Truffa dei diamanti: Bankitalia vuole cacciare chi la denunciò

Sul blog interno di Banca d’Italia si era lamentato di pressioni e minacce ricevute “dall’alto” per la sua attività di ispettore. Prima hanno cercato di farlo dichiarare pazzo e quindi inabile al servizio. Quando i medici ne hanno stabilito la salute mentale, lo hanno demansionato. Infine, siccome il whistleblower s’è lamentato pubblicamente del trattamento subìto, venerdì scorso, 22 ottobre, hanno aperto un provvedimento disciplinare sospendendolo da lavoro e stipendio. Questo è il modo con il quale i “piani alti” della Banca d’Italia hanno provato a zittire un funzionario “molto apprezzato” della Vigilanza. La sua “colpa”, spiega una nota del sindacato Falbi, sarebbe stata di essere andato troppo a fondo sulle irregolarità di Mps nelle vendite di diamanti alla clientela.

Il sindacato scrive che questa “serie di azioni intimidatorie e persecutorie” è “una brutta pagina” per via Nazionale, “un pessimo monito per tutti coloro che lavorano nell’interesse dell’istituto ma non mostrano ‘sufficiente acquiescenza’ a indicazioni informali che arrivano dall’alto”. Su questa storiaccia il 18 ottobre il segretario della Falbi, Luigi Leone, aveva scritto al Governatore Ignazio Visco chiedendo che, nell’interesse di Banca d’Italia, si facesse “chiarezza sull’intera vicenda”. Secondo Leone, viste le inchieste dei media sul ruolo di Banca d’Italia e Consob nella vendita dei diamanti in banca, “il rischio reputazionale” per l’istituto di via Nazionale “è evidente e la questione rischia di lasciare una macchia sull’onorabilità, la correttezza e le competenze” di Palazzo Koch. Leone chiede “una revisione interna” per “individuare eventuali responsabilità” e “riabilitare” i funzionari che hanno agito correttamente.

Il 21 novembre 2019 il Fatto aveva rivelato che già cinque anni e mezzo fa Bankitalia sapeva delle anomalie usate dal Monte per piazzare diamanti ai clienti. Lo dimostrava l’esposto anonimo inviato l’8 gennaio 2016 da un “onesto impiegato di Mps” alla Vigilanza e alla filiale di Firenze di Bankitalia, alla Procura di Siena e allo stesso Montepaschi. “Il risparmiatore paga 10mila euro un oggetto acquistato a meno di 2.000 e l’80% dei suoi risparmi è diviso tra banche, il broker Dpi e sponsor”, scriveva il bancario. “Mps è stata oggetto di numerose ispezioni della Banca d’Italia, come altre banche. Gli ispettori non hanno visto nulla?”, chiedeva l’esposto secondo il quale in Dpi c’era “Massimo Santoro, ex alto funzionario di Banca d’Italia”. Via Nazionale segnalò alle banche i problemi di questo business solo ad aprile 2017 e a marzo 2018, dopo che il 31 gennaio 2017 la Consob aveva avvisato i risparmiatori sui rischi delle pietre vendute agli sportelli. Ma il business di vendere diamanti a prezzi ben più alti di quelli reali durava già da 15 anni, durante i quali ha drenato oltre 2 miliardi da decine di migliaia di clienti di Intesa Sanpaolo, UniCredit, Mps, Banco Bpm e dei broker Idb e Dpi. Il 30 ottobre 2017 l’Antitrust ha sanzionato per pratiche commerciali scorrette Idb (2 milioni), Dpi (1), UniCredit (4), Banco Bpm (3,35), Intesa Sanpaolo (3) e Mps (2). Il 28 settembre 2019 la Procura di Milano ha scritto che dalle pietre Dpi aveva realizzato profitti per almeno 165,5 milioni e Mps per 35,5. Il processo è in corso.

