Cartabia, i numeri la smentiscono

Intervenendo a Padova a un convegno, il ministro della Giustizia Marta Cartabia avrebbe dichiarato: “Ci sono troppe leggi, troppe norme, troppi processi e forse troppe indagini lasciate cadere e troppo carcere”; nonché: “è auspicabile una fase parlamentare in cui prima di fare un intervento si vada a vedere che effetto ciò può produrre sull’intero ordinamento sul carcere o sul suo sovraffollamento e sulla possibilità stessa di dare applicazione effettiva della legge”.

Aggiungendo infine: “Il potere di punire, tanto terribile quanto necessario, ha assunto dimensioni esorbitanti e non solo in Italia: un ‘panpenalismo’ fatto di abuso e invasività del diritto penale per cui creare aggravanti o innalzare le pene è la scorciatoia”. (fonte Corriere della Sera del 24 ottobre 2021 pag. 18).

Secondo un’altra fonte (Il Giornale della stessa data, pag. 4) il ministro avrebbe anche dichiarato: “Ci sono ancora molti problemi, come l’uso della custodia cautelare in carcere già oggetto di una riflessione attenta nell’ultimo Consiglio dei ministri d’Europa. Quante detenzioni in carcere – spiega il Guardasigilli – ci sono per pene brevi in cui di fatto le persone vengono esposte a una criminalità per cui si rischia di ottenere effetti contrari a quello della rieducazione?”.

Nelle frasi riportate ci sono affermazioni certamente vere, altre che non lo sono e alcune incomprensibili.

È certamente vero che in Italia “sono troppe leggi, troppe norme, troppi processi”. Non è vero invece che ci sia un sovraffollamento carcerario e non è dato comprendere cosa significa “troppe indagini lasciate cadere”, visto che si sostiene che ci sono troppe assoluzioni, deducendone un non meditato esercizio dell’azione penale.

Cominciamo dalle troppe leggi: la situazione è risaputa, tanto che l’ex ministro per la Semplificazione, Roberto Calderoli, aveva proposto e ottenuto l’abrogazione di numerose leggi dando a ciò molta pubblicità e dando simbolicamente fuoco a 375.000 leggi abrogate in 22 mesi di legislatura (salvo poi ripristinarne alcune perché, nella fretta, erano state abrogate, ad esempio, leggi che istituivano una città, che così cessava di esistere). Il rimedio però è molto semplice: fare meno leggi.

È altresì vero che ci sono troppi processi in Italia. In un articolo pubblicato sul Fatto Quotidiano del 1° settembre 2021, ricordavo che ogni anno nel nostro Paese vengono avviati circa 2.700.000 processi, ma anche che quasi tutto ciò che si poteva depenalizzare lo è già stato, mentre quello che si può ancora fare non ha rilievo statistico apprezzabile.

Non è vero invece che ci sia sovraffollamento nelle carceri. Secondo i dati del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria (consultabili da chiunque in Internet) al 30 settembre 2021 in Italia vi erano 53.930 detenuti in carcere a fronte di 50.857 posti dichiarati. Però lo stesso sito del Dap: ricorda che quei posti sono calcolati sulla base di una superficie per detenuti così calcolata: 9 metri quadrati per il primo occupante e 5 metri quadrati per ogni occupante ulteriore (cioè la superficie per l’abitabilità delle case di civile abitazione), mentre la media europea è di 4 metri quadrati a detenuto.

Dal sito del Consiglio d’Europa risulta: “Al 31 gennaio 2020, c’erano 1.528.343 detenuti in 51 amministrazioni penitenziarie… degli Stati membri del Consiglio d’Europa, il che corrisponde a un tasso di incarcerazione europeo di 103,2 detenuti per 100.000 di abitanti. Nelle 50 giurisdizioni penitenziarie per le quali sono disponibili dati per il 2019 e il 2020, questo tasso è diminuito da 106,1 a 104,3 detenuti per 100.000 abitanti (-1,7%). Dal 2013, quando ha raggiunto il massimo storico di 131 detenuti per 100.000 abitanti, il tasso di incarcerazione è diminuito ogni anno; la diminuzione complessiva è del 20% tra il 2013 e il 2020. I reati legati alla droga hanno continuato a essere il motivo principale di incarcerazione nelle 42 amministrazioni penitenziarie che hanno fornito questi dati (quasi 260.000 detenuti stanno scontando condanne per reati di droga, che rappresentano il 17,7% della popolazione carceraria totale). Gli altri reati più comuni sono il furto (199.000 detenuti, il 13%) e l’omicidio o tentato omicidio (169.000 detenuti, il 12%). Quattro detenuti su 10 stanno scontando pene per reati violenti (omicidio, aggressione e percosse, stupro e altri reati sessuali, rapina)”.

