“Commuove Segre al Colle”. “Sì a lei, no al Pregiudicato”

L’articolo appassionato di Padellaro “Vogliamo Liliana Segre al Quirinale” come candidata di bandiera, mi ha commosso ed entusiasmato. È stato per me come una boccata d’aria pura. Sono fra i tanti italiani che soffrono per il cinismo imperante che ci circonda. Sia pure perdenti, potremmo comunque far sentire la nostra voce con questa iniziativa.
Vittoria Sommella

 

Ho lettola risposta di Antonio Padellaro a un lettore che chiedeva di fare una petizione per impedire a Berlusconi di candidarsi al Quirinale. Padellaro ha scritto: “Possiamo fare molto di più di una petizione, possiamo chiedere di candidare Liliana Segre”. È da tempo che penso che occorrerebbe proporre una donna e la Segre è una gigante come persona, la sua candidatura sarebbe altamente simbolica .
Luciana Luzi

 

Graziedella proposta, centomila volte condivisibile.
Monette Taillefer

 

D’accordissimocon la proposta di candidare la senatrice Liliana Segre come presidente della Repubblica. Sottoscrivo a caratteri cubitali.
Pietro Antonicelli

 

L’ideaespressa da Padellaro di candidare la senatrice Liliana Segre al Quirinale mi entusiasma, per molteplici motivi: renderebbe a questa grande italiana l’onore che merita; nobiliterebbe la più alta carica dello Stato affidandola a una figura di assoluto prestigio; rinnoverebbe il dettato costituente che definisce il nostro Paese una Repubblica antifascista, completando finalmente un percorso storico iniziato con l’elezione di Sandro Pertini; restituirebbe a questo ruolo la funzione altamente rappresentativa a cui è stato destinato, liberandolo dalle mire della politica politicante che ha raggiunto il culmine con la rielezione di Giorgio Napolitano. L’età avanzata della senatrice può essere di ostacolo solo nel caso in cui lei non si sentisse di accettare. Fosse anche una candidatura di bandiera, varrebbe comunque a riportare l’attenzione degli italiani sui grandi valori che la signora Segre rappresenta e il dibattito politico a un livello degno.
Angelo Testa

 

Sottoscrivola candidatura della senatrice Liliana Segre alla presidenza della Repubblica italiana; nel caso accada invece il disgraziatissimo “evento”, chiederò la cittadinanza europea.
Anna Maria Bruscolini

 

Apprezzol’idea del Padellaro: la senatrice Segre darebbe lustro alla nostra bandiera più di qualunque altra senatrice. Qui habet aures audiendi audiat.
Annamaria Dell’Erba

 

Speroche una valanga di firme scoraggi ogni velleità di B. e del suo “cerchio magico”.
Mario A. Querques

 

Ragazzi dateci dentro con la campagna anti-B. al Quirinale. Siete gli unici e per questo più preziosi. È un’ipotesi che fa rabbrividire mentre invece i maggiori media ne parlano come niente fosse. Ma io mi chiedo spesso quale e quanto potere dispieghi ancora questo manigoldo e in quali modalità. Andateci giù duro.
Tony

 

Raccogliendoil suggerimento di Padellaro per Liliana Segre al Quirinale, suggerisco sommessamente Rosy Bindi a capo dello Stato: non per sminuire affatto la prima e i suoi meriti, ma per “l’adeguatezza” politica (dopo quella “sanitaria”, di sua invenzione) a una serie di parametri e caratteristiche necessarie e richieste dai più in questo delicato momento di passaggio.
Fernando Giaffreda

 

Ultimamentesi sentono in televisione opinionisti sostenere che nella destra italiana di oggi l’unico partito moderato è Forza Italia, o peggio ancora sentire qualche esponente di sinistra sostenere che i partiti che non si ritengono antifascisti non possono permettersi di governare questo paese, dimenticandosi che nel nostro paese ha rivestito più di una volta la carica di presidente del consiglio un certo B., il padre dell’editto bulgaro alla Rai, il tentativo di sottomettere al suo servizio Montanelli e tante altre vicende inaccettabili in un paese normale. Non ho ricordanza che B. si sia mai dichiarato antifascista né tantomeno abbia mai partecipato ai festeggiamenti del 25 aprile, anche quando rivestiva la seconda carica dello Stato. Ignorando i suoi problemi legali, molti risolti tra prescrizioni e leggi ad personam rischiamo di trovarcelo come presidente della Repubblica, e di conseguenza presidente del Csm. Nominare oggi, come scrive Padellaro, Liliana Segre presidente, ricondurrebbe questo Paese in una normalità identitaria che pare sempre più smarrita.
Flavio Bondi

 

Non possiamofar finta di nulla e anche solo accettare la candidatura di un pregiudicato al Quirinale. Per questa ragione appoggio una petizione a favore di Liliana Segre presidentessa della Repubblica.
Collecchia Zanello

Alla conclusionedell’articolo di Padellaro aggiungo che finalmente si darebbe voce alla nostra Costituzione, diversamente al “balbettio confuso” che caratterizza i nostri parlamentari e non solo.
Giuseppe

 

È comprensibileche le formazioni politiche del centrodestra promuovano e sostengano da tempo la persona di B. quale prossimo presidente delle Repubblica italiana, anche perché non mi pare che nel loro universo siano in grado di proporre altre persone così carismatiche, se non addirittura non possono o non vogliono proporre altri. Personalmente ritengo sia un’aberrazione il solo pensare a B. quale prossimo presidente. Bene che il Fatto Quotidiano si faccia promotore di una possibile candidatura al Quirinale nella persona di Liliana Segre. Non sfigurano certo i nomi di Lorenza Carlassarre, di Gustavo Zagrebelsky, ci sono altre persone di pregio. Le formazioni politiche del centrosinistra sembrano sprofondate in una apatica letargia, e non indicano né promuovono (che mi risulti) alcuna persona candidata per le prossime elezioni del presidente della repubblica italiana.
Roberto Maria Bacci

