Tamponi, un caos made in Italy

L’importanza del contact tracing, dei tamponi naso-faringei eseguiti con tecnica molecolare si è dimostrata cruciale nella lotta contro il Covid. Eppure, anche nel loro utilizzo, grazie alla totale improvvisazione con la quale si è affrontata la pandemia, si è perduto tempo e creata confusione. Quanti positivi sono “sfuggiti”, trasformandosi in amplificatori della pandemia? La storia è lunga e comincia con una incomprensibile strategia iniziale, secondo la quale bisognava effettuare i tamponi solo ai sintomatici. Il 27 febbraio 2020, Franco Locatelli, presidente del Consiglio Superiore di Sanità (CSS), diceva: “Confermo che il 95% dei tamponi realizzati ha dato esito negativo” in merito alla diffusione del coronavirus in Italia. La realtà è che mancano i reagenti e che non si è organizzati per far fronte alla grande richiesta, come dovrebbe essere da piano pandemico. Di fatto, per lungo tempo, si processano tamponi “inutili”, perché il risultato si ottiene anche dopo 3 o 4 giorni, tempo che ne invalida l’uso. Finalmente, quando arriva una buona quantità di tamponi e reagenti, il ministero della Salute parla di contact tracing e le direttive, sia a livello ministeriale sia regionale, cambiano rotta. Bisogna far tamponi a più persone possibili, asintomatici inclusi dunque. In commercio arrivano i cosiddetti “tamponi rapidi”. In 30 minuti si può avere la risposta. Se il risultato è positivo, bisogna ripetere il test, ma con il tampone molecolare. Le proteste del mondo scientifico trovano ancora totalmente sordi i “decisori”. Il tampone rapido non ha l’efficienza e la sensibilità di quello molecolare. Perché ripetere il test al caso positivo? Sarebbe più logico ripetere il negativo per essere sicuri di non lasciare in circolazione un soggetto positivo non evidenziato col test rapido. Si continua cosi (a tutt’oggi!). Con l’apertura delle scuole, i bambini sono sottoposti a numerosi e ripetuti tamponi. Vengono messi a punto i “tamponi salivari”, simili a un chewing gum. L’Istituto Superiore della Sanità che, ricordiamo, è un ente di supporto al ministero della Salute, li approva. Il ministero della Salute, no. La storia continua. Quanti positivi evitabili (non parliamo di ammalati gravi e morti) avremmo potuto evitare?

 

Così l’intelligenza artificiale minaccia l’intera umanità

Minaccia. “L’intelligenza artificiale è la più grande minaccia alla sopravvivenza dell’umanità” (Elon Musk).

Istituti. Esistono moltissimi istituti di ricerca e think tank nati per studiare il rischio che la specie umana sia annientata dall’avvento dell’intelligenza artificiale e per elaborare gli algoritmi necessari a evitarlo: il Future of Humanity Institute a Oxford, il Centre for Study of Existential Risk presso la University of Cambridge, il Machine Intelligence Research Institute a Berkeley, e il Future of Life Institute a Boston.

Segnali. I segnali all’interno del sistema nervoso viaggiano a una velocità di circa cento metri al secondo. In un computer toccano quella della luce.

Macchine. “Si definisca ‘ultra-intelligente’ la macchina le cui attività intellettive superano di gran lunga quelle di qualsiasi essere umano, comunque dotato. Poiché di queste attività intellettive fa parte la progettazione di macchine, una macchina ultra-intelligente potrà progettarne altre sempre migliori; a quel punto si verificherà un’‘esplosione dell’intelligenza’, e quella umana resterà irrimediabilmente indietro” (I. J. Good)

Intelligenze. Nel West End londinese ha debuttato un musical con libretto e musiche scritti da un programma di Intelligenza Artificiale chiamato Android Lloyd Webber. Un libro scritto da un software ha passato la prima selezione di un premio letterario giapponese aperto a opere scritte da umani e intelligenze artificiali.

Professioni. Professioni che hanno almeno il 96 per cento di probabilità di divenire obsolete nel giro dei prossimi vent’anni: impiegati delle poste, gioiellieri, chef, contabili, segretari di studi legali, analisti di credito, erogatori di prestiti, cassieri, commercialisti e autisti.