In Italia il valore registrato è stato di 101,2 detenuti ogni 100.000 abitanti (fonte: sito “Osservatorio pena e opinione pubblica”) e quindi più bassa della media europea, dovendosi peraltro tenere conto che dei 53.930 detenuti in Italia 17.209 (cioè quasi un terzo) sono stranieri, di cui molti senza fissa dimora e quindi difficilmente destinabili a misure alternative.

Ora, poiché il Dap dipende dal ministro della Giustizia (e si deve escludere che menta al ministro) sarebbe interessante sapere chi racconta al ministro che in Italia vi è sovraffollamento in carcere.

Certo si può auspicare una diminuzione della popolazione detenuta, sempre che vi sia una diminuzione dei delitti commessi, non potendosi pensare a depenalizzare omicidi e lesioni, furti e rapine e altre simili condotte.

In un mondo in cui si circola molto più che in passato il tasso di repressione concreto esistente in uno Stato non può essere troppo diverso da quello applicato in altri Stati: se è più alto si esporta criminalità, se è più basso si importa criminalità.

Quanto alla custodia cautelare in carcere i detenuti in tale regime al 30 settembre 2021 (fonte Dap) sono 16.536 (di cui 8.272 in attesa del giudizio di primo grado, 3.885 in attesa del giudizio di appello, 2.942 in attesa del giudizio di cassazione e 937 che misti, cioè con più titoli di detenzione non definitivi).

La percentuale europea di detenuti in custodia cautelare è del 22%, quella italiana è del 30% circa, ma all’estero sono considerati in custodia cautelare solo i detenuti in attesa della sentenza di primo grado e se usiamo questo dato la percentuale in Italia scende al 15%.

Forse è opportuno che il ministro della Giustizia verifichi fonti e numeri.

 

Guerra al Prošek croato, ma c’è già il Prosè di Gancia

I dossier sono già arrivati sui tavoli del governo: il Prošek croato minaccia il Prosecco autentico e il governatore leghista del Veneto Luca Zaia annuncia che si presenterà al tavolo ministeriale armato di “pistola fumante” per mandare a rotoli la registrazione europea del vino balcanico proposta dalla commissione Ue. Il tempo stringe perché il misfatto continentale dovrebbe compiersi fra meno di un mese.

Luigi Scordamaglia, consigliere delegato di Filiera Italia, rete associativa a difesa delle eccellenze nostrane, avverte: “Siamo attaccati su più fronti”. E ha ragione, proprio ieri al “Tuttofood” di Milano la Coldiretti ha esposto la top ten dei prodotti che richiamano a marchi prestigiosi italiani, ma non lo sono, “tarocchi” insomma, un “sistema” che frutta più di 100 miliardi di euro, doppiando le esportazioni del- l’autentico cibo italiano. È la mozzarella la più copiata, solo negli Stati Uniti ne vengono prodotti ogni anno due miliardi di chili, venti volte le esportazioni complessive di quella di mucche e bufale italiane. In Germania c’è la zottarella. Già note le imitazioni del Parmigiano: Parmesan, Parmesao, Reggianito. Poi ancora Provolone, Pecorino romano, passata di pomodoro, pesto alla genovese (spicy thai pesto negli Usa e basil pesto in Sudafrica)… e i vini, appunto. Meer-secco, il Kressecco, il Semisecco, il Consecco, il Perisecco e il Whitesecco, sono solo alcuni dei cugini del Prošek croato che potrebbe addirittura essere riconosciuto come autentico dall’Unione europea. Fioccano le imitazioni anche per il Chianti, da quello californiano ai wine kitdel terribile fai da te con polveri e alambicchi vari apprezzati negli Stati Uniti e in Canada, ma anche in Gran Bretagna.

Rispetto solo ai vini dal nome ingannevole è stimato da Coldiretti almeno in un miliardo di euro il bottino sottratto alle cantine italiane. Anche perché, per una guerra del Prosecco ingaggiata contro il Prošek adesso, ce ne sono diverse altre perse già ieri, più o meno nell’indifferenza collettiva di governatori leghisti, nazionalisti o semplicemente difensori di made in Italy e locali eccellenze del territorio. Così si scopre che il misfatto l’Unione europea lo ha anche già compiuto, tanto che esistono ben due marchi comunitari regolarmente registrati da Bruxelles proprio con nome Prošek e Desertno vino Prošek Dioklecijan, entrambi del produttore sloveno “Dalmacijavino izvoz-uvoz d.o.o.”, la cui sede societaria è a Ljubljana. I due marchi sono stati registrati nel 2004, già rinnovati e validi fino al 2024 anche dentro i confini italiani: l’iter burocratico comunitario fu completamente regolare senza alcuna opposizione da parte di nessuno, nonostante la pubblicazione e i consorzi di tutela esistenti che nel 2004 erano già dotati di banche dati informatiche e sistemi di sorveglianza funzionanti ed efficaci.