In una nota Banca d’Italia risponde di aver fornito “ampia collaborazione alle indagini sfociate nel rinvio a giudizio per truffa, autoriciclaggio, ostacolo alla vigilanza e corruzione fra privati di 105 persone fisiche e 5 società, di cui 4 banche” e di “essersi costituita parte civile nel processo di Milano per ostacolo alla vigilanza”. Sull’iniziativa disciplinare Palazzo Koch scrive che “avvia procedimenti solo a fronte di violazioni di norme previste dal Regolamento del personale che prevede il contraddittorio con i dipendenti interessati, con piena tutela dei loro diritti. Proprio per tutelare la loro riservatezza, non fornisce dettagli sui procedimenti disciplinari”.

La Falbi assicura che tutelerà l’ispettore “in tutte le sedi opportune”, ma Palazzo Koch solleva il sospetto che il funzionario ne abbia parlato con i giornali e ribadisce che “le informazioni di Vigilanza sono coperte dal segreto d’ufficio: chi ha partecipato a queste attività non può divulgarle o parlarne con la stampa, pena la violazione del segreto”. In via Nazionale dunque vige il “comma 22”: gli ispettori devono controllare per bene e riferire ai superiori, ma se poi i superiori li censurano, demansionano e cercano di licenziarli perché hanno controllato “troppo bene”, devono lasciarsi cacciare in silenzio.

Case, partecipate e debiti: a Verona si litiga su Sboarina

Un appartamento acquistato dal sindaco Federico Sboarina a un prezzo molto favorevole vicino alla casa di Giulietta, la fusione mancata tra le società energetiche A2A e Agsm, affari e potere all’ombra dell’Arena. E poi una querela tra il primo cittadino (pronto a ricandidarsi nel 2022 con Fratelli d’Italia) e il predecessore Flavio Tosi (che ha fatto sapere alla Lega di essere disponibile). Soldi, politica e consulenze. Gli ingredienti per una stagione di veleni in riva all’Adige ci sono tutti, anche perché un esposto dell’avvocato Michele Croce, ex presidente Agsm, cuce queste vicende, insinua sospetti sul tentativo di fusione (bocciato nel 2020 per volontà della Lega) e invita a indagare sulla casa di Sboarina e sulle parcelle di alcuni avvocati.

Come moderni Montecchi e Capuleti, Sboarina e Tosi stanno duellando in Tribunale. Tosi (con l’allora fidanzata ed ex senatrice leghista Patrizia Bisinella) aveva condiviso nel 2020 su Facebook un post di Simone Meneghelli (consigliere di circoscrizione di Fare!) che, dopo la vendita di un portico al gruppo Coin, in cambio di soldi e della sistemazione di piazza Capretto, commentava: “Sboarina oltre a cedere ai privati uno storico portico della città, da loro si fa anche rimettere a nuovo la piazzetta di fronte a casa sua. No comment”. Il sindaco ha querelato e i tre sono imputati.

È così che spunta l’acquisto di Sboarina per 450 mila (o 630 mila) euro (100 mila versati, gli altri mutuati), nel febbraio 2017, anno in cui fu eletto. Si tratta di 185 metri quadrati, nove vani, in un palazzo signorile, di cui divenne proprietario grazie a un’intricata cartolarizzazione del debito di due coniugi veronesi. Questi dovevano 16 milioni a Unicredit. Ne avevano parlato a un amico immobiliarista. Poi era spuntata la società SPV Project 1606 srl di Milano, assistita dall’avvocato Piergiorgio Grassi, collega di studio di Sboarina, a cui la banca aveva ceduto il credito per 3,1 milioni. Era cominciata la vendita degli immobili (valore complessivo 10 milioni), uno dei quali è finito al candidato sindaco. Al termine dell’operazione i coniugi si erano visti privare anche della casa in cui vivevano, poiché le cessioni a prezzi troppo bassi non avevano fruttato una somma pattuita all’origine.

Si sentirono gabbati e denunciarono. Nel febbraio 2020 espressero la convinzione secondo cui “il signor F. (l’“amico” immobiliarista, ndr) e i suoi ‘sodali’ avessero inteso spogliarci di tutti i beni sin dall’inizio con un vero e proprio disegno criminoso”. Avevano scoperto che il beneficiario di un secondo appartamento era proprio l’avvocato Grassi, che nel frattempo non assisteva più SPV Project. Nel 2018 quest’ultima si era affidata allo studio Gregorio Gitti di Brescia, un avvocato che per la sua bravura ha raccolto molti riconoscimenti. La denuncia è stata poi ritirata, probabilmente a seguito di un accordo tra parti private.

