“Pistola scarica”, inchiesta scagiona Alec Baldwin

La pistola di scena conteneva proiettili veri, ma Alec Baldwin non lo sapeva. Iniziano a emergere nuovi elementi sul tragico incidente avvenuto durante le riprese del film western Rust a Santa Fe, negli Stati Uniti, che è costato la vita a Halyna Hutchins, 42enne direttrice della fotografia del film, mentre è rimasto ferito Joel Souza, il regista di 48 anni. A sparare è stato proprio Baldwin, attore e produttore del film, convinto che la pistola fosse caricata a salve come sempre avviene nei set. E invece non era così. Secondo gli atti del tribunale resi pubblici venerdì, Baldwin ha premuto il grilletto solo dopo che l’assistente alla regia Dave Halls gli ha consegnato l’arma garantendogli che fosse sicura. I dettagli della sparatoria sono stati inclusi in una richiesta di mandato di perquisizione presentata dall’ufficio dello sceriffo della contea di Santa Fe. Gli investigatori stanno cercando di esaminare il costume macchiato di sangue di Baldwin, così come l’arma che ha sparato, altre armi di scena e munizioni, e qualsiasi filmato che potrebbe esistere sull’accaduto.

Lele Mora, dal Rubygate alle tigri al circo

Dalle olgettine e dai bunga bunga di Arcore fino alle tigri del circo. Undici anni dopo il Rubygate che lo travolse e lo condannò per favoreggiamento della prostituzione, venerdì sera Lele Mora ha tentato l’ultima geniale sortita per parlare e far parlare di sé: entrare nella gabbia in compagnia di sette tigri e del domatore Bruno Togni durante la prima del circo Americano a Milano. Cosa si fa per cinque minuti di gloria. La scenetta gustosa, annunciata su alcuni siti, è però saltata a causa di una delle tigri inaspettatamente andata in calore nella giornata di venerdì. Lo annuncia l’anziano Flavio Togni che al termine del numero saluta pubblicamente Mora “grande appassionato del circo” e “grande amico della famiglia Togni”. Spiega così l’inaspettato contrattempo: l’animale è andato in calore e dunque sarebbe stato poco gestibile nella gabbia assieme al domatore e all’ospite vip. Mora prende il microfono, ringrazia e prova la battuta: “Meglio stare fuori allora, perché se la tigre è in amore, allora non saprei cosa potrei fare io”. Un’altra versione racconta invece di uno stop della commissione di vigilanza intervenuta poche ore prima dello spettacolo per bloccare la pubblicizzata iniziativa.

Prima di questo nuovo show, l’ultima colonna in cronaca per l’ex agente dei vip lo raccontava come vittima in un affare da diverse decine di migliaia di euro per la vendita di champagne in un campo nomadi lungo il Naviglio. Uno strano caso, mai del tutto chiarito, dove Mora si ritrovò rapinato assieme a uno degli storici fiduciari di Cosa Nostra a Milano, mai condannato per mafia. Tempo dopo da una intercettazione agli atti dell’inchiesta sullo champagne saltarono fuori i suoi rapporti d’affari (non rilevanti penalmente) con l’ex presidente della Camera Irene Pivetti, oggi indagata per altre vicende legate al commercio di mascherine anti-Covid. Storia dopo storia, lo ritroviamo, anche qua senza alcuna rilevanza penale, a far da consulente stipendiato per l’imprenditore Antonio Di Fazio già titolare della Global Farma oggi indagato a Milano per violenza sessuale su una studentessa bocconiana. Mora nulla c’entra in questo, ma nel 2018, quando Di Fazio veleggiava con il vento in poppa taroccando, secondo la Guardia di finanza, bilanci, scelse Mora come passepartout per entrare nel mondo della moda e della movida. Insomma, alti e bassi per l’ex mattatore delle feste berlusconiane e delle dorate serate in Costa Smeralda, tra presunti vip, starlette e politici di ogni risma. E così eccolo venerdì sera in prima fila al Circo Americano allestito in una zona periferica della città, tra l’Ortomercato e il campo nomadi di via Bonfadini.

Pantaloni scuri, felpa, sneaker, Mora scatta selfie e durante la prima parte sembra più occupato al cellulare che ad osservare giocolieri e acrobati. Poi ecco le tigri, numero principale della serata. Mora smette il cellulare e si interessa al numero che va in scena senza grandi patemi con le tigri sommessamente obbedienti agli ordini di Togni. Sguardo annoiato, qualche ruggito d’ordinanza e il numero va in archivio accompagnato dalle gride dei bambini. Poi il saluto del vecchio Togni, le breve ribalta concessa a Mora, che per una tigre in amore ha dovuto rinunciare al suo ennesimo show.