Ma non basta, sospira Scordamaglia: “Ci concentriamo su attacchi esterni, ma ho come l’impressione che bisognerebbe guardare con attenzione anche in casa nostra”. E, infatti, controllando e ricontrollando il cronista scopre che è possibile comprare all’enoteca di prossimità, anche online, per la modica cifra di 4 euro e 90 centesimi, 6 o 7 euro al massimo, un vino denominato Prosè. Con tanto di marchio italico: Gancia. “Questa informazione che mi sta dando è ancora più grave – spiega Scordamaglia – perché mentre il cosiddetto Prošek croato è un vino liquoroso e non frizzante, il Prosè di Gancia per come lo descrive è davvero sleale, trattandosi di un prodotto che fa davvero il verso al Prosecco autentico”. In effetti sui motori di ricerca è così pubblicizzato: “Con l’aperitivo o a fine pasto, l’abbinamento sempre gradito da chi ama la freschezza di una fragranza floreale. Per i più raffinati, tutta la delicatezza del rosa”.

In più, appunto, c’è anche quel nome sull’etichetta, Gancia, che non lascia pensare a intrugli esteri, anche se agli appassionati di vino pur non espertissimi suonerà strano un nome del genere, Prosè, sull’etichetta di una casa vinicola fondata nel 1850 a Canelli, provincia di Asti, decisamente fuori zona per il Prosecco. Ma nel mondo globalizzato, nel bene e nel male, spesso il male non è così evidente. Infatti della prestigiosa casata Gancia originale rimane ben poco, essendo ormai il marchio nelle mani di Russian Standard, zar del moscow mule con sede a San Pietroburgo, azienda fondata nel 1998. Questi oligarchi dei superalcolici hanno messo le mani tra i filari italiani facendo una gran confusione, insomma. Anche se, in questo caso, il marchio Prosé è stato oggetto di opposizione da parte del “Consorzio di tutela della denominazione di origine controllata Prosecco”, opposizione accolta nel 2018 in sede di Unione europea. Ma nonostante la vittoria, appunto, non è difficile trovare il Prosè di Gancia ancora sul mercato a prezzi stracciati. Per altro la Gancia, nonostante la proprietà di un colosso internazionale, si trova anche in crisi di liquidità, tanto da accumulare debiti da almeno un anno con alcuni fornitori di uve e vini.

Sanremo giovani vietato ai trentenni Artisti in rivolta

Produttori musicali sul piede di guerra per il nuovo regolamento di Sanremo Giovani, che andrà in scena mercoledì 15 dicembre e da cui usciranno due nuove proposte che poi parteciperanno al Festival (dal primo febbraio 2022) con i big. L’abbassamento dell’età da 34 a 29 anni, comunicata il 16 settembre, ha fatto andare su tutte le furie artisti e discografici, decine di giovani tra i 30 i 34 si stavano già preparando. Non è la prima volta che la soglia viene abbassata. Nella prima edizione con Amadeus (2020) per partecipare l’età massima era 35 anni, con l’Amadeus-2 è scesa a 33 anni, ora è a 29. “È indecente che ogni anno si cambino le regole. Quattro anni sono troppi. Oltretutto con comunicazioni tardive e unilaterali – afferma Sergio Cerruti, presidente di Afi (Associazione fonografici italiani) – . Decine di ragazzi si stavano preparando da mesi e ora si vedono tagliati fuori”. Cerruti denuncia anche la poca trasparenza che aleggia intorno al Festival. “È tutto avvolto nel mistero, spesso non si sa nemmeno con chi parlare”.

I discografici hanno scritto agli organizzatori, ad Amadeus e a tutto il vertice Rai. Senza risposta. “Chiediamo la sospensione dell’applicazione del regolamento e la riapertura dei termini d’iscrizione”. Ma i discografici vorrebbero anche “la separazione tra il ruolo di conduttore e quello di direttore artistico”. Su Change.org c’è pure una petizione promossa dalla cantante Alice Alison (“Lasciateci cantare a Sanremo”) che ha superato le 5 mila adesioni.

