Il “nano” Nannicini fa l’anti-Letta

Un tempo, da sottosegretario a Palazzo Chigi, dirigeva la squadretta degli economisti di Matteo Renzi, Tommaso Nannicini. E da quella posizione fu uno degli ideatori del Jobs act. Poi, mentre il Pd faticosamente si decideva a schierarsi per il taglio dei parlmentari, durante il governo giallorosso, lui portava avanti con vigore le ragioni del no. Adesso critica apertamente il suo partito per quello che definisce “l’hashtag #AvanticonConte”. E, pur difendendo l’operato del governo, sostiene che politicamente l’agenda Draghi non esiste. Ce n’è abbastanza per interrogarsi sui reali progetti di questo 47enne senatore bocconiano. Ieri e oggi ha organizzato a Castagneto Carducci in Toscana il convegno della sua associazione. “Il riformismo è morto, viva il riformismo”, il titolo altisonante.

E insomma, tra una discussione sui massimi sistemi, qualche critica velata ma piuttosto radicale al ministro del Lavoro, Andrea Orlando, va avanti (rigorosamente sotto al palco) pure il dibattito parallelo sul Pd e dentro il Pd. La questione è semplice: per ora un congresso non c’è, e pure se ci fosse Enrico Letta si ricandiderebbe e vincerebbe. Non c’è spazio per sfide frontali. Tanto più che ne è caduta una delle ragion d’essere: per dirla con Enrico Morando (altro riformista) in un’intervista a Repubblica a questo punto in un’alleanza larga nella quale il Pd fa da perno “i Cinque stelle ci possono anche stare”. Su chi fa il perno, la posizione è la stessa della segreteria dem.

Dunque, è difficile immaginare che qualcuno elegga un segretario alternativo sulle ragioni del no a una forza percepita come marginale. Insomma, chi ci va a mettere la faccia contro Letta? Stefano Bonaccini, presidente dell’Emilia-Romagna, probabilmente no. E neanche qualche sindaco non proprio sulla linea del Nazareno, tipo Giorgio Gori (Bergamo) o Antonio Decaro (Bari). E allora, ecco che potrebbe essere arrivata l’ora di un Nannicini. Uno che struttura un’area di minoranza. Che tuttavia non è una corrente. Uno che fa un’opposizione interna poco gridata, ma comunque utile a chi è rimasto senza casa. Ieri a Castagneto c’erano Dario Nardella (sindaco di Firenze), Simona Bonafè e Gori. Non gli ex renziani di Base Riformista, ma i diversamente renziani con percorsi più o meno autonomi. E poi, Chiara Gribaudo e Matteo Orfini, i Giovani Turchi, che non sono contro Letta, ma neanche nella sua cerchia stretta. E ancora, Marianna Madia, nota attraversatrice di correnti, che però ha da far pagare anche al segretario la sua mancata elezione a capogruppoPd alla Camera. Ancora. Enzo Amendola, Sottosegretario agli Affari europei, che ormai sembra quasi un tecnico prestato al Pd.

Riformisti in cerca d’autore.

Conte cala, ma resta primo Renzi dietro pure a Bonelli

Ora lo dicono anche i numeri, che scattano una fotografia impietosa: Matteo Renzi è il leader più impopolare d’Italia. Nel consueto sondaggio del sabato sul Corriere della Sera, Nando Pagnoncelli aggiorna la classifica sul gradimento personale: Renzi è al 14%, un nuovo record negativo, superato anche da politici dimenticati dal sistema mediatico come Angelo Bonelli dei Verdi (17%), l’ex alfaniano Maurizio Lupi (18%) e Nicola Fratoianni di Sinistra Italiana (19%). Più aumentano gli incarichi e i gettoni internazionali – l’ultimo con l’azienda leader del carsharing in Russia – più l’apprezzamento pubblico di Renzi diminuisce: la politica è ormai il meno redditizio dei suoi investimenti personali, forse anche quello a cui si sente meno legato.

La graduatoria dei leader stilata da Ipsos mostra una chiara flessione della popolarità di Giuseppe Conte rispetto al sondaggio di luglio: nel frattempo l’ex premier si è tolto l’abito istituzionale e ha assunto la guida del Movimento 5 Stelle. Conte perde 8 punti in tre mesi ma resta largamente in testa con il 43%, alle sue spalle c’è Giorgia Meloni (37), poi il ministro della Salute, Roberto Speranza (34, anche lui in calo soprattutto di visibilità con il “raffreddamento” dell’emergenza sanitaria). Cresce Enrico Letta (32), Matteo Salvini e Silvio Berlusconi sono appaiati al 30%, Carlo Calenda malgrado la sovraesposizione mediatica non supera il 28% (un solo punto in più di Giovanni Toti e tre in più di Emma Bonino).