Altruismo. L’Effective Altruism, l’altruismo “efficiente”, contrapposto all’altruismo “emotivo”. Esempio: lo studente che, invece di laurearsi in medicina e andare a curare i ciechi nei Paesi in via di sviluppo, decide di gestire hedge fund a Wall Street, per poi investire parte dei profitti nella formazione di diversi medici, guarendo così dalla povertà un numero di persone assai superiore.

Animali. Steve Wozniak, cofondatore di Apple, è convinto che gli umani siano destinati a diventare gli animali domestici di robot superintelligenti.

Libidine. “Ci riproduciamo a un ritmo insostenibile, divorando tutte le nostre risorse. La nostra libido è calibrata sull’Era Glaciale, quando un nuovo nato su quattro moriva durante il parto, portandosi dietro la madre. Ora non è più così. Eppure, a tutti i presenti scopare interessa molto. Giusto?” (Tim Cannon).

Cortecci. Le cellule della corteccia cerebrale non vengono mai sostituite nell’arco della vita.

Robot. Hans Moravec, professore di robotica della Carnegie Mellon, crede che i robot saranno i nostri eredi evolutivi. Dice che potrebbero finire per farci fuori, ma che non sia una prospettiva da evitare: “Sarà nostro dovere lasciare loro il campo e toglierci di mezzo quando non saremo più in grado di dare un contributo”.

Cristianesimo. Il reverendo presbiteriano Christopher Benek, della Florida, sostiene che occorra convertire le forme avanzate di intelligenza artificiale al cristianesimo.

Perché. “Dipingo perché voglio essere una macchina” (Andy Warhol).

 

Notizie tratte da: Mark O’Connor, “Essere una macchina”, Adelphi, pagine 260 181.

Continua

 

Così Renzi emoziona meno di un’unghia incarnita di Tabacci

Una delle maniere più facili per capire se un argomento interessa o meno è farci un post: in base al numero di interazioni generate, avremo piena contezza del “fascino” di quell’argomento. Da anni c’è un uomo che garantisce il grado zero di interesse e interazioni: Renzi. È spaventoso come un uomo capace (senza granché meriti) di raggiungere il 40% sette anni e mezzo fa, sia oggi considerato persino meno di Calenda e Paragone. Ormai financo i Barillari e le Cunial generano più interesse di lui. Renzi aveva promesso di smettere con la politica laddove avesse perso il 4 dicembre 2016: chiaramente non è stato di parola, ma a sua insaputa invece lo è stato. Per gli italiani Renzi non esiste più. È carambolato mestamente in quel limbo terrificante per i personaggi famosi: l’indifferenza. Meloni genera reazioni estreme, o piace o la detesti. Salvini è in crollo verticale, perché pure lui sullo stesso viale del tramonto imboccato da Renzi, però ancora qualcosa smuove. La Diversamente Lince di Rignano, no. Scrivi una cosa su di lui, qualsiasi cosa (sì: pure questo articolo) e non frega nulla a nessuno. Di fatto, dal meraviglioso 4 dicembre di cinque anni fa in poi, Renzi ha interessato gli italiani soltanto in due occasioni: alle elezioni del 2018 e quando ha fatto cadere un governo dentro una pandemia.

Ovviamente quel doppio interesse da lui generato è stato tutto negativo, perché Renzi ormai è bravo giusto a vincere il Gran Premio dell’Antipatia. Esaurite quelle due bolle mediatiche, Renzi è tornato a emozionare e incendiare meno di un’unghia incarnita di Tabacci. Quei due o tre renziani che ancora esistono, lo difendono in maniera livida e quasi tenera: forse neanche i repubblichini dopo Dongo apparivano così patetici. Renzi, politicamente, non esiste più. Lo hanno deciso gli italiani, con una “violenza” che fa media con la spaventosa ingenuità con cui questo pesce piccolissimo (nel talento) fu oscenamente frainteso otto anni fa per Adenauer. Renzi merita certo la dimenticanza politica, ma questa disattenzione porta con sé anche effetti negativi. Andrebbe eccome prestato interesse su certi suoi “inciampi”. L’indagine Open che ha travolto lui, Boschi, Lotti e quel Giglio Magico un tempo arrembante e oggi meravigliosamente smandruppato. Il suo ricorrere all’immunità parlamentare (la stessa che bombardava quando fingeva di essere un rottamatore). La sua surreale esultanza per le Amministrative, dove ha preso meno voti del Gengio della Rassinata. I suoi incarichi sbarazzini in Russia, la sua benevolenza ributtante nei confronti di Bin Salman. Eccetera. Renzi ha sempre ambito a condurre una vita politica senza vanti né meriti, e dunque non può certo chiedere adesso sconti mediatici da quella stampa che fino a cinque anni fa (e qualcuno pure dopo) lo celebrava in un profluvio mieloso di servi encomi & codardi oltraggi. Ma agli italiani non interessa più: lo hanno già derubricato al passato, quasi che quello che ogni tanto appare ancora in tivù fosse evanescente spoglia mortale di qualcuno che è già altrove (in Arabia Saudita, forse). Lui stesso, inspiegabilmente narciso a dispetto di doti e fattezze, appare oggi stanco e invecchiato, vittima di uno spietato crollo “d’ottavo grado d’a scala Mercalli” tipo Fabris in Compagni di scuola. L’Italia concede rinascite e resurrezioni a chiunque, e dunque un giorno potremmo ritrovarci il Mister Bean del Valdarno persino al Quirinale, ma allo stato attuale Renzi è meno vitale di un fossile di Iguanodonte. Spiace.