 

Purtroppol’ordinamento parlamentare della nostra repubblica, non consente l’elezione del presidente da parte del popolo. Chi verrà eletto? Ora che ci si sta avvicinando al ferale momento, ora che da giorni la ventilata, tragica, orribile, nefasta ipotesi di un B. al Quirinale, serpeggia come un brutto male incurabile. Noi lettori, tremanti al solo pensiero di quel B. assiso sull’alto scranno, daremo il nostro piccolo contributo. La pur indiscutibile candidatura della senatrice Segre potrebbe risultare divisiva e, ad alcuni, anche piuttosto indigesta. Uniamo tutte le forze possibili, tutte le voci più alte, ogni strumento più incisivo, per far sì che il soggetto B. nemmeno si avvicini a quella soglia. Gli italiani non meritano tanta infamia. Nemmeno essere derisi da tutto il mondo.
Susanna Di Ronzo

 

 

Il testo Per evitare nomi senza onore, disciplina e dignità

Una campagna per Liliana Segre presidente della Repubblica. La proposta è stata lanciata da Antonio Padellaro, fondatore del Fatto Quotidiano, nella rubrica della posta “Senza Rete” sul giornale di domenica. L’appello, firmato da Antonio Padellaro, Peter Gomez e Marco Travaglio, è online sul sito www.ilfattoquotidiano.it e sulla piattaforma change.org da stamattina alle 11: aiutateci a diffondere questa idea, a darle forza e a far arrivare un messaggio chiaro ai partiti e ai parlamentari che si apprestano a votare il prossimo Capo dello Stato. Sarebbe la prima donna al Colle della storia d’Italia. E soprattutto una persona eccezionale, di cui essere straordinariamente orgogliosi. Ecco il testo integrale dell’appello: “Sosteniamo la candidatura al Quirinale della senatrice a vita Liliana Segre. Simbolo universale della Resistenza umana contro il male assoluto nazista e fascista e contro tutte le discriminazioni Ella rappresenta la più alta testimonianza dei valori costituzionali di libertà e uguaglianza. Ci auguriamo che tutte le forze presenti in Parlamento condividano il nostro appello affinché le massime istituzioni non siano svilite da autocandidature prive di disciplina e onore. E anche di dignità”.

Respinto da Conte, B. tenta lo shopping fra i delusi M5S

Il Caimano che quasi più nessuno chiama così ci spera, davvero. Fa calcoli, chiama e fa chiamare. Silvio Berlusconi crede seriamente “di poter essere ancora utile al Paese” come ha detto due giorni fa, ossia di potersi prendere il Quirinale. Perché se arrivasse con il centrodestra compatto alla quarta chiama, a partire dalla quale basta la maggioranza assoluta – la metà più uno dei votanti – per essere eletti, gli basterebbe una cinquantina di voti in più per conquistare il Palazzo più alto.

Per riuscirci ha già in mente dove prendere quei numeri che gli mancano: tra i 5Stelle, dove gli scontenti traboccano, e soprattutto tra quelli che grillini non sono più, quasi un centinaio di anime sparse nei gruppi misti, in cerca di una rotta. “Se arrivasse alla quarta chiama ancora in partita, Berlusconi darebbe l’assalto ad alcuni dei nostri e a quelli che se ne sono già andati dal M5S,” ammettono fonti a 5Stelle. Nel Movimento sanno che gli sherpa del capo di FI sono già al lavoro, scavando nel malessere e ventilando un futuro ai più confusi dentro il Movimento. Gli stessi grillini, come noto da settimane, danno quasi per inevitabile lo smottamento di 20-30 eletti da qui a breve. Parlamentari che sanno di non poter essere ricandidati, e che non hanno più voglia di restituire 2.500 euro del loro stipendio mensile. Musica per le orecchie del Caimano. Anche per questo, nel Movimento sanno di dover stringere in fretta i bulloni del nuovo corso di Giuseppe Conte, che ieri sul Corsera ha ribadito l’ovvio (“Non è il nostro candidato al Quirinale”). Il rischio evidente è quello di vedere i gruppi parlamentari spaccarsi nella partita per il Colle, nel nome di reciproci e radicati rancori. Conte dovrà cercare di fare da mastice, assieme all’unico maggiorente che controlla almeno una porzione degli eletti, cioè Luigi Di Maio. E assieme dovranno cercare un nome di sintesi con il Pd e Leu, “un progressista” come riassumono dal M5S. Anche per evitare che nel frattempo dem e FI creino eventuali piste alternative: un “pericolo” che alcuni veterani del M5S non esitano a ventilare. Di certo il tema Colle è entrato anche nel pranzo tra Conte ed Enrico Letta di ieri a Roma. Con i 5Stelle convinti che alcuni big dem, da Dario Franceschini a Paolo Gentiloni, si sentano in partita.

Ma la priorità è resistere ai tentacoli di Berlusconi, convinto di avere in tasca tra i 460 e 470 voti (i calcoli cambiano a seconda dei parlamentari del Misto). Così ne mancherebbero 35-45 per arrivare alla quota fatidica di 505. Ai piani alti di Forza Italia raccontano che da Arcore è partito l’ordine: “Bisogna cercare i voti di Renzi e dei 5Stelle che vogliono tenersi il seggio”. E così sono partiti gli abboccamenti. L’ex sindaco di Firenze e Berlusconi dovevano vedersi la settimana scorsa in gran segreto, ma quando è trapelata la notizia, è saltato tutto. I due, tramite Gianni Letta e Niccolò Ghedini, si sentono spesso. Più difficile pescare tra grillini: chi sta facendo i conti ritiene che ne basterebbero una ventina, oltre agli ex 5S del Senato, più una ventina dei renziani (la metà del gruppo) per arrivare a 505. “Proviamoci” è stato il diktat di Berlusconi che, non è un caso, ha smesso di attaccare i 5Stelle. E che nei prossimi giorni potrebbe arrivare a elogiarli pubblicamente. Sul piano di Berlusconi però incede una variabile che per ora non viene considerata, ossia il possibile tradimento dei suoi alleati, a partire da Matteo Salvini. Perché se è vero che il leader della Lega da giorni cavalca il sogno di Berlusconi al Colle, in privato è convinto che non ci riuscirà. Lo ritiene un candidato di bandiera nelle prime tre votazioni – per bruciarlo – per poi alzare il prezzo su un altro nome. Sempre che, e questa è la scelta preferita di Salvini, al Colle non vada Draghi.

