enrico Letta potrebbe andare bene. E addirittura benissimo, se con la sua elezione si andasse quel voto anticipato che il segretario dem giura di non volere, ma che in realtà gradirebbe. D’altronde la partita del Colle girerà anche attorno alla variabile delle urne anticipate, il terrore delle gran parte degli eletti, che nel futuro Parlamento a ranghi ridotti non rientreranno. Un altro nodo sul tavolo di Letta e Conte, che lunedì hanno pranzato assieme in centro di Roma per parlare anche di Quirinale. “Ma non si sono fatti nomi” giurano dal Pd, dove hanno preso come un colpo sotto la cintura le indiscrezioni su una discussione sul nome di Paolo Gentiloni, con tanto di no del leader del M5S. E in giornata lo assicura anche Conte: “Con Letta non abbiamo parlato di nomi”.

Deve dirlo, l’avvocato, perché in giornata dai gruppi parlamentari, già in costante ebollizione, salgono lamentele: “Perché non ci è stato detto niente?”. Tanto che in giornata sul Foglio si espone il dimaiano Sergio Battelli: “Da dove sarebbe maturata la scelta di schierarsi contro questa ipotesi? Il nome di Gentiloni non può essere liquidato con leggerezza”. Anche per questo Conte promette: “Sul nome del prossimo presidente della Repubblica ci deve essere ampia discussione interna. E non possiamo escludere neppure un passaggio in Rete”. Di sicuro c’è qualcuno che ieri il nome di Gentiloni lo ha fatto circolare, per affondarlo con largo anticipo. E Luigi Di Maio a Otto e mezzo di fatto lo dice: “Il gioco al Quirinale ci sta facendo perdere i migliori, stiamo bruciando i nomi: ma abbiamo bisogno di una guida solida e non di una crisi politica”.

E da qui si torna ai nodi strutturali dei giallorosa, in chiara difficoltà nel costruire gioco in una partita già complicatissima. Perché i 5Stelle potrebbero spaccarsi, sul Colle. E perché nello stesso Pd si rischiano fratture tra i filo-Draghi e gli altri. “Al momento un vero nome condiviso non c’è neanche in via ipotetica” dicono da entrambi i fronti. E del resto per costruire davvero qualcosa servirebbero numeri solidi, cioè la convergenza di altri partiti. Ma al Letta che insiste sul nuovo Ulivo non può essere sfuggito l’accordo di ieri in Sicilia tra Forza Italia e Italia Viva. “Renzi sta già dall’altra parte, con la destra” riassume un grillino di governo.

E allora c’è il ministro Andrea Orlando, che nella direzione dem rilancia sulla maggioranza Ursula per il Colle, cioè con dentro anche Fi: “Con il campo largo e con l’unità del partito dobbiamo provare a dare qualche occasione di sganciamento alle forze liberali che sono nel centrodestra anche in vista dell’elezione del capo dello Stato”. Uno schema che Dario Franceschini sarebbe pronto a cavalcare, raccontano molti, per andare al Colle. Quel che lo stesso ministro della Cultura non nasconde è di lavorare contro l’opzione Draghi: ufficialmente, per evitare la fine della legislatura.

Ma nel Movimento per ora c’è scetticismo. “Arriveremo a un punto in cui Conte dovrà provare a intestarsi Draghi – dice un big – a patto che però non si vada al voto anticipato…”. Perché se fiutasse le urne, un bel pezzo di gruppo esploderebbe. Un enorme ostacolo per l’avvocato, che pure avrebbe voglia di voto nel 2022, come per Letta. Due leader che dovrebbero pensare a un’alternativa: a Draghi.

C’è un’aria…

“C’è un’aria, ma un’aria…”. Non si può più fare neppure ciò che la legge consente o impone. I ministri pretendono non dico di partecipare alla stesura dei decreti del loro governo, ma almeno di leggerli prima di approvarli? Il Corriere avverte che Draghi è “visibilmente infastidito” dai politici che “piantano bandierine” (Corriere e Repubblica), “sabotatori” (Libero), “avvoltoi” e malmostosi” (Giornale). Dagospia e Libero confermano: “Draghi s’è rotto il cazzo”, “si è stufato dei veti dei partiti” che, diversamente da lui, han preso voti e vorrebbero conservarli realizzando i loro programmi (quelli che ne hanno uno): la Lega su quota 100, il M5S su reddito, salario minimo, superbonus e cashback. Ma il premier è pure “irritato per il fallimento del negoziato Mps” (Stampa): forse con se stesso che nel 2008, ancora a Bankitalia, avallò lo sgangherato acquisto del bidone Antonveneta a prezzo doppio, in barba al parere della sua stessa Vigilanza.