Erdogan ci ripensa: non manderà via gli ambasciatori pro Kavala

È durato lo spazio di un fine settimana lo show del presidente Erdogan che aveva minacciato di espulsione dieci ambasciatori. La loro “colpa”, quella di aver sollecitato la scarcerazione di un dissidente. “Non volevamo provocare una crisi, ma la magistratura turca non prende ordini da nessuno” ha detto il leader alla televisione, parlando alla nazione. La questione resta aperta: l’appello per Osman Kavala, in carcere da oltre quattro anni senza condanna – sospettato di aver partecipato al fallito golpe del 2016 – era stato firmato dai rappresentanti di Usa, Canada, Francia, Germania, Olanda, Finlandia, Danimarca, Norvegia, Svezia e Nuova Zelanda. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nel 2019 ha chiesto la sua scarcerazione. La prossima udienza è fissata il 26 novembre, poi il Consiglio d’Europa potrebbe aprire un provvedimento disciplinare nei confronti di Ankara.

Sposa dell’Isis e carnefice di yazide

Ha comprato come schiava una bambina yazida di cinque anni e l’ha lasciata morire di sete incatenata al sole. Ieri Jennifer Wenisch, 30 anni, è stata condannata dall’Alta Corte Regionale di Monaco a dieci anni di carcere. La donna, originaria di Lohne, in Bassa Sassonia, prima protestante, si converte all’islam nel 2013. L’anno successivo va in Siria dove sposa un miliziano iracheno dell’Isis, Taha al-Jumailly. Nel 2015 la coppia acquista a Mosul la bambina e sua madre, Nora, come schiave domestiche. Secondo quanto ricostruito nel processo, la bimba era malata e bagnò il letto. Per punirla Al-Jumailly la incatenò in cortile e la lasciò morire sotto il sole. Wenisch non fece nulla per salvarle la vita. La madre Nora ha testimoniato più volte sia contro Wenisch sia contro il marito Al Jumailly. L’uomo, arrestato in Grecia nel 2019, viene giudicato in un processo a Francoforte che si dovrebbe concludere il mese prossimo. Gli avvocati della difesa della donna hanno più volte chiesto di invalidare la testimonianza della madre, adducendo la mancanza di prove sulla morte della bambina.

Nel team legale che ha sostenuto la madre c’è anche la famosa avvocatessa londinese Amal Clooney. La legale è coinvolta da anni nella campagna contro i crimini di guerra commessi dall’Isis contro la minoranza yazida. La condanna di Wenisch è la prima al mondo in cui si riconosce la persecuzione degli yazidi da parte dei miliziani del Califfato. La donna era parte della “polizia morale” dello Stato Islamico. Pattugliava le strade di Fallujah e Mosul armata di fucile d’assalto e cintura esplosiva. Pochi mesi dopo la morte della bambina, Wenisch si era recata ad Ankara per fare dei nuovi documenti tedeschi presso l’ambasciata. Riconosciuta come affiliata all’Isis, viene arrestata ed estradata in Germania. Tornata nel Paese natale, ha cercato nuovamente di raggiungere la Siria. Per farlo ha contattato un informatore dei servizi d’intelligence che l’ha fatta arrestare. Il processo a suo carico è iniziato nel 2019 e la donna si è difesa dicendo di aver ignorato le richieste di aiuto della bambina per paura del marito. Secondo quanto riportato dal quotidiano tedesco Süddeutsche Zeitung, Wenisch ha dichiarato che la sentenza è stata pronunciata per renderla “esempio per tutto quello che è accaduto sotto l’Isis”. La Germania ha accusato diverse persone, di svariate nazionalità, di crimini di guerra e contro l’umanità. Le corti tedesche hanno applicato il principio legale della giurisdizione universale, che permette di perseguire crimini anche se commessi fuori dal paese, rendendo così perseguibili anche i crimini commessi nel Califfato. La prima condanna, 42 mesi di carcere, è arrivata a fine 2020 per una tedesca-marocchina, anche lei moglie di un miliziano, per aver ridotto in schiavitù un’altra donna.

Il nuovo corso è un bluff: ritorna l’ora dei generali

Il Sudan è entrato in un nuovo vortice che rischia di portare il Paese alla guerra civile. Il nuovo corso nato nel 2019 dopo la caduta di Omar al Bashir – dopo 30 anni di dittatura – è già finito. Il governo di transizione congiunto, composto da militari e civili è stato dissolto, così come il Parlamento. All’alba di ieri, i militari del generale Abdel Fattah al Burhan hanno arrestato tutti i componenti civili del governo, il premier Abdalla Hamdok prelevato dalla sua abitazione e trasferito come gli altri in luogo segreto. Il suo ultimo appello prima di scomparire: “Andate in piazza, non lasciate che uccidano la rivoluzione”. Decine di alti funzionari del governo sono stati caricati sulle camionette dei militari e sono scomparsi nella nuvola di polvere che si alza dalle strade di Khartoum in terra battuta e sabbia. La notizia – anche con il blocco di Internet in tutto il Paese – è girata in un lampo. Nonostante lo sferragliare dei carri armati usciti dalle caserme e la chiusura di tutti i ponti sul Nilo, migliaia di persone sono scese in strada per difendere le speranze di un futuro diverso su cui anche Europa e Stati Uniti avevano puntato nell’ultimo anno.