E qui entra in scena l’avvocato Croce, ex presidente Agsm (2017-19). Il 7 luglio scorso ha depositato alla Finanza un esposto con 19 allegati, basato “su documenti recapitati allo scrivente in forma anonima”. Molti sono tratti dalla denuncia della coppia veronese. Croce invita a indagare sulle vendite di Spv all’interno di una cornice inedita, le trattative per cedere Agsm ad A2A, di cui Sboarina era un fautore. mentre il precedente sindaco Tosi voleva la fusione con Vicenza. L’arrivo di Sboarina aveva cambiato tutto. Croce si era opposto ed era stato estromesso. Ricorda come in una seduta del cda (aprile 2019) intervenne “l’advisor legale di Agsm (incarico che sembra conferito nell’occasione), avv. Gregorio Gitti, per chiarire i dubbi sull’imparzialità della complessa operazione”. Croce ricorda come il consigliere Michele Bertucco di “Sinistra in Comune” rivelò che allo Studio di Gitti (docente all’Università di Milano ed ex deputato del Pd) andò una parcella di 850 mila euro.

Torniamo a SPV 1606. Della denuncia si occupa il pm Gennaro Ottaviano. Croce chiede di indagare sulle vendite di tre appartamenti dei coniugi, i primi due quando il legale era Grassi. Il primo è quello di Sboarina. “Sottoscrive il contratto al prezzo di 630 mila euro, 100 mila corrisposti con assegno circolare, la restante somma con mutuo ipotecario. La somma dichiarata è tuttavia solamente apparente”. Secondo Croce il mutuo Unicredit era poi stato estinto, mentre un mutuo prima casa per 350 mila euro fu contratto con Banca Valsabbina. “In ogni caso l’avv. Sboarina acquisisce un immobile stimato 950 mila euro al prezzo apparente di 630 mila euro, con versamenti documentati per soli 100 mila euro”. Un secondo appartamento di piazza Capretto fu venduto per 808 mila euro e ora sarebbe occupato da un ex presidente di una società partecipata del Comune.

Ed ecco la terza casa, quella dei coniugi veronesi. Nel marzo 2018 la creditrice Spv si affida allo studio Gitti per ottenere il bene stimato 1 milione 250 mila euro. Scrive Croce: “Spv riceve l’assegnazione, ma dichiara di voler beneficiare un terzo soggetto: l’avvocato Piergiorgio Grassi”. Rispunta così il primo legale della società, ma in altra veste.

Croce legge le vicende immobiliari legandole (anche se i piani sono diversi) alla fusione con A2A. “Dubbi sorgono sulla contemporaneità delle due vicende. Lo studio legale Gitti è il medesimo che assiste la società di cartolarizzazione (sostituendo il precedente legale, socio di studio di Sboarina)… Spv misteriosamente decide di accontentarsi di prezzi vili per la cessione di due prestigiosi appartamenti, uno dei quali verrà acquistato dal (futuro) sindaco di Verona… Spv decide di assegnare un altrettanto prestigioso immobile al socio di Sboarina in un’epoca nella quale si stava concertando un’operazione di fusione di elevatissima portata, affidandosi al medesimo studio Gitti”.

L’avvocato Gitti spiega al Fatto Quotidano, attraverso il collega Marco Rizzo: “Nel 2018 ricevemmo un incarico professionale da Spv che si concluse nel 2020. L’esecuzione è stata seguita da me (Rizzo, ndr) personalmente. Ottenemmo decreto ingiuntivo e depositammo la nomina del beneficiario”. E il ruolo di advisor? “Agsm è un cliente dell’avvocato Gitti da una decina d’anni”. Croce (secondo cui il rapporto con Gitti fu, invece, interrotto durante la sua presidenza) ha chiesto alla Procura di acquisire l’indagine sulla denuncia dei due coniugi veronesi, “probabilmente archiviata”, nonché le parcelle di Grassi e Gitti. Chiede di verificare quanto fu sborsato da Sboarina e Grassi. Nel frattempo il sindaco ha cambiato casa.