Non bastassero i politici che osano fare politica, ci si mettono pure i sindacati che pretendono di fare i sindacati difendendo i pensionati contro il ritorno alla Fornero. Uno scandalo, soprattutto per La Stampa (“I sindacati alzano il muro”) e per il fu giornale di sinistra Repubblica: “Pensioni, la riforma di Draghi (sic, ndr): la Lega tratta, i sindacati no”, “La Lega verso il sì, ma c’è lo scoglio dei sindacati”, “La trincea dei sindacati”, “Ultimatum a Draghi. Sindacati pronti allo sciopero”. Lo sciopero, capite? Dove andremo a finire. Teste calde sobillate dalla potentissima e ricchissima lobby dei vecchi, tutti nababbi e pure ladri. Lo svelano su Rep Bentivogli & Merlo: “Gli anziani hanno rubato la pensione ai giovani e il nostro non è un Paese per giovani e neanche per anziani, ma solo per questi ultimi (sic, ndr), benestanti e in buona salute”. Non si decidono neppure a schiattare. Il loro costo, avverte il maresciallo Tito, “è troppo largo”, un’“eccezione in Europa”: non ce li possiamo permettere. Infine i No Pass, tutti fasci, nazi e pure brigatisti perché con loro sfila pacificamente un ex Br che ha scontato la pena e per giunta è No Tav. Ecco Johnny Riotta pronto a denunciare “gli infiltrati”, l’“ex brigatista con i fascisti”, “la piazza che unisce gli opposti sulla stessa livida barricata contro la democrazia” che li disperde con gli idranti. Ma al democratico Sala non basta: “La polizia può fare una sola cosa: caricarli”, ma purtroppo quel pappamolla del prefetto “non intende farlo”. E così per il G20 “il Viminale teme la saldatura tra no global, black bloc e no pass”: fortuna che sono “pronti droni e cecchini”, “agenti e tiratori scelti” (Rep e Messaggero). “C’è un’aria, un’aria, ma un’aria che manca l’aria” (Giorgio Gaber).

The Andre, un concerto dedicato a “La Buona Novella” per dire addio al suo (mito) Faber

“Vorrei diventare l’uomo che l’artista non ha mai lasciato crescere”, scrisse Fabrizio De André nei suoi diari pubblicati postumi (Sotto le ciglia chissà, Mondadori 2016). La stessa esigenza, raggiunti i 30 anni, dopo essere stato a lungo solo una voce che sembrava riaffiorare dall’aldilà, ha persuaso il cantautore bergamasco Alberto G., in arte The Andre, a uscire dall’anonimato e ad abbandonare “quella protezione comoda dagli sguardi di chi stava sotto il palco”. Già perché The Andre ha raggiunto la notorietà grazie alla sua voce, che ha lo stesso timbro, le stesse lente cadenze e le stesse pause di Fabrizio De André. Ma non l’ha fatto eseguendo i brani del grande chansonnier genovese, bensì quelli dei trapper tuttoggi in voga, da Sfera Ebbasta alla Dark Polo Gang, passando per Young Signorino e Franco 126. Gente che “fa musica con degli anti-testi per destabilizzare, per fare il contrario dei cantautori e prendersi tutto il pubblico dei teenager dal vocabolario limitato o addirittura diverso da quello dei grandi”.

Di lui, su questo giornale, Massimo Fini ha scritto che “i versi dei rapper (…) cantati dallo pseudo De André acquistano se non un’abissale profondità certamente un senso che senza l’intermediazione di The Andre sfugge. Riportati su codici musicali che conosciamo o riconosciamo, quelli di De André, riusciamo a capirne anche i testi. Per i ventenni e i trentenni invece la comprensione è immediata. Non hanno bisogno di codici. Li hanno già dentro di sé” (Il Fatto Quotidiano, 17 giugno 2018).

