Gender Pay Gap: ecco perché la sola parità salariale non basta

Un paio di settimane fa da queste pagine vi abbiamo raccontato i numeri dei lavoratori poveri in Italia, almeno un terzo dell’intera platea. Più poveri tra i poveri: i giovani e il Meridione, ma soprattutto le donne. Tanto più che il Covid ha infierito su settori economici che registrano un maggiore ricorso al lavoro femminile, su tutti turismo e commercio. Così, il tasso di occupazione femminile che negli ultimi mesi del 2019 si stava attestando attorno a un comunque bassissimo 50%, a maggio 2020 ha toccato quota 48,3%. La risalita è stata debole e incostante e i livelli pre-pandemici sono ancora lontani. Ad agosto 2021, ultimo dato disponibile, si è fermato al 48,9% rispetto al 67,9% degli uomini.

Le necessità familiari scaturite dalla pandemia, come ad esempio i figli a casa per la didattica a distanza, han fatto anche lievitare il numero delle donne che non solo non lavorano, ma che un lavoro neanche lo cercano: le inattive per motivi familiari nel primo trimestre del 2020 erano 2 milioni e 589 mila (135 mila uomini); nel secondo trimestre del 2021 sono salite a 2 milioni e 865 mila (145 mila gli uomini). Un aumento di 276 mila unità, quasi l’11%. Ma non va assolutamente meglio per le donne che lavorano. A novembre 2020, secondo l’Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche (Inapp), nove donne su dieci che han chiesto il congedo per assistenza parentale lo hanno utilizzato per intero, solo l’8% lo ha diviso con il partner. Un quadro disastroso e che allarga il divario sul lavoro tra uomo e donna. Di fatto, la pandemia ha solo esasperato situazioni endemiche pre-esistenti.

Preziosa, in questo senso, la legge che il Senato si appresta ad approvare rapidamente (di cui potete leggere con precisione nel pezzo accanto) con cui si vuol provare a combattere la discriminazione lavorativa femminile e il cosiddetto gender pay gap, inteso come misura di sintesi dei molteplici elementi che concorrono all’iniquità retributiva. Se la parità salariale per uomini e donne di pari inquadramento o mansione è infatti un diritto definito per legge – dunque ogni discriminazione, diretta o indiretta, può essere contrastata in giudizio – quando si parla di gender pay gap non ci si riferisce solo all’esistenza di pari salario sulla carta, bensì alla misurazione complessiva del divario di genere. È in sostanza, un indicatore di disuguaglianza tra uomini e donne nel mercato del lavoro, che si rispecchia nelle differenze retributive. La distinzione è necessaria perché i due concetti vengono continuamente sovrapposti.

È chiaro che sono però strettamente collegati: ad oggi, l’articolo 46 del codice delle Pari Opportunità obbliga le aziende con più di 100 dipendenti a redigere un rapporto sulla situazione del personale maschile e femminile: dirigenti, quadri, dipendenti base, entrate e uscite, promozioni, contratti e così via. Sono numeri aggregati, quindi permettono di capire la situazione generale dell’azienda e vanno comunicati alla consigliera di parità territoriale. Si tratta, ci spiegaValentina Cardinali, responsabile Struttura Mercato del Lavoro dell’Inapp, di un rapporto che nasce nell’ottica della trasparenza e rappresenta prova processuale nelle cause per discriminazione retributiva. Al momento, tuttavia, la struttura del Rapporto non evidenzia dove avviene questa discriminazione. “Che spesso – dice Cardinali – si cela nelle componenti aggiuntive e variabili della retribuzione: dai maggiori straordinari degli uomini, che magari hanno più tempo a disposizione rispetto alle donne, agli incarichi e benefici ad personam”. Questo aspetto può essere corretto dal testo unico Gribaudo in discussione al Senato. I dati (relativi alle imprese che attualmente occupano più di 100 dipendenti, o in prospettiva più di 50) riguardano poi solo una porzione del tessuto produttivo italiano che è composto per lo più di piccole e medie imprese, in cui si concentra gran parte dell’occupazione femminile. La crescita dell’occupazione nella prima parte del 2021, ad esempio, si è concentrata in imprese con massimo 15 dipendenti e nonostante il testo unificato della legge sia stato votato all’unanimità alla Camera, sino ad oggi la compilazione del Rapporto è stata spesso osteggiata dalle aziende, percepita come un nuovo adempimento burocratico, inutile quando non invadente.

D’altronde, finora ognuno ha fatto un po’ come gli pareva. Anche se il rapporto sui dipendenti è un obbligo, infatti, non c’è un ente incaricato di fornire alle consigliere di parità l’elenco ufficiale delle imprese esistenti con più di 100 dipendenti. Vigilare e magari sanzionare si è rivelato, in queste condizioni, praticamente impossibile e l’attenzione dei sindacati sul tema – che nelle aziende sono detentori del report e che possono mostrarlo ai dipendenti che dovessero farne richiesta – è per lo più dipesa dalle singole sensibilità.

Non va meglio con la statistica. La misurazione del gender pay gap, o meglio la sua comunicazione, può essere ambigua. Secondo il sistema adottato dalla Commissione Ue, che si ottiene calcolando la differenza tra salario orario medio di uomini e donne (espresso come percentuale del salario orario maschile) il gender pay gap dell’Italia – nel 2019- è pari al 4,7%. Il calcolo ignora però le diverse caratteristiche delle popolazioni di occupati: le donne occupate sono una minor parte delle donne in età lavorativa e quindi la comparazione finisce per interessare solo chi ha le caratteristiche pro-occupazione (età, istruzione, stato familiare). Inoltre, il salario orario tralascia il fatto che le donne lavorano meno ore degli uomini. Basta considerare la retribuzione mensile o annua perché il quadro si modifichi.

