Il rebus dell’identità e il realismo dei risultati elettorali

Leggendo lo scambio di vedute tra un lettore e Marco Travaglio, colgo l’occasione per ribadire la mia opinione: va bene l’alleanza progressista, ma è inutile negare che l’Italia sia sotto certi punti di vista tripolare. In politica esistono gli interessi di sinistra e di destra, i quali tuttavia si distinguono nettamente dai bisogni di chi è vittima delle disuguaglianze e di rado ha rappresentanti in Parlamento: i famigerati populisti. Il M5S è riuscito a interpretarli in passato, ma, seguendo la linea del governo a tutti i costi li ha persi; tocca perciò trovare una nuova via, che però non può essere un fantomatico “ritorno alle origini”, perché è un’illusione che ripetere la stessa cosa in un contesto diverso possa portare allo stesso risultato. Conte è l’unico che può dare un corso serio al Movimento tenendo insieme le diverse anime del suo partito, ma ora deve rendersi indipendente dai dem, o non sarà mai il rappresentante di quel terzo polo. Senza ripristinare il tripolarismo che fece la fortuna dei grillini, senza diventare popolari (e verdi) nel senso partitico del termine, Draghi tornerà dalla finestra, e un Paese che vuole cambiare non può permetterselo.

Giovanni Contreras

Gentile Giovanni lei pone una questione centrale e complessa. Tenterò di risponderle. Lo schema tripolare cui fa riferimento non esiste più. Tre governi e una serie di turni elettorali hanno fatto invecchiare il risultato delle Politiche del 2018. Inutile girarci attorno: oggi il M5S a stento mantiene la metà di quel 32 per cento e bisogna essere realisti come lo fu anche il Pd di Zingaretti. Anche l’ex segretario dem aveva in testa la vocazione maggioritaria (con uno striminzito 20 per cento) e alla fine si rassegnò alla maggioranza giallorosa del Conte II. I numeri, quindi. La legge elettorale, poi. Se resta il Rosatellum con la quota maggioritaria, la divisione tra Pd e 5S consegnerebbe il Paese alla peggiore destra europea. Siamo dunque passati nel giro di appena quattro anni dal tripolarismo M5S, Pd e destra a quello formato da astensionismo, giallorosa e centrodestra. La scommessa di Conte è appunto questa, partendo dai due pilastri della sua esperienza di premier, giustizia sociale e legalità: riportare in vita un Movimento soffocato dal governismo a tutti i costi. Il tempo è poco, ma l’auto-isolamento potrebbe essere un azzardo letale.

Fabrizio d’Esposito

Thomas Jefferson e dave Chappelle: cortocircuito del politically correct

 

BOCCIATI

Idiozie/1. La città di New York ha approvato lunedì la rimozione della statua di Thomas Jefferson – il terzo presidente, uno dei padri fondatori degli Stati Uniti – esposta nella camera di consiglio da più di un secolo, a causa del suo passato schiavista (tenne più di seicento schiavi nella sua piantagione in Virginia). “Jefferson rappresenta alcune delle pagine più vergognose della lunga e articolata storia del nostro Paese”, ha detto il consigliere afroamericano della città di New York Adrienne Adams. Domanda: si fanno meglio i conti con la storia guardandola in faccia o rimuovendola?

Idiozie/2. Alcuni dipendenti di Netflix chiedono la rimozione dalla piattaforma di “Closer”, lo spettacolo di Dave Chappelle perché secondo loro “transfobico”. Se qualche anno fa, per qualunque ragione, avessero sospeso lo spettacolo di un comico di colore, si sarebbe gridato al razzismo. Ora si chiede la censura di un comico nero gridando alla transfobia: c’è sempre una minoranza più minoranza (e prima o poi questo causerà un cortocircuito definitivo). Sebbene non freghi nulla a nessuno, vorrei usare una riga di questa rubrica per scopi personali, comunicando a Netflix che, in caso di sospensione dello spettacolo di Dave Chappelle, provvederò a sospendere il mio abbonamento.

Idiozie/3. È stato invece proprio sospeso dalla cattedra di composizione musicale intitolata a Bernstein, Università del Michigan, il prof Bright Sheng, compositore cinese nato nel ’55 al quale da bambino la rivoluzione culturale sequestrò immediatamente il pianoforte. Per introdurre l’Otello verdiano agli studenti ha mostrato agli studenti l’Otello shakespeariano del 1965 con Laurence Olivier (che interpretava Otello con parrucca riccia, impressionante tintura nero pece sul viso, labbra ritoccate di rosso per farle più carnose). Rivolta degli studenti, inevitabile la lettera di scuse del compositore e la sospensione dall’insegnamento. Come ha scritto Matteo Percivale sul Corriere: “George Orwell, in 1984, prevede che entro il 2050 ma forse anche prima, tutta la letteratura del passato sarà stata distrutta: Chaucer, Shakespeare, Milton, Byron… trasformati in qualcosa di opposto a ciò che erano prima. Il pensiero non esisterà più… Ortodossia vuol dire non pensare, non aver bisogno di pensare”.