Il discorso su Calenda è più ampio: l’area centrista che accende tanto il dibattito sui giornali, dai sondaggi esce notevolmente ridimensionata. Non solo l’ex ministro è scarsamente popolare, ma il suo partito Azione, di cui sono stati sottolineati i buoni risultati a Roma, sul piano nazionale non va oltre il 2%. È appaiato a Italia Viva, ai Verdi di Bonelli e a +Europa. La corteggiatissima area moderata vale più o meno il 6% (e quando si riunisce in un unico soggetto, in genere si comprime ulteriormente).

Con questi numeri è difficile comprendere l’insistenza di Letta e del Pd su un “campo largo” che comprenda sia i Cinque Stelle che i cespugli calendian-renziani. È vero che assembrate tutte insieme le forze di centro e sinistra (Si, Mdp, Pd, M5S, Verdi, Iv, +Europa e Azione) raggiungono il 48,4% nel sondaggio di Ipsos, uno schieramento virtualmente molto competitivo con il centrodestra (Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia valgono il 46,8). Il problema è che la coalizione extralarge immaginata da Letta (con il M5S ma anche con Calenda e affini) è stata già rinnegata dai possibili contraenti e sembra poco praticabile dal ogni punto di vista (senza contare che non sono compatibili nemmeno gli elettori: quanti grillini sosterrebbero un centrosinistra con Renzi dentro, e viceversa?).

Alla luce dei numeri, si fa fatica a comprendere la rinnovata passione del Pd (primo partito con il 20,7%, la Lega seconda è al 20) per il modesto bottino dei moderati e la “nuova fase” con i Cinque Stelle marginali: nonostante il racconto mediatico di un collasso imminente, il Movimento rimane ancora al 16,5%. È una tendenza – soprattutto sui giornali – che si spiega con le lenti deformate dal recente voto amministrativo. Al riguardo, il sondaggio di Ipsos mette in fila numeri chiari: il 30% degli intervistati dichiara di non essersi informato sulle ultime elezioni; il 19% pensa che abbiano perso tutti gli schieramenti, visto il livello altissimo dell’astensione; l’8% non sa dire se ci sia stato un vincitore o un perdente. L’impatto delle urne sull’opinione pubblica è stato praticamente irrilevante. E la sacca dell’astensionismo (difficilmente contendibile per i partiti moderati) resta molto voluminosa: il 40,9% del campione non ha intenzione di andare a votare o è ancora indeciso.

Il Caimano ora sogna il Csm per la giustizia ad personam

Silvio Berlusconi si autocandida al Quirinale e subito viene in mente che se fosse eletto diventerebbe, per Costituzione, pure il presidente del Csm.

Proprio lui che ha avuto come progetto acclarato, con la sua discesa in campo nel 1994, quello di farsi leggi su misura in Parlamento con gli avvocati che escogitavano i cavilli legislativi per difenderlo più dai processi che nei processi. Infatti, i suoi difensori sono sempre diventati parlamentari: da Pecorella a Ghedini e Longo, da Paniz a Sisto, attuale sottosegretario alla Giustizia. Da allora è stato un pullulare di leggi ad personam disastrose per la giustizia. Molte approvate, altre saltate politicamente per il rotto della cuffia, altre ancora bocciate dalla Corte costituzionale: da quella sulla depenalizzazione del falso in bilancio, che gli ha permesso di farla franca per conti truccati da 1.500 miliardi di lire, all’ex Cirielli che gli ha regalato nove prescrizioni. E poi progetti non andati in porto come la legge bavaglio-intercettazioni, il processo breve, il processo lungo, la prescrizione brevissima.

Per rinfrescarci la memoria storica, sempre labile in Italia, riassumiamo le principali norme ad personam.