La folla e l’esercito si sono scontrati in diversi punti della Capitale, vicino la sede del governo, nei pressi dell’Università. Africa Road – la grande arteria che taglia longitudinalmente la capitale – è invasa dalla gente, copertoni in fiamme, barricate improvvisate. È tutto quello che può fare un’opposizione disarmata di fronte all’esercito di Al Burhan e le milizie che lo sostengono. Impossibile una stima delle vittime, secondo l’Associazione dei medici ci sono stati tre morti e 80 feriti. Il nuovo “uomo forte” del Sudan in tv ha annunciato a breve la formazione di “un governo di tecnocrati che porterà il Paese alle elezioni, come previsto, nel 2023”, poi dalla tv di Stato solo musiche patriottiche e scene del fiume Nilo. I video condivisi online – dove è stato possibile superare il blocco di Internet con i satellitari – mostrano invece strade bloccate, pneumatici in fiamme mentre l’esercito usa senza risparmio gas lacrimogeni per disperdere la folla nelle strade. Il golpe e gli arresti eccellenti arrivano dopo settimane di crescenti tensioni tra i leader civili e militari del Sudan. Un fallito colpo di Stato lo scorso 21 settembre ha riaperto vecchie ferite mai rimarginate, mettendo gli islamisti più conservatori che vogliono un governo militare contro coloro che hanno rovesciato Omar al Bashir con le loro marce nel 2019. Già nei giorni scorsi c’erano state manifestazioni di entrambi gli schieramenti, adesso si è passati dalle parole ai fatti. Il capo degli Esteri della Ue, Josep Borrell, segue con la “massima preoccupazione” gli sviluppi. Anche gli Usa per voce dell’inviato speciale per il Sudan, Jeffrey Feltman, sono allarmati: hanno messo sul piatto 400 milioni dollari in aiuti che vista la grave situazione sono in stand-by.

Silenzio da parte della Russia, Paese che è stato durante gli anni della dittatura di Al Bashir un fedele fiancheggiatore, che dal nuovo corso sudanese aveva solo da perdere. Come l’importante base navale sul Mar Rosso (in via di completamento) ottenuta in affido per 25 anni, contratto che il governo Hamdok ha deciso di stracciare lo scorso marzo. Così come sono pericolo le concessioni alle aziende russe per lo sfruttamento delle miniere d’oro nel nord del Paese. Il Sudan sempre sull’orlo dell’emergenza umanitaria è un Paese ricco di risorse nel sottosuolo e nel suo mare ma gli appetiti che suscitano in diverse potenze straniere e le sue divisioni tribali sembrano condannare la popolazione a un’esistenza tragica, fatta di stenti mentre pochi – e tutti legati alla vecchia guardia fedele a Bashir – accumulano fortune nei conti esteri aperti a Dubai. I fedelissimi dell’ex dittatore sono ancora nell’esercito e poi dispongono ancora di milizie; i temibili Janjaweed, protagonisti delle stragi in Darfur hanno cambiato nome, ma restano sempre ben armati.

L’ultradestra assalta gli hotel che ospitano i rifugiati afghani

I video dei loro attacchi sono stati visti almeno 40mila volte dai loro sostenitori, sia sul loro sito che sul canale Telegram, unico social che permette ancora loro di comunicare. I membri xenofobi di Britain First, “Prima la Gran Bretagna”, sono stati accurati nel filmare i loro multipli assalti agli hotel che ospitano richiedenti asilo afghani, scappati durante e dopo la caduta di Kabul con l’arrivo dei talebani. In ogni filmato la stessa storia si ripete: vengono mostrate lussuose stanze d’albergo, poi i “patrioti” percorrono lindi corridoi in cerca degli afghani che chiamano “migranti illegali”, e non rifugiati. “Siete in attesa di ricevere un alloggio?”: a ognuno di loro chiedono dettagli sulla patria d’origine, e, se non allontanati dal personale degli hotel, continuano con perlustrazioni, raid e diffusione di fake news su presenti stupri compiuti ai danni di studentesse britanniche. La narrativa propagata è uguale a quella degli altri movimenti razzisti nel resto d’Europa: “i musulmani stanno colonizzando il nostro Paese”.