 

PROMOSSI

The senectute. La rivista britannica “The Oldie”, dedicata alla terza età, ha conferito il premio “anziano dell’anno” alla regina Elisabetta II (95 anni) che però ha declinato. Con questa motivazione: “Sua Maestà crede che una persona sia vecchia quanto si sente tale, la regina non crede quindi di soddisfare i criteri pertinenti per poter accettare, e spera che troviate un destinatario più adeguato”. Forse il principe Carlo, che sembra il nonno di sua madre? God Save the Queen.

Sardine alla bolognese. Il compagno Mattia Santori è stato mr. preferenze alle comunali di Bologna, confermando così i danni prodotti dal damsismo (malattia senile del gruppetarismo bolognese). Perciò lo promuoviamo anche se alla fine non è riuscito a ottenere un posto nella giunta del neosindaco Lepore (il civismo tira molto in campagna elettorale, meno quando bisogna spartirsi i posti).

Arrivano i Barbero? Il prof Barbero, storico di fama, dopo anni di encomi è da qualche tempo nell’occhio del ciclone e appena apre bocca si scatena una bufera (azzardiamo: sarà perché ha sottoscritto il manifesto contro il green pass all’Università?). L’ultima in un’intervista alla Stampa (“È possibile che in media le donne manchino di quella aggressività, spavalderia e sicurezza di sé che aiutano ad affermarsi?). Prof, sarò spavalda: vuole venire a scrivere sul Fatto quotidiano?

 

Meloni&Salvini in panne e il Pd soffre l’artrite: “No il dibattito no!”

 

PROMOSSI

BUCHE, ARTRITE E COALIZIONI. “Non si azzardi, Enrico #Letta, ad insidiare il nostro primato: non è lui che ha vinto, siamo noi che abbiamo perso. Orgogliosamente! #Centrodestra”: la boutade di Andrea Cangini sul risultato elettorale offre lo spunto per riflettere tanto al centrodestra quanto al centrosinistra. Il senatore forzista, proposto come candidato sindaco di Bologna per il centrodestra da Forza Italia ma bocciato da Salvini, che gli ha preferito Fabio Battistini (“La volta scorsa Matteo Salvini impose un candidato della Lega, questa volta ha imposto un candidato civico. Oggi come allora si è assunto una grossa responsabilità: spero che l’esito sia migliore”: le ultime parole famose) ha sperimentato sulla sua pelle il groviglio di contraddizioni e ripensamenti che attraversa ormai da tempo la sua coalizione. E infatti, spingendosi oltre la battuta, Cangini ha commentato così la sconfitta di una coalizione vincente nei sondaggi ma perdente nelle urne: “Le #elezioniamministrative2021 sono state una disfatta. È ora che i partiti maggiori del #centrodestra facciano chiarezza al proprio interno per poi dare tutti assieme un senso alla coalizione. Troppa competizione, troppa demagogia, poca credibilità come alternativa di governo”. E in effetti un po’ di chiarezza andrebbe fatta: mentre Giorgia Meloni sostiene che la responsabilità sia di quella parte di centrodestra che governa con il centrosinistra e disorienta gli elettori, Forza Italia è convinta che la colpa sia di chi invece non è stato in grado di mettersi in sintonia con lo spirito di ripartenza del Paese e ha attaccato troppo il governo, ma soprattutto dell’eccessiva competitività tra Matteo Salvini e Giorgia Meloni; il leader della Lega, dal canto suo, preferisce non aderire a nessuna delle due visioni e imputare il risultato all’astensionismo. È piuttosto evidente che finché si fatica a trovare un punto d’incontro nell’analisi della sconfitta, è difficile organizzare una strategia comune che porti la vittoria. Quest’impasse degli avversari non deve però trarre in inganno il centrosinistra, illudendolo di aver risolto le proprie questioni identitarie, di aver ritrovato la sintonia con il Paese o di aver risolto il nodo delle alleanze. Perché se a Roberto Gualtieri tocca mettere a posto le buche nel manto stradale della Capitale, a Enrico Letta e alla sua direzione tocca il rivestimento dell’intero pavimento democratico. Non solo per evitare d’inciamparvi ma anche per dare una veste consona a un partito di sinistra del terzo millennio. Sergio Cofferati (ex leader della Cgil), quando a “Un giorno da pecora” gli hanno chiesto se faccia ancora il saluto con il pugno alzato, ha risposto così: “Sono ancora comunista col sentimento, nel cuore, il pugno chiuso con la mano purtroppo non riesco più a farlo perché ho l’artrite. L’età lascia qualche traccia a livello fisico…”. Ecco, se davvero il Partito democratico vuole ripetere il successo delle amministrative alle elezioni nazionali, deve curarsi bene l’artrite per tempo e non puntare sugli acciacchi altrui.

Voto 6

 

“Io, Calciopoli, la Juventus e la vita sconvolta dalla gogna di Moggi&co”

Tutto è cominciato nel 2009, negli anni caldi di Calciopoli, di cui mi sono occupato, che hanno portato la Juventus in serie B e i suoi dirigenti Moggi e Giraudo alla radiazione. Sul sito de La Stampa della famiglia Agnelli, nel blog Un campionato mai visto di colpo si parla di me.