Se infatti si inseriscono i diversi fattori, quindi la retribuzione oraria media, la media mensile del numero di ore retribuite e il tasso di occupazione, il gap arriva a un più realistico 43%, calcolato sulla retribuzione media di tutte le donne in età lavorativa – occupate o meno – rispetto agli uomini. “In sostanza il primo valore, così basso, dipende dal sistema di calcolo: le donne occupate, non rappresentative dell’universo delle donne in età lavorativa, sono numericamente poche e con livelli di istruzione medio elevati e caratteristiche che le ‘selezionano’ per stare nel mercato del lavoro. I valori del gender pay gap saranno più alti dove le donne sono più presenti nel mercato del lavoro, anche nei casi di istruzione più bassa e più bassi salari – spiega Cardinali – Il fatto che non esista una misura universale del differenziale retributivo di genere, ma che si proceda per convenzione statistica e per scelta di livelli di indagine sottolinea poi l’importanza di concentrarsi non tanto sul valore del gender pay gap quanto sulle sue determinanti”.

La fotografia delle condizioni lavorative delle donne oggi si può infatti sintetizzare in tre dinamiche: alcune non entrano proprio nel mercato del lavoro retribuito; chi lo fa, lo fa lavorando meno ore e con contratti più precari; il tempo del non lavoro è occupato per lo più da famiglia e attività di cura. Livelli occupazionali e salariali procedono di di conseguenza, in parallelo e concatenati. “In un contesto in cui l’uomo è un percettore di reddito più elevato, l’inattività femminile diventa spesso una scelta di convenienza insieme all’assenza di servizi di welfare e assistenza sufficienti o economicamente accessibili”. Il 70% dei lavoratori dimissionari con figli da 0 a 3 anni, per dire, è composto di donne. “Statisticamente, in presenza di un figlio, la curva della partecipazione al lavoro delle donne scende, mentre quella degli uomini sale” conclude Cardinali. E alla necessaria pianificazione familiare si aggiungono anche i casi di pregiudizio sulla produttività delle donne nell’assunzione. La legge è un passo avanti sull’uguaglianza retributiva, ma bisognerebbe andare più veloci. Al ritmo di oggi, globalmente, ci vorranno 250 anni per colmare il gender pay gap.

Pensioni, la Lega tratta sulle quote

Ancora qualche giorno per trovare un’intesa, sulle pensioni, sui bonus, sul fisco. Il cantiere della manovra sembra destinato a restare aperto fino a giovedì, quando potrebbe essere convocato il Consiglio dei ministri per l’approvazione della legge di bilancio. Le prossime ore serviranno a trovare, con la maggioranza e con le parti sociali, una difficile intesa sui tanti nodi ancora da sciogliere, a partire dal meccanismo per superare Quota 100. Il governo ha fissato i suoi paletti con il Documento programmatico di bilancio (Dpb) inviato a Bruxelles: per ciascun capitolo della manovra sono state fissate le grandi cifre e – il messaggio è chiaro – non si intende stravolgere quell’impianto.

La proposta della Lega, di adottare Quota 102 per due anni, viene reputata non praticabile. E i leghisti respingono la proposta del governo di passare a Quota 104 il secondo o terzo anno. Ma dal partito di Salvini fanno sapere di voler trattare: “Siamo aperti ad altre ipotesi”. E si starebbe lavorando su un meccanismo con età fissa a 64 anni fino al 2024 e contributi crescenti. Un tavolo con i sindacati, che hanno già bocciato la proposta del governo sulle pensioni, e una riunione della cabina di regia dovrebbero precedere l’approdo della manovra in Cdm.

La rottura Mps-Unicredit. Il Tesoro vuole l’Ad fuori

Dopo le indiscrezioni, è arrivata la conferma ufficiale. La trattativa tra Unicredit e il Tesoro italiano per cedere il Montepaschi è naufragata. Ieri le due parti lo hanno comunicato in una nota congiunta, peraltro chiesta dall’ad di Unicredit Andrea Orcel già due settimane fa in una lettera in cui intimava al ministero di accettare le condizioni entro il 27 ottobre, data in cui la banca milanese ha un cda sui conti trimestrali. Si vedranno oggi le reazioni in Borsa.

Il primo effetto pratico dello schiaffo rifilato al Tesoro, che rischia di mettere in serio imbarazzo il governo Draghi (il premier da governatore autorizzò l’acquisto di Antonveneta da cui è iniziato il disastro senese) è però curioso. I vertici ministeriali vogliono fuori l’amministratore delegato del Monte, Guido Bastianini. Stando ai rumors, la richiesta potrebbe arrivare già questa settimana. Bastinanini è stato nominato in quota 5Stelle a maggio 2020, dopo un lungo braccio di ferro con il direttore generale del Tesoro Alessandro Rivera – lo stesso che ha guidato i negoziati falliti con Unicredit – contrario alla scelta. Il manager però non ha intenzione di fare un passo indietro: ha chiuso il secondo trimestre con 202 milioni di utile, che si stima raddoppino nella prossima trimestrale il 4 novembre. Il 2021 potrebbe chiudersi con quasi 1 miliardo di utile.

Ieri i presidenti delle Commissioni finanze di Camera e Senato hanno chiesto al ministro Daniele Franco o a Rivera di riferire subito in Parlamento. Quasi l’intero arco parlamentare festeggia lo stop ai negoziati. “Il Tesoro ha fatto bene, Unicredit voleva una svendita”, ha detto ieri il segretario Pd Enrico Letta, neo eletto deputato nel seggio di Siena lasciato libero dall’ex ministro Pier Carlo Padoan, finito a fare il presidente di Unicredit, dopo aver nazionalizzato Mps nel 2017, in un trionfo di conflitti d’interessi. Esultano anche 5Stelle e Lega.