Amara, verbali fotografati da pc esterno alla Procura

Il monitor nero, di marca Samsung, che riprende i verbali secretati e firmati – quindi autentici – in cui Piero Amara parla della Loggia Ungheria, per quanto risulta al Fatto, non è in uso alla Procura di Milano. Chi li ha fotografati, quindi, l’ha fatto in un ambiente privato. Chi sia stato e perché è ancora tutto da scoprire. E non è escluso che proprio la diffusione di questi verbali possa essere un tentativo di depistaggio. Vedremo perché.

Partiamo dall’inizio: il 20 ottobre Il Fatto ha rivelato che sono in circolazione copie secretate di ben nove verbali di Amara. Un fatto gravissimo: sono atti tuttora oggetto d’indagine. Non è la prima volta che accade, come è noto, perché già nella primavera del 2020 copie di questi interrogatori erano state affidate dal pm di Milano Paolo Storari all’ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo e successivamente – non per loro responsabilità – giunsero persino alle redazioni del Fatto e di Repubblica. In quell’occasione, però, si trattava di copie in formato Word, non firmate né dagli inquirenti, né dall’indagato, né dai suoi avvocati. Peraltro erano sei e non nove.

Non hanno quindi nulla in comune, se non il contenuto, con questa seconda ondata di verbali secretati finiti fuori dal controllo della Procura di Milano. È essenziale non confonderle con questo giro di verbali trafugati. Ma andiamo oltre. Il 17 febbraio 2020 l’ex manager di Eni, Vincenzo Armanna, deposita alla Procura di Milano la copia di una pagina dell’interrogatorio di Amara dell’11 dicembre 2019. Se quel foglietto coincidesse con l’equivalente dei verbali che il Fatto ha potuto visionare, si potrebbe datare già a febbraio 2020 la fuoriuscita del verbale in questione. Analizzando i nove verbali di questa seconda fuga di notizie, però, si ricavano due elementi che portano in un’altra direzione. Il primo: alcuni sono stati fotografati da un computer e altri da fogli stampati e poggiati su una scrivania. Operazioni che paiono quindi condotte in tempi diversi: saremmo di fronte a un “archivista” che ha letteralmente collazionato atti (parecchio sensibili) visto che il Fatto li ha potuti visionare tutti insieme. Il secondo: si tratta di copie di lavoro poiché, in più punti, sono state abbondantemente sottolineate con un pennarello.

Difficile immaginare che tutto questo materiale sia stato portato fuori dalla Procura di Milano – al Fatto risulta che quella marca di monitor non è in dotazione – e fotografato nei primi giorni di febbraio, quindi poco dopo gli interrogatori di Amara.

Potrebbe essere accaduto dopo, molto dopo, il che lascia un sospetto ulteriore: che far circolare oggi questi documenti riservati possa risultare utile a confondere ulteriormente le acque.

Non sarebbe la prima volta. D’altronde lo stesso Amara nel 2018 ricevette un’informativa della Guardia di Finanza che lo riguardava prima che fosse depositata ai pm che intendevano arrestarlo.

E se così fosse, se di un altro depistaggio si tratta, vuole dire che la posta in gioco – a partire dall’inchiesta sulla Loggia Ungheria – in queste ore deve essere altissima.

Lockdown per non vaccinati in Austria

In Austria il governo intimorito dal picco di contagi, ha deciso di ricorrere all’obbligo del Green pass sul luogo di lavoro e al lockdown selettivo: rimarranno serrati in casa solo i non vaccinati. In Germania invece inizia la quarta ondata dell’epidemia tra carenza di posti in terapia intensiva e di personale negli ospedali: Turingia, Sassonia, Baviera le regioni più colpite. Sulla mappa d’Europa è però soprattutto l’Est che si colora di rosso: in Serbia, Romania e Stati baltici le autorità sono in allarme per il boom di infezioni. Rimane la Russia il Paese più colpito: a Mosca spetta adesso affrontare il periodo più nefasto, il più difficile di sempre. Da più di una settimana la cifra simbolo che le autorità credevano di non dover mai registrare è stata raggiunta: muoiono oltre mille cittadini al giorno, un record mai battuto dall’inizio dell’epidemia che ha colpito, in totale, più di otto milioni di russi. Di loro almeno 227mila sono deceduti in seguito all’infezione. La nuova impennata di contagi che ha reso già saturi gli ospedali in diverse regioni – dove in media l’87% dei letti delle terapie intensive è già occupato – è, secondo gli esperti, una nuova sottovariante, più aggressiva e spaventosa, della Delta. Ogni giorno da una latitudine all’altra dello Stato la contraggono, secondo le ultime cifre fornite dall’agenzia statale Tass, almeno 34mila russi.