Decreto salva-ladri. Il 13 luglio 1994, il primo governo Berlusconi, ministro della Giustizia, Alfredo Biondi, vara un decreto che prevede il divieto della custodia cautelare in carcere per corruzione, concussione e per tutti i reati contro la Pubblica amministrazione. Siamo in piena Mani Pulite, ufficiali della Guardia di Finanza avevano ammesso di essere stati corrotti da società della Fininvest ed erano pronte le richieste di arresto per i manager presunti corrotti. Quel decreto impedisce gli arresti e contemporaneamente determina la scarcerazione di ben 2.764 detenuti, fra loro 350 sono coinvolti in Tangentopoli. Il pool Mani Pulite di Milano, con Antonio Di Pietro in testa, annuncia lo scioglimento, scendono in piazza migliaia di cittadini contro il “Salva-ladri”. A quel punto gli alleati di FI, Lega e An, fanno marcia indietro e a Berlusconi non resta che lasciar perdere.

Falso in bilancio. È il 2002 quando viene depenalizzato il falso in bilancio, reato del quale è accusato Berlusconi in diversi processi, come All Iberian, a Milano. Con questa legge ad personam cadono tutte le imputazioni per l’ex premier per diverse ragioni, tra cui “il fatto non costituisce più reato”, a “All Iberian 2”. Nello stesso anno viene approvata anche la legge Cirami, che consente di trasferire un processo da una sede a un’altra per “legittimo sospetto”. Gli avvocati di B. vogliono il trasferimento del processo Sme-Ariosto da Milano a Brescia, grazie a quella norma lo chiedono, menzionando anche una signora che tra il pubblico portava un pinocchio in miniatura, ma la Cassazione respinge.

Ex-Cirielli. Nel 2005 B. incassa la legge che lo ha salvato 9 volte, è la cosiddetta ex Cirielli che ha dimezzato i tempi di prescrizione per gli incensurati: per frode fiscale e falso in bilancio passa da 15 a 7 anni e mezzo di prescrizione; la corruzione in atti giudiziari da 15 a 10 anni. Andranno al macero 150mila processi all’anno.

I lodi Schifani e Alfano. L’ex presidente del Senato Renato Schifani prima, e nel 2003 l’ex ministro della Giustizia, Angelino Alfano dopo, nel 2008, hanno firmato una legge che aveva lo stesso obiettivo: congelare i processi a Berlusconi, facendo approvare dal centrodestra una legge che sospendeva i processi per le più alte cariche dello Stato. La Corte costituzionale ha bocciato entrambi i lodi, come nel 2007 la legge Pecorella che impediva ai pm di fare appello contro le assoluzioni o prescrizioni, guarda caso dopo che B. era stato assolto al processo Sme.

Legittimo impedimento “ad premier e ministri”. Nel 2010, per bloccare i processi Mediaset e Mills, Berlusconi fa approvare una legge per rendere automatico, per presidente del Consiglio e ministri, il legittimo impedimento a comparire ai processi per 6 mesi di seguito, prorogabili a 18, con un semplice certificato della segreteria generale di Palazzo Chigi, senza alcuna verifica del giudice, come previsto per tutti gli imputati comuni mortali. La Consulta riformerà in parte quella legge; gli italiani, con un referendum, nel 2011, la cancelleranno.

Sfiducia alla Lamorgese: la Meloni sfida gli alleati

Loro si organizzano per un vertice del “centrodestra di governo” e lei li bombarda da fuori. Senza addolcire minimamente la sua opposizione al governo, come le avevano chiesto sia Silvio Berlusconi sia Matteo Salvini nel vertice di mercoledì a Villa Grande. E così, mentre il segretario del Carroccio fa sapere da Palermo di aver sentito il leader di Forza Italia e di aver organizzato un vertice con i ministri del centrodestra per commissariare gli azzurri (“Prima di Brunetta sento il giudice” ha detto ieri Salvini in Tribunale) e mettere nell’angolo Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni rilancia mettendo in difficoltà gli alleati. In primis nelle ultime ore ha pubblicato più volte sui propri profili social la petizione per sfiduciare la ministra Luciana Lamorgese e diversi post per denunciare gli sbarchi dei migranti. Parallelamente prosegue il lavorio dei suoi parlamentari al Senato per raccogliere le firme per la mozione anti-Lamorgese. Ne servono 35 e per il momento FdI al Senato ne ha 21: 4-5 sono già considerate acquisite da senatori ex 5S, mentre le altre dieci si stanno cercando nel ventre leghista.