 

La condanna va eseguita subito pure per il “giudicato parziale”

La Corte di Cassazione ha confermato la condanna di anni 6 e mesi 8 di reclusione all’ex parlamentare Francantonio Genovese con sentenza della corte di Appello di Messina per i reati di tentata estorsione, associazione a delinquere in relazione allo scandalo dei fondi per la formazione professionale e frode fiscale. Con la medesima decisione la Cassazione ha, sul ricorso del pg di Messina, annullata la sentenza in questione nella parte in cui aveva assolto Genovese dal delitto di riciclaggio, rinviando alla corte di Appello di Reggio Calabria per nuovo giudizio in ordine a tale reato.

Si è in presenza di quella ipotesi che viene, in senso tecnico, definita “giudicato parziale” o “giudicato a formazione progressiva” che, a norma dell’art. 624 c.p.p., si verifica quando l’annullamento non è pronunciato per tutte le disposizioni della sentenza sicché questa ha autorità di cosa giudicata (ed è, quindi, eseguibile) nelle parti che non hanno connessione essenziale con la parte annullata, come nel caso di specie, ove non vi è nessuna necessaria interdipendenza logico-giuridica tra il diritto di riciclaggio (per cui vi è stato l’annullamento) e gli altri reati per i quali vi è stata condanna.

Sulla base di tale principio, la parte della sentenza che ha confermato, in via definitiva, il giudizio di responsabilità e la pena inflitta in appello (anni 6 e mesi 8 di reclusione) doveva essere eseguita. Senonché, la Procura generale di Reggio Calabria ha ritenuto che per l’esecuzione della pena fosse necessario attendere la definizione del processo di rinvio presso la corte di Appello e dell’(eventuale) giudizio di Cassazione. La Procura generale ha fatto sicuramente riferimento a una recente sentenza delle Ss. Uu. della Cassazione (n° 3423/2021) che, con motivazione prolissa e alquanto contorta, ha travolto quell’orientamento giurisprudenziale della Corte secondo cui “la formazione del giudicato parziale per essere la decisione di condanna divenuta irrevocabile in relazione all’affermazione di responsabilità per uno o per alcuni dei reati contestati con indicazione della pena che il condannato deve comunque espiare impone che la condanna sia messa in esecuzione, a nulla rilevando l’annullamento con rinvio per gli altri autonomi capi” (Cass. n° 25392/2012; 15949/2013; 43824/2018). Principio esatto perché, sulla base del principio di formazione progressiva del giudicato, la sentenza di condanna deve essere posta immediatamente in esecuzione quando essa sia irrevocabile in relazione all’affermazione di responsabilità dell’imputato per alcune delle fattispecie contestate e contenga già le indicazioni della pena da applicare per le stesse, anche se la sentenza abbia disposto l’annullamento con rinvio per altre ipotesi di reato.

E, si badi bene, nel caso in esame, non vi è stato l’annullamento con rinvio per alcune delle ipotesi di reato per le quali l’imputato era stato condannato in appello (e divenute oramai incontestabili), bensì l’annullamento dell’assoluzione per il delitto di riciclaggio, il che significa che la posizione processuale di Genovese nel giudizio di rinvio non è suscettibile di miglioramento perché, se assolto, resta ferma la pena già inflitta (anni 6 e mesi 8 di reclusione); se condannato, dovrà scontare una ulteriore pena inflittagli per il riciclaggio che potrà essere rimodulata, a beneficio del condannato, dal giudice dell’esecuzione mediante l’istituto della continuazione – (ove sia stato accertato il medesimo disegno criminoso tra tutti i reati) – che ben può essere applicato in executivis addirittura tra reati oggetto di sentenze diverse.