È il 18/9/2009 e riprendendo un’intervista che avevo concesso a proposito del mio libro Non si fanno queste cose a cinque minuti dalla fine (storia della partita truccata Genoa-Inter del 1983, oggetto di un’inchiesta mia e del collega Pea su Il Giorno), un “anonimo” scrive: “Ziliani venne mandato a ramengo. Nessuno gli dava lavoro. A sentire Enrico Maida: Ziliani per poter mettere cibo sul tavolo fu costretto a far prostituire la moglie tanto alla redazione del Corriere della Sera quanto alla redazione della Gazzetta dello Sport. Finché una persona lo ha consigliato: se vuoi tornare a lavorare, devi andare in ginocchio dall’avvocato Prisco! E fu così che Prisco si rivolse a Berlusconi (ai tempi si diceva che Berlusconi voleva comprare l’Inter), ma a condizione che doveva… dire e scrivere peste e corna contro la Juventus vita natural durante!!! Ecco dov’è nata la febbre antijuventina di Paolo Ziliani”. Per la cronaca, ai tempi dello scandalo Genoa-Inter avevo 29 anni, non ero sposato né fidanzato, ero arrivato a Milano da 2 anni e l’inchiesta fu un successo professionale per me, malgrado i seri grattacapi con l’Inter e tifoseria.

12 anni dopo, a parte le innumerevoli querele piovutemi addosso dal mondo “Juve-Moggi-amici di Moggi-arbitri” (mi fece causa per diffamazione chiedendomi 250 mila euro persino il generale Italo Pappa, sodale di Moggi e già capo dell’Ufficio Inchieste della Figc), la richiesta di licenziamento che Andrea Agnelli avanzò sul mio conto al direttore di SportMediaset Claudio Brachino nell’estate 2013, la chiusura nel 2014 del programma La Tribù del Calcio che curavo da 5 anni (programma di maggiore ascolto su “Premium”) e altri simpatici ammennicoli, se oggi digitate il mio nome e cognome su Google vi compariranno le ricerche più comuni fatte dalla gente: “Paolo Ziliani moglie” e “Paolo Ziliani corna”. Il primo risultato proposto è “Paolo Montero andava a letto con la moglie di Paolo Ziliani”. Luciano Moggi su Facebook scrive: “Si legge che un giocatore della Juve fosse l’ ‘amico’ di sua moglie. Se questo sia stato l’elemento scatenante di tanta rabbia non mi è dato di sapere anche perché non vedo che colpa possa avere avuto la Juve se un suo tesserato se la faceva con sua moglie”. Tuttojuve.net propone invece “Le corna di Ziliani e il suo profilo Twitter” e scrive: “Ormai la pagina Twitter di Paolo Ziliani è un coaCervo (che battuta eh) di quei pochi (mi auguro) trogloditi tifosi del Napoli che hanno un quoziente intellettivo inferiore a quello di un bue”. Poi i profili Facebook, Instagram e Twitter che offrono finte interviste dell’ignaro Montero, di 20 anni più giovane di me e mia moglie, con tanto di citazione di giornali che mai hanno pubblicato idiozie simili tipo “Tra me e la moglie di Ziliani c’era molto più che del sesso selvaggio. Per molto tempo siamo stati innamorati”. Paolo Montero, marca.com. O ancora: “Lasciamo perdere Ziliani, non voglio dire niente su di lui. Sarebbero cose troppo pesanti”. P. Montero per Marca.com.

Questo, perché lo sappiate, è lo stile Juve e il mondo Juve. Questo è ciò che capita a chi prova a fare il giornalista oggi, 2021, ficcando il naso nella tana più brutta del calcio italiano.

 

L’ultima battaglia di Peppe Sini: “Biden liberi Leonard Peltier”

La lunga barba bianca evoca qualcosa a metà tra Engels e Zarathustra. E i decenni di impegno da cui è nato quel colore così solenne. Perché è dalla fine degli anni settanta che il nome di Peppe Sini incrocia la vita di associazioni, circoli, riviste, attraverso la partecipazione o la promozione di pubbliche battaglie. Lui e il suo “Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera” di Viterbo sono in effetti ormai una componente fissa della nostra società civile. “Anche se adesso come gruppo di amici, bisogna dirlo, siamo un po’ invecchiati”, ride lui. Lo puoi ritrovare nelle lotte umanitarie o pacifiste, ambientaliste o antirazziste. Memorabile la lunga, faticosa campagna coordinata in Italia per ottenere negli anni ottanta la libertà per Nelson Mandela. Quattro milioni di firme, e insieme la richiesta di conferirgli il premio Nobel. Ma significativo anche, nel 1987, il primo convegno nazionale di studi sulla figura di Primo Levi, il cui nome apriva proprio l’elenco delle firme anti-apartheid.