Focolaio Mosca: nella Capitale, che rimaneva fino a pochi giorni fa una delle città con meno restrizioni d’Europa, torna il lockdown dal 28 ottobre al 7 novembre prossimo. Bar e ristoranti chiusi: solo le consegne a domicilio saranno concesse. Cancelli e porte degli esercizi non essenziali rimarranno sbarrati “per rompere la catena di trasmissione del virus nel minor tempo possibile”: lo ha deciso il sindaco Serghey Sobjanin, che ha sospeso attività di asili e scuole, palestre e campi sportivi, cinema e perfino alcuni uffici del suo municipio.

Spaventato dallo spettro della catastrofe economica, parallela a quella sanitaria, il gabinetto del Cremlino ha approvato il mantenimento della retribuzione durante la settimana di chiusura. “Ci sono solo due modi per superare questo periodo, ammalarsi o ricevere un vaccino”: per queste ennesime spirali di morte il presidente Vladimir Putin è tornato a fare appello ai cittadini russi esortandoli a vaccinarsi, ma nella Federazione solo il 32% della popolazione ha deciso di ricorrere al vaccino Sputnik V. Nonostante adesso i russi siano aggiornati quotidianamente sulla pericolosità dell’epidemia e la curva dei contagi continui a salire davanti ai loro occhi le teorie del complotto rimangono più potenti delle certezze scientifiche. Secondo i sondaggi del centro indipendente Levada, più della metà della popolazione ha riferito di non temere il virus. Due terzi, invece, crede che sia un’arma biologica creata artificialmente. Per il direttore del centro, Denis Volkov, hanno responsabilità anche le alte cariche dello Stato: le autorità hanno preso posizione troppo tardi, “il governo ha lanciato messaggi contraddittori”, inizialmente la propaganda ha minimizzato gli effetti del Covid.

Il Green pass non protegge: aumentano i medici infettati

Se nella popolazione generale i contagi da Covid-19 appaiono in questo momento sotto controllo seppur in crescita e la situazione epidemica in Italia è definita favorevole dagli esperti, dati in controtendenza si registrano invece per gli operatori sanitari tra i quali le infezioni sono in aumento raggiungendo quota 1.444 negli ultimi 30 giorni. Un quadro che preoccupa anche alla luce della variante Delta del SarsCoV2, ormai dominante e rispetto alla quale i vaccini appaiono perdere leggermente di efficacia. La vaccinazione resta però l’arma principale contro la pandemia e per questo gli esperti invocano il completamento del ciclo e le terze dosi, che entro l’anno potrebbero estese a tutti.

I numeri aggiornati dei contagi tra i sanitari, i primi ad essere vaccinati ormai quasi un anno fa, arrivano dall’ultimo report dell’Istituto superiore di sanità (Iss), che segnala come questa settimana siano 371 le nuove infezioni tra questi operatori rispetto ai 306 casi della settimana precedente (pari al 3,6% del totale dei casi nella popolazione). Dati che spiegano come il Green pass sia una misura politica e non sanitaria, proprio come sostenuto tra gli altri dal noto microbilogo Andrea Crisanti che ha definito “una stupidaggine” considerare il lasciapassare una misura in grado di limitare il contagio. Complessivamente, sono 144.812 i casi di Covid registrati tra gli operatori sanitari, di cui 1.444 nell’ultimo mese. A partire dalla seconda metà di agosto, il numero di casi nella popolazione generale, spiega l’Iss, ha registrato una forte diminuzione, mentre è in aumento il numero di casi settimanali notificati appunto fra i sanitari. Questa nuova impennata di infezioni, sottolinea il presidente della Federazione nazionale degli ordini dei medici (Fnomceo) Filippo Anelli, “potrebbe essere riconducibile al fatto che i sanitari sono stati i primi ad essere vaccinati e dunque potrebbero essere ora più a rischio perché è finito, per loro, il periodo di massima efficacia del vaccino. Questo è il motivo per cui la terza dose è più che mai necessaria per la nostra categoria”.