Non è detto che FdI ci riuscirà, ma è un modo per pungolare gli alleati del Carroccio che sparano tutti i giorni contro la ministra dell’Interno. Poi c’è il capitolo Green pass. Al Senato il terzo decreto che ha imposto il certificato per i lavoratori sarà votato questa settimana in commissione Affari costituzionali e in quell’occasione saranno votati emendamenti di FdI che piacciono anche alla Lega. Abolizione dell’obbligo, allungamento della validità del tampone e così via. Tutte proposte di modifica su cui potrebbe spaccarsi la maggioranza producendo l’ennesima frattura nel Carroccio. Manovre parlamentari, quelle di FdI, che servono per mettere in difficoltà Salvini. A cui si aggiunge la legge di Bilancio: a Meloni non dispiacerebbe presentarsi al tavolo con gli alleati per illustrare a Draghi, in quanto leader della coalizione, le proposte del centrodestra.

È questala reazione all’audio pubblicato dal Foglio in cui Salvini, davanti ai suoi parlamentari, le dà della “rompicoglioni” che mette in difficoltà il centrodestra “dall’opposizione”. In pubblico Meloni derubrica l’accusa a “un audio rubato” che “non ci farà litigare” e ieri Salvini ha fatto sapere di essersi “messaggiato” con lei. Ma in privato i rapporti tra Matteo e Giorgia restano freddi. Meloni vuole godersi lo spettacolo: dopo il vertice della pace a Villa Grande, Lega e FI si sono dilaniate al proprio interno. Da una parte infatti c’è il partito di Berlusconi in cui si è aperta la frattura dei ministri Carfagna, Gelmini e Brunetta che vogliono staccarsi dai “sovranisti”; dall’altra la Lega è ancora in preda ai movimenti di Giorgetti e dei governatori e l’audio uscito da una riunione interna viene letto come un segnale di debolezza del leader. Più Lega e FI si indeboliscono, più FdI diventa forte, è la teoria dei meloniani. Una situazione win-win: se la Lega appoggerà le battaglie di FdI sarà una vittoria di Meloni, se non lo farà emergeranno tutte le contraddizioni di Salvini. “Noi non cambieremo la dura opposizione al governo – conferma Ignazio La Russa – se Salvini si irrigidirà e ci darà ragione, ben venga”.

Sicilia: Dell’Utri mediatore di B. per il centro da Renzi a Cuffaro

Ètornato ad Arcore come ai vecchi tempi. L’ultima volta, il 29 settembre, in occasione di una ricorrenza speciale: l’85esimo compleanno di Silvio Berlusconi. C’erano gli amici di una vita – oltre al festeggiato, Fedele Confalonieri, Adriano Galliani, Gianni Letta – e Marcello Dell’Utri si è sentito di nuovo a casa. Durante gli anni passati nel carcere di Rebibbia – nel 2014 è stato condannato in via definitiva a 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa, libero dal 2019 – il fondatore di Publitalia e poi di Forza Italia aveva interrotto molti rapporti dentro al partito e anche Berlusconi si faceva sentire raramente. Ma la sentenza di assoluzione di Appello nel processo Trattativa Stato-mafia (in primo grado era stato condannato a 12 anni) ora gli ha riaperto le porte di villa San Martino. E non solo per ripercorrere con “Silvio”, come lo chiama lui, il viale dei ricordi e dell’epopea berlusconiana. No, Dell’Utri nell’ultimo mese è tornato ad Arcore due volte e sente spesso Berlusconi per parlare di libri, ma soprattutto di politica. Per tornare a farla attivamente.

