Un autentico uragano mediterraneo si è abbattuto su Sicilia e Calabria, con fiumi esondati, scuole chiuse e almeno un morto. In 24 ore sono stati circa 400 gli interventi dei vigili del fuoco per i danni del maltempo in Sicilia (le maggiori criticità a Catania e Siracusa) e 180 in Calabria, soprattutto nella zona di Reggio Calabria e Vibo Valentia. Fiumi di fango e smottamenti, cedimenti, allagamenti e strade in tilt in numerosi comuni, soprattutto della parte orientale della regione, ma non solo. Scuole chiuse anche domani a Messina, Catania, Acireale, Siracusa. Decine i voli dirottati. Anche per oggi è prevista allerta rossa in entrambe le regioni. A Scordia, nell’entroterra etneo, nel pomeriggio diverse auto sono state trascinate via dalla furia dell’acqua che ha trasformato le strade in fiumi in piena. Nella mattinata di ieri è stato ritrovato il corpo dell’uomo, di 67 anni, disperso con la moglie: era in un agrumeto distante dal luogo nel quale era erano stati visti l’ultima volta, in contrada Ogliastra. Proseguono le ricerche della donna 65enne.
Il Tribunale di Tel Aviv ha deciso: Eitan tornerà in Italia dalla famiglia paterna
Il Tribunale della famiglia di Tel Aviv ha stabilito che Eitan Biran, il bambino di sei anni unico sopravvissuto all’incidente della funivia del Mottarone, tornerà in Italia. La decisione del giudice arriva dopo più di un mese dal rapimento del bambino, portato in Israele dal nonno materno Shmuel Peleg, che lo scorso 11 settembre lo aveva sottratto alla zia paterna a cui era stato affidato a Travocò Siccomario, nel Pavese. Due settimane fa si erano invece chiuse le udienze al Tribunale di Tel Aviv, a cui la zia paterna Aya Biran si era rivolta una volta resasi conto dell’accaduto, appellandosi alla Convenzione dell’Aja che disciplina la sottrazione internazionale di minori: il giudice le ha dato ragione, ed Eitan tornerà a casa. Il nonno e la nonna materna, invece, sono attualmente indagati in Italia per sequestro di persona.
Tramite i suoi avvocati Cristina Pagni, Grazia Cesaro e Armando Simbari, la zia Aya ha espresso tutta la sua felicità per il verdetto. “Eitan è cittadino italiano, Pavia è la sua casa dove è cresciuto, dove ha i suoi amici e a Pavia i suoi genitori lo hanno iscritto a scuola” spiegava quest’ultima dopo il rapimento del piccolo, rimasto orfano dopo aver perso padre, madre, fratello e bisnonni nell’incidente del Mottarone. “I giudici israeliani devono toglierlo dalle mani dei suoi rapitori e riconsegnarlo” aveva aggiunto anche lo zio paterno Or Nirko, marito di Aya Biran.
In attesa del processo in Italia, al nonno Shmuel Peleg è stato imposto il pagamento delle spese processuali pari a 70mila shekel (più di 18mila euro). La sentenza ha inoltre spiegato che “non è stata accolta la tesi del nonno secondo cui la zia non aveva il diritto di tutela”. “Con l’arrivo in Israele il nonno ha allontanato il minore dal luogo normale di vita: un allontanamento contrario al significato della Convenzione e che, così facendo, ha infranto i diritti di custodia della zia sul minore stesso” ha continuato la giudice israeliana Iris Ilotovich-Segal, facendo riferimento all’indicazione del Tribunale di Pavia, che aveva designato la donna come tutrice legale del bambino. Sentito dall’Ansa, il procuratore dei minori di Milano, Ciro Cascone, ha specificato che “in base alla Convenzione dell’Aja le decisioni che vengono prese devono essere immediatamente esecutive, e quindi il rientro del minore dovrebbe essere rapido, in tempi brevi, anche se la controparte ha la possibilità di impugnare la decisione”.
Napoli, periferia est la mattanza dei 20enni
Tutt’intorno, puzzo di morto. È l’odore di corpi bruciati nell’impianto di cremazione del Comune di Napoli, distante pochi chilometri. Quando l’aria è limpida, arriva a pervadere le campagne tra Caivano e Afragola, nei reticoli dei Regi Lagni. Zona di agricoltura, di paludi. Terra di rifiuti, e di fuochi. Il cadavere di Antonio Natale, 22 anni, scomparso il 4 ottobre scorso, è stato ritrovato qui, una settimana fa. Tra un campo di broccoletti e uno di insalata, alle spalle di un insediamento rom abusivo, una carcassa di un frigorifero rotto e una macchinina per bambini a segnarti la strada.