Lo stop è arrivato per le eccessive richieste di Unicredit. Orcel voleva solo la “polpa” di Mps (e con 7mila esuberi) valutata però – secondo la Reuters- 3,5 miliardi meno delle stime del Tesoro, che controlla la banca dal 2017, a cui voleva imporre un aumento di capitale da oltre 6 miliardi. Il conto finale per lo Stato – compreso il bonus fiscale previsto dalla vecchia manovra – avrebbe sfiorato i 10 miliardi, una cifra che Franco avrebbe avuto molta difficoltà a far digerire al Parlamento. Resta il quadro desolante di una trattativa partita in esclusiva a luglio scorso dopo mesi di dialogo e terminata con una distanza enorme tra le parti nonostante Orcel avesse chiarito che l’operazione dovesse essere neutrale come impatto sul capitale.

Che succede ora? Due le strade possibili. La prima è quella di un nuovo, per così dire, acquirente, anche se l’unico potenziale resta il Banco Bpm e solo per la paura dell’ad Giuseppe Castagna di finire preda di Unicredit. Serve tempo e ieri la banca milanese ha formalmente smentito interessamenti. L’altra è che il Tesoro chieda a Bruxelles una proroga per l’uscita dal Monte, imposta dagli accordi del 2017 entro la fine dell’anno. Il piano di Bastianini prevede un aumento di capitale da 3 miliardi e 2700 esuberi, anche se la Bce non l’ha ancora formalmente approvato e potrebbe chiedere un ritocco al rialzo della cifra.

Il Tesoro, dal canto suo, potrebbe anticipare parte della pulizia di bilancio promessa a Unicredit cedendo sportelli al Mediocredito centrale e crediti deteriorati alla pubblica Amco. È il corso “stand alone” di Mps che Draghi e Franco hanno tentato inutilmente di evitare.

“Politici senza pudore lo scandalo ora è burla e le idee sono defunte”

Lui è un democristiano di rito avellinese. Era già attempato da giovane, figurarsi oggi che ha raggiunto la sessantina. Pudico e timorato di Dio, non stima gli svergognati (di cui resta amico però).

L’altro è studioso dei fenomeni sociali. Qui indaga la spudoratezza.

Gianfranco Rotondi: “Sono in Parlamento da vent’anni e tutte le vergogne sono state esposte ed esibite. Non c’è un solo evento scabroso che non sia stato reso pubblico, quindi nulla che non si sappia, e nulla che faccia rumore”.

Marino Niola: “Gli scandali ormai divenuti serie televisive. Abolito lo scabroso (da scaber, latino, ruvido, che gratta, brucia, fa male) perché non esiste limite all’indecenza, riferita a uno spettro ampio di atteggiamenti, di atti, di parole, di condizioni”.

R. “C’era quella liason tra il leghista e la grillina. Ma mica è una cosa scabrosa? Siamo nel più convenzionale degli episodi amorosi e nel più rispettabile dei sentimenti. Eppure, per un secondo, mi son detto: fosse questo il fatto scabroso? Ridicolo, vero?”.

N. “In effetti nulla desta stupore e imbarazzo. La notizia che l’onorevole Marta Fascina risulti assente giustificata dai lavori della Camera in ragione, si presume, dello svolgimento di un suo ruolo istituzionale ad Arcore, nella magione di Silvio Berlusconi, intendendosi tale ruolo come assistenza sentimentale al leader di Forza Italia, non desta stupore, né imbarazzo, nemmeno più intrigo. Figurarsi se indigna”.

R. “Ai tempi della Dc, della Prima Repubblica, l’imbarazzo è registrato e indagato fin nei dettagli. Quanto scandalo fece lo schiaffo di Oscar Scalfaro alla signora che al ristorante aveva esibito un decolletè troppo generoso? Quell’episodio mise in serie difficoltà il partito di governo. Al netto del tempo in cui si colloca, è chiaro che quel potere si dava dei limiti, e si divise sull’ di quella intemerata di Scalfaro”.

N. “Abbiamo depenalizzato la vergogna, come la truffa, come la tangente, o il trasformismo, o semplicemente la bugia. Ogni atteggiamento, anche il più politicamente spudorato, non trova alcuna censura etica. Ma quando la macchina va in entropia poi annulla le differenze. Si azzerano non solo le ideologie, ma le semplici idee, non troviamo distinzione, e quindi riduciamo ogni passione. Perché allora l’astensione dal voto così imponente?”.

R. “Ha destato un qualche lieve imbarazzo il fatto che qualche giorno fa Sgarbi si sia tolto scarpe e calzini e abbia passeggiato a piedi scalzi per il Transatlantico. Mi sono venuti in mente Dossetti e La Pira, che in segno di penitenza, attraversavano scalzi il Transatlantico. Ma c’era una imponenza, un significato, un sacrificio, una rispettabilità per quella decisione”.

N. “Loro lo facevano per onorare Dio, per Sgarbi il problema è l’Io. L’enormità della differenza sta tutta qui”.

R. “Ricorda la morte di Wilma Montesi? Il cadavere di quella ragazza, ritrovato a Torvaianica, distrusse la carriera politica di Attilio Piccioni, il ministro degli Esteri, che ambiva a guidare la Dc. Erano gli anni cinquanta. Fu un grande noir, e il coinvolgimento di suo figlio lo mise definitivamente fuori gioco. A ben vedere anche la sceneggiatura dello scandalo era più imponente e rispettabile con la Prima Repubblica, e il dramma si infilava dentro il corpo della politica”.

N. “E pagheremo cara questa condizione di un casino senza misura, di un vociare senza passione. Grazie ai social si serializzano le combine (anche quelle più schifosette) di Palazzo, proprio come fanno le tv con le sit com, e così la drammaticità dello scandalo diviene immediatamente commedia, l’indegnità è burla, la cialtronaggine un costume pop. E così tutto vaporizza”.

R. Però io penso che in qualche modo il Palazzo civilizzi. I leghisti di vent’anni fa non sono quelli di adesso”.

N. “Il sistema si troverà nella necessità di autoriformarsi. Prendiamo Napoli: dopo il periodo casinista di De Magistris la città elegge a sindaco l’antinapoletano per eccellenza a cui l’ammuina non piace. È una grande prova di rigenerazione politica”.