In questi mesi Peppe Sini, in genere figura riservata (“mi attengo al principio di Epicuro di cercare di vivere nascosto”), è una presenza tenace sugli schermi di centinaia di attivisti grazie alla battaglia per una causa che sembra uscire dal cilindro di un prestigiatore: la liberazione di Leonard Peltier. Un nome totalmente sconosciuto ai più. E cronache uscite dalla memoria di quasi tutti i militanti civili. Anche se diverse sono le canzoni dedicate al protagonista, tra cui quella di Little Steven della E Street Band di Bruce nel suo album “Revolution”. Perché Peltier, cresciuto nella riserva indiana del Dakota del Nord, è come spiega Sini nel suo manifesto, “l’illustre attivista per i diritti umani dei nativi americani, vittima di una spietata persecuzione politica, dal 1977 ingiustamente detenuto dopo un processo-farsa in cui gli sono stati attribuiti delitti che non ha commesso”.

Sini conosce bene le ragioni dei nativi americani, sin da quando negli anni settanta riceveva in abbonamento una loro rivista, Akwesasne Notes. E questa storia l’ha studiata a fondo. Si tratta di due ergastoli per l’uccisione di due agenti dell’Fbi che porta a Peltier attraverso indizi e arbitri. Una vicenda giudiziaria complicatissima, doviziosamente raccontata in rete, e piena di punti controversi, a cui si sono rifatti gli avvocati di Peltier per chiedere un processo d’appello, sempre negato, al riparo dei pregiudizi razziali della Corte di allora.

Dal mese di agosto Sini ha iniziato una raccolta di firme senza sosta, con il metodo del gutta cavat lapidem (la goccia scava la pietra) che gli è congeniale. Un primo gruppo di firme a fare da battistrada (Zanotelli, Ciotti, Lerner, Ovadia…) e poi ogni volta l’annuncio della adesione del tale intellettuale o del sindaco di Icsipsilon o di Zetaiota, anche se è un comune di duemila anime. Con puntuale rilancio del manifesto e “riscaldamento” emotivo dei sottoscrittori. Un piccolo successo dietro l’altro, l’effetto palla di neve è stato davvero raggiunto. Perché il 23 agosto il presidente del parlamento europeo David Sassoli ha annunciato, con tweet e in video, la richiesta a Biden di un atto di clemenza degli Stati Uniti per il condannato. Per il centro di ricerca di Viterbo è stata festa.

Un primo punto di arrivo, con conseguente incitamento ai compagni di viaggio: “Continuiamo a impegnarci affinché il Presidente degli Stati Uniti d’America attraverso la grazia presidenziale restituisca finalmente la libertà a Leonard Peltier, il Nelson Mandela dei nativi americani”. In prima fila c’è naturalmente il notiziario telematico quotidiano La nonviolenza è in cammino che il centro pubblica dal 2000. “Non so come andrà a finire”, confessa Sini. “Ma, come diceva Bobbio, nella storia anche l’improbabile può accadere”.

 

Il rabbino anti-sionista e sostenitore dell’Iran che festeggia il compleanno del Profeta

Nei giorni scorsi i musulmani hanno festeggiato il compleanno del Profeta Maometto e a Teheran si è svolta la tradizionale settimana dell’unità islamica, istituita dall’ayatollah Khomeini dopo la “rivoluzione” del 1979 in Iran.

Da Iqna, la prima agenzia di stampa coranica, del 19 ottobre: “Oggi, giorno 12 del mese arabo di Rabi al-Awwal, corrispondente all’anniversario della nascita del Profeta Mohammad (Che Dio benedica lui e la sua famiglia) in base alle fonti sunnite, ha inizio nel mondo islamico la cosiddetta ‘Settimana dell’Unità Islamica’. Il 17° giorno del mese islamico lunare di Rabi al-Awwal (ieri 24 ottobre, ndr) ricade invece l’anniversario della nascita del Profeta Mohammad (…) secondo la tradizione sciita”. E quindi: “In seguito alla Rivoluzione islamica dell’Iran nel 1979, l’Imam Khomeini, allo scopo di rafforzare l’unità tra i musulmani, ha dichiarato i giorni che intercorrono tra le due date come ‘Settimana dell’Unità Islamica’”.

Anche in Italia ci sono state iniziative per la ricorrenza e tra queste la videoconferenza curata dall’Istituto culturale dell’Iran. Titolo: “Il Ruolo delle religioni Abramitiche nello sviluppo e nella diffusione dei valori umani”. Tra i partecipanti: Sheykh Abbas Di Palma, un toscano che è stato il primo italiano a specializzarsi negli studi sciiti; Hamza Roberto Piccardo, ligure che ha tradotto il Corano nella nostra lingua e che è pure un sostenitore della battaglia contro il Green pass; Adolfo Morganti, fondatore della casa editrice Il Cerchio e cattolico della destra tradizionalista; infine, il rabbino Yisroel Dovid Weiss, portavoce di un gruppo ultraminoritario dell’ebraismo ortodosso, i Neturei Karta, “ Guardiani della città”. Ma che ci fa un rabbino a una manifestazione patrocinata dall’Iran, uno dei più feroci nemici di Israele?