Ipotesi che prevederebbe il voto subito – e il leghista si sta abituando all’idea – o in alternativa un accordo per mandare a Chigi un traghettatore fino al 2023, come l’attuale ministro Daniele Franco. “Draghi vuole andare al Colle, ma si va a votare nel 2023” ha detto Salvini ai suoi parlamentari giovedì. A Berlusconi, invece, non ha fatto cenno.

Non si butta via niente

Dovendo scegliere una canzone simbolo del 2021, non avremmo dubbi: “Ancora tu” (ma non dovevamo vederci più?). Per il proverbio: “Del maiale non si butta via niente”. E per l’odore: un misto fra due fragranze che iniziano per emme, la seconda delle quali è la muffa. L’Italia che doveva uscire dalla pandemia nuova e migliore perché nulla fosse più come prima, si ritrova vecchia e peggiore perché tutto sia come prima. Ma non il “prima” immediato del 2019: il “prima” preistorico di decenni fa. Il premier è un banchiere scoperto dalla destra Dc nel 1983. L’unico candidato ufficiale al Quirinale è un vecchio puttaniere, pregiudicato e finanziatore della mafia che infesta l’Italia dagli anni 70. Repubblica apre con un’intervista al ministro Brunetta, che negli Ottanta consigliava Craxi su come sfondare le casse dello Stato e ora illustra un progetto appassionante, almeno per i nostalgici degli anni 50: il centrismo. Nelle piazze tornano dopo mezzo secolo in forma farsesca la strategia della tensione e gli opposti estremismi. Le elezioni comunali si giocano sull’arrapante contrapposizione degli anni 20 (ma del secolo scorso): fascisti-antifascisti. Il governo riesuma dall’avello la riforma Fornero, datata 2011 e bocciata dagli italiani in tutte le elezioni degli ultimi dieci anni. E, già che c’è, riciccia pure la Fornero come persona, in veste di consulente. La ministra Lamorgese, con uno dei suoi proverbiali moti ondulatorii, arruola Bobo Maroni, che guidava il Viminale nel 1994, per combattere l’illegalità nel mondo del lavoro: lo stesso che nel 2010 annunciò querela a Saviano a nome della Lombardia perché osava ipotizzare la mafia al Nord.

Il noto “rottamatore” di Rignano, che nel 2013 scalò il Pd col chiodo alla Fonzie per rinnovare la politica, cena in Sicilia con Miccichè, che insieme al retrostante Dell’Utri sogna un grande centro con Cuffaro e altri teneri virgulti. Il ministro-ossimoro della Transizione ecologica Cingolani e quello dello Sviluppo Giorgetti resuscitano il nucleare. Il capo dei vescovi benedice in Draghi l’“uomo della Provvidenza”, come già Pio XI con Mussolini. Alla Rai il neo-amministratore tanguero Fuortes impone l’obbligo del “lei”, in attesa del “voi”. Sorgi, su La Stampa, invoca un “governo militare” se – Dio non voglia – cadesse l’attuale. Mieli, sul Corriere, butta lì un altro ballon d’essai: “E se decidessimo di non votare mai più”? E Repubblica, quella di sinistra, titola: “Pensioni, Lega verso il sì. Ma c’è lo scoglio dei sindacati” (aboliamo pure quelli?). Però il premier “tira dritto”, come la Buonanima. Mancano solo i telefoni a gettone e il borsello a tracolla. I seggi sono vuoti, ma in compenso la fiera dell’antiquariato è sold out.

“Eternals”, di sovrumano c’è la nostra pazienza

Dopo due ore di mitologia greca, e non, in salsa Marvel, la donna più veloce dell’universo, tale Makkari (Lauren Ridloff), in puro furore sincretista rispolvera anche il Vangelo (Giovanni, 8): “La verità vi renderà liberi”. Non volendo fare un torto a Gesù Cristo, diciamola subito la verità: Eternals diretto da Chloé Zhao non è un film riuscito.

In anteprima alla Festa di Roma e dal 3 novembre in sala con Disney, di sovrumano, più che il gruppo di eroi creato dal fumettista Jack Kirby nel 1976, c’è la pazienza richiesta per seguire due ore e mezza di cosmogonia vana ed eventuale, rimodellata secondo i dettami di inclusività e diversità della Hollywood qui e ora.

Il venticinquesimo film dell’Universo Cinematografico Marvel (MCU), il terzo della Fase Quattro, introduce dieci supereroi mai visti prima – e forse un motivo c’era – sullo schermo: paladini dello Zeitgeist del volemose benino, ovvero del politicamente corretto, sono equi per genere, cinque donne e cinque uomini, moderatamente solidali e fin dall’alba dell’umanità lottano contro mostruose creature chiamate Devianti. Insomma, ogni devianza è bandita: l’ortodossia al comando e la scarsa immaginazione al potere.

A officiare codesta messa cantata dell’inclusion non poteva essere un regista qualsiasi, serviva qualcuno che avesse messo al centro l’emarginazione, in primo piano la marginalità, traendone per di più successo: Chloé Zhao non aveva ancora vinto i due Oscar per Nomadland, ma si era provata adatta con l’opera seconda The Rider (2017), sicché Eternals le è stato dato chiavi in mano, vale a dire – lo ripete più volte lei stessa, quasi a mettere le mani avanti – con il trattamento già scritto.