R. “Per dirla tutta io ora mi troverei bene a fianco di Alessandro Di Battista. Quando entrò nel Palazzo faceva politica con la baionetta. Adesso è un altro uomo”.

“2018: così saltò Sapelli e Conte diventò premier”

Pubblichiamo un estratto del libro di Luigi Di Maio “Un amore chiamato politica (edito da Piemme) in cui l’attuale ministro degli Esteri ricorda come maturò, il 14 maggio 2018, la decisione di indicare Giuseppe Conte (avvocato e docente universitario indipendente, che aveva accettato di far parte della lista dei possibili ministri 5 Stelle prima del voto del 4 marzo) come presidente del Consiglio del governo gialloverde fra il M5S e la Lega.

Io, Spadafora, Salvini e Giorgetti eravamo a colloquio con il professor Giulio Sapelli. Devo ammettere che mi sorprese, ebbe parole lusinghiere per le istituzioni dello Stato, ci raccontò la sua esperienza all’Eni, approfondì alcuni passaggi sui nostri interessi geostrategici. Condivideva anche alcuni punti del nostro programma economico, in particolare era d’accordo su una ripresa delle partecipazioni statali. Era una persona preparata e si capiva che sapeva farsi valere. L’ago della bilancia si stava fortemente spostando verso di lui, anche se dovevamo ancora parlare con Conte. Il problema si pose poco dopo. I leghisti sono infatti famosi per non sapersi tenere nulla, hanno la smania di lasciare filtrare qualsiasi indiscrezione, ne fanno in pratica una linea strategica. Così qualcuno spifferò di quell’incontro e Sapelli, finito il colloquio, la mattina dopo fu intercettato da Radio Cusano Campus, che lo intervistò. Alle domande rispose con un certo piglio, svelò alcuni retroscena in un momento in cui si chiedeva riservatezza. Confermò di essere stato chiamato per fare il presidente del Consiglio. Mai passo fu più falso. Si bruciò con le sue stesse mani.

A quel punto quello di Giuseppe Conte sarebbe stato un gol a porta vuota. Tuttavia, lui non sottovalutò la situazione. Al suo arrivo in hotel indossava una camicia, il primo bottone sbottonato, la sua abbronzatura era forte, decisa, molto estiva e gli conferiva un’aria spensierata. Veniva dal Circeo, o da Gaeta, non lo ricordo con esattezza. Impeccabile nei modi, si pose nei confronti di ciascuno di noi con umiltà, mostrando un grande spirito collaborativo. Fece breccia anche in Salvini che, al termine del colloquio, si disse convinto. Un suo strettissimo collaboratore, anche lui presente, si intromise e avanzò un timore, che poi si sarebbe rivelato profetico: «Matteo, sei sicuro? Non è che poi questo ci diventa il Macron italiano?». «Ma figurati!» ribatté Salvini. In effetti di tutto avremmo potuto immaginare in quel frangente, fuorché l’ascesa che avrebbe poi compiuto Conte.

© 2021 Mondadori Libri S.p.A., Milano

I ministri di destra ignorano B. e Salvini: “Noi fedeli a Draghi”

Tra martedì e mercoledì, alla vigilia del Consiglio dei Ministri sulla legge di Bilancio, riuniranno i ministri per commissariarli. E per dimostrare, agli occhi di Mario Draghi, che i veri capi del centrodestra sono loro, Matteo Salvini e Silvio Berlusconi, e non i sei esponenti di governo di Lega e Forza Italia che ormai sono considerati dei corpi estranei. Ribelli che, agli occhi dei leader, creano solo problemi e ormai rispondono solo a Draghi. “In Forza Italia la linea la decido io e il centro deve trainare il governo” si è rivolto a loro ieri Berlusconi che per il vertice dovrebbe arrivare a Roma già oggi. Solo che i tre ministri leghisti – Giancarlo Giorgetti, Massimo Garavaglia e Erika Stefani – e i tre forzisti – Mariastella Gelmini, Mara Carfagna e Renato Brunetta – non hanno alcuna intenzione di piegarsi. Anzi: da giorni, capita l’antifona, hanno iniziato a coordinarsi con ancora più frequenza creando una sorta di contro cabina di regia del centrodestra. Si parlano, chattano, organizzano riunioni. E si sono presi l’impegno che lo faranno ancora di più dopo di il vertice di metà settimana in cui Salvini e Berlusconi chiederanno che la voce da rappresentare al governo sia la loro a costo di alzare i toni e, nel caso, strappare come avvenuto a inizio ottobre sulla delega fiscale quando i leghisti si sono astenuti in Consiglio dei ministri. “Non è possibile che il centrodestra al governo sia sempre diviso – va dicendo Salvini ai suoi – per ottenere di più sui provvedimenti serve che i nostri puntino i piedi contro l’asse Pd-M5S”. Parole che sono arrivate alle orecchie dei ministri, guarda caso tutti appartenenti all’ala moderata di Lega e Forza Italia. Il loro timore è proprio questo: che nel vertice di metà settimana il leghista chieda loro di battere i pugni sul tavolo per un ulteriore taglio delle tasse e per ottenere un compromesso sulle pensioni che si avvicini il più possibile a Quota 100.

Prospettiva che non piace per niente agli esponenti di centrodestra del governo perché vorrebbe dire riaprire dossier già chiusi – come il taglio del cuneo fiscale a cui sono destinati 8 miliardi – e consegnarsi al volere dell’ala dura e pura della Lega che sulle pensioni sta provando a fare le barricate per difendere Quota 100. Tutto il contrario di quello che negli ultimi giorni hanno ripetuto prima Gelmini e poi Carfagna e Brunetta secondo cui “non si può più andare al traino di Lega e Fratelli d’Italia” ma guardare al centro. E inoltre il commissariamento dei ministri da parte di Salvini e Berlusconi creerebbe, agli occhi degli esponenti di governo del centrodestra, un pericoloso precedente: “Se Salvini ci chiede di rompere sulla riforma della concorrenza che facciamo?”. E allora la linea che si sono dati i sei ministri è chiara e andrà contro la volontà del leghista e, forse, anche di Berlusconi: “Va bene un maggior coordinamento ma non per forzare la mano: saremo leali a Draghi e sosterremo con forza le sue riforme. Salvini e Berlusconi si scordino di dirci cosa dobbiamo fare, non saremo marionette”. E dunque l’avviso in vista del vertice: “La legge di Bilancio va bene così, ormai è stata scritta, e niente forzature sulle pensioni”.