 

No vax, sugli ebrei ecco le solite (antiche) bugie

La pandemia e la vaccinazione di massa in corso stanno rinfocolando fantasie sinistre circa l’esistenza di un piano di dominazione mondiale ordito dai ricchi ai danni dei poveri.

Niente di nuovo sotto il sole. È almeno dall’inizio dell’Età Moderna, cioè da quando si è sviluppata la pratica del commercio a lunga distanza garantito da documenti cartacei anziché da metalli preziosi, che si aggira fra noi il fantasma della “repubblica internazionale del denaro”. Lo strapotere acquisito dal capitalismo finanziario apolide, la sua vocazione a distaccarsi dalla produzione delle merci e dai vincoli statali, insieme alle ingiustizie sociali che ne derivano, da sempre incoraggiano teologi, intellettuali e politici alla ricerca di un colpevole da offrire in pasto al malcontento popolare. E siccome il problema è reale ma i “colpevoli” sono troppo potenti (o troppo vicini) viene comodo personificare la tendenza all’astrazione della ricchezza in un suo qualche perfido artefice. Laterza ha appena tradotto un libro importante, formidabile nel disvelare il meccanismo originario di tali “verità” artefatte. L’aveva già fatto da par suo, ma in forma letteraria, Umberto Eco ne Il pendolo di Foucault e ne Il cimitero di Praga. Solo che qui non si tratta di opera di fantasia. L’autrice è Francesca Trivellato, docente di storia economica all’università di Princeton (Usa). Si intitola Ebrei e capitalismo. Storia di una leggenda dimenticata. Non pretendo di suggerirlo ai neonazisti Do.Ra. di Varese che farneticano sul vaccino come “arma genetica” escogitata dalla finanza ebraica per imporre un “Nuovo Ordine Mondiale”. E neppure al brigatista Maurizio Ferrari che continua a credere nell’esistenza del Sim (“Stato Imperialista delle Multinazionali”). Ma forse Carlo Freccero e gli altri No Green Pass convinti di battersi contro un “Grande Reset” finalizzato alla sottomissione dei popoli, potrebbero trarre giovamento da questa lettura.

Studiando la tenace credenza perdurata oltre tre secoli, dal Seicento fino alla metà del Novecento, secondo cui il primo capitalismo sarebbe stato una creatura dei mercanti e dei banchieri ebrei, Francesca Trivellato s’è imbattuta in un trattato di diritto marittimo pubblicato a Bordeaux nel 1647 la cui straordinaria fortuna è alla base di questa diceria trasformatasi in luogo comune acquisito. Fu per primo l’oscuro avvocato Etienne Cleirac a sostenere che si deve agli “abominevoli circoncisi banditi dalla Francia per i loro misfatti e crimini esecrabili” l’invenzione delle lettere di cambio e delle polizze assicurative; un sotterfugio degli ebrei per trafugare le loro ricchezze, sottraendole alla confisca. Insomma, le cambiali, strumento essenziale del commercio internazionale e antesignane della moderna finanza, sarebbero opera malefica degli ebrei; purtroppo imitati da speculatori cristiani, a loro volta colpevoli di comportarsi da ebrei. Si tratta di un falso bello e buono. È comprovato che le cambiali furono utilizzate dapprima nelle transazioni in partenza dalla Toscana, da Genova e dalla Lombardia per poi diffondersi, vista la loro praticità, in tutta Europa. Ma resta il fatto che dal 1647 chiunque volesse contrapporre la finanza “parassita” al “sano” commercio di merci, ha trovato comodo etichettarla come vizio ebraico. Per secoli ci hanno creduto quasi tutti, compresi Montesquieu e Cesare Beccaria che pure consideravano un merito, e non una colpa degli ebrei, l’aver separato il commercio dalla guerra, dando impulso al capitalismo moderno. Lo stesso Marx in gioventù, salvo poi correggersi, sostenne che “la cambiale è il Dio reale degli ebrei”. Per non parlare del sociologo antisemita Werner Sombart. Giù giù fino ai giorni nostri, quando viene ancora naturale alla Meloni definire Soros “usuraio” e al suo fido Michetti tirare in ballo la categoria dei banchieri ebrei. Perché stupirsi allora se l’origine ebraica di Albert Bourla, ceo di Pfizer, diviene oggetto di insinuazioni da parte dei No Vax più beceri? La leggenda che inchioda gli ebrei a un loro presunto satanico rapporto con il denaro attraversa i secoli, vivendo sempre nuove reincarnazioni dell’eterna accusa: ebrei=sanguisughe. L’immaterialità della finanza ne favorisce l’accostamento con l’invisibilità, o meglio l’indistinguibilità ebraica, additate come minaccia all’integrità dell’organismo sociale. Se trovo preziosa la ricostruzione storica di Francesca Trivellato, è perché ci mette in guardia dal ripetersi dei tranelli odiosi in cui rischia di incappare chiunque voglia opporsi alle storture del capitalismo finanziario. È sintomatico, a tal proposito, come la destra italiana sposi con naturalezza gli argomenti dei No Green Pass, ergendosi a baluardo contro le oligarchie e i “poteri forti”, mentre si guarda bene dal prendersela con le famiglie del capitalismo italiano che hanno occultato le loro ricchezze private all’estero.