Alieni immortali provenienti dal pianeta Olympia, gli Eterni vennero edotti della minaccia rappresentata dai Devianti dai Celestiali, architetti cosmici introdotti nel MCU da Guardiani della Galassia: qualche migliaio di anni più tardi, è tempo di ribellarsi o giù di lì. Come prescrive Hollywood, questa famiglia da cui dipende la sopravvivenza del Pianeta è disfunzionale, almeno un tot: c’è Sersi (Gemma Chan) che studia da leader e ama un umano, Dan Whitman (Kit Harington); il suo ex, Ikaris (Richard Madden), Icaro forzuto e bifronte; la matriarca Ajak (Salma Hayek), che c’ha i problemi; Thena (la bionda Angelina Jolie), che ha perso una A ma sempre Atena rimane, con un autocontrollo labile e l’imperativo categorico del “ricordare”; Druig (Barry Keoghan), uno stronzetto che controlla le menti; Kingo (Kumail Nanjiani, l’unico bravo), che a Bollywood scimmiotta Ikaris e ha nel fedele maggiordomo un novello Istituto Luce; Phastos (Brian Tyree Henry), afroamericano esperto di tecnologia, con un compagno mediorientale e un figlio piccolo; il nerboruto Gilgamesh (Don Lee) in solitaria, giacché Enkidu non si vede; la sopracitata Makkari; Sprite (Lia McHugh), elusiva ed eterna dodicenne.

Una montagna di relazioni che invero partorirà un topolino drammaturgico, ma ben si presta a innestare l’albero genealogico Marvel: alcune scene sui titoli di coda provvederanno ad hoc, per l’orgasmo dei filologi geek e l’indifferenza dei cinefili.

Che rimane dopo Mesopotamia e Babilonia for dummies, conquistadores in CGI e Amazzonia da diorama, Hiroshima un tanto al chilo e epitaffi del calibro di “Tutto muore eccetto noi, perché non siamo mai vissuti” di questi Eterni “sintetici e incapaci di evolversi, robot sofisticati con i ricordi immagazzinati nello spazio”? Il padre che condividono con i Devianti, il celestiale Arishem, poi lo spettro di un’emersione fine di mondo già ritardata da Thanos, quindi una parziale decimazione, comunque nulla di memorabile.

All’uopo tocca ricorrere a Angelina Jolie, che all’Auditorium definisce “le vere super eroine quelle donne che sono in prima linea ogni giorno, ogni minuto, rischiando la propria vita per salvare quelle degli altri. Penso a chi lavora con i rifugiati. I migranti per alcuni costituiscono un peso, nessuno pensa che sono persone che hanno deciso di non combattere, di fuggire per proteggere la propria famiglia. Questi sono i veri eroi. A volte ci dimentichiamo che nel mondo c’è più bene che male”.

Anche Chloé Zhao guarda agli ultimi, si riscopre cantrice della marginalità ed eccita il box office: “Facciamo sempre lo stesso film, ognuno di noi cerca il proprio posto nel mondo e tra gli altri. È vero, Kirby ha creato delle figure ai margini: quando si trovano insieme volano le scintille, perché sono personaggi particolari”. Chissà se tra qualche anno, come proprio alla Festa ha fatto Tim Burton con Dumbo, Zhao non rinnegherà un progetto Disney che pare starle troppo largo per mole e troppo angusto per psicologia, ma una cosa è certa: Eternals non terrà fede nella storia del cinema al titolo che s’è dato.

 

Il “paradiso” di Mr Prada e la spiaggia inaccessibile

“Vi fate schiavi: e poi odiate il padrone. Vi togliete tanto di cappello quando passano, e poi gli urlate dietro. Mi fa ridere che venite qui da me a sparare parole contro i potenti, quando i potenti li acclamate sempre e li festeggiate: riempite le piazze per i funerali dei re e per le nozze dei principi (…) Vi dico di drizzare la schiena, di guardare negli occhi la verità: se i potenti e i ricchi vi sembrano lo specchio dell’ingiustizia, allora smettetela di prenderli a modello!”. Questo passo delle prediche di Savonarola, riscritte da Stefano Massini e messe in scena dalla Comunità delle Piagge, va al cuore del rapporto tra gli italiani di oggi e i potenti, compresi i padroni dell’immaginario, tra i quali i signori della moda italiana.

Già, da che parte giocano oggi i grandi stilisti? Sono venerati come padri della patria (che oggi si chiama “brand Italia”), trattati come guru della cultura e celebrati come artisti alla pari di Leonardo e Michelangelo: ma in questo lento e inesorabile tramonto della nostra democrazia, in che direzione pesano? I segnali sembrano contraddittori, tra occupazione dei grandi siti culturali pubblici e slanci sociali, mega evasioni fiscali e apparente mecenatismo culturale.

Un caso recente dà da pensare. Un bell’articolo di Gea Scancarello su Domani ha raccontato di come Patrizio Bertelli, mister Prada, abbia comprato qualche settimana fa (per 18,4 milioni di euro) da una vecchia famiglia aristocratica il paradiso di Cala di Forno, nel Parco della Maremma: torri medievali e poi medicee, dogana granducale, bosco, case coloniche e accesso alla spiaggia. I vincoli impediscono di fare resort di lusso o piste da elicottero (motivo per cui un oligarca russo ha rinunciato all’acquisto), ma è un fatto che chi possiede la tenuta può rendere difficile (in barba alla legge) l’accesso alla spiaggia. Che è naturalmente demaniale, ma che si raggiunge da terra solo con una strada privata, che ora per esempio è sbarrata (con la scusa del Covid). In questi giorni un movimento di cittadini dà battaglia e raccoglie firme perché il Ministero della Cultura eserciti il suo diritto di prelazione, e compri per tutti almeno gli edifici storici.

È una possibilità concreta per salvare quello straordinario bene comune, e ce ne sono anche altre due: diametralmente opposte nel metodo, ma in realtà coincidenti negli obiettivi e nel risultato finale.