Armanna comprò file, non testimoni. Ma ai pm arrivò l’informativa errata

Se avessero seguito le indicazioni del pm Paolo Storari, il procuratore aggiunto Fabio De Pasquale e il pm Sergio Spadaro avrebbero depositato alle difese di Eni una bozza d’informativa (quindi provvisoria) della Finanza che conteneva conclusioni errate. E non di poco conto. Nella bozza in questione l’ex manager Vincenzo Armanna era accusato di aver tentato di corrompere dei testimoni con il pagamento di 50 mila euro. Elemento ancor più sconcertante perché Armanna, nel processo in questione (quello sulla corruzione internazionale di Eni per l’acquisto del giacimento Opl-245, che ha visto tutti assolti in primo grado) rivestiva il doppio ruolo di imputato e di dichiarante.

Nella versione definitiva degli investigatori però questa tesi scompare. E si scopre che i 50mila euro erano stati versati per acquisire un documento che Armanna voleva evidentemente depositare nel processo. De Pasquale e Spadaro sono oggi accusati a Brescia di essersi rifiutati di depositare alle difese di Eni una serie di elementi (incluso questo) che avrebbero dimostrato l’inaffidibilità di Vincenzo Armanna. Storari li ricava indagando su altre vicende e li segnala ai colleghi con delle mail tra il 15 e il 19 febbraio 2019. Tra questi elementi c’è la chat estrapolata dal telefono di Armanna e analizzata in tempi rapidissimi (parliamo di 64mila messaggi) dai finanzieri: emerge che ha corrisposto 50mila dollari al nigeriano Timi Ayah e, per il suo tramite, a Isaac Eke, entrambi citati da Armanna come testi nel processo. Dove peraltro l’hanno clamorosamente smentito. Eke doveva testimoniare di “aver visto alcuni italiani imbarcare trolley pieni di denaro contante costituente il prezzo della corruzione da parte di Eni”. La riproduzione delle chat è contenuta nella bozza d’informativa che Storari invia a De Pasquale e Spadaro – peraltro riporta anche le comunicazioni tra Armanna e il suo avvocato Michele D’Agostino sulle strategie difensive – e gli investigatori segnalano che Armanna voleva procurarsi testimoni dietro “dazioni di danaro”: in sostanza siamo a un tentativo di corruzione. E questo elemento De Pasquale e Spadaro avrebbero depositato agli atti del processo Opl-245 se avessero seguito le indicazioni di Storari. Salvo scoprire mesi dopo che la Finanza avrebbe fatto dietrofront: nell’informativa definitiva la Gdf spiega che i 50mila dollari versati da Armanna erano invece destinati all’acquisto di un file che voleva portare a processo come prova.

Quindi dovremmo chiederci se questa prova, visto che Armanna i soldi li ha versati, esista oppure no. Nessuno l’ha mai vista, quindi ipotizziamo che Armanna sia stato truffato o addirittura che si tratti di un documento farlocco. Però questo documento a quanto pare esiste, se è vero, come sostiene la Gdf, che sarebbe stato destinato a una “donna” ed è un documento della EFCC, ovvero la polizia fiscale nigeriana. Un documento per il quale, scrive Ayah ad Armanna il 14 aprile 2019 – inoltrando il messaggio ricevuto da un terzo che chiede ulteriore denaro – “sai qual è il rischio che abbiamo corso. Per favore, se non viene inviato nulla dimentichiamolo”. Armanna di fronte alla richiesta di altro denaro spiega che non si tratta di soldi suoi e che “nessuno pagherà senza aver visto”: segno che il pagamento è destinato a un documento da visionare. Ayah gli inoltra un altro messaggio che ha ricevuto: “Questo rischio vale molto più di un milione di dollari”. Se non bastasse, chi lo cerca, racconta di essere stato persino arrestato.