“La camorra mi deve ridare mio figlio, vivo o morto. Nemmeno i cani scompaiono così”, aveva detto la madre in tv. E la sorella, col megafono in mano, ogni sera andava strillando per il Parco Verde: “Ridiamo Antonio alla mamma! Perché Antonio può essere figlio di tutti noi”. Antonio, a mamma Anna, gliel’hanno ridato. O, meglio, gliel’hanno fatto trovare. In avanzato stato di decomposizione. Riconoscibile solo per i tatuaggi e qualche brandello di tuta nera e rossa che indossava. Sul corpo, diversi fori da colpo di pistola. A indicare ai carabinieri il luogo di seppellimento una cartomante, che così sentenziava: “Vedo guai, grossi guai. Vedo sangue, morte, carcere. Vedo ’i guardie (i poliziotti, ndr)”.
Antonio è l’ultimo morto di una scia di sangue che, tra la periferia Nord ed Est di Napoli, ha visto cadere in due mesi quattro ragazzi: 22, 23, 19, 25 anni. Uccisi da killer coetanei. Ventenni che ammazzano e ventenni che vengono ammazzati. Per vendette trasversali. Per epurazioni. Per “sgarri da punire”, come un ammanco di soldi della droga. Un carico di “ferro” sparito. O una qualsiasi altra “insubordinazione”. Giuseppe Fiorillo, 19 anni, di Secondigliano, è morto il 9 ottobre scorso. A pochi passi dalla storica roccaforte dei Di Lauro. Due colpi per farlo cadere, altri otto per non farlo rialzare. Si era interessato alla ragazza sbagliata, fidanzata col figlio del guardaspalle del clan reggente: e Giuseppe – padre di un figlio e in attesa del secondo, con precedenti per spaccio – s’illudeva di portargliela via. Carmine D’Onofrio, 23 anni, è stato invece ammazzato a Ponticelli, il 6 ottobre. In quell’anfiteatro naturale che è la periferia che degrada verso il mare di Napoli, siamo scesi più a Est. Sette spari a bruciapelo, sotto gli occhi della compagna incinta. Manovale, appassionato di teatro, incensurato, la colpa di Carmine era di essere figlio – peraltro non riconosciuto – di Giuseppe De Luca Bossa, ovvero nipote di Tonino ’o sicco, boss ergastolano del “Lotto 0”. È stato ucciso per “reazione”, Carmine: i De Micco – altro clan storico del quartiere, in guerra da anni contro i De Luca Bossa – dovevano rispondere alla bomba fatta esplodere nel quartier generale del 37enne Marco De Micco detto “Bodo”, scarcerato da poco.
“Sarebbe però fuorviante – tiene a chiarire il Procuratore di Napoli Giovanni Melillo – parlare di nuovo di paranza dei bambini”. È un invito, se non a cambiare, a pulire le lenti con cui si è letta, negli ultimi anni, la realtà criminale di Napoli. Perché che siano i 20enni come Antonio Natale o Giuseppe Fiorillo, o come sei anni fa Emanuele Sibillo con la sua paranza dei bimbi divenuta famosa, questi giovani – tutti morti – non sono che “forze nuove che vengono reclutate”. Per rimpiazzare rapidamente quei vuoti che si creano, altrettanto rapidamente, nelle seconde e terze linee degli eserciti della camorra. Chi assoldato come manovalanza, per spaccio o pizzo; chi come security delle famiglie importanti; chi come killer. “Dobbiamo di certo guardare alla drammaticità di alcuni scontri, al disagio sociale di una condizione giovanile sempre più segnata da emarginazione e povertà educativa, ma c’è anche altro”, insiste Melillo. “Ha presente gli studi sugli storni in volo del premio Nobel Giorgio Parisi?”, chiede all’improvviso.
“Ogni storno, a una certa distanza, non interagisce con tutti gli altri”, prende a spiegare. “Ciascuno tiene sotto controllo un numero di suoi simili, 6-7 al massimo, indipendentemente da quanto lontani. Segue un singolo spezzone. Il volo, però, è collettivo. Ecco, i clan si muovono come gli storni: un insieme che, secondo regole ferree, e nonostante improvvisi cambi di direzione, si sposta come un’unica nuvola nera sulla città”. La nuvola del controllo mafioso che la camorra qui opera su ogni affare. “Lo scontro in alcuni quartieri è solo una particella di un mondo che è nostro dovere comprendere a fondo”. Quasi a dire che magistrati, forze dell’ordine, giornalisti, persino i politici, tutti saremmo – non senza una certa ipocrisia – più “tranquilli” nell’occuparci solo della triste fine dei “bambini” morti ammazzati, di quei giovani che Pasolini chiamava “i destinati a morte”. Molto meno della camorra che è dentro la politica, l’economia, la vita pubblica. Perché i clan trafficano in droga e armi, ma sono più interessati alle gare d’appalto per i servizi, i lavori pubblici, le grandi infrastrutture. Lo scriveva già nel 1993 la Commissione antimafia. Trent’anni dopo, “la violenza si è trasformata in forza economica”, spiega Melillo. “Oggi i principali cartelli camorristici coincidono con ramificate costellazioni di impresa che seguono le regole del capitalismo. Ci sono contratti da rispettare, grandi mezzi finanziari, capiclan-imprenditori capaci di buttare fuori i concorrenti. Gli eventi traumatici esistono, ma si taglia un pezzo, senza che il resto venga meno”.