In realtà sono lustri che Rabbi Weiss ha un rapporto organico con la teocrazia islamica di Teheran, al punto da aver difeso in passato l’ex presidente Mahmoud Ahmadinejad dalle accuse di antisemitismo. Il religioso ebraico è infatti uno zelante anti-sionista che combatte per la distruzione di Israele (lui, meglio specificare, abita a New York). È anti-sionista per motivi religiosi: lo Stato di Israele deve essere edificato da Dio e non dagli uomini. Ergo, come ha detto nella videoconferenza, “l’ebraismo è stato purtroppo rapito dal sionismo in Palestina. Il sionismo è un movimento politico e materialista che non ha nulla a che fare con la religione”.

Ancora: “Il nostro rabbino capo si oppose alla formazione dello Stato ebraico, lui era dalla parte dei palestinesi. Il vero ebraismo insegna a non occupare i territori degli altri, perciò lo Stato d’Israele è contro gli insegnamenti della Torah”. Non solo. Pur avendo avuto i nonni uccisi ad Auschwitz, il rabbino Weiss non ha disdegnato la partecipazione negli anni scorsi a convegni negazionisti sulla Shoah. Sempre in nome dell’anti-sionismo, come spiegò in un’intervista: “Il pretesto dell’Olocausto è stato utilizzato e manipolato per la creazione dello Stato di Israele e questo è inammissibile. È stato molto doloroso aver perso i miei nonni nei campi di concentramento ma ancor più doloroso è stato vederli usati per la fondazione di un’entità illegittima e criminale come quella di Israele”.

 

Una proposta innovativa per dare libertà a chi lavora e spostare risorse su donne e giovani

Alla fine di quest’anno terminerà “Quota 100”, una misura da archiviare come fallimentare sia sotto il profilo dei costi che dell’equità. Tutti sembrano essere d’accordo nel superare le rigidità dei requisiti di età ed anzianità, previsti dalla “riforma Fornero”, anche se Draghi ritiene che sia la normalità verso cui tornare gradualmente.

L’equità intergenerazionale, finora calpestata, dovrebbe invece ispirare una riforma delle pensioni, ma le alternative su cui si sta ragionando sono tutte inadeguate, perché non riconoscono la centralità del metodo contributivo, basato sull’invarianza attuariale tra contributi versati e pensione ricevuta, che dal 2011 ha sostituito il retributivo. Per gli anni a venire, ci sarà una quota sempre più esigua di lavoratori che usufruiranno di un regime misto, avendo versato contributi previdenziali di entrambe le modalità e avendo acquisito il diritto a una pensione che ne tenga conto in misura proporzionale. Il calcolo con il retributivo è, in generale, più generoso di quello contributivo, garantendo un maggior rapporto di sostituzione tra l’ultimo stipendio e la prima pensione.

Ben prima dell’insediamento del governo Conte 1, dal quale è poi scaturita Quota 100, su lavoce.info era stata avanzata una proposta che teneva conto sia dell’esigenza dei lavoratori di non essere costretti a lavorare in età avanzata, sia della sostenibilità di lungo periodo del sistema previdenziale e più in generale dei conti pubblici. Essa consiste nel riconoscere ai lavoratori in regime misto la possibilità di andare anticipatamente in pensione, percependo solo la quota maturata col contributivo, salvo poi ricevere un’integrazione dell’assegno al raggiungimento dei requisiti previsti dalla riforma Fornero. Una pensione a pezzi, assolutamente innovativa rispetto al sistema attuale, ma di semplice applicazione e soprattutto risolutiva, almeno per chi può usufruirne.

Ma come potrebbe essere ridisegnato il modello previdenziale del futuro? La pensione di vecchiaia e la pensione anticipata, che attualmente si maturano al conseguimento di ben precisi requisiti di età anagrafica e anzianità contributiva, potrebbero essere sostituite da un’unica pensione lavorativa, che si raggiunge sommando i contributi previdenziali versati col sistema contributivo presso qualsiasi gestione previdenziale (senza “ricongiungimenti”), purché il montante contributivo rivalutato nel tempo riesca a garantire una pensione che superi un minimo vitale (attualmente è 2,8 volte l’assegno sociale, pari a circa 1.400 euro, un valore che potrebbe essere ridotto).

I lavoratori in regime misto (coloro che hanno iniziato a lavorare prima del 1996) potrebbero accedere alla pensione lavorativa con 1,2-1,5 volte l’assegno sociale e, al conseguimento dei requisiti previsti dalla legge Fornero, riceveranno una pensione integrativa, calcolata sui contributi previdenziali versati col sistema retributivo. Una riforma che non ha costi per lo Stato, sebbene i calcoli ragionieristici indichino un’anticipazione di cassa nei primi anni, in seguito riassorbita. Tale riforma sposterebbe attenzione e risorse sui lavori usuranti e su chi ha una storia contributiva a intermittenza (a partire dalla componente femminile), anche per superare l’iniqua “Opzione Donna”.

 

Banche centrali, fine dei dogmi e (forse) dei feticci accademici

Finora, in questa crisi, le banche centrali sono state a tutti gli effetti i playmaker dell’economia mondiale. Hanno sostenuto i deficit statali, hanno iniziato a impegnarsi (per ora solo timidamente) contro la crisi climatica, hanno progettato la ristrutturazione dei sistemi di pagamento. Ormai è palese: lungi dall’essere organi neutrali, esse giocano un ruolo politico di primo piano. L’“indipendenza” delle banche centrali dal governo, feticcio anni 70 dell’economista neoliberale Milton Friedman, si è tradotta di fatto in una dipendenza del governo dalle banche centrali.