A Trieste ieri i leader del movimento No Green Pass hanno incontrato ieri mattina il ministro dell’Agricoltura Stefano Patuanelli. Un colloquio privato, durato circa venti minuti, al termine del quale il portavoce della protesta Stefano Puzzer ha rimandato tutti i manifestanti a casa: “Abbiamo posto delle condizioni su cui non siamo disposti a trattare – ha riferito a una folla di un migliaio di persone in piazza Unità d’Italia –. Vogliamo l’abolizione del Green pass e dell’obbligo vaccinale per tutte quelle categorie che oggi sono costrette a vaccinarsi, come i sanitari”, ha detto in un cortocircuito di concetti, dal momento che invece, come i dati rilevano, proprio i sanitari hanno ora bisogno della terza dose. “Inoltre – ha continuato Puzzer – chiediamo scuse pubbliche da parte del governo. Non può più succedere che persone che vogliono manifestare liberamente il proprio pensiero, per difendere la libertà di scelta, vengano trattate come lunedì scorso, quando la polizia ha sgomberato un presidio pacifico con la forza. Il ministro Patuanelli ci ha spiegato che porterà le nostre richieste al governo, che ci risponderà martedì. A quel punto decideremo cosa fare”.

Non è chiaro se il governo darà davvero una risposta al movimento che da un paio di settimane ha trasformato Trieste nella capitale italiana dei No Green Pass, ma la sensazione è che qualche giorno di tempo serva un po’ a tutti, anche a chi guida la protesta, per tentare di raffreddare gli animi. Venerdì a Trieste la Prefettura aveva previsto l’arrivo di 20mila persone e temeva fortemente il rischio di scontri e infiltrazioni di black bloc. Previsioni fosche che avevano portato lo stesso Puzzer ad annullare il corteo giovedì sera, per la paura che la piazza degenerasse.

Trieste, che già di suo ha una base di non vaccinati due volte superiore alla media italiana, ha pagato un prezzo caro dopo le manifestazioni degli ultimi giorni: con 150 nuovi casi di Covid è la città con il tasso di contagi più alto in Italia.

“Draghi sbaglia, basta quote: serve una vera riforma”

“Nelle intenzioni del governo sembra implicita la volontà di confermare integralmente la legge Fornero, Draghi ha parlato di provvedimenti temporanei in vista del ritorno alla normalità. Noi però non rinunciamo all’idea di una riforma di sistema delle pensioni”. Roberto Ghiselli, segretario nazionale Cgil con delega alla previdenza, fa il punto sulle proposte venute fuori in questa settimana. La partita è aperta, ma sul piatto non dovrebbero esserci più di 2,5 miliardi per il triennio, e l’ipotesi principale resta istituire Quota 102 nel 2022 e Quota 104 nel 2023.

Segretario Ghiselli, perché secondo la Cgil Quota 102 e 104 manderanno in pensione solo “10 mila persone”?

Perché i nati in quegli anni, dal 1956 al 1958, hanno già avuto la possibilità di prendere Quota 100. La nuova platea è ridimensionata anche perché 64 anni e 38 di contributi sono soglie di accesso alte. Non conosciamo la fonte e i criteri di calcolo che indicano 50 mila persone, ma le riteniamo sovrastimate. Ripeto, un conto è la platea teorica, un conto è quella effettiva. Abbiamo visto con Quota 100 che meno della metà ha esercitato il diritto. Quota 104, che dovrebbe essere raggiungibile a 66 anni, è t molto vicina alla pensione di vecchiaia.

A Quota 100 hanno aderito 341 mila persone, uomini per il 69,3% e con redditi medio-alti. È stata iniqua?

Era insufficiente, non adatta a offrire una possibilità di uscita anticipata a chi lavora nelle piccole imprese, in settori con molto lavoro discontinuo, alle donne, al Mezzogiorno. Noi proponiamo l’uscita a qualsiasi età con 41 anni di contributi oppure poter decidere il momento della pensione dopo i 62 anni con 20 anni di contributi. Quota 100 è stata inadeguata e anche iniqua.

Secondo il presidente Inps, Pasquale Tridico, l’uscita a 41 anni costerebbe 4,3 miliardi nel 2022 e 9,2 miliardi a fine decennio…

Le nostre stime portano a valori più bassi, sotto i 2 miliardi. L’Inps stima la platea teorica, con il presupposto che tutti gli aventi diritto lo esercitino. Noi immaginiamo che lo farà meno della metà. Poi dobbiamo considerare che molti avranno una pensione prevalentemente contributiva e quella parte contributiva non è una spesa aggiuntiva, ma è solo l’anticipazione di un costo. Sui costi, più in generale, è vero che l’Italia risulta avere un’incidenza della spesa pensionistica rispetto al Pil più alta della media europea. Ma consideriamo voci che non sono affatto spesa pensionistica, per esempio le rendite dell’Inail o gli assegni al nucleo famigliare. E poi vanno calcolate le tasse che i pensionati italiani pagano in percentuale maggiore rispetto agli altri Paesi.