E così quella che a un primo sguardo sembra la magmatica geografia criminale che affastella rioni e quartieri di Napoli, ognuno con la propria famiglia, in realtà – ed è questa la novità – è un unico grande cartello che va sotto il nome, oggi come quando si formò quarant’anni fa, di “Alleanza di Secondigliano”. O, più semplicemente, come si chiamano loro da sempre, “il sistema”. E il sistema – esclusi quei pochi quartieri in cui sono rimasti a comandare i Mazzarella, assieme ai loro sparuti alleati – “il sistema siamo tutti quanti”, come si legge nelle carte dell’ultima maxi operazione di Polizia e Dda di Napoli. Una confederazione di famiglie mafiose – sopra tutte i Licciardi di Secondigliano, i Contini e i Bosti dei quartieri Vasto e Arenella, e i Mallardo di Giugliano – che, per usare l’espressione dello storico boss Carmine Alfieri, oggi collaboratore di giustizia, sono ancora “una cosa sola”. Egemone nel controllo della città, e provincia, grazie ai “numerosissimi affiliati, suddivisi in plurime articolazioni territoriali”.
E allora, se percorriamo in senso orario la baia di Napoli, attraversando i casermoni di edilizia popolare della periferia, gli assi viari retti che tagliano e si sovrappongono ai vecchi borghi un tempo campagna, se arriviamo al centro, al ventre molle, con le sue case meravigliose piene di luce e con quelle sempre in ombra, tutto si tiene. E non solo per il collante della droga. Poi, certo, ci sono gli “eventi traumatici”. E forse “il mondo è meglio non vederlo, che vederlo”, scriveva Anna Maria Ortese. Perché se la lettura del procuratore Melillo si avvicina al vero, non c’è speranza. Non c’è repressione, risanamento urbanistico, politica di protezione sociale o di contrasto all’evasione scolastica, non c’è sindaco che possa salvare Napoli.
Antonio Natale, il 22enne il cui corpo è stato ritrovato tra terra e monnezza una settimana fa, prima della pandemia faceva il pizzaiolo in Germania. Poi il Covid l’ha costretto a tornare a casa, al Parco Verde. “Aveva iniziato a frequentare queste persone e a spendere molti soldi per l’abbigliamento”, ha raccontato la sorella (la sera in cui è sparito, Antonio era andato da Gucci). “Mia mamma mesi fa lo voleva denunciare… Io volevo mettergli in tasca 20-30 pezzi di droga e farlo arrestare. Era meglio in carcere che fuori…”. La piazza di spaccio aperta h24; i soldi tanti, facili e subito; le armi. Ora Anna, la madre, sorretta dal consigliere regionale di Europa Verde, Francesco Emilio Borrelli, ha deciso di denunciare tutti. Fuori dalla Procura, qualche giorno fa, ha lanciato il suo anatema: “Vui, maledetti. Dicevate ‘Ad Antonio vulimme ben’. ‘Vogliamo sua mamma’. Song qua! E nun me ferm. Ci sapimm e ci conoscimm. Merde”. “Ci sappiamo e ci conosciamo”.
Ma tutti erano indifferenti, qui, quelli che desideravano salvarsi.
Il cts a “Report”. “Az ai 50/59enni era solo ‘preferenziale’”
Report ha mandato in onda ieri sera il servizio sugli “errori di comunicazione” nella gestione del vaccino AstraZeneca e la scelta italiana di escluderne l’impiego sotto i 60 anni solo dall’11 giugno, dopo il decesso della 18enne ligure Camilla Canepa. In realtà da marzo o almeno dal rapporto Ema del 23 aprile era invece chiaro che il prodotto anglo-svedese a vettore virale, nelle donne più giovani, presentava un rischio di trombosi trombocitopeniche non inferiore a quello di Covid grave o mortale. Il Fatto ha anticipato ieri mattina il servizio di Claudia Di Pasquale, sottolineando, come Report, che il Comitato tecnico scientifico aveva dato via libera il 12 maggio agli Open day con AZ a tutti gli over 18 purché su base “volontaria”.