La prima. Lo Stato potrebbe espropriare Cala di Forno. L’articolo 1 della legge 327 del 2001 stabilisce che l’espropriazione è funzionale all’ “esecuzione di opere pubbliche o di pubblica utilità”, e al comma 2 chiarisce che, ai fini dell’esproprio, “si considera opera pubblica o di pubblica utilità anche la realizzazione degli interventi necessari per l’utilizzazione da parte della collettività di beni o di terreni, o di un loro insieme, di cui non è prevista la materiale modificazione o trasformazione”. Dunque, lo Stato – uno Stato in cui, secondo Legambiente, il 50% del litorale sabbioso è sottratto di fatto all’uso collettivo – potrebbe dare un segnale straordinariamente forte mettendo fine d’autorità alla privatizzazione di un luogo simbolo. Naturalmente l’ammontare dell’indennizzo è già noto: il prezzo fissato nel contratto di vendita. Dunque, nessuna prevaricazione sovietica, ma sostanzialmente una forma di prelazione che consenta di non acquisire solo gli edifici storici ma anche il terreno: ricostituendo, e offrendo all’uso pubblico, quell’unità di paesaggio e patrimonio storico e artistico che è la forma stessa dell’Italia.

La seconda possibilità. Patrizio Bertelli compra tranquillamente tutto, e poi lo dona liberamente al Parco della Maremma, ente pubblico della Regione Toscana. E lo fa – sogniamo – dichiarando pubblicamente che intende così attuare il secondo comma dell’articolo 42 della Costituzione della Repubblica: “La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti”. Un magnate che prende consapevolezza che in Italia esiste un enorme problema di redistribuzione della ricchezza; un ricco che capisce che non basta il mecenatismo autolegittimante delle grandi mostre e delle fondazioni private, ma che bisogna ricostruire l’idea stessa di ricchezza pubblica; un signore della moda, che vive dei bisogni indotti nei consumatori, che sceglie di mettere i suoi beni al servizio dei cittadini: e che dunque autolimita la sua proprietà privata per renderla – letteralmente – accessibile a tutti. Possibile?

Come mezzo millennio fa notava Savonarola, i ricchi e i potenti vogliono esser presi a modello pur continuando a farla da padroni. Sulla spiaggia meravigliosa di Cala di Forno, lo Stato o Mr Prada potrebbero provare a cambiare questo paradigma secolare: uno dei due lo farà?

Economia KO. Israele concede 10 mila permessi

Israele porterà presto a 10.000 il numero di permessi di lavoro per i commercianti e i lavoratori della Striscia di Gaza. È il numero più alto di permessi che Israele concede da molti anni. L’aumento, pari a 3.000 permessi aggiuntivi, fa parte degli sforzi dello Stato ebraico per alleviare le tensioni sulla sicurezza al confine di Gaza e prevenire una nuovo scontro militare.

All’inizio del 2020, il numero di permessi è stato portato a 7.000, come parte di un’intesa informale raggiunta con Hamas in cambio della sospensione delle violente marce vicino alla recinzione di confine. Tuttavia, questo gesto non è mai stato pienamente attuato per lo scoppio del coronavirus. L’ingresso dei lavoratori da Gaza è stato poi completamente bloccato durante l’operazione militare “Guardian of the Walls” lo scorso maggio. Dopo la fine delle ostilità il numero di permessi è progressivamente aumentato.

Lo Shin Bet il servizio di sicurezza interna israeliano, che in passato aveva espresso riserve sulla concessione di ampi permessi, ha acconsentito alla recente decisione. L’agenzia naturalmente effettuerà controlli in background prima che venga concesso ogni singolo permesso. Le mosse di Israele, d’intesa con l’Egitto, hanno lo scopo di guadagnare tempo e posticipare il più possibile il prossimo scontro militare con Hamas. Le misure intraprese da Israele, sebbene di portata limitata, stanno gradualmente avendo un certo impatto sulla triste situazione dell’economia di Gaza. Tra le altre misure, Israele ha ampliato la zona di pesca, c’è stato anche un aumento dell’esportazione di prodotti agricoli e tessili da Gaza verso Israele e altri paesi. La situazione economica nella Striscia è disastrosa, fra i 2 milioni di abitanti la disoccupazione supera il 52%, un milione vive grazie agli aiuti alimentari dell’Onu.

L’ingresso di 10.000 lavoratori palestinesi dalla Striscia in Israele – che mediamente sono comunque pagati il 30% in meno dei lavoratori israeliani – dovrebbe immettere nell’economia di Gaza più di 80 milioni di shekel (25 milioni di dollari) al mese.

 

Kosovo e Serbia le tensioni etniche sul filo del rasoio

AMitrovica, 14 ottobre. Le barricate che fino a ieri bloccavano il settore nord del Kosovo, la cui popolazione è a maggioranza serba, sono state levate. Ma nella città di Mitrovica si continua a respirare un’atmosfera pesante. La nuova crisi è nata dopo la decisione di Pristina di lanciare un’operazione contro la criminalità organizzata: il 13, di prima mattina, le forze speciali della polizia kosovara si sono appostate davanti ad una farmacia, che si sospetta essere al centro di traffici di medicinali. Nel giro di pochi minuti, centinaia di serbi si sono radunati sul posto. Degli scontri violenti sono scoppiati con le forze di polizia, che hanno risposto prima con i gas lacrimogeni, poi con le armi. Il bilancio finale è di dieci feriti.