A che punto è la commissione per la separazione della spesa previdenziale da quella assistenziale?

Ci auguriamo che il lavoro si concluda a breve, in quella commissione subiamo un atteggiamento interdittivo da parte della Ragioneria dello Stato che tende ad avvalorare lo status quo.

Proponete l’opportunità di uscita a 62 anni, da esercitare volontariamente. C’è il rischio che anche questa possibilità, come Quota 100, venga colta solo da chi avrà nel frattempo maturato una buona pensione, quindi anche di nuovo la componente più benestante del mercato del lavoro?

C’è questo rischio, ma l’importante intanto è offrire alle persone la possibilità di scelta che ognuno potrà prendere in base a condizioni lavorative, famigliari o di salute. Se si fissasse l’età di 62 anni, solo una parte sceglierà di uscire in quel momento. Poi vi sono categorie del mercato del lavoro più deboli che vanno aiutate con altri strumenti. A chi svolge mestieri pesanti e gravosi va riconosciuta una pensione calcolata con un meccanismo più generoso, anche per la speranza di vita più breve che hanno. Per le donne, che hanno più alta incidenza di part time e lavoro di cura, occorre un meccanismo che valorizzi di più la loro posizione contributiva. Ai giovani, e a tutte le persone che da sole non riescono a maturare una pensione dignitosa, va assicurata una pensione contributiva di garanzia. Pensiamo a chi è stato per tutta la vita attivo, ha fatto part time, tirocini, lavoro di cura, e deve maturare una pensione dignitosa, attorno a 1.000 euro.

Le Pensioni dei migliori: si tornerà alla Fornero

C’è una sola certezza su come finirà la disputa aperta questa settimana sul tema delle pensioni: qualunque sarà l’intervento del governo, alla fine la legge Fornero – mai abolita – tornerà a essere la via maestra per lasciare il lavoro. Martedì sera, quando il ministro dell’Economia, Daniele Franco, ha presentato il Documento programmatico di bilancio, è venuta fuori solo l’ipotesi di sostituire l’esaurita Quota 100 con un nuovo strumento dall’impatto potenziale molto scarso: Quota 102 nel 2022 e Quota 104 nel 2023. Questo ha acceso gli animi in maggioranza: Matteo Salvini, uscito con le ossa rotte dai ballottaggi di domenica, ha alzato la posta esprimendo una “riserva politica” e il capitolo pensioni è stato così rimandato a un ulteriore confronto in maggioranza. Ma cambierà poco, le risorse destinate al capitolo previdenza non permettono grande margine. Lunedì o martedì il governo dovrebbe incontrare Cgil, Cisl e Uil, che hanno anche loro già espresso una netta contrarietà al provvedimento ventilato in questi giorni.

Lo scenario che si delinea è questo: sarà permesso il pensionamento anticipato nel 2022 a chi avesse 64 anni di età e 38 di contributi, per poi passare a 66 anni nel 2023. A questo potrebbe essere aggiunto un ampliamento dei lavori gravosi/usuranti ammessi all’Ape sociale. Secondo la Cgil, solo 10.448 persone andranno in pensione con il nuovo sistema delle quote, poiché la platea potenziale sarebbe di circa 42 mila ma – di queste – una buona parte aveva già i requisiti per uscire con Quota 100 e non l’ha fatto. Se anche la proiezione sindacale fosse sottostimata, comunque sarebbero coinvolte al massimo poche decine di migliaia di persone.

Anche questa volta non ci sarà alcuna riforma strutturale sulle pensioni, insomma. L’argomento è tornato con forza nell’agenda perché tre anni fa Lega e Cinque Stelle hanno mancato la promessa di abolire la legge Fornero, impegno su cui soprattutto Salvini si giocò un bel pezzo della campagna elettorale del 2018. Quando il primo governo Conte ha introdotto Quota 100, prevedendo sin da subito la scadenza nel 2021, non ha cancellato l’odiata riforma approvata nel 2012 dal governo Monti; ha solo previsto una finestra per chi avesse almeno 62 anni di età e 38 di contributi. Per tutti quelli che non hanno maturato questi requisiti nel triennio, sono sempre rimaste in vigore le regole della Fornero: 67 anni anni per l’assegno di vecchiaia e per la pensione di anzianità, invece, 41 anni e 10 mesi di contribuiti per le donne e un anno in più per gli uomini.