Nel verbale del Cts si riportavano i dati Ema secondo i quali il rischio di quel raro tipo di trombosi era in media 1,1 su 100 mila somministrazioni contro 8 decessi per Covid attesi con una circolazione virale di 400 casi a settimana ogni 100 mila persone; 1,1 contro uno con 55 casi a settimana ogni centomila. Erano però riferiti alla fascia d’età 50/59, mentre tra le sole donne under 60 erano 2 su 100 mila e ben 4 fra le 30/39enni. Sempre ieri mattina il Cts ha scritto a Report che il quesito posto al comitato era sull’“uso preferenziale di vaccini con vettore adenovirale alla fascia dei età 50-59 anni”, uso preferenziale che era stato stabilito il 7 aprile per la popolazione over 60 ma sarà reso vincolante solo l’11 giugno. Insomma il riferimento a quella fascia d’età non era arbitrario. Il Cts ricorda ora di aver sottolineato l’”indicazione preferenziale”, ma ad ogni modo nel verbale del 12 maggio scriveva anche che non vi erano “motivi ostativi” ai “vaccination day” con Az su “adesione/richiesta volontaria” per “tutti i soggetti di età superiore ai 18 anni”. Camilla si vaccinò all’Open day il 25 maggio.
Il Cts avrebbe potuto sconsigliare quelle iniziative. Non l’ha fatto perché i vaccini a vettore virale “erano (e rimangono) approvati in tutte le fasce di età dai 18 anni in su”, si legge nella nota di ieri. Ma anche perché al suo interno c’erano sensibilità diverse, alcune inclini a non intralciare la campagna vaccinale in un momento in cui le scorte di Az si accumulavano e i vaccini a mRna scarseggiavano. Così si è arrivati allo stop dell’11 giugno solo dopo la tragedia di Camilla e gli appelli degli scienziati.
“Nei non vaccinati una malattia più lunga: così nascono varianti”
“Non siamo ancora alla fine, abbiamo imparato che tutto può succedere”. Israele è il Paese con il maggior tasso di vaccinazioni con terza dose al mondo, il 41% della popolazione ha già fatto il terzo richiamo, eppure – come ci racconta l’immunologo Cyrille Cohen, membro del Board sui vaccini del ministero della Salute israeliano – nemmeno qui è ancora possibile abbassare la guardia.
Professor Cohen, si aspetta una quinta ondata in Israele?
Abbiamo imparato a essere pronti, non siamo ancora alla fine della pandemia. La domanda semmai è quando arriverà, se tra tre mesi o dodici e – soprattutto – con quale intensità colpirà. Finora, i vaccini (compreso il richiamo) sembrano abbastanza protettivi, ma abbiamo imparato che tutto può succedere.
La variante Delta plus vi preoccupa?
Mi preoccupa perché si è diffusa improvvisamente nel Regno Unito, tuttavia al momento non sembra una mutazione particolarmente significativa.
La diffusione delle varianti ha a che fare con il tasso di vaccinazione?
Penso che il problema principale, rispetto alle varianti, sia più con le persone non vaccinate, oppure con quelle con un sistema immunitario debole (i cosiddetti fragili), perché in queste persone si potrebbe innescare un Covid che dura più giorni, e in tale situazione la moltiplicazione virale può aumentare, e così possono selezionarsi delle varianti all’interno dell’organismo. Penso che ci sia una maggiore immunità con un vaccino fatto di recente, così ci sono meno probabilità di sviluppare una variante.
L’anno scorso (ottobre 2020) nella settimana del 20 ottobre, in Israele ci sono stati 25-30 morti, oggi circa 10-15 morti, quasi tutti sopra i 60 anni. Numeri e tendenze sono simili, l’anno scorso a gennaio ci fu un lockdown di sei settimane…
I numeri in realtà sono più bassi ora e stanno ancora scendendo. Certo, avrei preferito che fossero più bassi, naturalmente, ma la maggior parte dei ricoveri e dei decessi riguardano persone non vaccinate.
Qual è l’identikit di coloro che muoiono di Covid oggi?
Sono anziani fragili con più di 2-3 patologie preesistenti, per lo più non vaccinati.
Negli Stati Uniti si parla già di estendere la vaccinazione ai bambini tra i 5 e i 12 anni. Lei è d’accordo?
Avremo notizie nuove dalla Food and Drug Administration a breve. È una scelta difficile in questo momento, abbiamo bisogno di più dati per calcolare correttamente il reale bilancio tra benefici e rischi. Da inizio pandemia qui in Israele sono morti di Covid undici bambini.
Uno studio italiano dell’Istituto di Farmacologia “Mario Negri”, condotto da Giuseppe Remuzzi, mostra come l’uso precoce di farmaci come la nimesulide/aspirina, può ridurre significativamente le ospedalizzazioni (anche dell’85%). Cosa ne pensa?