Tolstoj canterino, le tate dell’Est Europa e il potere a letto

Ogni custode moderno del fuoco sacro, della sensitività e della malinconia primigenia, si difende da questa nostra civiltà intesa al successo coltivando la pazienza cordiale e la volontà silenziosa, affinché la sua vita prosegua serrata, e si arricchisca: lentissimamente, ma senza sperperare nulla. E poiché la vita ideale si sviluppa per profondità e modo (essa è tema, è forma), niente di meglio che affidare il nodo delle inquietudini contemporanee alle proprie Pagine di diario.

Sfrutto le ottobrate romane per fare due passi a Villa Borghese. Perché vi alligna una moltitudine di bambinaie dell’Est. Si rendono conto, quei bambini fortunati, di avere delle top model come tate? No, giocano coi coetanei, i fessi. Chi ha il pane non ha i denti. Ma come ti avvicini alla loro tata, tornano da lei a romperti i coglioni. Finisco sempre per litigarci: “Scommetto che mio padre le darebbe a tuo padre, se fossimo fratelli”. Non possono capirla.

I bambini sono buffissimi. “Quanto sei alto?”. “Così”. E porta la mano sulla testa.

Ma non dimentico che i bambini sono qui per rimpiazzarci. Guardate fisso un bambino negli occhi e ci leggerete il messaggio: “È solo questione di tempo, zio”. Se però siete ai giardinetti, non guardatelo troppo fisso negli occhi o arriverà la polizia.

A furia di esperimenti, ho scoperto che il modo migliore per attaccare bottone con una bambinaia dell’Est è porle un problema pratico. Mi siedo accanto a lei sulla panchina con in mano un libro e una biro. Poi, come attratto da una stranezza di cui mi sto accorgendo in quel preciso momento, guardo la biro per qualche secondo, quindi dico: “Perché c’è un piccolo buco alla metà della biro?”. È una tattica così infallibile che prenoto la stanza dell’alberghetto nei paraggi il giorno prima.

Molte di loro sono laureate, e questo facilita la conversazione. “Laureata in cosa?”. “Letteratura russa. Puškin, Gogol, Dostoevskij, Tolstoj, ČCechov. Li conosci?”. “Ehm, sì”. “Il mio preferito è Tolstoj”. “Eh, Tolstoj è un grandissimo. Ho sempre pensato che se Tolstoj fosse stato un cantante, sarebbe stato James Brown”.

Una mi raccontò com’era rimasta vedova dopo appena un anno di matrimonio. Un tragico incidente. Aveva letto su un femminile che il modo migliore per far sentire sexy un uomo è spaventarlo con un grido d’aiuto. Così escogita un piano. Si mette in lingerie di pizzo nero e si infila sotto le lenzuola. Quando suo marito torna a casa dall’ufficio, lei caccia un urlo straziato dalla camera da letto, chiusa a chiave. Lui allora irrompe buttando giù la porta con una spallata, carambola su una sedia e giù dalla finestra.

Uno studio recente su donne d’età compresa fra i 25 e i 55 anni dimostra che “il potere di lui è un afrodisiaco per lei. Se l’uomo con cui si fa l’amore è potente, ricco e ha una posizione sociale invidiata, per le donne è più facile raggiungere l’orgasmo. Più la donna è giovane, più si rafforza l’appeal del potere. Il potere alimenta maggiori pensieri erotici nel 47% dei casi”. Dovevo fare il vescovo.