Altre dieci persone inoltre sono state arrestate. “In sé non ho nulla in contrario con questa operazione – spiega Miodrag Milićević, responsabile della ONG Activ, una delle poche a Mitrovica-Nord impegnate nel dialogo tra le comunità -. Ma perché schierare le forze speciali per perquisire una farmacia? È un miracolo che non ci siano stati morti”. Dei giornalisti, albanesi e serbi, sono stati aggrediti. A qualche ora dai fatti, il clima resta molto teso. Nei negozi e nei caffè della città nessuno vuole commentare le violenze del giorno prima. “Questa volta, non c’è stato alcun intervento da parte di Belgrado. Le persone sono sull’orlo dell’esaurimento nervoso”, continua Miodrag Milićević. La precedente crisi risale appena al 20 settembre scorso, quando il governo kosovaro aveva deciso di vietare l’ingresso in Kosovo ai veicoli immatricolati in Serbia, in nome di una misura di “reciprocità” che Pristina intende imporre a Belgrado: la Serbia infatti, che non ha mai riconosciuto l’indipendenza del territorio proclamata nel 2008, rifiuta l’accesso ai veicoli su cui figura il marchio “RKS”, che sta per “Repubblica del Kosovo”. Non appena la misura è entrata in vigore, la popolazione serba del nord del Kosovo, ha bloccato i valichi di frontiera con la Serbia, montando barricate per bloccare ogni accesso al settore nord. Belgrado ha poi versato olio sul fuoco, schierando mezzi blindati lungo il confine e inviando aerei militari a sorvolare il settore nord. Alla fine un compromesso provvisorio è stato trovato grazie all’intervento dell’Unione Europea: per i prossimi sei mesi, i veicoli possono tornare a circolare tra i due paesi, ma le targhe nazionali, sia kosovare che serbe, devono essere coperte da adesivi bianchi. Nelle strade di Mitrovica, un’auto su due o tre già porta l’adesivo. Per il momento la polizia si mostra tollerante, ma a termine sono previste multe per chi non si adegua. “È un buon compromesso – riconosce Miodrag Milićević -, ma alle persone non piace. È come se venisse ordinato loro di nascondere la propria identità. I serbi si sentono vittime di soprusi continui”. Il recente intervento della polizia di Pristina ha scatenato naturalmente l’ira di Belgrado. Il presidente Alexandar Vučić si è recato nella città di Raška, al confine con il nord del Kosovo, e, accompagnato dal suo capo di Stato maggiore e dai ministri dell’Interno e della Difesa, ha martellato: “Difenderemo con tutti i mezzi possibili i serbi del Kosovo e della Metochia”. Ha quindi scritto su Instagram: “Il tradimento non è un’opzione, viva la Serbia!”. Il linguaggio bellicoso di Vučić sembra avere avuto il suo effetto. La comunità internazionale ha infatti accusato Pristina della crisi e Josep Borrel, capo della diplomazia Ue, ha condannato su Twitter l’azione “unilaterale” di Pristina. Da parte loro, le autorità del Kosovo assicurano di aver informato i loro partner internazionali, cosa contestata da tutte le diplomazie.

In molti hanno deplorato la mancanza di comunicazione tra il primo ministro Kurti e il presidente Vučić, ma tra i due uomini non c’è mai stata fiducia. Visar Ymeri, direttore del Musine Kokalari Institute, un think tank socialdemocratico di Pristina, ha parlato di gesto esclusivamente “elettoralista”, a pochi giorni dalle elezioni amministrative (il cui primo turno si è tenuto il 17 ottobre). Vincendo le legislative del febbraio 2021, Albin Kurti e il suo movimento di riforma Vetëvendosje (Autodeterminazione) avevano sollevato un’ondata di entusiasmo in Kosovo, ma non hanno radici locali. Il partito – che al primo turno ha ottenuto più del 44% dei consensi e affronterà al ballottaggio del 14 novembre la Lega democratica del Kosovo (Ldk, centrodestra), che ha ottenuto il 26% circa – spera di conquistare il municipio di Pristina, tenuto per due mandati di seguito da un dissidente di Vetëvendosje, che ha deciso di ritirarsi. Mostrare i muscoli nel Nord potrebbe impressionare parte dell’elettorato, ma rischia soprattutto di avvantaggiare la Lista Srpska, l’egemonico partito serbo del Kosovo, guidato da Belgrado. In assenza di rivali, nelle strade di Mitrovica, i manifesti elettorali del partito tappezzano tutti i muri. Negli ultimi anni, le voci dei dissidenti sono state sistematicamente messe a tacere, soprattutto dopo l’assassinio, ancora impunito, dell’attivista Oliver Ivanović, davanti al suo ufficio di Mitrovica, nel gennaio 2018. La retorica patriottica usata dal presidente Vučić per consolidare il suo potere in Serbia, liquidando ogni critica come “tradimento degli interessi nazionali”, non riesce a convincere i serbi del Kosovo. “Secondo le nostre inchieste, la metà dei serbi del Kosovo prevede di partire entro i prossimi cinque anni. Anche un mio amico si sta preparando a partire insieme alla famiglia”, osserva Miodrag Milićević. Le inchieste di Activ mostrano anche che la grande maggioranza dei serbi del Kosovo, sia quelli che vivono nel Nord sia quelli delle enclavi sparse nel sud, ritiene che la situazione si deteriorerà in futuro. “Non si teme solo un peggioramento della situazione materiale. Si stanno perdendo le speranze”. Un terzo dei 120.000 serbi che teoricamente vivono in Kosovo è concentrato nel Nord, mentre in Serbia sono ufficialmente registrati 230.000 sfollati. L’ex deputato Visar Ymeri è stato per qualche tempo alla testa di Vetëvendosje, prima di sbattere la porta del movimento nel 2017. Le sue parole sono molto critiche: “Albin Kurti non ha nessun progetto per il Nord. È un peccato, perché godeva di un certo credito tra i serbi. La sua decisione di combattere la corruzione avrebbe potuto avere un buon impatto su di loro, ma inviare le forze speciali un volta al mese è un messaggio sbagliato. Come può parlare di integrazione in queste condizioni?”. Gli fa eco Miodrag Milićević: “Albin Kurti è stato eletto opponendosi ad ogni ipotesi di spartizione etnica del Kosovo, ma il divario non è mai stato così grande e continua a scavarsi”.