Anche gli alberghi che ospitano i cittadini fuggiti da Kabul sono nel mirino dell’ultra destra, che ha riempito di commenti negativi le pagine pubblicitarie delle strutture e le colonne in calce di Tripadvisor. Se un capogruppo decide di vandalizzare l’account, ordina a tutti i soldati virtuali di seguirlo.

Il movimento ha già compiuto raid in almeno una dozzina di hotel con il preciso scopo di frenare la politica dei ricollocamenti: “simili attacchi sono stati già compiuti durante la crisi della guerra siriana”, ha riferito l’ong Hope not hate, impegnata nel registrare ogni abuso dei gruppi britannici. Tra loro non c’è solo Britain First, ma anche Alternativa patriottica e “For Britain”, “per la Gran Bretagna”. Secondo l’associazione, “l’immigrazione è da sempre nel bersaglio dell’ultradestra nazionale, ma adesso questi gruppi stanno capitalizzando sui ricollocamenti degli afghani per unire l’odio verso gli stranieri e quello verso i musulmani”.

Partecipa a questi attacchi anche il leader del gruppo Paul Golding, obbligato a pagare ingenti danni, solo quattro settimane fa, a un’associazione musulmana, la Halal Food Autority, da lui di finanziare il terrorismo. Golding, con precedenti penali, però è riuscito nel settembre scorso a registrare Britain First nelle liste dei partiti politici britannici.

“MbS, minaccia per il mondo”. Confessioni di un ex 007

“Sono qui per suonare l’allarme su un killer psicopatico, con infinite risorse in Medio Oriente, che costituisce una minaccia per il suo popolo, gli americani e l’intero pianeta”. Saad Al Jabri, 62 anni, ex numero due dell’intelligence saudita, ci mette la faccia, sugli schermi della Cbs, nel programma 60 minutes, e ci va giù duro: non sta parlando di un leader di al Qaeda o di un autoproclamato califfo del sedicente Stato islamico, ma del principe ereditario saudita Mohammed bin Salman, alias MbS, il mandante neppur troppo occulto dell’omicidio e dello smembramento del giornalista e oppositore Jamal Khashoggi, attirato in trappola nel consolato saudita di Istanbul e lì ammazzato e smembrato.

Fuggito in Canada nel 2017, perché preoccupato per la propria vita, lasciando però in brutte acque la propria famiglia – ha otto figli –, l’ex agente saudita denunciò, nel 2018, un piano per ucciderlo: da Ryad, sarebbe partita una squadra di sei persone per attirarlo nel consolato; una replica, anzi una prova generale, di quanto sarebbe accaduto a Khashoggi a inizio ottobre di quell’anno. Al Jabri era fra gli interlocutori sauditi ritenuti più affidabili dalla Cia nella lotta al terrorismo; ed è tuttora ritenuto affidabile, perché ha contribuito a salvare molte vite di cittadini Usa, intercettando piani di al Qaeda. A Ryad era l’uomo di fiducia di Mohammed bin Nayef, quando questi era l’erede al trono: oggi ha due figli in carcere – una mossa che fu persino criticata da Donald Trump durante il suo mandato presidenziale, che pure non si faceva scrupolo di avere come interlocutore MbS – e sollecita l’aiuto degli Stati Uniti, per sé e per loro; in cambio, li mette in guardia contro il pericolo che Bin Salman rappresenta. Anche se tutti sanno che la verità è merce rara nel triangolo formato da spie, despoti e Medio Oriente. Quando Al Jadri definisce il principe ereditario “uno psicopatico”, Scott Pelley, l’intervistatore, interloquisce: “Uno psicopatico?”. Aljabri insiste: “Uno psicopatico senza empatia, che non prova emozioni… Siamo stati testimoni delle atrocità e dei crimini commessi da questo assassino”.

Nell’intervista alla Cbs, l’ex 007 racconta di come Bin Salman, parlando con Bin Nayef, quando i due ancora s’intendevano, avesse prospettato un piano per uccidere l’allora re Abdullah con un anello al veleno: per farlo fuori, bastava che il monarca sfiorasse la gemma al dito del principe. Intrigo degno di una Shahrazad saudita e d’una versione delle Mille e una notte ambientata a Ryad e non a Baghdad. Poi, le cose tra MbS e Bin Nayef peggiorarono e precipitarono: dopo la morte di Abdullah e l’ascesa al trono di Salman, MbS sottrasse al rivale il titolo di erede al trono e nel 2017 lo arrestò. Al Jabri, legato a Nayef, avvertì il pericolo e fuggì. Di conseguenza, sua figlia Sarah e suo figlio Omar, invece di andare a studiare negli Stati Uniti finirono in una prigione saudita, come pure suo genero, sequestrato in un Paese terzo e portato in Arabia Saudita. “La prima notte – racconta Khalid Al Jabri, il figlio maggiore di Saad – fu torturato e ricevette oltre cento frustate. I suoi aguzzini gli chiesero chi dovevano rapire e torturare per indurre mio padre a tornare”. L’intelligence statunitense è stata colta di sorpresa dalla decisione di Al Jabri di uscire allo scoperto e di dare un’intervista: “Se lo ha fatto, vuol dire che è disperato”, dice alla Cbs una fonte della Cia. L’ex 007 saudita iniziò la sua carriera da poliziotto, ma si fece strada nei servizi segreti e acquisì pure un dottorato in intelligenza artificiale. Vi sono sue immagini nello Studio Ovale, incontrava ambasciatori e comandanti militari statunitensi e Michael Morell, l’ex direttore ad interim della Cia.