 

Il carnevale dadaista del caimano

Non riuscivo a comprendere il senso dell’autocandidatura di Silvio Berlusconi al Quirinale quando ho avuto un’illuminazione. Devo ringraziare l’onorevole Gianfranco Rotondi che ieri su queste colonne ha raccontato ad Antonello Caporale quanto segue: “Ha destato qualche lieve imbarazzo il fatto che qualche giorno fa Sgarbi si sia tolto scarpe e calzini e abbia passeggiato a piedi scalzi per il Transatlantico di Montecitorio”. Poi, da antico e nostalgico democristiano, Rotondi ha ricordato Dossetti e La Pira che in segno di penitenza giravano scalzi per il Parlamento, “ma c’era una imponenza, un significato, un sacrificio, una rispettabilità per quella decisione”. Giusto, e infatti le mattane di Sgarbi, come quelle di B., non rappresentano forse la negazione stessa della imponenza e della rispettabilità del potere legislativo? Con la prevalenza dello sberleffo, della piroetta, del cachinno sguaiato nel luogo dove da tempo non si compiono più i destini del Paese, trasformato com’è in un parcheggio ben riscaldato e privo di parcometro?

Siamo insomma alla versione politica del dadaismo, la tendenza culturale che nel negare tutti i valori razionali e riconosciuti esaltava gli atti gratuiti e arbitrari dell’individuo. Solo che, a differenza dello Sgarbi privo di pedalini e dadaista per definizione, Berlusconi immaginandosi capo dello Stato persegue un dadaismo inconsapevole, stralunato e abbastanza indecente circondato com’è da un personale domestico che non osa dirgli la verità (con l’eccezione, forse, dell’ex famiglio Giovanni Toti che esclude per il Colle “idee stravaganti”). Certo che un settennato carnevaldadaista del fu Caimano ci garantirebbe delle tirature alle stelle (così come il Michetti Chi? avrebbe assicurato fiumi di cronache meravijose). Però, nell’Italia dell’uomo solo al comando e del 60 per cento di astenuti, preferiremmo che si restituisse disciplina, onore e decoro alle istituzioni. Per questo abbiamo proposto per il Colle Liliana Segre.

Blitz alla Camera per rinnovare l’A22

Arriva il blitz sull’Autobrennero (l’A22). Ieri le commissioni Ambiente e Trasporti della Camera hanno discusso la norma che concede l’affidamento della concessione senza gara dell’autostrada grazie a un emendamento al “dl Infrastrutture” a firma Alessia Rotta del Pd e Raffaella Paita di Italia Viva alla Camera, relatrice del provvedimento. Ieri i presidenti delle province di Trento e Bolzano esultavano dandolo come già approvato.

Il decreto tra l’altro prevede la costituzione di una nuova società per svolgere l’attività di gestione delle autostrade di proprietà statale in regime di concessione. In pratica una nuova partecipazione statale controllata dal Tesoro e qualificata come in house. In Spagna, alla scadenza delle concessioni, la gestione della rete torna allo Stato, in caso contrario in Europa si fanno le gare per l’affidamento. In Italia il caos regolatorio regna sovrano. In contrasto con il Pnrr e le indicazioni comunitarie, il riordino delle concessioni autostradali viene evitato cedendo alle richieste campanilistiche delle lobby autostradali private e pubbliche.

È il caso dell’Autobrennero (A22), controllata dalle province di Trento e Bolzano. Si vuole evitare a tutti i costi di affrontare i “pericoli” della gara, trovandosi così una concessione trentennale in tasca. La proposta che avrebbe fatto cambiare idea al governo è quella di un project financing con piano di investimenti da 6,5 miliardi per realizzare due vecchi sogni emiliano-romagnoli: l’autostrada Cispadana e la Reggiolo-Ferrara. Il promotore delle opere sarebbe la A22, cioè lo stesso soggetto che non è riuscito a finanziarle da 10 anni perché prive di sostenibilità economica, pur detenendone la concessione. Ora la ricca società altoatesina si inventa la soluzione “Ppp”, partenariato pubblico-privato, dove per privato si intende però un’azienda praticamente pubblica. Lo si evince dall’emendamento presentato alla Camera che prevede la costituzione di una nuova società interamente controllata dal Mef per svolgere l’attività di gestione delle autostrade in regime di concessione.