Quota 100, misura spot leghista, non solo ha mantenuto intatte le vecchie norme, ma nella pratica si è semplicemente limitata a permettere di anticipare di poco la pensione alla fetta più agiata del mondo del lavoro, in genere uomini, con solide carriere e buoni stipendi. Ad agosto 2021, quindi a pochi mesi dalla scadenza, ammontano a 341 mila le persone che hanno ottenuto la pensione con 62 anni più 38 di contributi, costata 11,6 miliardi di euro allo Stato. Il 69,3% degli aderenti è di sesso maschile, la pensione media è quasi 26 mila euro annui. In sostanza uno scivolo per molti “baby boomer” che avevano iniziato a lavorare all’inizio degli anni 80. Gran parte della platea interessata, tra l’altro, ha comunque preferito aspettare di raggiungere i parametri della Fornero, per maturare una pensione più alta. Quota 100 non prevede penalizzazioni in senso stretto, ma andando prima a riposo riduce la somma di contributi versati, il cosiddetto montante, e produce un assegno inferiore. Il minimo di 38 anni di anzianità contributiva ha poi escluso molte donne e le persone con carriere precarie e discontinue: le lavoratrici si sono dovute accontentare del rinnovo di Opzione donna, ora a rischio e comunque molto penalizzante perché costringe a un ricalcolo contributivo dell’intero assegno (e infatti solo 35 mila l’hanno chiesta e ottenuta).

Adesso, dunque, senza interventi del governo, l’unica via per la pensione resterebbe quella di rispettare le regole della Fornero, con alcune eccezioni. La riforma del governo tecnico – approvata su pressione della Banca centrale europea (allora retta da Mario Draghi) durante la crisi dello spread – è stata dolorosa e s’è portata dietro pure un grosso pasticcio. Fino al 2011 si poteva andare in pensione con una sorta di Quota 96, mentre le donne potevano uscire per vecchiaia a 60 anni. L’ultimo governo Berlusconi aveva introdotto il sistema della rincorsa all’aspettativa di vita: ogni volta che questa si allunga, viene posticipata l’età pensionabile. La Fornero, con il voto di buona parte del Parlamento, a partire dal Pd e dall’allora Pdl, ha iniziato bloccando il meccanismo di rivalutazione delle pensioni agganciato all’inflazione: questa misura è stata poi dichiarata incostituzionale nel 2015. Oltre a quello, la legge firmata a fine 2011 dalla professoressa Fornero ha accelerato il meccanismo di agganciamento all’aspettativa di vita, applicato il criterio di calcolo contributivo a tutte le anzianità prodotte dopo il 2012 e previsto un graduale aumento della pensione di vecchiaia per le donne. La parola d’ordine era operare il cospicuo taglio alla spesa previdenziale chiesto, non gentilmente, dall’Ue.

È qui che la ex ministra è incappata negli esodati: decine di migliaia di persone vicine alla pensione che – quasi sempre in virtù di un accordo collettivo o personale con le proprie aziende – si ritrovavano senza lavoro e, dalla sera alla mattina, con l’età di pensionamento spostata anni più avanti. Per ovviare al problema nacque quasi subito la stagione (non ancora finita) delle “salvaguardie”: ben nove approvate tra il 2012 e il 2021 hanno permesso il pensionamento con i vecchi requisiti a circa 150 mila beffati dalla Fornero, i sindacati stimano ancora in migliaia i lavoratori non tutelati. Oltre alle salvaguardie, alla fine della scorsa legislatura i governi del Pd hanno introdotto altri strumenti molto selettivi per anticipare la pensione: l’Ape social, molto stringente nei requisiti riservati a speciali categorie (lavori gravosi, invalidi, persone che si prendono cura di famigliari e disoccupati). A proposito di lavori gravosi: la commissione a essi dedicata presieduta dall’ex ministro Cesare Damiano, ha consegnato a settembre una lista di nuovi mestieri da includere nelle agevolazioni. È sul tavolo del governo, che ora sta facendo i conti e decidendo se ammetterli all’anticipo.

Il nucleare della Francia, il gas dell’Italia Niente green, solo lobby pro-industria

In un quadro preoccupante per la prossima Conferenza delle Parti sul clima a Glasgow di novembre agitato dal conflitto Cina-Usa, il dibattito europeo sulla “tassonomia” – quali fonti considerare “verdi” e quali no – prosegue con un ulteriore rinvio a un documento della Commissione a fine anno. Il governo francese assieme ad altri dell’Est Europa chiede di considerare il nucleare come “verde” cosa che consentirebbe al settore finanziario di poter investire e “vendere” questi investimenti come “ecologici”. Greenpeace Francia ha denunciato la continua esportazione di rifiuti nucleari francesi (uranio depleto) nella Siberia russa: cosa ci sia di verde in una industria che non ha mai risolto il tema dei propri rifiuti, pericolosi a lunghissimo termine, non è chiaro.