Il nesso tra i soldi e il file sembra quindi certo ed è lo stesso Storari a confermarlo davanti al procuratore di Brescia, Francesco Prete, quando dichiara: “Io il collegamento tra i 50mila dollari e il file (…) l’ho visto nelle carte che io mi sono studiato attentamente… e infatti nelle mie memorie c’è questo collegamento”. E aggiunge di non aver disposto alcuna iscrizione per corruzione a carico di Armanna. Ma nell’informativa girata ai colleghi questo collegamento – noto anche a Storari per sua ammissione – mancava. C’era solo un dato, in quella bozza d’informativa e che riteneva dovesse essere inviato alle difese Eni: che Armanna era chiaramente accusato di aver voluto pagare per procurarsi i testimoni.

Non solo i verbali su “Ungheria”: in giro copie sul “complotto” Eni

C’è un verbale secretato di Piero Amara, finito fuori controllo, che può provenire solo dalla Procura di Milano. E non riguarda le sue dichiarazioni sulla presunta Loggia Ungheria, ma quelle sul cosiddetto “complotto” ordito per l’accusa dallo stesso Amara per sabotare il processo per corruzione internazionale di Eni-Nigeria (in cui tutti gli imputati sono stati assolti in 1° grado). Il Fatto ha visionato 9 verbali tuttora secretati. Non parliamo degli atti (in formato Word e non firmati) che il pm Paolo Storari consegnò nel 2020 all’ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo per tutelarsi dall’eventuale accusa di inerzia nelle iscrizioni per la presunta Loggia Ungheria. Parliamo di atti fotografati e firmati che riguardano non solo l’inchiesta sulla Loggia Ungheria, ma soprattutto quella sul presunto “complotto”.

Il verbale di cui scriviamo è quello dell’11 gennaio 2020 fono-registrato dalle 11:40 alle 13:04. Oltre ad Amara – che parla del “complotto” – partecipano i suoi avvocati, la procuratrice aggiunta Laura Pedio, il pm Paolo Storari e il (defunto) luogotenente della Gdf, Daniele Spello. È l’unico tra i 9 verbali visionati a non essere firmato: è la stampa di una copia Word e – soprattutto – non risulta né tra gli atti che Milano ha trasmesso ai colleghi di Perugia né tra quelli consegnati da Storari a Davigo. Se l’avesse fotografato Amara al termine dell’interrogatorio sarebbe uscito dalla procura già a gennaio 2020. Ma dovrebbe aver fotografato 5 fogli indisturbato.

Andiamo oltre. L’ex manager Eni Vincenzo Armanna il 17 febbraio 2020 sventola dinanzi a Pedio e Storari la copia di un foglio di verbale dell’11 gennaio. Incrociando le deposizioni di Pedio e Storari dinanzi alla Procura di Brescia si ricava che però riguarda un secondo interrogatorio, quello reso alle 14:55, in cui Amara parla della Loggia Ungheria. Essendo firmato, non è il verbale che abbiamo visto. Gli altri verbali fotografati appaiono sottolineati: sono copie di lavoro. Ma di chi? Alcuni sono fotografati dal monitor nero di un pc di marca Samsung: monitor che non risulta nella disponibilità dei pm milanesi. Potrebbe essere il pc personale di chi s’è portato il lavoro a casa. Analizziamo le correzioni sugli atti: il verbale del 14 dicembre 2019 reca la correzione della data di nascita di Amara. Quello del 15 dicembre e tutti i seguenti riportano la data esatta: la correzione sembra annotata dall’estensore dei verbali. I casi sono tre: i due pm o Spello (ma perché mai Spello avrebbe dovuto sottolineare le copie originali firmate?). Potrebbe averle avute in memoria nel pc e spedite a un pm che gliene ha fatto richiesta. Spello però il 10 febbraio viene trovato in casa senza vita per un malore: se quelle fotografie ritraessero il suo monitor non potrebbero essere successive al 10 febbraio. La possibilità che le foto di questi atti siano uscite già a febbraio, a pochi giorni dalle dichiarazioni di Amara, non può quindi essere esclusa. E forse la posta in gioco non era tanto la Loggia Ungheria, quanto il delicatissimo fascicolo sul “complotto”.