La Bce, la Fed, la Banca popolare cinese sono incaricate di gestire la moneta, l’istituto politico fondamentale su cui si reggono le nostre economie. La moneta è qualcosa che ci passa fra le mani ogni giorno, ma quando si tratta di definirla con precisione nessuno ha una risposta definitiva. Si usa allora uno stratagemma: per capire “cosa è” la moneta, si tenta di raccontare “come funziona”.

Qui, però, casca l’asino, come spiega nel suo nuovo libro Sergio Cesaratto, ordinario di economia politica all’Università di Siena. In “Sei lezioni sulla moneta” (Diarkos) l’economista racconta, con uno stile fresco e accattivante, la grande confusione sui temi monetari ancora diffusa fra gli accademici mainstream. Sulla creazione di moneta, infatti, molti manuali universitari continuano a seguire una vulgata erronea. Al contrario, chi lavora sul campo (ossia nelle banche centrali) ha quasi sempre ben chiaro il funzionamento dei sistemi monetari moderni.

Questo forte distacco fra narrazione e realtà fa sì che spesso, nel dibattito pubblico, non si comprendano appieno alcune trasformazioni molto importanti.

Un esempio? I cambiamenti nelle strategie di lungo periodo della Federal Reserve (la banca centrale americana) e della Banca centrale europea occorsi negli ultimi due anni. Questi annunci sono stati un terremoto nel dibattito specialistico, ma all’opinione pubblica è giunta solo un’eco lontanissima. Come spiega Cesaratto, le banche centrali hanno “reso più flessibili i propri target di inflazione desiderata”. Vuol dire che si sono date “in un qualche modo margini di tolleranza, almeno temporanea, verso un rialzo dell’inflazione sì da non mettere prematuramente in difficoltà la ripresa economica”. Detto brutalmente: più inflazione non è un problema.

Ad agosto 2020 il presidente della Fed, Jay Powell, ha annunciato un nuovo regime di politica monetaria (average inflation targeting): il 2% non sarà più il tetto massimo che l’inflazione può raggiungere, ma il livello medio a cui l’inflazione si deve allineare nel lungo periodo. Christine Lagarde ha seguito le orme del collega americano, annunciando “un obiettivo di inflazione del due per cento nel medio termine (…) Il 2% non è un tetto”. In gergo tecnico, si dice che è un obiettivo “simmetrico”: dato che per molto (troppo) tempo l’inflazione è stata bassa, ora può essere un po’ più alta. È un’ottima notizia per quei Paesi, come l’Italia, “attaccati alla flebo della Bce”.

La nuova strategia della banca centrale, però, non è solo monetaria. C’è una nuova attenzione alla complementarità fra politica fiscale (spesa pubblica e tasse) e politica monetaria (tasso di interesse). Per Cesaratto è “qualcosa che va contro la filosofia che guidò il Trattato di Maastricht”, che è all’origine dell’euro e della stessa Bce. Come si cambia per non morire…

Il nuovo atteggiamento dei banchieri di Francoforte era già emerso con il Pepp (Pandemic emergency purchase programme), l’enorme programma di acquisti di titoli di Stato annunciato all’inizio della crisi Covid. Dopo lo scivolone di Lagarde (“non siamo qui per chiudere gli spread”), la Bce entrò a gamba tesa nei mercati finanziari per sostenere la capacità di indebitamento dei Paesi dell’Eurozona.

E se vogliamo andare ancora più indietro, a gettare i semi del nuovo corso della Bce fu il “whatever it takes” di Draghi del 2012. Come spiega Cesaratto, Draghi dimostrò “la potenza di una banca centrale credibile che svolga la propria funzione di lender of last resort (prestatore di ultima istanza, ndr) di uno Stato rendendolo solvibile per definizione”. Se non è politica questa…

Attenzione, però: non tutto è in mano alla banca centrale. Se parliamo di moneta, non va dimenticato il ruolo fondamentale delle banche commerciali e degli altri istituti finanziari, che Cesaratto illustra con chiarezza.

Insomma, l’ecosistema finanziario in cui è immersa la nostra economia è complesso, ma se vogliamo essere cittadini attenti di una democrazia vigile, non possiamo guardarlo con le lenti appannate di vecchie teorie.

Fossili (e altri guai): i “buchi” nel paniere etico di Borsa italiana

“Green economy? Bla bla bla. Emissioni zero nel 2050? Bla bla bla. Neutralità climatica? Bla bla bla”. L’attivista ambientale Greta Thunberg ha fatto rumore il 18 settembre quando ha rinfacciato ai politici la distanza tra le fanfare dei loro proclami e la cruda realtà della loro inazione contro il riscaldamento globale. Dietro la vuota retorica dei governi, c’è la finanza che ogni giorno si rifà il trucco verde parlando di sostenibilità mentre continua nel suo business as usual. La portata del greenwashing è dimostrata dall’indice Mib Esg delle 40 azioni italiane “più sostenibili” presentato lunedì scorso da Euronext (proprietaria di Borsa italiana): ben 24 tra i titoli accreditati come “i più attenti ai principi Onu su ambiente, diritti dei lavoratori e corruzione” nell’ultimo anno hanno invece avuto problemi etici, alcuni anche su più fronti. Ma far parte di questo club conviene: ecco perché i paletti per parteciparvi sono stati attentamente calibrati in base alle esigenze dei richiedenti.