Il primo ministro ha sempre detto che il dialogo con Belgrado non è tra le sue priorità, privilegiando il “dialogo interno” con i serbi del Kosovo. Ma mancano i presupposti per instaurare questo dialogo e anche la “normalizzazione” dei rapporti con Belgrado si fa attendere. Vučić seguirà una linea politica patriottica almeno fino alle elezioni legislative dell’aprile 2022, mentre la comunità internazionale non sembra in grado di proporre strategie alternative. Gli Stati Uniti non nascondono la loro impazienza nei confronti di Albin Kurti, con il governo del Kosovo che continua a opporsi alla costruzione di un oleodotto che permetterebbe di trasportare del gas liquido statunitense dalla Macedonia del Nord, con lo scopo di ridurre la dipendenza energetica dei Balcani dalla Russia. Infine, il recente vertice Unione Europea-Balcani occidentali non è riuscito a rilanciare la dinamica dell’integrazione. Da una parte, la Germania, in piena transizione politica dopo le elezioni di fine settembre, è praticamente assente, dall’altra, l’emissario europeo incaricato del dialogo tra Belgrado e Pristina, Miroslav Lajčák, è sempre più criticato negli ambienti diplomatici. Fintanto che non emergerà una prospettiva politica concreta, il Kosovo del Nord resterà un terreno di scontro e rivendicazioni.

(Traduzione di Luana De Micco)

“Pronto, parla l’Academy?”. Il mistero buffo della statuetta di Hollywood

“Ladies and gentlemen the winner is…”, che rabbia mi fa venire ogni anno la cerimonia degli Oscar: i premiati che fingono di non credere ai loro occhi, che piangono e abbracciano quelli seduti vicino, poi salgono sul palco e ringraziano cani e porci, prima fra tutti la famiglia, e infine tutto il cast del film senza il quale non avrebbero mai vinto un tubo, per cui quel pupazzo dorato è di tutti e non solo loro. Naturalmente rivolgono un grazie di cuore all’Academy, che non si sa bene cosa sia, ma sa capire e scoprire i veri talenti ovunque siano, e li trasferisce in men che non si dica sul palco del teatro in piena Hollywood.

Dico Hollywood, che in italiano sarebbe il bosco degli agrifogli, ma pensa come suona male “bosco degli agrifogli” rispetto a Hollywood! La lingua italiana è antica, va bene per il melodramma: “Libiamo, libiamo nei lieti calici…” e invece con l’inglese puoi vincere l’Oscar. Certo, non basta sapere l’inglese per vincere un Oscar, altrimenti dovrebbero premiare mezzo mondo. Però, quella lingua ti aiuta, tant’è vero che se i premiati vengono dall’Uzbekistan o dalla Mongolia, quando sono lì ad arraffare e baciare la maledetta statuetta, ringraziano in inglese. E il pubblico, apprezza molto, applaude e ride, che poi si sa, gli americani ridono di tutto.

Ma come si fa a vincere un Oscar? Bisogna come minimo fare un film, e farlo anche bene, se no l’Academy, che non si sa bene cosa sia, non ti degna neanche di uno sguardo e se telefoni non ti rispondono o scatta la segreteria. “Pronto, chiamo dall’Italia, volevo qualche informazione su un eventuale Oscar: devo fare domanda scritta, oppure vengo di persona nei vostri uffici? Perché io ho un’idea per un film che andrebbe proprio bene per voi, non l’ho ancora girato, ma ce l’ho tutto in testa… pronto, pronto… è caduta la linea. Ma che numero ho fatto?”. Oddio, ma questo è il prefisso di Viterbo!

 

Il mondo di Salvini e Meloni. L’Italia è un Paese che nasce con Piero Gobetti e finisce a parolacce

Quando penose inquadrature televisive vi mostrano una folla di persone (di adulti apparentemente normali, di italiani ) che gridano “libertà” in piena libertà, e si sgolano ripetendo il celebre slogan politico “va a fanculo” contro i giornalisti che tentano di raccogliere tracce di questo brutto momento della vita italiana, ricordate che dietro quella folla cieca e stordita, c’è stata e c’è ancora un’altra Italia, che ha salvato il Paese con la vita, e la sta salvando di nuovo con il lavoro, dopo il blocco e la pandemia Covid.

Serve a riportare l’orgoglio e a re-impiantare la memoria quest’ultimo libro di Corrado Stajano (Sconfitti, Il Saggiatore) triste ed emozionante sequenza di voci e di immagini che ci fa guardare in faccia e osservare, con cura, la miseria di umilianti anticaglie gettate (come nuova ideologia) in mezzo alla strada dai “conservatori”. Il volume mostra anche la follia tenace delle superstizioni contro le medicine (che restano solide e assai ben radicate) insieme a una destra senza libri e senza padri, che non siano i carnefici di altre terribili epoche.

Il libro di Stajano è un documentario, bello, grande e triste, sull’Italia in cui viviamo e su cui le destre hanno tentato di dominare (per ora, senza successo). Si affida a una scrittura civile, storicamente rigorosa e, nel narrare il presente, capace di far diventare letteratura il reporting giornalistico su ciò che l’autore vede e noi vediamo: lo squallore del mondo Salvini-Meloni. Secondo loro sei una nazione se lasci affondare i profughi, compresi (ormai a centinaia) i bambini; e sei un patriota se, come nelle canzoni fasciste, chiudi i confini perché c’è “lo straniero” e se gridi “libertà” contro coloro che te l’hanno portata.

È la storia di un Paese malato che dà la caccia ai medici e denuncia le cure. Sfila sullo schermo di Stajano una nazione vuota. Ma l’autore ti spinge a vedere, dietro questa tenda sporca, la grande adunata di un Paese di morti che ha rifiutato di collaborare con chi occupava l’Italia; e narra del giovane partigiano che va alla fucilazione con in tasca una striscetta di carta con i versi del poeta Attilio Bertolucci. Ti dice i nomi di coloro che hanno resistito – tutta la cultura italiana – e dei sopravvissuti, fra loro, che, subito dopo, hanno costruito la Costituzione e l’Italia.