Roma, cinghiali in piazzale Clodio all’ingresso del Tribunale

Un gruppo di almeno cinque cinghiali ha fatto capolino questa mattina all’alba all’esterno della cittadella giudiziaria di piazzale Clodio a Roma. Gli ungulati, immortalati anche in una foto di un automobilista di passaggio, hanno raggiunto l’ingresso del tribunale di via Varisco senza però procedere oltre il varco di controllo. Dopo alcuni minuti gli animali si sono allontanati, forse in direzione della zona di via Romeo Romei, a ridosso del tribunale, dove alcuni giorni fa è già stata segnalata la presenza di alcuni cinghiali.

Sindaco di Roccella: “Serve nuovo hotspot”

“Il ministero ha confermato l’impegno a ristrutturare l’immobile della prima accoglienza che al momento non è in grado di affrontare l’inverno ed entro maggio/giugno ci sarà il nuovo hotspot che consentirà al ministero di gestire gli sbarchi mentre noi come comune rimarremo a disposizione come supporto”. Lo ha dichiarato il sindaco di Roccella Jonica, Vittorio Zito, che in questi giorni è in prima linea per gestire l’emergenza sbarchi, raddoppiati negli ultimi mesi. “Al centro adesso sono rimasti solo 38 minori gli altri sono tutti stati collocati per la quarantena. A giorni arriverà anche la nave mentre la tensostruttura è stata appena montata. Nei prossimi giorni prevediamo altri arrivi”, ha aggiunto.

Assolta Poggiali: “ Non uccise i pazienti”

Doppia assoluzione per Daniela Poggiali, ex infermiera imputata per l’omicidio di pazienti morti in corsia all’ospedale di Lugo (Ravenna). La Corte di assise di appello di Bologna l’ha infatti assolta perché il fatto non sussiste nell’appello ter per la morte di Rosa Calderoni, 78enne deceduta l’8 aprile del 2014 e anche per il caso del 94enne Massimo Montanari deceduto il 12 marzo 2014 sempre a Lugo. Nel primo caso si partiva da un ergastolo, due volte riformato da assoluzioni in appello, poi annullate da altrettante Cassazioni. Nel secondo da una condanna a 30 anni, in primo grado. In entrambi, per la Corte, il fatto non sussiste.

Chiude l’Archivio di Stato di Camerino

Proprio alla vigilia dell’anniversario del terremoto del 2016, chiude fino a data da destinarsi la sezione dell’Archivio di Stato di Camerino, aperta nel 1971, a causa del pensionamento dell’ultima unità rimasta in servizio: lo ha annunciato ieri mattina la direttrice della sede di Macerata, Fausta Pennesi, rammaricandosi per per un epilogo che, “confidando nel supporto delle Istituzioni, delle varie forze sociali e culturali” ha sperato di scongiurare. Sforzo finora vano, nonostante l’impiego di percettori di reddito di cittadinanza ad aiutare l’archivista rimasto. In serata il sindaco assicura di aver sentito la Direzione Generale: l’attività riprenderà tra 15 giorni con un nuovo archivista.