Divenuto in poco tempo un fenomeno della Rete, grazie alle sue cover trap in versione De André, nascosto dietro gli occhiali da sole e una felpa col cappuccio, dopo la pubblicazione di Evoluzione, un Ep in cui riflette sul senso della propria evoluzione, sia personale che biologica, l’artista decide di abbandonare definitivamente la maschera. E ora è pronto a tagliare i ponti anche il suo mentore. Già perché The Andre ha deciso di rendere l’ultimo omaggio al suo spirito guida con un concerto che si terrà il 1º dicembre all’Auditorium di Milano. Il cantautore bergamasco, assieme all’Orchestra Sinfonica laVerdi, eseguirà integralmente La Buona Novella, il disco con cui Fabrizio De André elevò al rango poetico il mondo della canzone, riprendendo e rivisitando la tradizione dei Vangeli apocrifi. Una scelta non casuale. Un passo coraggioso, scomodo e provocatorio, per il cantautore bergamasco, che prova a diventare l’artista che vorrebbe essere, lasciandosi dietro di sé quell’Uomo, che finora gli ha impedito di crescere totalmente.

L’opposizione silenziosa ai nuovi politici-virologi

Finalmente vengono raccolti in un volume di autori vari, a cura di Giulio Milani intitolato Noi siamo l’opposizione che non si sente (Transeuropa), i dubbi di scrittori, poeti, filosofi che non credono al complottismo delle destre, ma nemmeno alla cautela perbenistica delle sinistre sulla epidemia che ci deprime e ci ossessiona, mutando la nostra esistenza.

Finora abbiamo ascoltato in televisione una massa di virologi l’un contro l’altro armati e di opinionisti fuori di testa che hanno creato più di una confusione negli spettatori spauriti. Abolire la televisione era una volontà di Pasolini; mai desiderio è più vivo oggi, proprio tra quelli che vorrebbero sentire opinioni di gente diversa, magari poeti e scrittori.

Nell’introduzione Milani avverte che gli autori del suo volume non seguono “la narrazione dominante”. Dopo aver letto tutti i numerosi interventi, ho preferito riassumere i meno retorici e dunque quelli di scrittori, poeti, artisti e filosofi che hanno espresso le loro idee a partire dalle ferite della loro vita. Il libro inizia con il racconto di Roberto Addeo su un ristoratore che non ce la fa più, che non sa letteralmente come sfamare la sua famiglia. Fabrizio Bajec, poeta e insegnante, racconta invece la rilettura in pandemia del Rinoceronte di Ionesco, citando la frase finale: “Io non mi adatto”. Quasi tutti poi denunciano una sinistra che lascia cavalcare alle destre lo scontento, accodandosi alla “cabina di regia” del presidente del Consiglio. Nessuno di loro però vuole sembrare complottista o negazionista. Ginevra Bompiani preferisce parlare di “consenso autoritario”, mentre Giovanna Giolla stila un resoconto doloroso di come ha vissuto la pandemia chiusa in casa, cercando di aiutare i suoi conoscenti, immersi in “una sofferenza, un dolore, un limbo infernale”. Berardi detto Bifo se la prende con i perbenisti di sinistra, quelli della cautela, lasciando colpevolmente la parola “libertà” ai fascisti. Secondo lui “bisogna predisporre gli anticorpi culturali perché la trappola del virus non ci intrappoli forever”. Aldo Nove interviene in versi sul “muto soffrire di tutti”, mentre Vincenzo Pardini esclama: “Dio ce ne liberi”, pensando al potere dei politici-sanitari. Dopo Pasolini uno degli autori più volte citati è Italo Svevo de La coscienza di Zeno, soprattutto per il finale catastrofico.

Detto tutto, il libro riguarda la depressione esistenziale che produce dubbi sulla pandemia: dubbi inediti dell’opposizione silente di sinistra. Tra di loro ci sono anche quelli che amano fare comizi improvvisati, che tentano la strada dell’ironia ma sono i meno interessanti.

Cinema: ciak, si censura

Su impulso del ministro Dario Franceschini l’8 gennaio 2016 “nasce la nuova legge Cinema”. Finalizzando la “modernizzazione del proprio impegno” a favore del settore, il governo contestualmente, e trionfalmente, annuncia: “Sparisce la ‘censura di Stato’”.

Non più commissioni ministeriali a valutare i film, bensì “un nuovo sistema di classificazione che responsabilizza i produttori e i distributori”, vale a dire che, “come già avviene in altri settori e sostanzialmente in tutti i Paesi occidentali, saranno gli stessi operatori a definire e classificare i propri film; lo Stato interviene e sanziona solo in caso di abusi”. Apprezzamento e soddisfazione sono unanimi. Il decreto legislativo n. 203 del 7 dicembre 2017 prevede una nuova Commissione per la classificazione e l’approvazione del relativo regolamento. “In attesa – ehm – che tale nuova Commissione sia costituita, l’articolo 11 del succitato decreto dispone che le sette sezioni attuali della Commissione per la revisione cinematografica continuino a esercitare le proprie funzioni”, ovvero esaminare i film e “approvarne o meno l’uscita in sala per tutti, con il divieto (per i 14 o 18 anni), oppure negare il nulla osta”.