Una nuova partecipazione statale che subentra nelle funzioni e nelle attività ora attribuite all’Anas esclusivamente riguardanti le concessionarie autostradali. Tante però sono le pendenze in carico al concessionario dei 314 km di rete dal Brennero a Modena. La concessione è scaduta dal 2014 e da allora si va avanti con le proroghe. È fallita l’operazione in house (far uscire il 14% degli azionisti privati per avere una maggioranza assoluta dei soci pubblici) per evitare la gara in accordo con la commissione europea. A22 deve versare allo Stato 800 milioni di fondo “ferrovia”, accantonati dal 1998, e 430 milioni di profitti accumulati senza averne diritto dal 2014, cioè da quando è in regime di proroga.

Questo emendamento è l’ennesimo blitz in mancanza di una riforma del caotico sistema concessionario autostradale, quello che ha portato al crollo del ponte Morandi. È lo stesso Stato concedente di 6mila chilometri di autostrade che subisce le pressioni e le regole dei concessionari, anziché dettarle.

Mudimed, così Franceschini fa lo spot al colosso Novartis

Mercoledì 20 ottobre, nella sala stampa di via del Collegio Romano, sede del ministero della Cultura, il ministro Franceschini, con un ricco parterre di relatori, ha presentato al pubblico e alla stampa Mudimed, il “Museo digitale della storia del metodo scientifico in medicina”. Un museo che vuole raccontare il “metodo scientifico con un approccio innovativo”, con un “percorso che attraversa la storia dell’umanità” lavorando sul rapporto tra la scienza e la società. Il progetto nasce da un accordo tra il colosso farmaceutico svizzero Novartis e il ministero della Cultura siglato nel settembre 2020 e di cui non sono stati mai diffusi i termini: prima tappa di un “programma di valorizzazione della cultura scientifica”.

In realtà, per ora, Mudimed del museo ha solo il nome. Mentre i comunicati ministeriali parlano di “museo virtuale”, infatti, quello che abbiamo ad oggi è un portale web con pochi contenuti ordinati uno di seguito all’altro. Sei video molto curati in cui un esperto/divulgatore, con l’aiuto di belle immagini di reperti, manufatti, documenti, racconta lo sviluppo della disciplina. Uno sviluppo, secondo l’archeologo Giuliano Volpe, coordinatore scientifico del progetto, caratterizzato da “umiltà, libertà, generosità, collaborazione”. Curioso che per raccontare una storia simile si sia scelto di creare il “museo” proprio con Novartis, spesso al centro delle cronache non proprio per la generosità: nel 2009, ad esempio, negò la concessione di vaccini gratuiti ai Paesi in via di sviluppo, mentre nel 2014 fu l’Antitrust italiano a chiedere 182,5 milioni di euro di risarcimenti proprio a Novartis e Roche, colpevoli di un accordo per aumentare il prezzo dei medicinali per gli occhi Avastin e Lucentis che aveva causato un danno al Ssn stimato in 1,2 miliardi (il Consiglio di Stato ha confermato, ma pendono ancora tre ricorsi). Ancora oggi Novartis, secondo l’Aifa, risulta morosa nei confronti dello Stato per 139 milioni per non aver rimborsato lo sforamento del tetto di spesa per i farmaci acquistati dal Ssn
(il cosiddetto payback).

In realtà – nonostante per il ministro Franceschini questo sia “un ottimo esempio di collaborazione tra pubblico e privato” e “una strada importante, una bella iniziativa che può indicare a molte altre aziende il percorso da seguire nella collaborazione al servizio della cultura” – appare chiaro che sia stata Novartis scegliere il MiC e non viceversa, trovando la disponibilità del ministro a fornire personale (tanti gli alti dirigenti del ministero nel coordinamento scientifico, oltre a una dirigente del Miur) e il permesso di usare immagini e spazi di proprietà degli istituti statali. Sfugge invece quanto e cosa Novartis abbia fatto per permettere la nascita e la crescita del progetto: i materiali sono pubblici e di libero accesso su Google (partner del progetto), non risulta che l’azienda abbia assunto o deputato suoi dirigenti o dipendenti allo sviluppo della neonata istituzione, mentre per quanto riguarda contributo economico, al Fatto fonti del MiC fanno sapere che Novartis ha sostenuto “tutti i costi di produzione inerenti le riprese, le consulenze scientifiche e il progetto didattico”, senza quindi contributi per personale e permessi. L’accordo tra Novartis e ministero prevede poi, oltre a “Mudimed”, altre iniziative di sensibilizzazione: le prime a Napoli.