I criteri per entrare nell’indice Mib Esg sono stati valutati da Vigeo Eiris, la società del gruppo Moody’s che attribuisce un rating sul rispetto “dei principi del Global Compact delle Nazioni Unite”. Poi Euronext ha steso la graduatoria finale pescando le “migliori 40 società per criteri Esg” tra le 60 quotate italiane “pesando” le azioni in base a capitalizzazione e flottante di Borsa. Il paniere verrà rivisto ogni tre mesi, ricalcolando le performance societarie Esg. Euronext ha escluso per principio dall’indice solo le aziende che negli ultimi due anni siano state coinvolte nella produzione di armi “controverse” (qualsiasi cosa ciò significhi), che abbiano venduto armi da fuoco per un valore superiore al 5% del fatturato, o attive nell’estrazione di carbone e nella produzione di elettricità da carbone (oltre il 5% fatturato) e nello shale oil (ma non nell’estrazione di petrolio e gas naturale tout court) e nella produzione di tabacco.

Paletti assai laschi, grazie ai quali nel paniere Mib Esg sono entrate società che comunque nell’ultimo anno hanno avuto uno o più problemi sul fronte Esg. Tra le 40 società dell’indice ben 12 aziende sono state criticate per questioni ambientali, 13 finite sotto tiro dei sindacati per vertenze dei dipendenti e incidenti sul lavoro, cinque per cause legali avanzate dai clienti o dalle Autorità della concorrenza e della privacy. Tra le imprese “verdi” sono stati promossi colossi delle energie fossili come Eni, che ribatte di puntare sulle fonti rinnovabili e su progetti legati all’economia circolare, ed Enel, a processo con Enel Produzione come responsabile civile nell’inchiesta sulle polveri di carbone della centrale di Cerano (Brindisi), che dal canto suo confida che il giudizio sarà l’occasione per escludere i residui profili di responsabilità. Ci sono poi le banche che finanziano le fonti fossili come Intesa Sanpaolo, che però rivendica di aver adottato regole per la riduzione dei finanziamenti nei settori carbone e oil&gas che prevedono la cessazione immediata di nuovi finanziamenti per l’estrazione del carbone e azzeramento delle esposizioni entro il 2025, e UniCredit, che ribadisce di restare impegnata a sostenere i clienti nella transizione verso un business a basse emissioni di carbonio. C’è WeBuild, il cui ad Pietro Salini è stato rinviato a giudizio dal gup di Genova il 16 marzo scorso nell’inchiesta per presunte gare truccate nella realizzazione del Terzo Valico ferroviario, e A2A, in attesa dell’udienza preliminare del 24 novembre davanti al Gup di Gorizia dopo otto anni di indagini preliminari per disastro ambientale relative alla centrale elettrica di Monfalcone nelle quali è coinvolta come responsabile civile e che si dice “certa della correttezza del proprio operato” e “conferma la piena fiducia nella magistratura”. C’è pure il nuovo gigante dell’auto Stellantis, sorto dalla fusione di Fca e Psa, finito di recente sotto inchiesta in Francia per le emissioni dei marchi Fca e Peugeout e che ad agosto ha visto Fca patteggiare una sanzione da 30 milioni di dollari negli Usa in una vicenda di corruzione dei sindacati locali, pur dichiarandosi colpevole del solo capo d’accusa di cospirazione tra il 2009 e il 2016 per violazione della legge sulle relazioni sindacali.

L’ammissione nel club dei 40 titoli “più etici” di Borsa Italiana, d’altronde, fa gola. Fregiarsi della coccarda “verde” calamita gli investimenti: gli asset finanziari Esg a livello globale erano 32.500 miliardi di euro a fine 2020 e sono previsti superare i 45.600 miliardi entro il 2025. Nel 2020 ben 1.120 miliardi, più della metà del denaro confluito nei fondi comuni europei, ha premiato i prodotti “sostenibili”. Ma se nel business tutto diventa “etico”, cosa lo è per davvero? Come può la finanza sostenibile crescere a questi ritmi se gran parte degli investimenti non privilegia ancora la transizione ambientale o rispetta lavoratori e azionisti? A ripulire l’immagine di molte aziende ci pensano proprio le agenzie che fissano le strategie per selezionare gli investimenti “sostenibili”, vero tallone d’Achille del mondo Esg.