È stato lui, come raccontano fonti ben informate dentro Forza Italia confermando l’indiscrezione pubblicata ieri dal Corriere, a favorire la cena di metà ottobre a Firenze tra Matteo Renzi e Gianfranco Miccichè, presidente dell’Assemblea regionale siciliana e proconsole di Berlusconi sull’isola. Dell’Utri, palermitano, è sempre stato il punto di riferimento di Arcore in Sicilia ed è stato lui ad allevare Miccichè in Publitalia facendolo diventare, negli anni Duemila, il frontman dei successi azzurri sull’isola a partire dal 61 a 0 del 2001. Uno scenario che Dell’Utri e Miccichè vorrebbero ripetere con il cosiddetto “laboratorio Sicilia”. Un patto con Renzi, siglato nella stellata Enoteca Pinchiorri di Firenze, per far confluire sull’isola Italia Viva e Forza Italia e costruire un grande centro moderato da sperimentare prima in Sicilia e poi alle elezioni politiche del 2023. L’alleanza inizierà con una collaborazione dei gruppi all’Ars – si chiamerà “Italia Viva-Futura Sicilia azzurra” – e poi diventerà stabile in vista dei prossimi appuntamenti elettorali: prima le Comunali di Palermo in primavera e poi le Regionali in autunno. A confermarlo è stato pochi giorni fa lo stesso Miccichè parlando a Repubblica del progetto “Forza Italia Viva”: “Credo che il destino di Renzi sia nel centrodestra”. In realtà l’operazione è più articolata e ha un riflesso nazionale: il patto Renzi-Miccichè servirebbe per costruire, prima in Sicilia e poi a Roma, quel terzo polo “centrista” che si distacchi dall’alleanza giallorosa e dai sovranisti. Oltre ai renziani e ai berlusconiani, nell’isola il capogruppo di Iv in Senato, Davide Faraone, ne sta parlando anche con gli esponenti di Azione e +Europa, ma anche con Totò Cuffaro che ha riesumato la Democrazia Cristiana alle Comunali e ora vuole tornare centrale alleandosi con Miccichè e i renziani. Strategia che serve anche a Berlusconi che per ora deve tenersi buoni Salvini e Meloni per il Quirinale, ma dopo non esclude di staccarsi dai sovranisti. “Preferisco un centrodestra guidato da Berlusconi che da Meloni” ha detto ieri Renzi. Il terzo polo siciliano avrebbe come perni due condannati per i rapporti con Cosa Nostra: prima Dell’Utri e poi Totò Vasa Vasa Cuffaro che ha scontato 7 anni per favoreggiamento con la mafia. I contatti sono avviati e il primo obiettivo è quello di trovare un candidato appetibile per il dopo-Orlando a Palermo: il nome arriverà a Natale.

Dell’Utri, nel frattempo, si muove. Raccontano che nelle ultime settimane sia stato sull’isola per incontri politici con una lunga tappa ad Agrigento in vista delle Regionali. Dopo l’assoluzione, d’altronde, è tornato centrale, anche mediaticamente: nell’ultimo mese prima sono arrivati gli auguri per i suoi 80 anni con una paginata acquistata sul Corriere, poi un trafiletto di elogio sull’inserto domenicale del Sole 24 Ore e infine una lunga intervista al Foglio a cui ha affidato i suoi “diari”. Anche ad Arcore gli hanno riaperto le porte. E lui non ha nessuna intenzione di andarsene, di nuovo.

Il pelo superfluo

Siamo un popolo di ingrati. Basta leggere l’ultimo sondaggio di Pagnoncelli per il Corriere sul gradimento dei leader. Il primo è Conte (43%), come sempre da tre anni, cioè da quando lo danno tutti per morto, mentre l’ultimo è sempre Renzi (14), surclassato da Meloni (37), Speranza (34), Letta (32), Salvini e B. appaiati (30), e financo da Calenda (28), Toti (27), Bonino (25), Fratoianni (19), Lupi (18) e Bonelli (17). Eppure è il più intervistato e citato da tv e giornaloni, il che spiega perché perdono copie a rotta di collo: raccontano una realtà parallela priva di riscontri fra gli esseri viventi. Gente ingrata, appunto, che nel 2016 non apprezzò la sua Costituzione scritta a sei mani, anzi a sei piedi, con Boschi e Verdini; nel 2018 decimò il suo Pd e premiò gli odiati “populisti”; e ora che lui ci ha regalato (così almeno dice) il Governo dei Migliori, anziché premiarlo, continua a punirlo: pelo superfluo fra i leader e 2% a Iv (garanzia di estinzione nel prossimo Parlamento). Non sappiamo se il pover’uomo legga i sondaggi e come si senta dopo, ma temiamo che chi gli vuol bene (sempreché esista) glieli nasconda. Altrimenti non lo esporrebbe a figure barbine come l’annuncio in pompa magna del referendum anti-reddito di cittadinanza: a parte la bella scena di un multimilionario che becca soldi da chiunque, persino da Bin Salman, e tenta di scippare 500 euro a chi non arriva neppure a inizio mese, la raccolta firme non è mai iniziata e la petizione online ha raccolto la bellezza di 4.929 adesioni (qualcuna in più dei suoi elettori).