È importante ridurre le possibilità di ospedalizzazione, ma penso che il modo migliore, se si confrontano i risultati, sia la vaccinazione. Ora, la vaccinazione non è protettiva al 100 per cento e quindi abbiamo bisogno di trattamenti e di cure. E servono più studi su più pazienti per ottenere conclusioni definitive.
Contagi: +32% in 7 giorni. “Disastro” in Est Europa
L’inversione di tendenza è ormai in atto. I numeri non sono ancora sotto controllo ma è un fatto che, dopo sette settimane di diminuzione, nell’ultima settimana rispetto a quella dell’11-17 ottobre il numero dei contagi è aumentato del 32%, passando da 17.602 a 23.305. È possibile che l’impennata sia dovuta anche alla corsa al tampone scattata dopo il 15 ottobre causa obbligo Green pass (+40% di test nell’ultima settimana rispetto a quella precedente), ma ci sono anche 106 nuovi ricoveri in ospedale nelle sole ultime 24 ore. Inversione di tendenza anche nei reparti di terapia intensiva: il saldo tra ingressi e uscite nella settimana 11-17 ottobre era stato -265, +87, invece, negli ultimi sette giorni.
E dopo il “piano b” evocato domenica nel Regno Unito secondo cui il governo di Boris Johnson si appresterebbe a reintrodurre alcune misure restrittive (tra cui un Green pass per i luoghi affollati al chiuso) per fronteggiare l’aumento dei contagio, si è acceso anche in Germania il dibattito su eventuali nuove misure per il forte aumento dei contagi registrato settimana scorsa. Venerdì si è sfiorata quota 19 mila nuovi casi al giorno, che non si toccava da maggio.
Lunedì il Robert Koch Institut ha segnalato un aumento dell’incidenza settimanale a 110,1 casi su 100 mila abitanti, un’impennata di oltre trenta punti in una settimana (domenica 17 erano 74,4): in Italia, per fare un paragone, l’incidenza è a 34 casi.
La vera emergenza in Europa, tuttavia, viene da Est. Oltre quella che un tempo era la cortina di ferro la percentuale di popolazione vaccinata è mediamente molto più bassa che a Ovest. Il tasso più basso dell’Unione europea (20,4% con doppia dose) è in Bulgaria, dove il governo di Sofia ha introdotto il Green pass, in vigore dal 21 ottobre, per accedere a tutti i locali al chiuso, a eccezione di farmacie, banche e alimentari. È l’estremo tentativo del governo per dare una spinta alla campagna vaccinale. Se il pass non raggiungerà lo scopo, è stato annunciato, verrà indetto un periodo di lockdown totale.
Situazione “disastrosa”, come l’ha definita il presidente Klaus Iohannis, in Romania, penultimo Paese Ue per numero di vaccinati con doppia dose (29,4% della popolazione): le scuole resteranno chiuse per almeno una settimana e l’obbligo di Green pass si allarga a una serie di attività non previste in precedenza, tra cui l’ingresso nei negozi, esclusi alimentari e farmacie. La mascherina diventa obbligatoria ovunque, sia al chiuso che all’aperto, e torna il coprifuoco notturno a partire dalle 22, con la chiusura di bar e ristoranti fissata alle 21. Le nuove misure resteranno in vigore per trenta giorni. Negli ospedali i duemila posti letto di terapia intensiva sono tutti occupati e i primi cinquanta pazienti critici sono stati trasferiti in Ungheria e Polonia. Un quadro che sembra aver sensibilizzato – almeno in parte – la popolazione: venerdì 22 ottobre hanno ricevuto la prima dose in 86 mila, un record dall’inizio della campagna vaccinale. Nei giorni scorsi le autorità di Bucarest avevano lanciato un appello alla comunità internazionale per l’invio di aiuti e l’accoglienza di pazienti, raccolto oggi dalla Serbia con l’invio di una partita di farmaci e circa 900 litri di ossigeno concentrato.
Forniture alle Forze Armate, indagato anche il gen. Figliuolo
L’inchiesta della Procura di Roma che vede iscritto il capo di Stato maggiore della Difesa, Enzo Vecciarelli, conta anche altri indagati dai nomi importanti. Tra questi pure il commissario per l’emergenza Covid, Francesco Paolo Figliuolo. L’iscrizione di Figliuolo è un atto dovuto, a sua tutela. Sull’inchiesta si tiene il massimo riserbo: da quel poco che trapela il generale non è mai finito direttamente nelle intercettazioni, ma sarebbero altri a far riferimento a lui nell’ambito di circostanze che riguardano però un periodo precedente alla sua nomina da parte del governo Draghi. Nelle prossime settimane, la Procura di Roma depositerà una richiesta di archiviazione, nel frattempo però il commissario risulta ancora iscritto. Il Fatto ha anche chiesto – tramite l’ufficio stampa – alcuni chiarimenti al commissario straordinario, ma non ci è giunta risposta.