Il problema è che, a differenza delle cifre dei bilanci, misurare i rating “etici” è questione di metriche e di chi le usa. Le valutazioni Esg sono nate negli anni 80 e si sono poi ampliate a dismisura: già nel 2018 nel mondo c’erano oltre 600 diversi schemi di rating e classifiche etiche. Secondo uno studio della Scuola di business del Mit e significativamente intitolato “Confusione aggregata: la divergenza dei rating Esg”, “le agenzie hanno una notevole discrezionalità su come produrre valutazioni e possono assegnare pagelle diverse alla stessa società. Un problema fondamentale di questa attività” è che “le differenze tra i valutatori non sono solo differenze di opinione, ma anche di misurazione”. I panieri delle azioni “sostenibili”, così, sono pieni di buchi. Secondo un altro studio accademico del 2019, nel 2016 una impresa ogni 10 delle 320 società globali promosse nel principale indice globale di sostenibilità, il Dow Jones Sustainability Index World, non aveva i requisiti per farne parte. Vista la portata della questione, la Commissione Ue ha rivisto le sue vecchie regole sull’informativa non finanziaria delle aziende e il 21 aprile scorso ha presentato una proposta di direttiva (Csrd) che estende gli obblighi di rendicontazione aziendale sulla sostenibilità a tutte le grandi società e a quelle quotate, 50mila aziende nella Ue. Il testo è ora all’esame del Parlamento Europeo. In pochi però credono che basterà una direttiva europea a mettere fine alla Babele delle metriche “verdi”.

Organizzazione e tempi di lavoro non penalizzino le donne: la nuova legge

Dopo la crisi da Covid – che ha penalizzato assai più della media donne e giovani – ce n’è forse più bisogno di prima e per una volta si può dire che il Parlamento abbia colto il senso di urgenza. Questa settimana il Senato ha deciso di assegnare alla commissione Lavoro in sede “deliberante”, cioè senza bisogno di passaggio in aula, il “disegno di legge in materia di pari opportunità tra uomo e donna in ambito lavorativo” arrivato il 14 ottobre dalla Camera, dove è stato approvato col sì di tutti i gruppi: c’è, insomma, la concreta possibilità che il testo diventi legge in tempi brevi. Non stiamo parlando della rivoluzione, neanche da lontano, ma se non altro di un passo nella direzione giusta, il che non è così scontato in tema di interventi sul mercato del lavoro da qualche decennio a questa parte.

La novità più rilevante fin da subito è la modifica della nozione di “discriminazione” sul luogo di lavoro – che si applicherà anche a candidati e candidate al posto – per includervi esplicitamente anche “l’organizzazione e i tempi di lavoro” che così spesso finiscono per confliggere con le vite concrete delle lavoratrici, specie se madri. La norma principe è la seguente: “Costituisce discriminazione ogni trattamento o modifica dell’organizzazione delle condizioni e dei tempi di lavoro che, in ragione del sesso, dell’età anagrafica, delle esigenze di cura personale o familiare, dello stato di gravidanza nonché di maternità o paternità, anche adottive, ovvero in ragione della titolarità e dell’esercizio dei relativi diritti, pone o può porre il lavoratore in almeno una delle seguenti condizioni: a) posizione di svantaggio rispetto alla generalità degli altri lavoratori; b) limitazione delle opportunità di partecipazione alla vita o alle scelte aziendali; c) limitazione dell’accesso ai meccanismi di avanzamento e di progressione nella carriera”. Ovviamente le imprese mantengono il diritto di organizzarsi come credono, “purché il loro obiettivo sia legittimo e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari”.

Utile, ma non dirimente, la relazione biennale al Parlamento sullo stato delle pari opportunità nel mondo del lavoro affidata alla consigliera o consigliere nazionale di parità (che ne presenta anche uno annuale al ministro competente), mentre può avere più impatto l’estensione alle aziende oltre i 50 dipendenti (prima la soglia era 100) dell’obbligo di pubblicare un rapporto periodico sulla situazione del personale maschile e femminile: parliamo dello 0,6% dei 4,7 milioni di imprese attive in Italia (dati Istat 2019), che rappresentano però il 36,5% dei 17,4 milioni di occupati (e il 35% delle donne occupate). In sostanza, due terzi dell’occupazione (tanto totale che femminile) rimarrà fuori dai radar, ma un miglior questionario – per cui si aspettano i decreti attuativi del ministero – è almeno un passo avanti, specie se – come si prova a fare – verrà migliorato il sistema dei controlli e quello sanzionatorio.

L’obbligo del rapporto è legato a una novità interessante, ancorché in fase embrionale e con finanziamenti ad oggi irrilevanti: l’istituzione dal 1° gennaio 2022 della “certificazione della parità di genere” ovviamente riservata alle aziende sopra i 50 dipendenti, quelle che hanno l’obbligo di presentare il rapporto e delle quali si può dunque misurare i risultati. I particolari sulla metrica di questa “certificazione” sono affidati anch’essi a decreti attuativi del ministero delle Pari opportunità e il suo ottenimento darà diritto a uno sgravio fiscale fino a 50mila euro l’anno, come pure – ma qui l’attuazione rischia di essere più complicata – a punteggi premiali in caso di bandi o cofinanziamenti pubblici, Pnrr compreso. Infine viene esteso l’obbligo di “quote rosa” ai vertici di tutte le società non quotate controllate da enti pubblici: parliamo di migliaia di poltrone in migliaia di imprese che, specie nella politica locale, contano più di qualcosa.