Dubitiamo che la cena con Miccichè, intermediata – pare – dal paraninfo Dell’Utri per creare un centrino a uso briscola con i migliori di FI & dintorni, gli restituisca i consensi perduti: anche perché mafiosi, corrotti, puttanieri, frodatori e affini sono gente seria e dei cazzari non si fidano. Ora però apprendiamo che sta tentando di salvarsi dal processo Open (finanziamento illecito per lui e Boschi, corruzione per Lotti) invocando l’immunità parlamentare. Pretende addirittura un voto del Senato per bloccare i pm di Firenze che avrebbero “utilizzato conversazioni e corrispondenza casualmente captate senza previa autorizzazione della Camera di appartenenza”. Ora, a parte il fatto che le intercettazioni “casuali”, cioè captate su utenze altrui, non richiedono alcun permesso del Parlamento, gli sfugge un altro minuscolo dettaglio: l’indagine riguarda reati commessi fino al 2018 e lui fino al 2018 non era parlamentare. Però l’idea di invocare l’immunità retroattiva non è male. Con l’arietta che tira sui politici, potrebbe regalargli un record mai toccato da nessuno nella storia dei sondaggi: quello del primo politico che riesce a scendere sotto lo zero.

Nell’interregno del capitalismo: anatomia critica di un mondo in crisi

La risposta alla domanda del libro, Wolfgang Streeck non la propone, non è questo un volume di profezie o di auspici antisistema. È senz’altro, però, una nuova riflessione sulle tendenze di fondo del capitalismo globale, sui vizi irrisolti e su prospettive che non sembrano desiderabili per la maggior parte dell’umanità. Streeck è teorico tedesco dal pensiero radicale, qualche anno fa diventò celebre la sua disputa con Jürgen Habermas sul futuro dell’Europa in cui, a fronte dell’europeismo critico del più importante filosofo contemporaneo, egli opponeva una visione di difesa delle prerogative democratiche degli Stati nazionali, tanto da rasentare il cosiddetto sovranismo.

Qui si applica, raccogliendo diversi saggi scritti tra il 2010 e il 2015, e tradotti ora in italiano, a una disamina del capitalismo globale che colloca in una situazione di “interregno” una crisi strisciante, figlia della crisi più generale scatenatasi nel corso degli anni 70 del secolo scorso e mai esplosa nella sua virulenza, di cui è difficile vedere le conseguenze. Ma è crisi, come del resto si tratta ogni volta che ci si ponga di fronte alle dinamiche del capitalismo entrato oggi in una “fase di indeterminatezza” e segnato da una diagnosi di “multimorbilità”. Dopo il 2008 siamo in una “fase IV” di questa crisi caratterizzata da “tre cavalieri dell’Apocalisse” rappresentati da “stagnazione, debito, disuguglianza”. Tutti ingredienti che chiunque non voglia abbandonarsi all’esaltazione della società attuale non può non vedere, soprattutto in questa fase di pandemia irrisolta (tutti gli indicatori sono chiari in tal senso). Forse siamo già in una epoca successiva, in quell’interregno di cui parlava Gramsci – “il vecchio muore e il nuovo non può nascere” – che dà vita a una “entropia” simboleggiata da una vita all’ombra dell’incertezza all’interno della quale si possono sviluppare critiche e forme di vita innovative.

 

 

“La vita è così breve, ma il dolore è lungo”

Joyce Carol Oates si aggira nella letteratura americana come una inclassificabile figlia unica. Sfugge a qualsiasi foto di gruppo come un pugile sul ring, lei che alla boxe, passione ereditata dal padre, ha dedicato una raccolta di saggi (“Scrivere di cazzotti obbliga a indagare i confini stessi della civiltà, cos’è o cosa dovrebbe essere umano”).

Una donna ossuta e magrissima, con un profilo Twitter inflazionato di gattini, capace di trasformare ogni suo testo in uno strapiombo sul male. A chi le obietta di seminare troppa violenza sulla pagina rovescia la prospettiva: “La domanda giusta è un’altra: perché la violenza ricorre sempre nella nostra esistenza?”. Eccessiva, titanica, fuori misura, Oates batte sulla tastiera per “dare voce a chi non ce l’ha” dalla metà degli anni 60. La sua bibliografia conta più di cento titoli e non c’è genere che la sua penna non abbia fagocitato: romanzi, racconti, poesie, drammi teatrali, saggi, favole per bambini. La scrittura è una vocazione così totalizzante che per anni, in seminari affollati all’università di Princeton, l’ha insegnata al pari di una scienza. Non c’è un’opera iconica che immortala Oates nell’immaginario. Forse è l’insieme delle sue opere – con il nome JCO sulla copertina al pari di una griffe – il vero capolavoro.