Proprio Morell, alla Cbs, dichiara la sua ammirazione per lui: “È un uomo eccezionalmente brillante e incredibilmente leale al suo Paese”. La giustizia saudita, però, lo accusa di corruzione; quella di MbS, più spiccia, progetta di eliminarlo: forse sa troppe cose, certo più di quelle raccontate alla Cbs.

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La contiguità tra fascisti e forze dell’ordine

Nell’articolo di Travaglio “Due pesi e due misure”, al punto 4 leggiamo: “Qualcuno prima o poi ci spiegherà com’è possibile che la polizia di Stato carichi con idranti e manganelli i pacifici manifestanti al porto di Trieste e scorti gli squadristi fascisti verso la sede della Cgil perché non sbaglino strada”. Due sono le possibili spiegazioni, la prima delle quali mi vede costretto a constatare come da sempre in Italia frange non minoritarie delle forze dell’ordine si siano dimostrate politicamente in sintonia con le idee dell’estrema destra. Come non ricordare la polizia di Scelba, che reclutava gli agenti fra i reduci di Salò per massacrare contadini e operai in sciopero? Oppure le violenze perpetrate a danno di studenti e operai negli anni Settanta? Ne so io qualcosa, avendo vissuto da ventenne quel periodo storico. Ci dimentichiamo del G8 di Genova dove al grido di “uno, due, tre: viva Pinochet” gli agenti brutalizzavano i manifestanti arrestati? Di contro ricordo scene riprese durante manifestazioni di estrema destra, dove poliziotti e loro capi conversano cameratescamente con esponenti di gruppi neofascisti, accompagnandoli lungo il percorso del corteo. L’altra ipotesi è che le forze dell’ordine temano i manifestanti di estrema destra, perché sanno di avere a che fare con individui violenti, palestrati e addestrati all’uso di strumenti di offesa quali catene, bastoni, pugni di ferro e altro. Non hanno di fronte ragazzini, studenti, gente normale su cui sfogare le proprie frustrazioni.

Antonio Carlucci

 

Caro Antonio, non credo che tutti o la maggioranza dei poliziotti e dei carabinieri siano fascisti. Credo che invece a qualche loro superiore i fascisti facciano molto comodo per consolidare l’attuale governo.

M. Trav.

 

Ho ingoiato tutto, ma B. al Quirinale proprio no

C’è il rischio, più o meno concreto, che al Colle possa essere eletto uno che sentenze della magistratura hanno definito come “delinquente”. Non sarebbe meglio cominciare a mobilitare quel poco di pulito e onesto che è rimasto nel nostro Paese, magari creando un apposito comitato per il no a Berlusconi presidente della Repubblica? Ho ingoiato il latitante Craxi, mi tocca sopportare il pagliaccio di Rignano, ma a 77 anni quello lì al Quirinale sarebbe troppo.

Giancarlo Ferrari

 

Modi creativi per tenersi un lauto stipendio

A differenza di tutti gli amici lettori preoccupati per il Quirinale a B., pur condividendo tale preoccupazione, credo che sia tutta una “farsa”, inscenata per consentire a Mattarella, “il democratico sicuro”, di resistere ancora per tenere il posto in caldo a Draghi, che ora è indispensabile al governo. Anche perché, con Draghi al Quirinale, si dovrà per forza andare a votare, non si può avere un altro “dono” dalla provvidenza, come dicono i vescovi, e ciò è l’anticamera della disoccupazione, almeno per la metà degli attuali parlamentari.

Raffaele Fabbrocino

 

Fisco, servono nuove regole “scientifiche”

Come per la pandemia il governo segue la scienza, così la riscossione deve seguire le leggi fiscali e non gli umori dei politici del momento.

In caso contrario le cartelle esattoriali continueranno a essere rinviate in eterno, sino a nuovi condoni.