Se Novartis ha messo l’idea e i soldi per produrre i video, il ministero, da parte sua, oltre a una conferenza stampa, ha concesso il titolo di “museo” e i suoi dirigenti a un semplice portale web. Dati i contenziosi aperti, e il prossimo pronunciamento del Tar sulla morosità attestata da Aifa, appare quantomeno inopportuno un atteggiamento simile, che porta a rischiare il più classico dei “cultural washing” a favore di un’azienda che deve ripulirsi il pedigree dopo multiple polemiche e risarcimenti richiesti. E se per caso questo tempismo fosse legato proprio alla volontà di proteggere l’immagine di Novartis, ciò andrebbe chiarito, perché non si tratterebbe di una collaborazione tra pubblico e privato in ambito culturale, ma di un utilizzo del patrimonio culturale per fare, come troppo spesso accade, un favore a un’azienda privata.

Via libera ai segreti di Facebook: oltre 10 mila documenti

Sopravvissuta alla contingenza dello scandalo Cambridge Analytica, ora Facebook inizia a pagare il conto della sua organizzazione strutturale e del suo essere una immensa nazione digitale: tocca gestirla. Quando non accade, ci si può trovare a fronteggiare una grossa rivolta. Il prezzo si paga in reputazione e perdite in bilancio. In queste ore un consorzio di 17 testate giornalistiche americane sta diffondendo notizie sui cosiddetti “Facebook Papers”, 10mila pagine di documenti interni consegnati al Congresso dalla whistleblower (una talpa) Frances Haugen, ex product manager nel dipartimento di integrità. In parte erano già stati rivelati nelle scorse settimane dal Wall Street Journal che ne ha avuto accesso esclusivo in anticipo e li aveva battezzati come “Facebook Files” prima che la Haugen decidesse di consegnarli anche alle altre testate, creando una sorta di consorzio, come raccontato da uno stesso giornalista, quasi loro malgrado.

I files contengono quanto già noto, ma con ulteriori dettagli: numeri sottovalutati sul contrasto all’incitamento all’odio, dipendenti inascoltati sulla sicurezza, disinformazione, inciampi sull’intelligenza artificiale. Il social avrebbe, ad esempio, un problema con la moderazione dei messaggi d’odio in lingue che non siano l’inglese o comunque meno diffuse. Pochi i moderatori dei dialetti arabi e, in Afghanistan, tradotte male anche le pagine che spiegavano come segnalare. Solo il 13% del budget per gli algoritmi sarebbe per i paesi extra Usa. I documenti confermano anche che gli algoritmi di Facebook hanno dei pregiudizi e che l’azienda ne era al corrente: l’allenamento delle macchine sugli utenti più attivia avrebbe generato distorsioni di tipo razziale. Inoltre, diversi rapporti di ricercatori avrebbero sottolineato come la capacità di bloccare l’incitamento all’odio riguardasse al massimo il 20% del totale. E ancora, la lentezza di intervento nei giorni attorno all’attacco a Capitol Hill, l’esistenza di una “lista” di milioni di personaggi famosi praticamente esenti dalla moderazione tradizionale, la consapevolezza – senza conseguenze – che Instagram fosse potenzialmente dannoso per le adolescenti, il cortocircuito del tentativo di far aumentare le interazioni tra gli utenti finito invece a spingere la diffusione di rabbia e odio, la debolezza nell’intervento contro segnalazioni di traffico di droga e di esseri umani, il fallimento nel tenere lontana dalla piattaforma la disinformazione sui vaccini e un piano per tenersi i teenager.

Facebook ha contestato le ricostruzioni. “Ci aspettiamo che la stampa ci ritenga responsabili, data la nostra portata e il nostro ruolo nel mondo – aveva twittato l’account dell’ufficio stampa una settimana fa – ovviamente, non tutti i dipendenti di Facebook sono dirigenti; non tutte le opinioni sono la posizione dell’azienda. Abbiamo sentito che per ottenere i documenti sono state accettate condizioni e programma di un team di pubbliche relazioni. Una selezione curata di documenti non può essere utilizzata per trarre conclusioni eque su di noi. Internamente, condividiamo il lavoro in corso e le opzioni di dibattito. Non tutti i suggerimenti resistono al controllo che dobbiamo applicare alle decisioni che riguardano così tante persone”.