Dieci anni fa un referendum bocciava il nucleare per la seconda volta. Il “memorandum” tra Berlusconi e Sarkozy prevedeva la costruzione di 4 reattori EPR in Italia. All’epoca ce n’erano solo due in costruzione, uno in Finlandia a Olkiluoto e uno in Francia a Flamanville. Sono ancora in costruzione e a costi quadruplicati. L’azienda proprietaria della tecnologia, la francese Areva, è fallita. Negli Usa il “rinascimento nucleare” lanciato da George W. Bush nel 2001 dopo vent’anni vede solo due reattori di generazione III+: in costruzione a costi astronomici, due cancellati e l’azienda proprietaria della tecnologia la Toshiba-Westinghouse fallita nel 2017.

Così in questi Paesi si prolunga la vita utile dei reattori oltre i 40 anni di progetto. La Francia vuole farlo senza nemmeno applicare le convenzioni europee che richiederebbero un processo partecipato dai Paesi confinanti (16 reattori sono a meno di 200 km dai confini italiani).

In questi dieci anni però c’è stata una novità molto positiva: i costi delle rinnovabili. Se il governo britannico per la costruzione di 2 EPR ha promesso un prezzo garantito alla francese EDF, ai valori attuali superiore ai 120 euro per MWh, il solare a scala industriale in Spagna negli impianti approvati a dicembre stava a meno di 25 euro e i contratti in Texas per impianti solari combinati con batterie industriali (che rilasciano elettricità nelle ore di buio) sono stati chiusi a 40 dollari per MWh. Peraltro, alcune delle tecnologie per le batterie industriali sono le stesse usate nel settore dell’auto elettrica, e dunque c’è una sinergia strategica.

Mario Draghi, commentando l’incontro del Consiglio Ue di venerdì ha detto “non possiamo fare a meno del gas a breve termine”. Certo: nessuno l’ha mai detto. Ma se si sbloccassero le rinnovabili – al palo da 10 anni dopo che una breve espansione invase la quota di mercato del gas con reazioni furibonde del settore – il consumo di gas potrebbe scendere. In questi giorni proprio la forte produzione eolica consente alla Germania un costo all’ingrosso dell’elettricità un terzo rispetto a quello attuale nel nord Italia. Dunque, anche per combattere il caro energia servono più rinnovabili non meno, come una parte della comunicazione ispirata forse dal settore fossile ha cercato di far capire. Le domande di allaccio di impianti rinnovabili a Terna sono pari a 147 GW, di cui 17 di eolico offshore e su pali, ma il Pnrr non li considera se non in minima parte. Nel 2011 si installarono 11 GW di rinnovabili in un anno, dunque andare veloci è possibile e oggi lo sarebbe senza incentivi.

Per la transizione dobbiamo fare 8 GW l’anno di rinnovabili, se ne fa 1 scarso e le aste vanno deserte perché si aspetta la famosa semplificazione, a oggi con scarse speranze però, date le resistenze dei ministri Franceschini e Patuanelli e la poca convinzione di Cingolani e Giorgetti che fantasticano di “nucleare pulito”.

Il convitato di pietra in questa situazione è l’Eni, come lo sono oggi nel mondo la massima parte delle aziende petrolifere e del gas. Devono cambiare mestiere ma preferiscono resistere in un mercato oligopolistico che ha, come suo “core business”, quello di estrarre quelle che sono tra le principali cause della crisi climatica: petrolio e gas. Draghi vuole fare la transizione o fare dettare la politica energetica dai colossi del fossile? Le rinnovabili devono ripartire e da subito.

 

Mps-Unicredit, l’ora dei “pizzini”. L’intesa col Tesoro verso lo stop

Come sempre, quando le grandi partite finanziarie finiscono in stallo, arriva il momento degli ultimatum a mezzo stampa. E quello tra il Tesoro e Unicredit per regalare la polpa del Montepaschi, con annessa dote pubblica, è di quelli che possono costare caro al governo Draghi e in particolare al premier. Per questo la notizia che i negoziati sarebbero naufragati, rivelata ieri dall’agenzia Reuters, va contestualizzata.

La trattativa è nata con un forte squilibrio tra le parti. Il Tesoro, azionista di controllo di Mps dal 2017, è obbligato dagli accordi con l’Antitrust Ue a uscire dalla banca entro fine anno e, soprattutto, vuole liberarsi una volta per tutte di un istituto in crisi da oltre un decennio. La cosa sta particolarmente a cuore al premier Mario Draghi che nel 2008, da governatore, approvò il disastroso acquisto di Antonveneta che diede il via al dramma senese. Unicredit, invece, è in posizione di forza. A luglio, dopo mesi di interlocuzioni, l’Ad Andrea Orcel (che da Merryll Lynch convinse Mps a prendersi l’Antonveneta) ha ufficializzato il negoziato con l’imperativo che l’operazione non avesse impatto sul capitale della banca, benedetto pure da Pier Carlo Padoan, l’ex ministro che nazionalizzò Mps, poi deputato eletto a Siena e oggi presidente di Unicredit.