L’assurda pista da bob che devasterà le Tofane

La punta dell’iceberg della devastazione ambientale iniziata con i Campionati del mondo di sci dello scorso inverno a Cortina, e che si concluderà con le Olimpiadi 2026, è la nuova pista di bob ai piedi del massiccio de Le Tofane. I comitati e le associazioni ambientaliste del Cadore hanno promosso domenica una passeggiata che ha risalito il vecchio impianto in disuso e le nuove piste da sci (ben sei, tra vecchie e nuove) che graffiano le pendici delle tre cime de Le Tofane e deturpano indelebilmente il paesaggio. L’invito è stato raccolto da una folla di attivisti di decine di associazioni. La manifestazione è stata aperta dalle lettura di messaggi di solidarietà di scrittrici e scrittori del gruppo italiano scrittori di montagna, tra cui Paolo Rumiz che ha lanciato una “invettiva contro il degrado della montagna”. Luigi Casanova, tra gli organizzatori, ha ricordato che nel master plan che il presidente del consiglio Draghi, con procedure speciali, semplificate, si appresta ad approvare, assieme ad una infinita serie di nuovi impianti, “caroselli” sciistici, villaggi olimpici, infrastrutture viarie e seguito di nuovi alberghi, c’è anche una nuova pista di bob che dovrebbe sostituire quella attuale, da anni in abbandono. Una serpentina di cemento armato lunga un chilometro e mezzo con alti muraglioni, tribune, illuminazioni e impianti di refrigerazione artificiale. Un impianto analogo costruito per Torino 2006 a Cesana è costato 110 milioni ed è stato chiuso poco dopo. Il bob è una disciplina che in tutta Italia conta 14 (quattordici) tesserati! Ma l’intrepido governatore veneto Zaia ha già iscritto nella proposta di bilancio regionale 60 milioni ad integrazione dei 1.300 che il governo ha promesso per le Olimpiadi – che dovevano essere a “costo zero” per le finanze pubbliche. Ma la pista del bob è solo l’emblema dell’inutile e devastante spreco. Si pensi che per realizzare le nuove piste dei Campionati del mondo sono stati disboscati 70 ettari, equivalenti al taglio di 100 mila piante.

Omicidio Vassallo, l’Antimafia ascolterà il testimone della “pista colombiana”

La Commissione parlamentare antimafia vuole percorrere la pista colombiana sull’omicidio del sindaco di Pollica, Angelo Vassallo. Per questo ascolterà il 9 novembre E. L., la guida turistica del Napoletano che nel febbraio 2013 raccolse per puro caso, in un bar-enoteca di Cartagena de Indias, le confidenze di un altro italiano, Pietro, dal forte accento calabrese, secondo il quale Vassallo era stato ucciso “dal cartello dei narcotrafficanti paramilitari colombiani guidati dal boss Salvatore Mancuso Gomez, d’intesa con la ’ndrangheta calabrese”. Con un movente ipotetico che collega il delitto alle mire del cartello colombiano di trasferire i loro traffici di droga dal porto di Salerno, dove avrebbero avuto una base operativa, al Cilento, territorio ancora vergine. Vassallo, secondo questa ricostruzione, era diventato un ostacolo a questo disegno, in circostanze da chiarire.

Il gruppo di lavoro coordinato dal deputato M5S, Luca Migliorino, ha poi avviato le procedure col Dap per andare a interrogare Domenico Mancuso Hoyas, cugino del boss italo-colombiano Salvatore Mancuso. Domenico Mancuso è detenuto in Italia e una informativa del Ros del 2014 lo collocava nel Cilento negli anni a cavallo dell’assassinio del sindaco pescatore. Un dettaglio sconosciuto all’epoca del colloquio tra la guida turistica e il “calabrese” che rende interessanti, e meritevoli di approfondimento, le confidenze che E. L. aveva lasciato cadere nel vuoto. Salvo ricordarsene molti anni dopo, nel 2020, leggendo gli articoli su Salvatore Mancuso e sulla decisione dell’Amministrazione Trump di negarne l’estradizione in Italia, chiesta dal procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri, che avrebbe voluto sentirlo di nuovo sui rapporti mai interrotti tra le mafie colombiane e quelle calabresi. Si tratta della storia rivelata domenica scorsa sul Fatto Quotidiano. Sviluppatasi dopo la decisione di E. L. di incontrare Dario Vassallo, che da quel 5 settembre 2010 si batte per tenere accesi i riflettori sull’omicidio del fratello. La guida lo ha visto l’estate scorsa, gli ha parlato dei suoi ricordi di Cartagena, dove si recava ogni anno: era sposato con una colombiana. Dario Vassallo ne ha fatto cenno in Antimafia. L’informazione ha acceso una lampadina in chi aveva letto l’informativa dei Ros. Conteneva quella notizia su Domenico Mancuso Hoyas: ha vissuto per un periodo a Casalvelino, vicino a Pollica. L’ennesimo mistero di un giallo finora senza colpevoli.