Una contromossa – quella dei ministri del centrodestra – che fa comodo anche a Giorgetti che non passerebbe più per essere il nemico interno di Salvini ma avrebbe la sponda degli altri colleghi. I rapporti con Gelmini e Carfagna sono costanti e la scorsa settimana, prima di partire per gli Usa, il titolare del Mise si è visto con entrambe le ministre azzurre. Ieri inoltre ha fatto l’ennesimo endorsement nei confronti del governo Draghi (“è un investimento a lungo termine”) e spiegato che in Europa, dopo Merkel, c’è spazio per “posizioni moderate e conservatrici”.

Oggi Berlusconi arriverà a Roma con un occhio anche alla partita del prossimo Presidente della Repubblica. Ieri, intervistato dal Corriere, ha detto che il governo Draghi “deve andare avanti” e “sarebbe irresponsabile interromperlo” e poi, intervenendo al convegno della fondazione Dc di Gianfranco Rotondi a Saint-Vincent, è stato più esplicito. A domanda specifica sul Quirinale ha risposto rispolverando la terza persona: “Penso che Silvio Berlusconi possa essere ancora utile al Paese e ai cittadini italiani, vista la stima che ancora mi circonda in Europa. Vedremo cosa potrò fare, non mi tirerò indietro, e farò quello che potrà essere utile per il nostro Paese”. Di fatto, un’autocandidatura.

La sai l’ultima?

 

Cairo La polizia egiziana arresta anche i robot: la pittrice umanoide Ai-Da inventata ad Oxford

In Egitto arrestano pure i robot. La polizia di regime vede congiure e pericoli dappertutto, persino in una donna di plastica. L’ “artista” Ai-Da è una “creatura artificiale – spiega il Corriere della Sera – venuta al mondo due anni fa in Gran Bretagna e ormai famosa nel mondo per i quadri che dipinge”. La pittrice-robot era atterrata al Cairo per partecipare alla kermesse internazionale Forever is now, ma all’aeroporto è stata fermata e poi sequestrata ai suoi accompagnatori. “Apparentemente, rappresentava un rischio per la sicurezza a causa delle telecamere celate nei suoi occhi: in altre parole, l’hanno accusata di essere una spia”. Il robot è rimasto in cella dieci giorni ed è stato rilasciato solo dopo un intervento dell’ambasciata britannica al Cairo, così ha potuto partecipare in extremis alla mostra alle Piramidi. Ai-Da, inventata da un gruppo di ingegneri di Oxford, “è un robot umanoide in grado di apprendere e rielaborare la realtà”. L’idea mette i brividi, ma da qui alle manette…

 

Perugia Chiede un massaggio e gli offrono del sesso: un cliente imbufalito fa scoprire un giro di prostituzione

Ci sono massaggi e massaggi. Certe “spa” a luci rosse, in genere di gestione orientale, sono famose per i servizi extra (il cosiddetto “happy ending”). Ma non tutti i clienti sono interessati a questo genere di prestazioni. Così un ignaro signore di Perugia che voleva solo un castissimo massaggio, di fronte a proposte pressanti di altra natura, ha finito per denunciare un traffico illegale. Lo racconta Perugia Today: “Prende appuntamento per un massaggio, ma la ragazza lo vuole costringere ad un rapporto sessuale, così chiama i Carabinieri e fa scoprire un giro di sfruttamento della prostituzione. I militari del Nas di Perugia erano intervenuti, sentite le ragazze che lavoravano nel centro, la titolare e anche alcuni clienti, i quali dopo un primo momento di pudore, avevano ammesso che oltre al massaggio si poteva ottenere una prestazione sessuale pagando un piccolo extra”. Senza impegno però.

 

Spagna Una scrittrice vince un premio da un milione di dollari e si scopre che in realtà “lei” era tre uomini

Il tema è scivoloso, chiedere al prof. Barbero. Ma insomma, è andata così: la scrittrice spagnola Carmen Mola, fresca vincitrice di uno dei più importanti concorsi letterari nazionali (con un premio da un milione di dollari), si è scoperta essere in realtà tre uomini. Uno pseudonimo, come quello di Elena Ferrante, dietro cui stavolta però si è nascosto un lavoro collettivo. Quando Mola è stata proclamata vincitrice del “Premio Planeta de Novela” per il suo thriller “La Bestia” sul palco sono saliti tre signori di mezza età. Sono Jorge Díaz, Agustín Martínez e Antonio Mercero, sceneggiatori televisivi noti in patria e ora protagonisti non più occulti di quattro anni di proficua attività letteraria e altrettanti volumi, per un totale di 400mila copie vendute. La notizia si può leggere lenti beceramente maschiliste, o la si può girare come ha fatto il Washington Post, come una forma di empowerment femminile: “L’opera di una sola donna, a quanto pare, è l’equivalente del lavoro di tre uomini”.

 

Russia “Arrestato” un gatto spacciatore: portava marijuana ai detenuti in carcere. Ma il felino è riuscito a evadere subito

Sempre preziose le notizie de La Zampa, la sezione della Stampa dedicata al mondo animale. Stavolta abbiamo un gatto spacciatore che porta l’erba in carcere. Succede in Russia: il felino è stato “arrestato” dai secondini ma pare sia riuscito a scappare rapidamente e a far perdere le sue tracce. “La polizia penitenziaria della colonia penale numero 4 di Ivanovo, città della Russia europea centrale a trecento chilometri circa a nordest di Mosca, ha ‘arrestato’ un gatto”, si legge. “L’accusa è legata al traffico di droga: l’animale è stato catturato lungo il muro della struttura penitenziaria mentre cercava di intrufolarsi all’interno dell’istituto con un carico di marijuana per i detenuti. Dunque il felino è stato arrestato in flagranza di reato: nel collare aveva 5,21 grammi dello stupefacente”. Il gatto non ha “cantato”, per senso dell’onore o forse perché – proprio in quanto gatto – non può parlare la lingua degli uomini. E comunque è riuscito a evadere subito.