Nata a New York nel 1938, cresciuta in una fattoria poco distante dal lago Ontario, deve alla nonna paterna la sua passione per la lettura grazie a una copia di Alice nel paese delle meraviglie ricevuta in dono. Le vicissitudini della sua famiglia, che si snodano nel memoir I paesaggi perduti, sono un serbatoio dal quale ricava trame per le sue storie. Come accade per La figlia dello straniero, ispirato al suicidio del bisnonno, minato dalle sue origini ebraiche.

Leggere Oates significa per lo più attraversare quartieri sventrati da highway, superare fast-food gremiti di disillusi davanti e dietro il bancone e bussare alla porta di villette a schiera. Il tempo di prendere un caffè in salotto e si allarga una crepa sulla parete. Poi un’altra e un’altra ancora e viene giù tutto, comodità materiali e sentimenti. Tra i calcinacci ecco l’America della deindustrializzazione, delle tensioni razziali, dei conflitti di classe, degli abusi sessuali. Il sogno americano non è che glassa su una voragine.

In Una famiglia americana c’è la dissoluzione di una famiglia dopo un lutto, in Ragazze cattive i vagabondaggi di adolescenti senza fissa dimora, in Stupro: una storia d’amore un veterano di guerra che vendica una donna stuprata uccidendo uno degli aggressori, in Ho fatto la spia una ragazzina che ha il coraggio di denunciare i suoi due fratelli colpevoli di avere investito un afroamericano, in Ragazza bianca ragazza nera una studentessa di colore assassinata in un campus progressista, in Sorella mio unico amore la morte violenta di una bambina prodigio, reginetta di bellezza a 6 anni. Memorabile la tetralogia Epopea americana, affresco che parte dagli anni 30 e culmina nella Detroit devastata dalla rivolta razziale del 1967 (il terzo volume, Loro, si aggiudicò il National Book Award).

Oates insegue i sassi che rompono il vetro della quiete borghese e si concede incursioni nella Storia. In Blonde, monumentale libro dedicato alla vita di Marilyn Monroe, non esita a definire John Kennedy un miserabile senza scrupoli. Capace di tenerezze inattese (in Storia di una vedova racconta i giorni seguiti alla morte del suo primo marito), Oates accompagna i suoi personaggi nel cuore di traumi indicibili costringendoli ad adeguarsi alle circostanze (“Se smetti di fare compromessi, muori”).

Il suo ultimo La notte, il sonno, la morte e le stelle, in libreria per La nave di Teseo, racconta di un ex sindaco repubblicano ucciso dalla polizia e di sei destini che in un fiume di ottocento pagine provano a restare a galla. Tutto va fuori controllo quando la vedova prova a rifarsi una vita e i cinque figli, costretti a una convivenza scandita da recriminazioni e segreti sviscerati, scongiurano che l’equilibrio della madre resti immutato per non essere costretti loro per primi a ripensarsi. Si naviga precipitosamente verso la fine, giù a perdifiato, fino al traguardo: “La vita è troppo breve. Il dolore troppo lungo”.

A Hollytree, inferno della periferia inglese, c’è un serial killer che uccide prostitute

Un serial killer che ammazza prostitute è un classico del thriller albionico. Qui siamo a Hollytree, inferno periferico del Black Country, cupa regione industriale e mineraria. Qualcuno butta giù la piccola Lauren dal tetto di un condominio di tredici piani. Lauren ha solo sedici anni e vende il suo corpo già da tempo. La mamma alcolizzata, a sua volta prostituta, l’ha ceduta al magnaccia della zona, Kai Lord, per andare in “pensione”. Poi tocca a Kelly Rowe, ragazza madre rimasta disoccupata. Ha chiesto soldi a Kai Lord e così è finita sulla strada. Viene uccisa di notte, mentre nevica.

