Un paio di settimane fa da queste pagine vi abbiamo raccontato i numeri dei lavoratori poveri in Italia, almeno un terzo dell’intera platea. Più poveri tra i poveri: i giovani e il Meridione, ma soprattutto le donne. Tanto più che il Covid ha infierito su settori economici che registrano un maggiore ricorso al lavoro femminile, su tutti turismo e commercio. Così, il tasso di occupazione femminile che negli ultimi mesi del 2019 si stava attestando attorno a un comunque bassissimo 50%, a maggio 2020 ha toccato quota 48,3%. La risalita è stata debole e incostante e i livelli pre-pandemici sono ancora lontani. Ad agosto 2021, ultimo dato disponibile, si è fermato al 48,9% rispetto al 67,9% degli uomini.
Le necessità familiari scaturite dalla pandemia, come ad esempio i figli a casa per la didattica a distanza, han fatto anche lievitare il numero delle donne che non solo non lavorano, ma che un lavoro neanche lo cercano: le inattive per motivi familiari nel primo trimestre del 2020 erano 2 milioni e 589 mila (135 mila uomini); nel secondo trimestre del 2021 sono salite a 2 milioni e 865 mila (145 mila gli uomini). Un aumento di 276 mila unità, quasi l’11%. Ma non va assolutamente meglio per le donne che lavorano. A novembre 2020, secondo l’Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche (Inapp), nove donne su dieci che han chiesto il congedo per assistenza parentale lo hanno utilizzato per intero, solo l’8% lo ha diviso con il partner. Un quadro disastroso e che allarga il divario sul lavoro tra uomo e donna. Di fatto, la pandemia ha solo esasperato situazioni endemiche pre-esistenti.
Preziosa, in questo senso, la legge che il Senato si appresta ad approvare rapidamente (di cui potete leggere con precisione nel pezzo accanto) con cui si vuol provare a combattere la discriminazione lavorativa femminile e il cosiddetto gender pay gap, inteso come misura di sintesi dei molteplici elementi che concorrono all’iniquità retributiva. Se la parità salariale per uomini e donne di pari inquadramento o mansione è infatti un diritto definito per legge – dunque ogni discriminazione, diretta o indiretta, può essere contrastata in giudizio – quando si parla di gender pay gap non ci si riferisce solo all’esistenza di pari salario sulla carta, bensì alla misurazione complessiva del divario di genere. È in sostanza, un indicatore di disuguaglianza tra uomini e donne nel mercato del lavoro, che si rispecchia nelle differenze retributive. La distinzione è necessaria perché i due concetti vengono continuamente sovrapposti.
È chiaro che sono però strettamente collegati: ad oggi, l’articolo 46 del codice delle Pari Opportunità obbliga le aziende con più di 100 dipendenti a redigere un rapporto sulla situazione del personale maschile e femminile: dirigenti, quadri, dipendenti base, entrate e uscite, promozioni, contratti e così via. Sono numeri aggregati, quindi permettono di capire la situazione generale dell’azienda e vanno comunicati alla consigliera di parità territoriale. Si tratta, ci spiegaValentina Cardinali, responsabile Struttura Mercato del Lavoro dell’Inapp, di un rapporto che nasce nell’ottica della trasparenza e rappresenta prova processuale nelle cause per discriminazione retributiva. Al momento, tuttavia, la struttura del Rapporto non evidenzia dove avviene questa discriminazione. “Che spesso – dice Cardinali – si cela nelle componenti aggiuntive e variabili della retribuzione: dai maggiori straordinari degli uomini, che magari hanno più tempo a disposizione rispetto alle donne, agli incarichi e benefici ad personam”. Questo aspetto può essere corretto dal testo unico Gribaudo in discussione al Senato. I dati (relativi alle imprese che attualmente occupano più di 100 dipendenti, o in prospettiva più di 50) riguardano poi solo una porzione del tessuto produttivo italiano che è composto per lo più di piccole e medie imprese, in cui si concentra gran parte dell’occupazione femminile. La crescita dell’occupazione nella prima parte del 2021, ad esempio, si è concentrata in imprese con massimo 15 dipendenti e nonostante il testo unificato della legge sia stato votato all’unanimità alla Camera, sino ad oggi la compilazione del Rapporto è stata spesso osteggiata dalle aziende, percepita come un nuovo adempimento burocratico, inutile quando non invadente.