È giusto che un tributo, una imposta o una multa, calcolate in origine con lo stesso metodo per tutti i cittadini, vengano pagate solo da una parte virtuosa di loro? Se le aliquote sono corrette perché sospendere la riscossione?

Ribadisco che la politica, nel sistema fiscale, deve entrare solo nello scrivere una riforma, poi uscire di scena nell’espletamento delle leggi (anche e soprattutto quelle coattive) in materia fiscale.

E come negli appalti pubblici, ci deve essere un ente di controllo intermedio (tipo l’Autorità nazionale anticorruzione) che vigili e controlli l’operato della riscossione statale.

Per esempio: è stato controllato da qualcuno che le cartelle esattoriali, condonate dall’Agenzia delle Entrate per la riscossione dal 2000 al 2010 (pari a mille miliardi di euro), non siano a capo di società giuridiche e persone fisiche che sono amiche degli amici di qualche parlamentare?

Stefano Masino

Covid-19. Numero reale dei morti, Bechis ha solo strumentalizzato

 

Buongiorno, giorni fa Il Tempo ha pubblicato un articolo di Franco Bechis che, rifacendosi all’ultimo rapporto dell’Istituto Superiore della Sanità, individua i morti per Covid (causa di morte primaria) solo in 3.783 persone. Io non so valutare quanto solida e veritiera sia questa informazione, ma una cosa è certa: dall’inizio del 2020 abbiamo sofferto dell’assenza di dati accurati, corretti e non lacunosi. Tutti sapevano che in questi quasi due anni una quantità (probabilmente elevata) di decessi venivano catalogati per Covid in modo “forzato”. Inoltre, l’influenza stagionale è diminuita assai, ma per essa si annoveravano, nel passato, dagli otto ai diecimila decessi all’anno. Lo stesso presidente dell’Istat, prima della pandemia, aveva dichiarato che la povertà produce morti; sarebbe interessante sapere, con la crescente povertà e disparità di reddito, quanto siano aumentati i decessi. Insomma: il governo e le istituzioni sanitarie sono stati e sono tuttora lontanissimi dal fornirci dati comprensibili e coerenti. Mi farebbe piacere se il vostro ottimo giornale indagasse al meglio la veridicità di tutti questi elementi.

Eugenio Girelli Bruni

 

Gentile Eugenio, l’operazione aritmetica del direttore del Tempo, Franco Bechis, era tecnicamente arbitraria e un po’ provocatoria. Il numero 3.783, infatti, non compare nel rapporto dell’Istituto superiore di Sanità, Bechis lo ricava calcolando sui 130.468 decessi attribuiti al Covid dal 20 febbraio 2020 al 5 ottobre scorso la percentuale del 2,9 che l’Iss trae da appena 7.910 cartelle cliniche di deceduti, quelle che sono arrivate dagli ospedali: su quei 7.910 i deceduti senza altre patologie erano 230, il 2,9% appunto. Gli altri per lo più avevano altre 2 o 3 malattie, dal cancro alla demenza alla semplice ipertensione e al diabete; 4 o 5, dice sempre l’Iss, se erano anche vaccinati. Il Covid interagisce con queste patologie e ieri l’Iss oltre a smentire Bechis ha scritto che il virus, secondo le indagini condotte con l’Istat, è “direttamente responsabile della morte nell’89% dei decessi di persone positive al test Sars-CoV-2”. Peraltro quello dei 7.910 è un campione definito “opportunistico” e cioè accidentale, con qualche elemento di ponderazione ma non affidabile sul piano statistico: non si può trasferire su tutti i morti. Come dice lei, servono dati più accurati. E la tabella dall’Iss non convince tutti neppure al ministero della Salute, perché può trarre in inganno o prestarsi a strumentalizzazioni. Forse risente della prima fase della pandemia quando governo e Iss cercavano di minimizzarne l’impatto per non allarmare troppo.

Ad ogni modo i morti Covid non sono tutti i positivi deceduti. Occorrono un “quadro clinico e strumentale suggestivo di Covid-19”, l’“assenza di una chiara causa di morte diversa” e altri requisiti. Se un positivo muore in un incidente stradale non finisce tra i morti Covid. Poi ci sono casi di confine, lo stesso infarto può essere causa di morte primaria ma accelerata dal Covid. Nulla di “forzato”: sono molti di più di quelli dell’influenza. E anche la povertà uccide, come le pessime condizioni della sanità italiana. Intanto Bechis è diventato una bandiera dei no vax, lui che no vax non è, se non dei negazionisti del Covid. Ma la critica alla qualità dei dati e al loro uso politico ha fondamento.

Alessandro Mantovani