 

Gran Bretagna La nonna più giovane del Paese ha 33 anni: la figlia 17enne, avuta quando ne aveva 16, ha appena partorito

Gemma Skinner ha 33 anni ed è già nonna. È la “granny” più giovane di tutta la Gran Bretagna, forse del mondo intero, chissà. Dà la lieta notizia il sito Today: “Sua figlia Maizie, avuta quando aveva 16 anni e che ora di anni ne ha 17, ha partorito la scorsa settimana. E anche all’ospedale nessuno credeva che quella fosse la nonna e non una zia o una sorella”. Chi l’avrebbe mai detto. “Quando usciamo tutti pensano che io sia la madre del bambino”, ha detto la frivola nonnina al Sun. “Non è difficile immaginarlo: Gemma di figli ne ha tre, di cui la più piccola, Bella, di quattro anni”. In famiglia ci dev’essere un fervente sentimento religioso, una spregiudicata strategia demografica o semplicemente una scarsa frequentazione con l’istituto dei contraccettivi. “La gente mi scambia sempre per la mamma della noenoata – insiste nonna Gemma. Quando Maizie era in ospedale, l’infermiera che è venuta a farle l’epidurale ha chiesto se eravamo sorelle. Ormai siamo abituate e ci ridiamo sopra”.

 

Imperia Una signora si vendica delle multe tagliando per tre volte i pneumatici della macchina dei vigili

Non multate quella signora. Una gioviale donna di Camporosso (Imperia) ha reagito con sobrietà e moderazione alle frequenti contestazioni della polizia municipale. Lo racconta l’Ansa: “Una giovane madre per vendicarsi di tre multe ricevute ha tagliato per altrettante volte i pneumatici della vettura di servizio della polizia locale di Camporosso. È stata denunciata per danneggiamento e interruzione di pubblico servizio”. All’inizio gli agenti credevano si trattasse di una foratura incidentale, poi le gomme bucate sono diventate un po’ troppo frequenti. “Così hanno installato una telecamera mobile vicino al parcheggio della vettura di ordinanza, cogliendo la giovane donna mentre stava attuando la sua vendetta”. Pare che la signora ritenesse di avere diritto a un trattamento più morbido sulla sosta a disco orario. Di fronte al rifiuto, ha recuperato una lama bella spessa e si è fatta giustizia da sé. Ogni multa una ruota bucata, vediamo chi si stufa prima.

 

Polonia Avventure nel mondo: deve andare a Bologna ma la fanno imbarcare per sbaglio su un volo per Breslavia

Nel centro di Bologna non si perde neanche un bambino, ma se invece dell’Emilia ti fanno atterrare in Polonia, hai diritto a un certo disappunto. È successo davvero ed è capitato purtroppo a una signora sordomuta. Lo scrive Today: “Lei, 69 anni, mercoledì scorso stava per salire sul volo Ryanair con destinazione Bologna, ma ha sbagliato ‘corridoio’ e, dopo essersi imbarcata, ha scoperto che stava volando su un’altra destinazione. Molto più lontano perché alla fine la 69enne con disabilità è finita a Breslavia. Ad accorgersi del problema è stata una passeggera del suo volo, che le ha consegnato un cellulare e così la donna ha contattato i suoi familiari, che l’hanno aiutata per il rientro allo scalo bolognese il giorno dopo, con l’assistenza del consolato italiano in Polonia”. I familiari sono inferociti: “La nipote ha denunciato al Resto del Carlino la mancata assistenza all’aeroporto di Palermo: ‘Nessuno ci ha mai riposto per fornire aiuto’. E ancora: ‘Perché non hanno controllato il biglietto della nonna a terra o una volta salita a bordo?’”.

In Uk troppi contagi: ora anche BoJo pensa a un mini-Green pass

Ieri, per la prima volta dopo undici settimane, il Regno Unito è sceso sotto i 40 mila nuovi casi Covid in 24 ore. Numeri comunque ancora altissimi (la media dell’ultima settimana è stata di 44 mila circa al giorno) al punto che – stando a quanto scritto ieri da The Observer, il domenicale del quotidiano progressista The Guardian) il governo conservatore di Boris Johnson sta per mettere mano a quel “piano B” finora tenuto nel cassetto. In pratica Londra – dopo mesi di “liberi tutti” – si appresterebbe a reintrodurre l’obbligo di mascherina nei luoghi chiusi (da tempo l’abitudine è scomparsa anche a bordo della metropolitana), a ripristinare su ampio raggio lo smart working ove possibile e, soprattutto, a introdurre un vaccine passport, ossia il tanto osteggiato Green pass, almeno per i grandi eventi di massa, discoteche e locali (misura a cui Johnson aveva già pensato mesi fa, salvo poi ritirarla per le diffusissime resistenze della politica e dell’opinione pubblica).

A sollecitare ora il governo sono ormai in molti. Dal principale sindacato medico del Regno (Bma), alla Nhs Confederation, associazione di fornitori della sanità pubblica. Ma sono soprattutto gli accademici dell’organismo consultivo scientifico di riferimento (Sage) che assiste proprio i ministri sulla gestione della pandemia, a insistere: in una raccomandazione preliminare resa nota venerdì hanno già suggerito di valutare il via libera immediato ad alcune delle indicazioni previste dal Piano B (seppur sgradite a larghi strati dell’opinione pubblica britannica) per evitare il rischio di dover ricorrere a “restrizioni più gravose in seguito”. E magari allo spettro di una ricomparsa di forme di lockdown, bestia nera di BoJo, che alcuni specialisti evocano come possibile per Natale.