Diresti, alla fine, con desolazione, che l’Italia che stiamo vivendo è un Paese che nasce con Gobetti e finisce con “va a fanculo”. Ma il libro di Stajano sprigiona una sua forza mite, e tu senti che dice “non finisce qui”.

 

 

Mail box

 

Burocrazia impazzita e il “vuoto d’identità”

Buongiorno, sto cercando da molti giorni di prenotarmi per il rinnovo della carta d’identità, tramite l’unico canale disponibile: on-line su portale del comune di Milano. Ma il sistema offre date di prenotazioni impossibili: dal gennaio 2022 in poi, peccato che il mio documento scada a novembre tra circa 20 giorni! Come non bastasse, la mia patente scade proprio lo stesso giorno della carta. Rischio quindi di cadere in un vuoto di identità… La cosa strana è che talvolta, casualmente, il sistema mi dà una prenotazione libera per il giorno dopo, cioè domani. Allora seleziono la data ma una volta arrivato alla fine mi dà seguente il messaggio: “Errore: l’appuntamento non può essere programmato: l’intervallo di tempo è già prenotato”. Ho provato a telefonare al numero 02-0202, ma ila voce automatica dice che l’unico modo di parlare con il comune delle carte d’identità è il portale online! A questo punto non so come potrò rinnovare il mio documento in scadenza, visto i servizi del comune mi consentono di farlo solo online. Grazie per la cortese attenzione.

Antonio Gradia

 

Emergenza Pa: “Brunetta assuma più impiegati”

Tutta la comunicazione ruota, da troppo tempo, intorno alla questione green pass. La questione del certificato però viene separata dal tema del vaccino, creando grande confusione: si gira intorno al problema, con ore di dibattiti televisivi, senza venirne a capo. Ma in tutti questi lunghi mesi non si parla più della vera emergenza, il lavoro. Perché di fatto, nelle amministrazioni pubbliche di comparti sguarniti di personale ve ne sono a iosa. Invito i cittadini della Campania a comporre i numeri di emergenza pubblica, 118, 112, 113, per verificare personalmente che il più delle volte non risponde nessuno, e i tempi di attesa al telefono sono inammissibili. Manca la volontà politica di assumere personale per migliorare il servizio pubblico. Per non parlare degli sportelli delle Asl, dei comuni, delle regioni, carenti di operai e impiegati. Se il ministro Brunetta parla di snellimento della burocrazia, vorrei dirgli che questa inizia dall’incremento delle risorse umane, a prescindere dal processo di informatizzazione. In ultimo mi permetto di suggerire l’assunzione di categorie protette, un bacino di risorse umane abili al lavoro, troppo spesso ignorate e bistrattate, tenute in parcheggio con una misera pensione di invalidità che schiaccia la dignità e il talento di centinaia di migliaia di invalidi civili.

Giovanna Galasso

 

Letta, il trionfo mutilato e l’alleanza della sinistra

Caro direttore, gentile redazione, dicono che le amministrative siano state la svolta a favore del Pd. Forse c’è stato un travaso di voti dal Movimento 5 Stelle, di certo l’astensionismo la fa da padrone. Quindi vorrei dire a Letta che c’è poco da festeggiare: quelli del nazareno saranno pure i meno peggio ma è una vittoria povera. E aggiungo: spero che nei progetti del segretario l’unica coalizione possibile sia tra Partito democratico, Movimeno Cinque Stelle e Leu; trascurando il confindustriale Calenda e “l’innominabile” ormai non più attendibili. Tutto questo per evitare di restare forze politiche da Ztl, e per tornare a dare voce alle periferie e ai valori sociali contrastando le disuguaglianze. Solo così, nell’elettorato, potrà tornare il desiderio di recarsi ancora alle urne.

Roberto Mascherini

 

Carburanti, una rapina all’italiana: il prezzo vola

È in atto, nei distributori di carburante di tutta la penisola, una vergognosa speculazione che sta letteralmente rapinando gli automobilisti e gli autotrasportatori. Ci sono stati aumenti improvvisi (anche del 100%) per il metano, assolutamente ingiustificabili, anche tenendo presente la situazione delle forniture. La prova più lampante è la notevole differenza dei prezzi tra un distributore e l’altro. Qualcuno ha aumentato di poco, altri in maniera molto consistente. Questa situazione in un comparto strategico come quello dei carburanti, non dovrebbe essere consentita. Anche se i prezzi sono stati (improvvidamente) liberalizzati da qualche decennio, il governo Draghi dovrebbe varare subito norme per impedire questa sfacciata speculazione: un aumento così esagerato del costo dei carburanti scatenerà un’impennata inflattiva che impoverirà ulteriormente chi sta già soffrendo.

Mauro Chiostri

 

Bonus facciate: se frena l’ediliza il Paese arranca

Il Governo commette un grave errore se elimina il bonus-facciate. Era il 1959, avevo 19 anni e dopo il diploma di geometra iniziai a lavorare in un cantiere edile. Affiancavo il capo cantiere Aldo, prossimo alla pensione. Tra le tante buone cose apprese dal mio “maestro” sono due quelle che mi piace ricordare in questo momento di “ricostruzione e ripresa economica“ dell’Italia. Aldo mi diceva: “L’edilizia è una locomotiva che non deve mai fermarsi, se va in crisi lei andrà in crisi l’intero Paese”. Ancora: “Sono innumerevoli gli effetti salutari che un territorio ben tenuto e curato è capace di procurare ad ogni cittadino”. Nessuna persona di buon senso potrebbe contestare un tale messaggio. Il decoro urbano può fare miracoli spesso sottovalutati. Un territorio risanato ha un’incredibile forza di avvicinare le persone alla cultura del bello, aumentando il rispetto delle regole e l’amore per la propria terra.

Raffaele Pisani