La trattativa si è arenata sulle pretese sempre più alte di Orcel. Il manager ha imposto al Tesoro un aumento di capitale da 7 miliardi (contro i 5 su cui il Mef aveva aperto), la pulizia di bilancio dai crediti a rischio (da cedere alla pubblica Amco) e dai rischi legali, senza le società prodotto (Mps leasing & factoring, Mps fiduciaria, Mps Capital services) e 300 filiali, destinate al Mediocredito centrale. Altro nodo quello degli esuberi, stimati in 6-7 mila persone, con un costo previsto di 1,4 miliardi per permettere lo scivolo pensionistico. La trattativa era facilitata dal bonus fiscale garantito all’acquirente di Mps da una norma infilata nella scorsa legge di Bilancio, che consente di convertire in sgravi fiscali le imposte differite (Mps ne ha per circa 2,5 miliardi).

A conti fatti, Orcel chiedeva al Tesoro di accollarsi un costo effettivo vicino ai 10 miliardi. Troppo per il ministero guidato da Daniele Franco e così la resa è arrivata via Reuters. Unicredit non commenta, ma le sue condizioni non sono cambiate. Senza novità, al più tardi lunedì potrebbe arrivare l’annuncio, visto che Orcel ha imposto di chiudere le trattative entro il 27, quando è previsto il cda di Unicredit sui conti trimestrali.

Mps, dal canto suo, ha promesso entro l’anno alla Bce un aumento di capitale da 2,5 miliardi. Ufficialmente un piano B non esiste ma qualcosa si dev’essere mosso per spingere il Tesoro a tenere il punto. Rumors finanziari parlano di un incontro tenutosi la settimana scorsa tra il dg Andrea Rivera e i vertici di Banco Bpm. L’istituto milanese smentisce, ma da mesi si parla di un suo ruolo in un futuro terzo polo bancario. L’Ad Castagna non vuole essere preda delle mire di Unicredit, una volta fallite le trattative con Mps. E per questo ha bussato alla porta del ministero.

Collegio Roma 1, il “taxi di lusso” del Pd è pronto a caricare Zinga

Il taxi di lusso è lì, pronto all’uso. Anzi, pronto a prendere a bordo “Nicola”, alias Zingaretti, presidente della Regione Lazio, ex segretario del Pd, mancato sindaco di Roma. E il sogno di un tranquillo futuro in Parlamento. Il taxi sarebbe il Collegio Roma 1, ora di nuovo tornato nella disponibilità del Pd, dopo aver trasportato Paolo Gentiloni alla Commissione dopo un anno e mezzo dalla sua elezione e Roberto Gualtieri al Campidoglio, più o meno dopo lo stesso periodo. Moneta sonante quello che definiscono un “collegio che si vince”. Ma pure, ancora una volta, appeso agli ondivaghi desideri di “Nicola”. Che in Parlamento ci vuole andare il prima possibile, pur aprendo la strada del voto in Regione con conseguente consegna della successione ad Alessio D’Amato, il decisionista assessore alla Sanità. Ma che deve farsi bene i suoi conti. Perché il voto è previsto non prima di febbraio e se per caso si andasse al voto anticipato dopo l’elezione del presidente della Repubblica, non ne varrebbe la pena. Quel che è certo è che da via della Pisana, Zinga ha intenzione di smobilitare il prima possibile, tanto è vero che ha ceduto Albino Ruberti, il suo capo di gabinetto, a Roberto Gualtieri. Ma comunque – come sempre – prende tempo. E poi se è vero che è un taxi, lo è verso cosa? Il ministero che ha sempre sfiorato durante il governo giallorosso? Per ora, approdi all’orizzonte, se non la tranquilla vita da parlamentare, non se ne vedono.

Inutile dire che il dibattito e le trattative su eventuali alternative sono continui tra i dirigenti del Pd romano. Giuseppe Conte? No, in questa fase le sue quotazioni scendono. Virginia Raggi? Figuriamoci, “perde”. E allora potrebbe arrivare il turno di Enrico Letta di utilizzare questo taxi, per portare in Parlamento Gianrico Carofiglio o Carlo Cottarelli e – di conseguenza – usarlo per guidare il Pd verso le Agorà.