Se il numero dei contagi preoccupa, va detto che in Gran Bretagna – come in ogni Paese che abbia raggiunto un alto livello di vaccinazione nella popolazione – i ricoveri in ospedale e in terapia intensiva sono molto lontani dai picchi delle precedenti ondate (ieri 8.238, contro picchi passati di 39.000 al giorno) grazie all’effetto barriera dovuto al doppio vaccino somministrato finora nel Paese all’80% della popolazione over 12 (l’Italia è all’82,14%). Ma due dosi non bastano ancora, ed è lo stesso Johnson, scrive The Observer, a lanciare “un disperato appello” a tutti gli inglesi sopra i 50 anni a fare il booster non appena venga loro offerto: “Abbiamo fatto un lavoro fenomenale – ha detto il primo ministro – ma il nostro lavoro non è finito. Sappiamo che gli effetti del vaccino diminuiscono dopo sei mesi. Per proteggere voi stessi e le persone che amate, per favore, fate la terza dose non appena ricevete la chiamata”. Ancora alto – ma questa non è purtroppo un’esclusiva del Regno Unito, il numero dei morti: 72 in ventiquattr’ore, sabato erano stati 135.

E non è finita nemmeno in Cina, a Whuan, dove tutto iniziò. Le autorità cinesi hanno infatti annullato la maratona di Wuhan, rinviata all’ultimo momento. La gara, che era in programma ieri, avrebbe dovuto celebrare il definitivo ritorno alla normalità nella città dove il Covi-19 si affacciò per la prima volta. Per le autorità, invece, è il momento della cautela: bisogna scongiurare una recrudescenza dell’epidemia, perché tra poco più di due mesi Pechino ospiterà le Olimpiadi invernali. Il motivo dell’annullamento sono i 26 nuovi contagi registrati nelle ultime 24 ore. Numeri insignificanti secondo i nostri parametri, ma la politica cinese di contenimento del virus – com’è noto – è sulla carta molto più stringente di quella europea.

Mascherine di Arcuri buone per Iss: dice no solo un ente “privato”

“Attenzione! Dispositivo molto pericoloso!”. “Sconsigliamo assolutamente di utilizzare la maschera come dispositivo di protezione individuale”. Si legge questo in alcuni dei Report allegati al decreto di sequestro con il quale le Procure di Roma e Gorizia hanno ordinato il ritiro di oltre 800 milioni di mascherine cinesi, acquistate nel marzo 2020 – in piena emergenza – dalla Struttura commissariale. I dispositivi sono finiti al centro di un’inchiesta della Procura di Roma: sono stati pagati 1,2 miliardi di euro, commessa di cui avrebbe fatto da mediatore Mario Benotti (giornalista Rai in aspettativa) che ha incassato come provvigione 12 milioni di euro pagate dalle ditte cinesi fornitrici. Nell’indagine è stato iscritto anche Domenico Arcuri, ex commissario straordinario, accusato di peculato e abuso d’ufficio (sull’accusa di corruzione, inizlamente contestata, invece, c’è una richiesta di archiviazione). La notizia del sequestro delle mascherine ha spinto alcuni organi di stampa ad azzardare che la loro immissione nel circuito abbia favorito il contagio negli ospedali. Ma come è funzionato il sistema delle certificazioni?

Per capirlo bisogna tornare al marzo del 2020, quando la struttura commissariale compra le mascherine da tre aziende cinesi, ora accusate di frode nelle pubbliche forniture. I dispositivi finiscono sul mercato dopo l’ok di Inail e Iss per conto del Cts, che in quel momento fa dei controlli documentali sulla base delle carte presentate dalle aziende cinesi.

Passano i mesi e a inizio 2021, con le inchieste per truffa in pubbliche forniture avviate dai pm giuliani e poi da quelli romani, partono gli accertamenti della Guardia di Finanza. Il Nucleo Valutario di Roma si affida all’Agenzia delle Dogane, mentre la Gdf di Gorizia alla società Fonderia Mestieri srl. Le Dogane hanno definito “non conformi” 11 lotti di mascherine sui 40 analizzati, di cui 6 sui 16 trattati con “metodo più restrittivo”, senza aggiungere altre considerazioni. Fonderia Mestieri, invece, ha bocciato tutti i 12 lotti analizzati, definendo i dpi in 4 occasioni di “pericolosi”.

La Fonderia Mestieri è una società di Torino conosciuta ai telespettatori di Rete4 per i servizi di Fuori dal Coro. Il programma, diretto da Mario Giordano, a febbraio si era rivolto proprio ai laboratori della società privata, la stessa consultata poi dalla Finanza, su delega dei pubblici ministeri di Gorizia, vista – spiegano fonti delle Fiamme Gialle – la gratuità dell’operazione e l’idoneità dei macchinari. Il titolare di Fonderia Mestieri, Marco Zangirolami – che è stato anche ospite di Rete 4 – è colui che in passato ha dichiarato che le mascherine Kn95 prodotte in Cina “non funzionano sui volti europei” perché “si adattano alla morfologia del volto orientale”.

I laboratori di Fonderia Mestieri non compaiono negli elenchi di Accredia, l’Ente unico nazionale di accreditamento. Hanno però la “qualifica” di Eurofins Product Testing Italy srl, un’altra società – questa sì accreditata da Accredia – che si definisce “leader mondiale nel testing di mascherine di protezione Covid”. L’iscrizione non è obbligatoria, come spiega Accredia al Fatto: “Qualsiasi laboratorio può effettuare prove sui Dpi”, purché questo sia “indipendente e competente”, ma “qualora si rivolgesse a un laboratorio accreditato da Accredia avrebbe già ottemperato a questi requisiti” in quanto “solo Accredia può rilasciare accreditamenti per il territorio italiano”. Secondo l’Agenzia Dogane, invece, “una verifica effettuata da un laboratorio non accreditato è una verifica che non ha valore”.