Angela Marsons è un’habituée delle classifiche di vendite. I suoi thriller hanno venduto sinora tre milioni di copie. Il segreto del suo successo è una trama complessa ma senza trucchi. Sospetti e indizi vengono squadernati in modo trasparente e alla fine c’è il colpo di scena che fa sobbalzare il lettore. Per la serie: “Perché non ci ho pensato pure io?”. Il personaggio chiave è la detective Kim Stone, poliziotta con la fissa delle motociclette e dal passato doloroso: a differenza del fratellino gemello Mikey, è sopravvissuta alla follia della madre schizofrenica. C’è la squadra di Kim, poi: Bryant, Dawson e Stacey, poliziotta che ancora affronta i traumi di un rapimento. Due donne e due uomini. In questa nuova inchiesta la caccia al serial killer incrocia le indagini su un neonato (rumeno) abbandonato sotto la neve proprio vicino alla stazione di polizia. Le storie di Marsons hanno sempre una marcata vocazione sociale, tipica del giallo europeo sin dall’Ottocento. E in Quelli che uccidono, gli “schiavi” non mancano: dalle donne costrette per necessità a vendersi ai migranti dell’Est trattati come bestie destinate al macello.

 

L’amore tra Della e Jack è “un furto della felicità”

“Ma una volta nella vita, forse, guardi uno sconosciuto e vedi un’anima… E se ami Dio, ogni scelta è già fatta per te… Hai visto il mistero, l’essenza della vita. E un’anima non possiede qualità terrene, nessuna colpa o ferita o insuccesso… Ed è un miracolo quando la riconosci”.

A Marilynne Robinson spetta, tra i tanti meriti, quello di saper rendere visibile Dio tra le righe pure a chi credente non è. Cristiana di fede calvinista, stella nel firmamento letterario americano, da anni in odore di Nobel, auspica il ripristino di un umanesimo che riconosca il nostro essere creature divine anche se fragili, fallaci, imperfette.

È Della a pronunciare il discorso sull’anima. Insegnante di liceo, figlia colta e sensibile di un vescovo metodista africano, si trova a dialogo notturno con Jack Boughton (sì, il Jack già ampiamente incontrato in Casa, figlio del presbiteriano Boughton, a sua volta amico fraterno del calvinista Ames, voce narrante di Gilead), nel cimitero per bianchi di St.Louis, in un’atmosfera onirico-metafisica, a distanza di un anno dal primo disastroso rendez vous. Discettano della fine del mondo, di poesia, di Amleto, in particolare Jack riflette sulla Gertrude di Shakespeare condannata dal figlio per aver sposato il cognato poco dopo esser rimasta vedova, tuttavia il loro sentimento è “profondo, capace di rendere marginali tutti i crimini e i peccati in proporzione”. Attendono l’alba desiderando non arrivi. “Ci siamo svegliati insieme. Come Adamo ed Eva. La luce del giorno peggiorerà tutto quanto” pensa lui. Già, perché lui è bianco, lei nera e il Missouri dei 50 è segregazionista. Eppure la Grazia di stampo calvinista li trafigge e (s)travolge.

Nella raccolta di saggi Quando ero piccola leggevo libri (Minimum Fax) Robinson scrive che il calvinismo le ha insegnato come l’incontro col prossimo possa essere occasione per “onorare l’altro come qualcuno che ti è stato inviato da Dio”. Così accade a Della e Jack. Della gli confesserà: “Se potessi immaginare un’eternità trascorsa seduta qui a parlare di sciocchezze con te, non vorrei altro dalla morte. E sono una buona cristiana”, lui sarà roso dal timore di farle del male, sporcarne la purezza e si figurerà tra le fiamme della perdizione.

Fede e peccato, colpa e perdono, salvezza e dissoluzione attraversano l’intera produzione di Robinson. Nel quarto movimento della sinfonia inaugurata con Gilead (Pulitzer per la narrativa), lo sguardo che rivolge a quest’uomo sciupato, oscuro, solo, inetto, segnato da una natura immorale che è condanna, è colmo di pietas perché ne vede l’anima. Per Robinson nessuno è mai perduto davvero. E il lettore, come lei, si fa compassionevole. Anche se Jack teme di essere dannoso per Della – “Gesù, tienila al sicuro da me” –, prega, perché sa che la sua “innocuità” potrebbe non bastare, l’incontro con lei, santificata dai sentimenti, incarna il giungere di una Grazia apparentemente immeritata, provvidenziale, miracolosa perché qui l’amore, “scaltro furto della felicità dalle grinfie del divieto”, salva seppur bollato come crimine. Lui sceglierà di andarsene per salvarne la rispettabilità e se si ritroveranno o meno, il tema del ritorno le è caro, sarà questione di predestinazione, redenzione, desiderio, fiducia.