L’inchiesta in cui è indagato Figliuolo è quella che vede coinvolto anche Enzo Vecciarelli. È stato il quotidiano La Verità a rivelare, nei giorni scorsi, l’iscrizione nel registro del capo di Stato maggiore in uscita: il prossimo 5 novembre ci sarà il passaggio di consegne. Vecciarelli è accusato di corruzione per l’esercizio della funzione. Il fascicolo inizialmente era affidato al pm Antonio Clemente, poi passato da luglio scorso in procura generale. Così l’inchiesta è finita sul tavolo del sostituto procuratore Carlo Villani. Secondo le accuse iniziali, Vecciarelli nella sua veste di pubblico ufficiale si sarebbe messo a disposizione dei coniugi Eugenio Guzzi e Rosa Lovero, favorendo le società a loro riferibili, ossia la Technical Tex srl e poi la Technical Trade srl, aziende “titolari di contratti di forniture di mascherine e macchinari per la produzione e il confezionamento di mascherine alle Forze Armate, agevolando lo sdoganamento di 600mila mascherine Covid, fornite dalla Technical Trade”. In cambio Vecciarelli avrebbe ricevuto per se e i suoi familiari utilità consistite “nella donazione di generi alimentari e di 58 capi di abbigliamento”. E nel capo di imputazione si citano: “Abiti sartoriali, cappotti, vestito da sposa, giacche, camice e divise”.
Sono accuse che il capo di Stato maggiore, nel corso dei suoi due interrogatori resi davanti ai pm, ha sempre respinto. “Nel corso degli incontri con i magistrati inquirenti – hanno spiegato nei giorni scorsi i suoi legali, gli avvocati Federica Mondani e Giuseppe Falvo – il generale Vecciarelli ha ampiamente risposto a tutte le domande dimostrando, con corredo di cospicua documentazione, la sua completa estraneità rispetto ai fatti contestati e come non abbia mai ricevuto alcun provento o utilità illecita nello svolgimento delle proprie funzioni”.
Nell’ambito di questa indagine il 26 aprile scorso è stato emesso un decreto di perquisizione nei confronti di Eugenio Guzzi. Atto contro il quale, nei mesi scorsi, i legali dell’imprenditore hanno fatto ricorso al Tribunale del Riesame. Che il 15 giugno ha rigettato la domanda. In un’ordinanza di sette pagine i giudici hanno ripercorso l’iter dell’indagine, circostanziando episodi che però sono fuori dalle contestazioni a Vecciarelli.
L’inchiesta, spiegano i giudici, condotta dalla Squadra Mobile ha “a oggetto la gestione degli affidamenti diretti da parte dell’agenzia Industrie Difesa (Aid) – ente di diritto pubblico istituto come strumento di razionalizzazione e ammodernamento delle Unità industriali del ministero della Difesa (…) – in relazione alla fornitura di mascherine e macchinari per la produzione delle stesse in favore delle Forze Armate”. In una prima fase dell’emergenza Covid, ricostruiscono i giudici l’Aid aveva stipulato “un accordo quadro della durata di 4 anni… con la società Bls srl, azienda leader nella produzione di dispositivi di protezione per le vie respiratore”.
Nonostante la stipula dell’accordo quadro, “nel periodo sino al secondo trimestre del 2020, a favore” di questa società “emergevano solo due affidamenti diretti sia per l’acquisto di mascherine che per la fornitura di macchinari per la produzione delle stesse”, mentre l’Aid invece aveva effettuato commesse per “importi rilevanti per la fornitura di mascherine e di macchinari… a un’altra società, la Technical Trade srl”. Azienda che i giudici definiscono così: “Di piccole dimensioni, (…) operante in un altro settore, quello tessile, da soli due anni, con un capitale sociale di 30 mila euro”. Della Technical Trade è amministratore unico Eugenio Guzzi che detiene il 93 per cento delle quote, mentre il restante 7 per cento è di Rosa Lovero. Insospettiti dall’affidamento, gli inquirenti attivano le intercettazioni telefoniche sulle utenze in uso a Guzzi e Lovero. Scrivono i giudici del Riesame: “Da tali operazioni emergevano sin da subito significative problematiche nell’esecuzione dei contratti di pubblica fornitura aventi a oggetto” sia la fornitura di mascherine che di macchinari. Nell’ordinanza poi si fa riferimento a un’intercettazione del 30 ottobre 2020. In quell’occasione Guzzi parla con una dipendente che “lo informa che vi era stato un problema con lo sdoganamento di un lotto di mascherine già consegnate all’Aid in quanto prive di certificazioni Ce”.