D’altronde, finora ognuno ha fatto un po’ come gli pareva. Anche se il rapporto sui dipendenti è un obbligo, infatti, non c’è un ente incaricato di fornire alle consigliere di parità l’elenco ufficiale delle imprese esistenti con più di 100 dipendenti. Vigilare e magari sanzionare si è rivelato, in queste condizioni, praticamente impossibile e l’attenzione dei sindacati sul tema – che nelle aziende sono detentori del report e che possono mostrarlo ai dipendenti che dovessero farne richiesta – è per lo più dipesa dalle singole sensibilità.
Non va meglio con la statistica. La misurazione del gender pay gap, o meglio la sua comunicazione, può essere ambigua. Secondo il sistema adottato dalla Commissione Ue, che si ottiene calcolando la differenza tra salario orario medio di uomini e donne (espresso come percentuale del salario orario maschile) il gender pay gap dell’Italia – nel 2019- è pari al 4,7%. Il calcolo ignora però le diverse caratteristiche delle popolazioni di occupati: le donne occupate sono una minor parte delle donne in età lavorativa e quindi la comparazione finisce per interessare solo chi ha le caratteristiche pro-occupazione (età, istruzione, stato familiare). Inoltre, il salario orario tralascia il fatto che le donne lavorano meno ore degli uomini. Basta considerare la retribuzione mensile o annua perché il quadro si modifichi.
Se infatti si inseriscono i diversi fattori, quindi la retribuzione oraria media, la media mensile del numero di ore retribuite e il tasso di occupazione, il gap arriva a un più realistico 43%, calcolato sulla retribuzione media di tutte le donne in età lavorativa – occupate o meno – rispetto agli uomini. “In sostanza il primo valore, così basso, dipende dal sistema di calcolo: le donne occupate, non rappresentative dell’universo delle donne in età lavorativa, sono numericamente poche e con livelli di istruzione medio elevati e caratteristiche che le ‘selezionano’ per stare nel mercato del lavoro. I valori del gender pay gap saranno più alti dove le donne sono più presenti nel mercato del lavoro, anche nei casi di istruzione più bassa e più bassi salari – spiega Cardinali – Il fatto che non esista una misura universale del differenziale retributivo di genere, ma che si proceda per convenzione statistica e per scelta di livelli di indagine sottolinea poi l’importanza di concentrarsi non tanto sul valore del gender pay gap quanto sulle sue determinanti”.
La fotografia delle condizioni lavorative delle donne oggi si può infatti sintetizzare in tre dinamiche: alcune non entrano proprio nel mercato del lavoro retribuito; chi lo fa, lo fa lavorando meno ore e con contratti più precari; il tempo del non lavoro è occupato per lo più da famiglia e attività di cura. Livelli occupazionali e salariali procedono di di conseguenza, in parallelo e concatenati. “In un contesto in cui l’uomo è un percettore di reddito più elevato, l’inattività femminile diventa spesso una scelta di convenienza insieme all’assenza di servizi di welfare e assistenza sufficienti o economicamente accessibili”. Il 70% dei lavoratori dimissionari con figli da 0 a 3 anni, per dire, è composto di donne. “Statisticamente, in presenza di un figlio, la curva della partecipazione al lavoro delle donne scende, mentre quella degli uomini sale” conclude Cardinali. E alla necessaria pianificazione familiare si aggiungono anche i casi di pregiudizio sulla produttività delle donne nell’assunzione. La legge è un passo avanti sull’uguaglianza retributiva, ma bisognerebbe andare più veloci. Al ritmo di oggi, globalmente, ci vorranno 250 anni per colmare il gender pay gap.