E come sono composte queste sette sezioni? A presiederle un docente di Diritto, danno man forte un docente di Psicologia dell’età evolutiva o di Pedagogia, due esperti di cultura cinematografica (critici, studiosi, autori), due rappresentanti delle associazioni genitori, due delle categorie di settore, nonché un esperto delle associazioni per la protezione degli animali se annoverati dall’opera. In caso di diniego del nullaosta o di non ammissione dei minori, il produttore può ricorrere alla Commissione di secondo grado: il parere, se conferma il diniego, “è vincolante per l’Amministrazione”. E tale è rimasto: la promessa rivoluzione si fa aspettare, ancora oggi.

Partecipato dalle associazioni di categoria, l’iter ministeriale è certamente lungo e complesso, eppure il 6 aprile scorso Luigi Lonigro, presidente dei distributori dell’Anica, recependo il decreto di Franceschini esultava: “Si tratta di un cambiamento epocale che porta con sé un nuovo sistema di regolamentazione dell’industria del cinema”. Poi, il risveglio, brusco. “Sorpresa e preoccupazione” per la duplice decisione delle Commissioni ministeriali “di sottoporre a un divieto ormai arcaico” La scuola cattolica di Stefano Mordini: così il 5 ottobre il presidente dell’Anica, Francesco Rutelli, commenta l’inibizione ai minori di 18 anni comminata all’adattamento del libro premio Strega di Edoardo Albinati. “Purtroppo gli annunci di abolizione della censura non hanno trovato riscontro in una procedura che – spero per poche settimane – è ancora in vigore” affonda Rutelli, stigmatizzando “pareri occhiuti e fuori dal tempo”.

Sursum corda: La scuola cattolica è stata l’ultima vittima dei catoni, presto, prestissimo respireremo la libertà. Facciamoci dunque un nostalgico giro su ItaliaTaglia.it, progetto di ricerca sulla censura nostrana, oppure CineCensura.com, mostra virtuale parimenti succulenta, per rintracciare nomi, cognomi e titoli di questa colonna infame, da Ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci (distruzione di tutte le copie) a Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pier Paolo Pasolini (revoca della nazionalità italiana), da Il pap’occhio di Renzo Arbore a Totò che visse due volte di Ciprì e Maresco tacciato di “vilipendio della religione di Stato”, perché presto, prestissimo verrà abbattuta, ossia consegnata agli annali.

Oddio, sicuri che il peggio sia passato, che all’orizzonte cinematografico non si staglino più divieti improbi? Le opere saranno classificate per tutti, non adatte ai minori di anni 6, vietate ai minori di anni 14 o 18, a decretarlo immantinente la nuova Commissione, la cui composizione – 49 membri, “nominati nel rispetto dell’equilibrio di genere, per tre anni, rinnovabili una sola volta” – non è invero dissimile dall’attuale. Gianpiero Tulelli, funzionario responsabile per la classificazione presso la Direzione generale Cinema, assicura che “ai primi di novembre” la svolta sarà finalmente compiuta, ne enumera i punti focali: “l’autoclassificazione dell’opera da parte del produttore, la scomparsa dell’autorizzazione ministeriale, la gradualità dei divieti”, e sancisce: “È un’altra norma”. Eppure, a compulsare il decreto legislativo n. 203 la sensazione è che la montagna abbia partorito un topolino o, almeno, che le modifiche a monte – la “responsabilizzazione degli operatori” (autoclassificazione) e “l’attenta vigilanza delle istituzioni” (Commissione) – non cambino il panorama a valle. Se nei decreti attuativi della legge n. 220 del 2016 “l’espressione: ‘ottenimento del nulla osta di proiezione in pubblico del film’ deve intendersi sostituita da ‘istanza di verifica della classificazione dell’opera cinematografica’”, se all’articolo 668 del codice penale la sanzione amministrativa pecuniaria prevista per le “opere cinematografiche non sottoposte prima alla revisione dell’Autorità” ora va estesa a quelle “non sottoposte a classificazione o senza rispettare la classificazione verificata dalla Commissione” di che rivoluzione parliamo? Per quale abolizione della censura ci dovremmo spellare le mani?