I giudici del Tribunale del Riesame poi fanno riferimento anche a una fornitura di 40 mila “magliette-polo da fornire alla Polizia di Stato per un valore di 1,4 milioni di euro”. Anche questo episodio riportato nell’ordinanza però non è tra quelli che vengono contestati al generale Vecciarelli.
Di Battista lancia il tour, Raggi vede Chiara Appendino
Virginia Raggi fa visita a Chiara Appendino a Torino, Alessandro Di Battista lancia la prima tappa del suo tour, in programma sabato prossimo a Siena: e per le prenotazioni si affida al portale di Davide Casaleggio, Rousseau. Dentro e a margine del M5S si muovono cose, e sono tutti segnali per Giuseppe Conte.
Di certo il leader del Movimento sarà rimasto colpito dall’incontro tra l’ex sindaca di Roma e Appendino, rimasta fuori dalla segreteria del M5S per motivi familiari. “Assieme abbiamo parlato di tanti progetti per il futuro” assicura su Twitter Virginia Raggi, intenta nel costruire una propria rete nel M5S, quasi a reclamare un proprio spazio politico. Poi c’è l’ex Di Battista, che lancia il suo tour “Su la testa”. Nelle parole dell’ex deputato, “un percorso di controinformazione e di politica, per rimettere al centro del dibattito temi nascosti nell’era del governo di tutti”. Obiettivo: tastare il polso al vasto mondo dei delusi a 5Stelle, per costruire qualcosa di nuovo. O per tornare nel M5S, riportandolo ai vecchi principi.
Ddl Zan: Letta cede e comincia a trattare
La novità è che adesso sul ddl Zan si tratta. Il Pd ha provato a fare muro per mesi insistendo sul voto in aula, ma alla vigilia dei due scrutini segreti di domani apparecchiati dal leghista Roberto Calderoli, volpe dei regolamenti parlamentari, i dem hanno capito che la linea della fermezza rischiava di farli andare a sbattere. E quindi di affossare la legge. Così Enrico Letta domenica sera a Che tempo che fa ha fatto capire che il Pd adesso vuole far approvare la norma contro l’omotransfobia, ma aprendo a “modifiche non sostanziali”.
Un passo indietro rispetto all’estate in cui i dem avevano fatto muro su qualunque richiesta di modifica invocata dal centrodestra e dai renziani. D’altronde il pericolo che la legge mercoledì finisse su un binario morto era troppo concreto: al momento sono previsti due voti segreti chiesti da Lega e FdI sulla cosiddetta sospensiva, cioè la “tagliola” per evitare che si passi al voto sugli articoli della legge. Un’occasione troppo ghiotta per il centrodestra e per i renziani di affossare la norma. Così alla fine Letta ha affidato al deputato Alessandro Zan, padre della legge, la missione di trattare con i partiti. Domani alle 17 è prevista una riunione dei capigruppo con Zan per capire se ci sono margini di trattativa e parallelamente il deputato Pd tratterà singolarmente con ognuno di essi. “La legislatura non dura all’infinito e quindi serve fare tutto il possibile per approvare la legge” dice il deputato dem. Ha ricevuto da Letta il mandato di trattare su tutto a costo di portare a casa la legge: anche su questioni spinose come l’identità di genere che non piace né al centrodestra né alle femministe. Il Pd preferirebbe non toccarla perché “è una definizione giuridica che esiste anche negli altri Paesi” ma se il centrodestra si dovesse impuntare i dem non escludono mediazioni possibili: la soluzione potrebbe essere quella di modificare o addirittura di eliminare il tanto contestato articolo 1 – quello delle definizioni di sesso, genere, orientamento sessuale – ampliando la platea dei tutelati negli articoli successivi, quelli che regolano i reati di discriminazione. Una richiesta che arriva da Forza Italia e che il Pd potrebbe accettare. “Se si eliminano le definizioni l’impianto della legge non cambia” dice un esponente Pd di primo piano.
Anche l’articolo 4, quello su reato di opinione che non piace ai cattolici, potrebbe essere stralciato. Si ritornerebbe, dunque, al vecchio testo base arrivato alla Camera e modificato in Aula. In cambio però i dem chiedono che Lega e FdI ritirino la “tagliola” che mercoledì potrebbe affossare la legge. “L’importante è superare la sospensiva – dice il senatore dem Franco Mirabelli – poi si possono fare piccole modifiche senza stravolgere la legge”. Il M5S con Alessandra Maiorino però mette i paletti: “Sull’identità di genere non si discute così come sull’educazione nelle scuole”. Se FdI continua a fare muro con Lucio Malan (“per noi il ddl Zan non va bene nemmeno con le modifiche”), aprono i renziani e i leghisti: Matteo Renzi dice che “aveva ragione” Iv a chiedere modifiche ed Ettore Rosato accusa Letta di “demagogia e perdita di tempo”. Il leghista Andrea Ostellari invece è fiducioso. L’obiettivo del Pd è stanarli e nel frattempo guardare a Forza Italia che potrebbe dire sì al testo con piccoli aggiustamenti: fonti azzurre in serata fanno sapere di “accogliere positivamente” l’apertura di Letta.