Abbiamo sentito anche Eurofin: “Ci rivolgiamo a Fonderia, come ad altre società esterne, quando dobbiamo far testare mascherine Ffp2 e Ffp3”, conferma il managing director di Eurofins, Paolo Trisoglio. La direttrice di Fonderie Mestieri è Cristina D’Amato: “Eurofins ci tiene monitorati costantemente. – spiega – Stiamo lavorando per accreditarci ad Accredia, ma c’è tanta documentazione da presentare, dunque se facciamo quello dobbiamo lasciare stare i problemi dell’Italia…”.

In Ue rischi noti da mesi, ma il Cts italiano avallò gli Astra-day per giovani

AstraZeneca non è più fra noi. Nell’Unione europea sono attese fino a marzo altre 200 milioni di dosi, ma le regaleremo ai Paesi in via di sviluppo. Beneficenza discutibile, quasi quanto il rifiuto di sospendere i brevetti sui vaccini. Ai giovani dell’Italia e dell’Ue non conviene dare AZ per i rischi di eventi trombotici, per quanto rari; i meno giovani non si fidano più. E stasera Report, aprendo la nuova stagione su Rai3, getta un’ombra sulla gestione, nella primavera scorsa, del vaccino anglo-svedese, che prima non si doveva dare agli anziani (perché gli over 55 erano solo il 12,2% dei 24 mila volontari del trial pre-autorizzazione) e poi, dopo l’allarme per le trombosi con carenza di piastrine (trombocitopenia), è stato escluso per giovani.

Da marzo o almeno da aprile, come ha ricostruito Claudia Di Pasquale di Report, era tutto chiaro, nel Regno Unito come in Germania, dove il professor Andreas Greinacher dell’università di Greifswald aveva già una terapia a base di immunoglobuline per curare quelle complicazioni inusuali, simili però a quelle indotte dall’eparina. E infatti il 7 aprile, dopo la sospensione decisa con altri Paesi a marzo, anche in Italia AZ fu “consigliato” solo dai 60 anni in su; in Gran Bretagna prima sopra i 30 e poi sopra i 40, in Germania sopra i 60. Ma ancora il 12 maggio, quando le scorte di AZ si accumulavano mentre mancavano Pfizer/Biontech e Moderna, il Comitato tecnico scientifico autorizzava le Regioni – Liguria e Sicilia, visitate da Report, ma non solo – a fare gli “open day” con AstraZeneca per tutti gli over 18 “volontari”. Il verbale citava il report dell’Agenzia europea del farmaco Ema che riferiva di appena 1,1 “eventi trombotici” collegabili al vaccino su 100 mila somministrazioni contro 8 decessi da Covid su 100 mila persone, dato in sé corretto ma – chiarisce il Winton centre for risk and communication dell’Università di Cambridge, consulente di Ema – solo per la fascia d’età 50/59 anni, che non era quella su cui concentrare le attenzioni. Solo l’11 giugno renderanno vincolante la raccomandazione, dopo la morte il 10 della 18enne ligure Camilla Canepa che ora i periti del pm attribuiscono alla vaccinazione (del 25 maggio). Proprio il 9 giugno il Fatto pubblicò i dati Ema del 26 aprile, segnalati dalla Fondazione Gimbe, secondo i quali il rapporto rischi/benefici era sfavorevole sotto i 49 anni e ancor più sotto i 30, specie per le donne. Si è perso almeno oltre mese e intanto anche altri hanno avuto complicanze serie.

Aifa I dati aggregati nascondono il problema

L’ombra si allunga anche sulla nostra agenzia del farmaco, Aifa, che spesso fornisce i dati sugli eventi avversi senza distinguere per tipologia di evento, età, sesso, prima o seconda iniezione. A Report Aifa ha scritto che le sospette trombosi trombocitopeniche da vaccino (Vitt) sono 41 (ne hanno escluse altre 11) e cioè tre su un milione di somministrazioni di AZ. Ma nelle donne under 60 sono due ogni 100 mila prime dosi, con punte di 4 su 100 mila tra le 30/39enni che difficilmente finiscono in rianimazione o muoiono di Covid. Dice a Report Guido Rasi, ex direttore Ema oggi consulente a titolo gratuito del generale Francesco Paolo Figliuolo, che i dati di aprile sconsigliavano gli “open day” con Az per i giovani. E su Aifa che “non fornisce tutti i dati”, Rasi risponde: “Se l’Aifa non è in grado di farli o non ha, o è sottostaffata – e lo è – o non vuole farli, io non posso dirlo”.

Il conduttore Un piano per colpire ranucci: ha la scorta

Stasera la trasmissione di Sigfrido Ranucci torna anche su Marco Mancini, l’ex dirigente dei Servizi pensionato dopo l’incontro all’autogrill con Matteo Renzi. Anch’egli ha chiesto l’accesso agli atti che può scardinare il segreto sulle fonti di Report, il che è paradossale – osserva Ranucci – da uno specialista del segreto di Stato che lo protesse, di fatto, nei processi per lo spionaggio Telecom e il sequestro di Abu Omar. È la pericolosa breccia che rende i giornalisti Rai più vulnerabili degli altri, aperta da Andrea Mascetti, avvocato vicino alla Lega, che ha ottenuto il via libera del Tar Lazio. Quest’estate Report ha collezionato azioni legali proprio da avvocati dello studio di Mascetti, dal ministro leghista Giorgetti, da sua moglie e da congiunti del presidente della Lombardia Fontana. Giocano “in casa”, al tribunale di Varese. E intanto Ranucci da due mesi è sotto scorta. Le forze dell’ordine hanno avuto notizia, da un collaboratore, di un progetto di attentato ai suoi danni che prevedeva l’impiego di killer stranieri. Un progetto nato in carcere, in ambienti ultras del Nord legati alla ’ndrangheta e all’eversione di destra di cui Report si era occupato.