Open, Renzi vuole lo scudo “retroattivo” da senatore
Forza Italia non vede l’ora ché l’occasione di fare squadra con un potenziale alleato come Matteo Renzi, mettere in imbarazzo un pezzo del Pd e togliersi per di più la soddisfazione di assestare anche un calcione ai magistrati, è ghiottissima. E così è tutto un lavorio nella Giunta per le autorizzazioni a procedere del Senato presieduta dall’azzurro Maurizio Gasparri che ha affidato alla collega Fiammetta Modena, ultrà del garantismo in salsa berlusconiana, il caso sollevato dall’ex Rottamatore: ritiene di essere perseguitato dai pm di Firenze che hanno osato mettere il becco negli affari della Fondazione Open ritenendola strumento per far arrivare soldi, e tanti, al giglio magico negli anni della sua scalata alla segreteria del Pd che poi gli ha spalancato le porte per Palazzo Chigi. Ora il capo di Italia viva vuole che Palazzo Madama gli faccia da scudo “ponendo in essere quanto necessario” perché vengano tutelate le sue prerogative di senatore. Insomma per bloccare in extremis i pm di Firenze che avrebbero utilizzato conversazioni e corrispondenza casualmente captate senza previa autorizzazione della Camera di appartenenza. Ancorché, all’epoca dei fatti contestati, il laticlavio senatoriale ancora non l’avesse conquistato: l’indagine sulla Fondazione Open che vede tra gli altri Renzi e Maria Elena Boschi indagati per finanziamento illecito riguarda reati commessi dal 2014 al 2018. Ma tant’è: al Senato tutto può succedere come raccontano le cronache presenti e passate.
Può succedere ad esempio che oggi vengano tenute nel cassetto richieste di arresto come quelle che pendono sul capo dei senatori Luigi “Purpett” Cesaro e Marco Siclari sospettati di corruzione elettorale e scambio elettorale politico mafioso. E che si faccia melina su un caso come quello di Carlo Giovanardi che chiede protezione dai magistrati, anziché cospargersi il capo di cenere, per aver minacciato funzionari pubblici pur di far lavorare alla ricostruzione post terremoto emiliano una ditta amica che poi si era scoperta in odore di ‘ndrangheta. Ma è pure successo che il Senato abbia concesso l’immunità a chi senatore non era all’epoca dei fatti che gli venivano contestati, come è capitato nella scorsa legislatura nel caso di Gabriele Albertini, un precedente a cui ora Palazzo Madama guarda per accontentare Renzi.
Ma cosa era successo con Albertini? Nel 2012 aveva rimediato una denuncia per calunnia aggravata da parte dell’allora procuratore aggiunto di Milano Alfredo Robledo accusato dall’ex sindaco di Milano di aver gestito male alcune inchieste tra cui quella sull’acquisto della società Serravalle da parte della Provincia di Milano allora guidata da Filippo Penati e sui contratti derivati sottoscritti dal Comune ai tempi della sua amministrazione: ebbene Albertini prima aveva fatto richiesta di difesa dei privilegi e delle immunità al Parlamento europeo di cui all’epoca era membro, ma senza successo. Quindi per salvarsi si era rivolto ai colleghi italiani che nel 2016 avevano deciso di accordargli lo scudo: le accuse fatte a Robledo fin dal 2012 dovevano ritenersi un tutt’uno con quelle che aveva continuato a muovergli anche una volta eletto al Senato: tutte opinioni coperte dall’insindacabilità riconosciuta ai parlamentari anche se parlamentare lo era diventato solo nel 2013. E che importa se stessa Giunta in precedenza si era dichiarata incompetente quando lo stesso Albertini aveva chiesto di essere protetto dalle grinfie di Robledo che gli aveva fatto causa in sede civile.
Ma che era cambiato tra le due decisioni? Secondo una vulgata mai smentita, Albertini una volta entrato al Senato era passato sotto le insegne dell’Ncd e si era guadagnato lo scudo mettendo sul piatto la conferma del suo appoggio alla maggioranza: e così anche il Pd, alleato in quel momento con il partito di Alfano, si era convinto ad accordargli l’immunità retroattiva. La Consulta ha poi smentito il Senato: lo scudo non si poteva dare. Ma ormai sono passati cinque anni.